I vitelloni di Fellini sono nell'elenco delle "parole disabitate" del Novecento curato da Raffaella De Santis. Li ha resi famosi il film (1953) del regista concittadino. Li ha cancellati dalla cultura contemporanea la mancanza di un culto della memoria. Che non significa nostalgia canaglia del passato, come direbbe un canzonettaro. Ma che è il riassunto di una vita comune a cui appartiene pure chi non è stato o crede di non essere mai stato vitellone. A questo sostantivo un altro volume, "Itabolario. L'Italia unita in 150 parole", a cura di Massimo Arcangeli, dedica una scheda firmata da Fabio Rossi, specialista di linguaggio cinematografico. Vitellone sta in ottima compagnia, inserito tra Psicanalisi (1952) e Televisione (1954). Sembra quasi un segno del destino. Psicanalisi nasce accorciando la voce originaria psicoanalisi in un'edizione della "Interpretazione dei sogni" di Freud, opera molto legata a certi temi felliniani. Televisione è uno strumento molto deriso da Federico il Grande. Il vitellone ufficialmente è stato battezzato dal pescarese Ennio Flaiano, cosceneggiatore del film con Tullio Pinelli e lo stesso Fellini. La storia fu raccontata da Tullio Kezich, grande biografo del regista. Per Flaiano il termine stava a significare "un giovane di famiglia modesta, magari studente, ma o fuori corso o sfaccendato". Qualcuno fra chi, sessanta anni fa, frequentava i bar di Rimini, giura di aver ascoltato la parola anche nella nostra città. Secondo Kezich l'equivalente riminese di vitellone sarebbe birro. Sul che potrebbe essere avviato un dottorato di ricerca. Fabio Rossi elenca i fellinismi tuttora fortunatissimi come amarcord, bidone, paparazzo e dolce vita. E dolce vita, la parola scelta per il 1960, dovrebbe raccontare Roma. Così come vitellone dovrebbe riassumere Rimini, ovvero l'universale contrapposto al mondo chiuso della provincia italiana d'un tempo. Ma tra la Roma a cui Fellini approda nel 1939 e la piccola città da cui è fuggito, c'è un doppio legame. Quello intellettuale si gioca tutto sul tema dell'abbandono con il "Partiamo" che chiude il superbo monologo di Sordi, così lo definisce Rossi, alla fine della festa di carnevale. Il legame reale è nel ritorno alle origini: la madre di Federico, che era fuggita vent'anni prima per sposare un romagnolo squattrinato, raggiunge Federico con la bimba piccola, progettando per il figlio un avvenire da prete o in subordine da avvocato. Come il celebre Titta Benzi rimasto sempre a Rimini. Antonio Montanari (c) RIPRODUZIONE RISERVATA
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