Rimini 150. In poche parole
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1845. Un saggio di Stefano Pivato (1991)


Nel settembre 1845, Massimo d'Azeglio inizia un viaggio politico in Romagna, aderendo di buon grado alla proposta del cesenate Filippo Amadori, per attirare i nostri patrioti al moderatismo piemontese. E proprio in Romagna , in quei giorni, si sta preparando un moto insurrezionale diretto da Pietro Renzi di Rimini. Il 23 viene presa la nostra città, che sarà rioccupata dai papalini il 27. Renzi scappa in Toscana, dopo essersi rifugiato a San Marino.
I ribelli romagnoli, con una «Manifesto», avevano chiesto al papa una serie di riforme e l'amnistia per i condannati politici, oltre a vari provvedimenti politici.
«Intempestivo e dannoso» definirà d'Azeglio il moto, in un opuscolo uscito a Firenze nel 1846, col titolo «Degli ultimi casi di Romagna».
L'insurrezione del 1845 iniziò, a Rimini, nello sferisterio (lungo i bastioni occidentali, ove ora si trova l'Usl 40): «Circa un'ora avanti sera, una trentina di fuorusciti, e più caldi, …si portano armata mano parte alle Caserme, parte al gioco del Pallone, in quella sera pienissimo di popolo, per esservi grande giuocata» (L. Tonini).
«Si tratta certamente di un particolare di scarsa importanza se ci si limita a considerare quegli avvenimenti nell'ambito degli esiti più generali della vicenda politica. Non è invece un dettaglio trascurabile nel caso in cui si vogliano comprendere dinamiche più complesse come quelle, appunto, inerenti ai luoghi della sociabilità»: così scrive Stefano Pivato nel libro «I terzini della borghesia», Leonardo editore.
Pivato ricostruisce la scintilla del moto: «I congiurati, guidati da Pietro Renzi, si erano inizialmente riuniti nei locali di Palazzo Lettimi». La città era deserta per la partita tra Giaroli e Stinchelli, nomi molto popolari a Rimini: «Comprensibile dunque che le masse dei rivoltosi fossero passate inosservate». La forza pubblica, a detta di Filippo Giangi, cronista del tempo, «tentò piccola opposizione». In caserma, i soldati pontifici furono sorpresi mentre «giuocavano a bocce»: la maggior parte di loro si arrese, e gli insorti fecero man bassa di armi e munizioni. A sera, la città fu illuminata a festa, in segno di giubilo.
Tutte le cronache locali, precisa Pivato, concordano «sul clima di paralisi cittadina che in quel pomeriggio del 23 settembre la partita del pallone aveva provocato…». E il gioco del pallone è proprio il tema centrale dell'interessante ricerca di Pivato, storico di professione con un curriculum di grande prestigio. Cattedra a Trieste, perfezionamento alla Sorbona, Pivato è autore di numerose pubblicazioni. Egli è ben conosciuto in città, dove ha collaborato a «Storia e storie» dell'Istituto storico della Resistenza.
Il libro sul «gioco del pallone nell'Italia dell'Ottocento» (come recita il sottotitolo), è una ricerca in più direzioni. Con un metodo d'indagine storiografica ben saldo, l'autore indaga il fenomeno sportivo nei suoi risvolti sociali, politici ed economici, per dimostrare il collegamento che esiste tra questi “punti di vista”.
Un piccolo esempio locale. Quando a Rimini, nel 1816, si decide di costruire uno sferisterio, i pubblici amministratori spiegano che si tratta di offrire non solo un gioco utile ai giovani, ma anche lavoro «nel prossimo verno» a gente che si trovava in uno stato miserabile «per la carestosa annata».
La materia affrontata da Pivato spazia a livello nazionale: qui sottolineiamo soltanto gli spunti locali, come questo del 1853. L'impresario dello sferisterio chiede di tenere una tombola con fuochi d'artificio finali. Scrive Pivato: «Le richieste per l'estrazione di tombole - verosimilmente una fonte di lucro non secondaria - erano sempre precedute da lamentazioni sui magri incassi e sulle eccessive spese sostenute».
Era già iniziata la tradizione moderna del “pianto alla riminese”?
[Articolo apparso su "il Ponte", Rimini, n. 40, 10.11.1991.]


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Antonio Montanari

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