Rimini ieri. 1944-1945
I Tre Martiri.
"il Ponte", Rimini. 06.08.1989
Una trebbiatrice bruciata, la spiata e la cattura dei giovani partigiani in via Ducale. Le testimonianze sulla loro prigionia alle Grazie e sull'esecuzione in piazza Giulio Cesare. I processi a Paolo Tacchi, il terrore di Rimini: dalla condanna a morte all'assoluzione.

Riministoria
il Rimino

Estate 1944. La città è sconvolta e devastata dalle bombe. I tedeschi sono sempre più prepotenti. Il primo luglio il Cln pubblica un appello a non trebbiare il grano per impedire ai nazisti di prenderselo e di portarlo in Germania.
Alla fine di luglio, una lettera anonima arriva al Comandante del 303° reggimento granatieri tedeschi, col. Christiani, ed al segretario del fascio repubblicano, Paolo Tacchi.
C'è scritto che due uomini armati ed uno apparentemente inerme hanno intimato ad un colono di Fornaci Marchesini, di non effettuare la trebbiatura con la macchina di proprietà dei padroni del fondo.
Il 12 agosto quella trebbiatrice è incendiata una squadra Gap (Gruppi di azione patriottica) appartenente alla 29.a brigata, e composta da sette uomini. La loro base logistica è alla ex caserma "Ducale", nell'omonima via, nei presso del ponte di Tiberio.
Tedeschi e fascisti si mettono in movimento per individuare i responsabili dell'attentato, sulla traccia della lettera anonima. Vengono eseguiti alcuni arresti.

Una delle persone fermate, è messa alle strette. Rivela il nascondiglio dei gappisti.
Chi 'parla' è un barbiere, Leone Celli, nato a Forlimpopoli nel 1912. «Una losca figura», secondo l'antifascista Guglielmo Marconi.
13 agosto. Militi repubblichini e soldati nazisti guidati da Tacchi circondano la base partigiana.
Mario Capelli, Luigi Nicolò ed Adelio Pagliarani, sorpresi nel nascondiglio con armi e volantini, sono condotti nell'ex caserma dei Carabinieri alle Grazie. La loro prigione di trova nell'attuale portineria del convento.

Paolo Tacchi, segretario del fascio, fornirà una versione dei fatti tutta diversa, per allontanare da sé l'accusa di triplice omicidio.
Tacchi racconta che la sera del 13 agosto «fu richiamato al Comando tedesco ove gli dissero che il barbiere aveva confessato che uno dei due armati» della lettera anonima, «era il partigiano Alfredo Cicchetti, abitante in via Ducale n. 3 (e cioè nella vecchia caserma)».
Un maresciallo tedesco ed un interprete furono incaricati di accompagnare il barbiere sino a via Ducale. Tacchi che doveva percorrere lo stesso itinerario per andare alla colonia Montalti alle Celle, seguì casualmente la macchina dei due militi.
In tribunale, nel 1949, Tacchi deporrà: «Entrati trovammo tre persone delle quali una in divisa germanica, una in divisa di vicebrigadiere della Gnr, in camicia nera con distintivi di grado e decorazioni». Intorno le armi, tre mitragliatrici ed alcune rivoltelle.
Il vice di Tacchi nella brigata nera di Rimini, Mario Mosca, per difendere il suo capo, ne rovescia il racconto. Non fu Tacchi a seguire casualmente i nazisti, ma «un maresciallo tedesco si mise alle costole di Tacchi», per quella ricerca in via Ducale. Una volta scoperti i tre ragazzi armati, il «nazista si fece avanti: voi non c'entrate più, ora è affar nostro».

