Notizie di
POLITEIA
Anno 12 - N.41/42 - 1997
Quale base comune per la riflessione bioetica in Italia
«Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
a cura di Emilio D'Orazio e Maurizio Mori
IL CONVEGNO: QUALE BASE COMUNE PER LA RIFLESSIONE BIOETICA IN ITALIA?
Relazioni
  • L'etica laica, di CARLO AUGUSTO VIANO
  • La bioetica e il problema della tecnica, di FRANCESCO D'AGOSTINO
  • Pensare e credere il bene in un contesto pluralistico. Per una bioetica non ideologica, di PAOLO CATTORINI
  • Il Manifesto di bioetica laica, di SERGIO ROSTAGNO
  • Le ragioni del dialogo, di ADRIANO PESSINA
  • La bioetica e il problema dello statuto dell'embrione, di LUIGI LOMBARDI VALLAURI
  • Può la bioetica non essere laica?, di DEMETRIO NERI
  • Il Manifesto di bioetica laica: quale base comune per la riflessione in Italia? di CARLO A. DEFANTI
  • Interventi
  • Convinzioni religiose nella vita pubblica, di KENT GREENAWALT
  • Bioetica e ragione pubblica, di FRANCESCO VIOLA
  • Una chance per la bioetica e per il diritto, di AMEDEO SANTOSUOSSO
  • Il contributo dell'ecologia alla bioetica, di MARIACHIARA TALLACCHINI
  • Bioetica laica ed embrioni, di FRANCESCO FORTE
  • Bioetica laica e bioetica religiosa sullo sfondo del dialogo ecumenico, di SANDRO SPINSANTI
  • Per una bioetica globale, di LUISELLA BATTAGLIA
  • Bioetica e casi concreti, di VITTORIO BERTOLINI
  • Alcune distinzioni relative ai principi della bioetica laica, di PATRIZIA BORSELLINO
  • Laicità senza fondamentalismi, di LINO RIZZI
  • Riflessioni a margine del convegno, di ROBERTA SALA
  • Conclusioni, di MAURIZIO MORI
  • PRESENTAZIONE di Emilio D'Orazio
    Alla memoria di Uberto Scarpelli, esempio di vita ispirata all'etica laica

    Il motto cattolico potrebbe essere "valori etici eterni nelle situazioni nuove "; il motto laico "a situazioni nuove forme etiche nuove", ispirato dal timore del male che in situazioni nuove possono involontariamente produrre forme etiche vecchie.
    U. Scarpelli

    Il 9 giugno 1996, sul "Sole 24 Ore", veniva pubblicato il Manifesto di bioetica laica, elaborato da Carlo Flamigni, Armando Massarenti, Maurizio Mori, Angelo Petroni, uno scritto teso a proporre alcuni principi generali a difesa dell'autonomia individuale e del pluralismo etico come base per un confronto civile tra sostenitori di posizioni morali diverse. Inaspettatamente, il Manifesto ha subito suscitato grande interesse, di gran lunga superiore alle più rosee previsioni degli estensori, polarizzando l'attenzione pubblica per quasi due mesi. Per diverse settimane, infatti, nell'edizione domenicale del "Sole 24 Ore" si è sviluppata un'intensa discussione che non è passata inosservata tanto da coinvolgere anche altri organi di stampa, e che si è conclusa il 21 luglio con la pubblicazione della replica da parte degli estensori del Manifesto.
    L'interesse per le tesi del Manifesto è stato probabilmente favorito dalla presentazione a Roma, il 12 luglio, di un importante documento del Comitato Nazionale per la Bioetica sullo statuto dell'embrione, ma senza dubbio si deve prendere atto che il Manifesto ha suscitato nel nostro paese un vero e proprio "caso" culturale.
    L'importanza di questo fatto non va sottovalutata, dal momento che l'attenzione rivolta al Manifesto è un segnale della crescente influenza che la bioetica viene ad avere nella vita sociale del nostro paese. Da questo punto di vista, il dibattito che si è sviluppato in materia segna una tappa significativa nella riflessione bioetica italiana, perché grazie ad esso, per la prima volta, la controversia tra la bioetica laica e quella cattolica è uscita dall'ambito ristretto degli esperti per raggiungere il grande pubblico. Avendo avvertito questo aspetto, Politeia e la Consulta di Bioetica hanno prontamente organizzato l'l1 luglio, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano, un Convegno dal titolo "Dibattito sul Manifesto di bioetica laica. Quale base comune per la riflessione in Italia?": nelle pagine seguenti sono raccolti gli atti di tale manifestazione.
    Consentendo ad alcuni dei più autorevoli studiosi italiani di bioetica di confrontare pubblicamente le proprie posizioni, il Convegno aveva come obiettivo ultimo quello di favorire l'approfondimento della riflessione bioetica, per giungere almeno ad un chiarimento dei punti di disaccordo, se non proprio il conseguimento di qualche sostanziale convergenza. Da questa prospettiva, il Convegno costituisce l'ultima tappa di una serie di iniziative pubbliche avviata esattamente dieci anni or sono, proprio da Politeia, con l'organizzazione nel 1986 a Milano del primo Convegno italiano in tema di etica pubblica, entro cui un'intera sessione era dedicata alla nascente bioetica. Presiedeva il dibattito Uberto Scarpelli, che nel discorso di apertura osservava:
    Nel nostro paese l'interesse per la bioetica, nella forma che ha assunto nella cultura contemporanea, è venuto prima di tutto da indirizzi laici del pensiero filosofico. [... ] Poi è successa una cosa abbastanza curiosa. Il peso dei contributi, provenienti dalla cultura laica su questo terreno, è andato quantitativamente se non qualitativamente diminuendo, mentre si è avuta una sorta di invasione del terreno da parte della cultura cattolica, attraverso eminenti, e qualche volta meno eminenti, rappresentanti.
    (AA.VV., Un'etica pubblica per la società aperta, Politeia, Milano 1987, p. 197).
    Ho ricordato queste parole perché ancora oggi, a dieci anni di distanza, esse risultano quanto mai attuali: anche Scarpelli riteneva significativa la distinzione tra etica laica e etica cattolica, punto che sta alla base della controversia suscitata oggi dal Manifesto. Scarpelli attribuiva un molo importante alla cultura cattolica e più in generale cristiana, tanto che spesso ripeteva la tesi crociana secondo cui in Occidente "non possiamo non dirci cristiani", ma riteneva altrettanto cruciale "un confronto aperto, leale e, dove occorra, anche intellettualmente duro" di questa cultura con quel tipo di cultura e tradizione che usiamo chiamare, con un'etichetta vaga, "la cultura e la tradizione laica". In questa prospettiva, Scarpelli salutava con entusiasmo quella prima manifestazione culturale tesa ad affermare un modo "laico" di pensare in bioetica, e auspicava altre iniziative simili. Politeia negli anni seguenti ne ha promosse altre, tra cui ricordo i Convegni "La Bioetica. Questioni morali e politiche per il futuro dell'uomo" (Roma, 1990), "Quale statuto per l'embrione umano. Problemi e prospettive" e "Etica laica e etica cattolica a confronto" (Milano, 1991). Sin dalla sua fondazione nel 1989 anche la Consulta di Bioetica ha stimolato, talvolta in collaborazione con altre organizzazioni, svariate iniziative pubbliche, tra cui ricordo i cicli di incontri su temi di bioetica organizzati a Milano nel 1991 e 1992 alla Casa della Cultura e i Convegni "Eutanasia. Riflessioni a più voci a partire dall'esperienza olandese" (Bergamo, 1993) e "La coscienza della morte" (Milano, 1993).
    Ritengo che l'azione culturale svolta da queste due associazioni, assieme ad una più generale secolarizzazione della cultura, siano alla base di un clima intellettuale nuovo circa i problemi bioetici e l'etica in generale. L'interesse suscitato dal Manifesto e il notevole successo di pubblico avuto dal Convegno sono un segno evidente che anche in Italia, tra il largo pubblico, si sta affermando la rilevanza dell'etica.
    In questo senso si deve prendere atto che il monopolio della cultura cattolica in campo morale non è più un fatto scontato, e cresce la consapovelezza dell'esistenza di un'etica laica: anzi, sembra che proprio in campo laico stia diventando sempre più chiaro che non bastano il diritto e la politica per il buon funzionamento della società, ma che tali ambiti vanno integrati con una solida moralità; un problema oggi diffuso è proprio la costituzione di tale ethos rispettoso del pluralismo etico. Con tale espressione non si intende indicare una posizione lassista che sottovaluta l'importanza dei principi e delle forti convinzioni, ma la prospettiva che riconosce la diversità delle posizioni etiche: ciascuno ha solide convinzioni e crede di avere ragione, ma riconosce anche che l'altro ha un simile atteggiamento e credenze per cui si tratta di mantenere un rispetto reciproco evitando tentativi di prevaricazione derivanti dalla presunzione di essere gli unici detentori della "verità" (assoluta).