Ritorniamo al convento delle Grazie, dove sono stati trasferiti i tre arrestati.
Padre Amedeo Carpani, assieme al confratello padre Callisto Ciavatti, scongiura il Comando tedesco di non ucciderli, ma di portarli eventualmente in Germani: «Non ci fu niente da fare, anche perché Tacchi, che comandava a Rimini, era molto deciso a giustiziarli», ha dichiarato padre Carpani.
Tacchi è segretario dei repubblichini dal dicembre 1943. Comanda la Brigata nera «Capanni» ed è di conseguenza a capo di tutti gli organi di polizia.
Convinto collaborazionista, ha fatto eseguire numerosi rastrellamenti di renitenti e partigiani. Molti dei quali sono stati sottoposti a maltrattamenti e sevizie. Il suo nome, in quei giorni a Rimini, ci ricorda un'anziana signora, vuol dire soltanto «terrore».
Appartiene ad una facoltosa famiglia riminese. Squadrista a 16 anni, si è scontrato con i gerarchi fascisti per le sue idee indipendenti. È tornato a Rimini proprio la sera di domenica 25 luglio 1943, in licenza di convalescenza (è sottufficiale della Marina). Quella sera, dalla stazione va verso casa sua in via Dei Mille, quando qualcuno gli urla: «È finita anche per te». Mussolini è stato arrestato alle 17. Ne nasce una zuffa, sedata per l'intervento di altre persone.
Che sia stato lui a far arrestare i Tre Martiri, non ci sono ormai più dubbi. Tacchi firmerà anche il manifesto azzurro della Brigata «Capanni», datato 16 agosto 1944, con cui è annunciata l'avvenuta esecuzione dei giovani riminesi.

14 agosto 1944. Capelli, Nicolò e Pagliarani sono sottoposti a processo sommario, celebrato dalla corte marziale del 303° reggimento granatieri tedeschi del col. Christiani. Riconosciuti come partigiani, Capelli, Nicolò e Pagliarani sono condannati a morte. La sentenza è subito ratificata dal gen. Ralph von Heygendorff, comandante della Divisione di stanza a Cesena.
Il 15 agosto sera, padre Ciavatti ha un incontro con i tre giovani. Riesce a «riconciliarli e rasserenarli». Ventiquattr'ore prima, i prigionieri non si erano mostrati disposti per un incontro spirituale, racconta padre Carpani.
I ragazzi scrivono ciascuno una lettera per i propri famigliari, che consegnano a padre Ciavatti. Sono documenti strazianti.

16 agosto 1944. Alle 3 del mattino, padre Carpani esce dalla propria stanza, e cammina sotto il portico del convento, pensando al destino dei tre prigionieri. Alle sei, sul piazzale delle Grazie arrivano gli ufficiali tedeschi con una piccola squadra di mongoli, ex soldati russi prigionieri collaborazionisti.
Prelevano i tre giovani che sono condotti, le mani legate dietro alla schiena, sino alla piazza Giulio Cesare. I prigionieri, ricorda padre Carpani, erano convinti di dover essere fucilati. «Quando seppero che venivano impiccati, rimasero molto male».
Padre Carpani di nascosto riuscì a seguire i particolari di quella triste vicenda, andando sino alla piazza, ricostruisce padre Teodosio Lombardi.
Padre Lombardi, quella mattina, incontrò il carro con i tre giovani che scendevano verso Rimini, mentre stava tornando al convento delle Grazie dopo aver celebrato Messa alla chiesa di San Gaudenzio.

In piazza Giulio Cesare, ci sono anche due partigiani, Libero Angeli ed Augusto cavalli.
La sera prima sono venuti a sapere da un milite repubblichino, della sentenza di morte. Decidono di «assistere alla macabra esecuzione come atto di solidarietà e conforto con le vittime».
Angeli racconta: «Affaccendati attorno ala forca una ventina di mongoli attorniati da una quindicina di tedeschi. Confuso tra questi un italiano a capo scoperto», con indosso una tuta blu. Era il comandante del reparto repubblichino acquartierato alle Grazie.

Angeli descrive l'esecuzione. Capelli al centro, altero. Nicolò e Pagliarani ai lati, un po' abbattuti». I loro corpi sono segnati da ecchimosi. «Nessuna lacrima rigava il loro volto, non un lamento, non un sospiro è uscito dalle loro labbra».
Il Comando tedesco voleva che quei corpi restassero esposti per tre giorni. Il Commissario prefettizio Ugo Ughi non obbedisce. Dopo un solo giorno li fa riporre in cofani funebri a spese del Comune, e li fa trasportare al cimitero coll'auto funebre, e non su un carro qualunque, come avevano imposto i nazisti.