    Credo che la risonanza e l'interesse riscossi dal Manifesto evidenzino con chiarezza che nella cultura italiana si sta aprendo una nuova fase che mostra ampia disponibilità ad una prospettiva informata al pluralismo etico. È forse presto (e troppo ottimistico dirlo ora), ma se il processo indicato dovesse intensificarsi e giungere a maturazione, si avrebbe una "rivoluzione"senza precedenti entro la cultura italiana; verrebbero infatti a cadere antichi steccati derivanti da pregiudiziali scelte di campo che hanno accompagnato la storia del nostro paese con l'inaugurazione di un nuovo modo di ragionare in etica che attribuisce la priorità alla forza razionale degli argomenti addotti a sostegno delle varie posizioni. Se questo accadesse, si accorcerebbe il divario che separa la cultura italiana dalle più avanzate culture d'oltralpe e d'oltreoceano, con una più piena partecipazione alla nuova cultura europea e mondiale che su queste tematiche si va formando. La posta in gioco è rilevante, e il Manifesto - pur presentando tesi che richiedono ulteriori qualificazioni e precisazioni - punta senza dubbio nella direzione giusta ricordando che esiste un'etica laica con alcuni ben precisi valori, mettendo in primo piano il rispetto del pluralismo etico, inteso come prospettiva etica capace di reggersi da sola (senza riaffermare la contrapposizione all'etica cattolica, anche se questa è poi emersa nel dibattito). Questo aspetto è di buon auspicio e ci auguriamo che il dibattito continui: la stagione dell'etica è agli inizi e nel nostro paese, per le ragioni dette, è ancora più giovane che altrove. Ci vuole tempo e pazienza per far crescere la nuova pianta del pluralismo etico improntato ad uno stile argomentativo civile e attento alle ragioni, e il Convegno organizzato da Politeia e Consulta di Bioetica vuole essere un contributo in questo senso. Ci auguriamo che il seme gettato porti buoni frutti.
    Il presente fascicolo si articola in due parti distinte: la prima raccoglie il testo delle relazioni presentate al Convegno, opportunamente rivisto dagli autori, e degli interventi appositamente preparati per contribuire a questa pubblicazione; la seconda raccoglie, con il testo del Manifesto, i contributi più significativi al dibattito su di esso apparsi originariamente su importanti organi di stampa. Riteniamo, in questo modo, di aver dato sia un quadro completo del dibattito sia un contributo alla memoria del tipo di discussione avviata.
    Ringrazio la Consulta di Bioetica per la collaborazione prestata, il prof. A. Martinelli, Preside della Facoltà di enze Politiche dell'Università di Milano, per aver ospitato i lavori del Convegno, il pubblico per essere intervenuto numeroso, i relatori e autori per aver accolto l'invito a collaborare e i direttori ed editori del "Sole 24 Ore", della "Stampa" e di "Epoca" per aver autorizzato la pubblicazione degli articoli raccolti nella seconda parte.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    L'etica laica,
    di CARLO AUGUSTO VIANO
    Università di Torino; Consulta di bioetica, Milano
    Accade spesso, in Italia, di contrapporre la cultura laica a quella cattolica, e la contrapposizione va dalla filosofia all'ideologia e alla politica, ma coinvolge anche l'etica e, naturalmente, la bioetica. Questa contrapposizione, che ha una grande tradizione non soltanto nostrana, ha assunto da noi una fisionomia particolare sia perché l'anticlericalismo è stato un ingrediente fondamentale nella formazione dello stato nazionale, che ha presupposto la distruzione dello Stato pontificio, sia perché la Chiesa cattolica ha riconquistato di fatto un forte potere politico anche nello stato unitario. Gli esponenti della cultura cattolica di solito non solo avversano, com'è comprensibile, l'anticlericalismo, ma non gli riconoscono neppure dignità culturale e non gradiscono che si dia un qualche riconoscimento alla contrapposizione tra cultura cattolica e cultura laica. Anzi spesso bollano come laicista chi pretenda di parlare di morale in modo del tutto indipendente dalla cultura cattolica e ritenga che questa abbia soprattutto elaborato strumenti per diffondere e difendere il magistero ecclesiastico. A loro sembra che "laicista" sia un termine peggiorativo, che dovrebbe suscitare un rifiuto da parte di chi si professa laico. Per evitare polemiche inutili si può considerare "laicista" sinonimo di "laico" nel senso in cui noi intendiamo il termine: perciò d'ora in poi qualsiasi lettore cattolico è autorizzato a leggere "laicista" ogni volta che scriveremo "laico", e a ritenere che esageriamo.