«Benché spietatamente torturati, non uno di loro si lasciò sfuggire di bocca neppure mezzo nome», ricorderò Guido Nozzoli: «Come non pensare che questi anni della nostra vita, vissuta dopo di loro, sono anche un loro dono?».
Nel pomeriggio del 17 agosto, avviene il trasporto delle tre salme al cimitero, dove possono essere sepolte, a causa dei continui allarmi, soltanto nella mattinata del 18 agosto.
All'alba dello stesso giorno, Augusto Cavalli vede transitare per la strada di San Marino un carro scortato da alcuni soldati tedeschi, «seguìto a piedi da Leo, il delatore, e sopra il figlio, la moglie e poche masserizie». È sempre Libero Angeli a parlare: Leone Celli veniva portato al Nord, «lontano da una possibile punizione partigiana».

Verso il Nord, alla fine di agosto, va anche Paolo Tacchi, in compagnia di altri fascisti e della propria amante Bianca Rosa Succi, cassiera del fascio. Ha con sé sei milioni di lire. Dopo la Liberazione è arrestato a Como. Lo annuncia il «Giornale di Rimini» dell'8 luglio 1945.
È catturato «per collaborazionismo e per aver determinato l'omicidio per impiccagione» dei Tre Martiri.
Da Como, Tacchi è tradotto a Padova ed a Forlì. «Il giorno di Natale ho mangiato quello che mi hanno offerto i partigiani di Rimini che erano in carcere a Forlì compresi alcuni della stessa Gap alla quale appartenevano i tre giustiziati dai Tedeschi», scriverà Tacchi per discolparsi della tremenda accusa.
A Forlì, è imputato fra l’altro anche per l’uccisione di partigiani e di renitenti alla leva, oltre alla «responsabilità presunta» nell’impiccagione dei Tre Martiri.

Il 9 gennaio 1946, comincia il primo processo, conclusosi con la condanna a morte di Tacchi, mediante fucilazione alla schiena. I coimputati Mario Mosca, Giuffrida Platania e Valerio Lancia sono condannati a 25 anni, i primi due, ed a 17 anni il terzo.
In questo processo, la Succi parla di Tacchi come di «un fascista fanatico ed ambizioso, responsabile ed organizzatore di tutti i rastrellamenti nel Riminese».
La condanna di Tacchi è annullata nel dicembre 1946 dalla Cassazione, per mancanza di motivazione: la corte popolare si sarebbe fatta influenzare dalla bramosia di vendetta provocata dall’«odio attiratosi allora dal Tacchi».
Per Mosca, Platania e Lancia, la Cassazione applica l’amnistia. Tacchi viene rinviato a giudizio in ambiente più sereno.
A Roma, il 28 maggio 1947, Tacchi è condannato a trent’anni. Pure questo verdetto è annullato dalla Cassazione, per difetto di motivazione. In altri due successivi processi, Tacchi è assolto dalla stessa Cassazione nel 1949, per non avere commesso i fatti. Era stato per 38 mesi nel penitenziario di Procida. Non tornò a Rimini, morirà a Senigallia nel 1971.

Il 16 marzo 1946, il secondo anniversario della morte dei Tre Martiri è ricordato con una Messa al campo nella piazza Giulio Cesare, celebrata dal Vescovo di Rimini, mons. Luigi Santa. Il periodico dc «L’Ausa» definisce i Tre Martiri «simbolo del nostro riscatto».
Il primo novembre 1946, alla prima seduta del Consiglio comunale appena eletto, si discute sui nomi da cambiare a strade e piazze. Ai tre giovani è dedicata la memoria del luogo dove la barbarie della guerra civile aveva avuto il sopravvento.

Bibliografia.
O. Cavallari, Bandiera rossa la trionferà, Rimini 1979.
B. Ghigi (a cura di), La guerra a Rimini… Documenti e testimonianze, Ghigi, Rimini 1980.
N. Matteini, Rimini negli ultimi due secoli Maggioli, Rimini 1977.
A. Montemaggi, vedi gli articoli del «Carlino» del 12.8 e 15.8.1984, ora raccolti in volume presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini.
U. Ughi, Memorie, in «Storie e storia», n. 4, 1980.


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1589, 09.01.2012. Modificata, 09.01.2012, 14:31

Antonio Montanari

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