    Quando si discute di etica alcuni esponenti della cultura cattolica contestano che si possa parlare di un"'etica laica" perché quanto di valido eventualmente ci fosse in una cosiddetta etica laica sarebbe soltanto un aspetto o una parte di un'etica unitaria, che ha un fondamento religioso, e la separazione dell'etica da quel fondamento ne comprometterebbe la comprensione autentica. Altri esponenti della cultura cattolica sostengono che non esiste un'etica laica, contrapposta a quella cattolica, perché gran parte di quella che i laici considerano "etica cattolica" è una morale razionale, indipendente dalle credenze che la fede suggerisce ai cattolici; inoltre laici, in quanto diversi dai sacerdoti, sono anche i cattolici che lavorano come semplici moralisti, e come laici possono parlare anche membri del clero cattolico. In realtà questi due modi di impostare le cose non sono esclusivi l'uno dell'altro, perché quasi sempre la parte razionale della dottrina cattolica contiene in un modo o nell'altro qualcosa sulla divinità e sull'anima umana. La distinzione lessicale tra clero e laicato ovviamente non denota di necessità un conflitto, ma il dizionario è uno schermo fragile per esorcizzare il pezzo importante della cultura occidentale nato intorno al rifiuto del primato del clero e del suo insegnamento. Si chiami pure "laicismo" quel pezzo di cultura e la sua eredità, ma neppure questo accorgimento verbale riesce ad annullare una cultura che non si riconosce nei testi sacri, nelle tradizioni ecclesiastiche e nelle autorità religiose del mondo cristiano, e in particolare di quello cattolico.
    L'etica laica deve perciò resistere sia alla negazione della sua esistenza sia all'assorbimento da parte della cultura cattolica, che qualifica come puramente polemico il rifiuto del magistero ecclesiastico e incorpora contenuti o procedure di quella che pretende di essere un'etica laica. Bisogna ammettere che quest'ultima si è spesso fatta complice di questa strategia del pensiero cattolico, che talvolta punta proprio su ciò che ha spesso costituito l'orgoglio dell'etica laica: la costruzione di una morale puramente razionale. Infatti, come appunto prima dicevamo, una parte importante della cultura religiosa, soprattutto cattolica, ritiene di poter giustificare una quantità rilevante dei propri contenuti usando esclusivamente la ragione.
    Questo equivoco si fonda sul mito secondo il quale la filosofia greca avrebbe costruito una teoria naturale della ragione, indipendente dalla rivelazione religiosa e dalla teologia. Questo mito è stato incorporato in gran parte delle teologie cristiane, che hanno usato una specie di filosofia platonico-aristotelica per ricavare ciò che la ragione naturale da sola sarebbe in grado di scoprire. In realtà i filosofi greci hanno sì costruito anche una teoria della ragione, ma all'interno del loro progetto, che era quello di fondare una religione, diversa da quella tradizionale, ma pur sempre una religione, con le proprie credenze indubitabili, i propri riti, le devozioni ai propri personaggi sacri. Così per i teologi non è stato difficile sostenere che esiste una facoltà umana, la ragione appunto, distinta dalla fede, ma anch'essa dono divino, le cui formulazioni non sono incompatibili con la fede, che la completa.
    In quella teoria della ragione scienziati e filosofi moderni tentarono di includere l'immagine del mondo uscita dalla rivoluzione copernicana, dall'adozione del metodo galileiano e dall'applicazione della matematica alla conoscenza della natura, anche per difendersi dal rifiuto cristiano di quelle cose: e spesso dovettero accontentarsi di un'idea impoverita di ciò che intendevano difendere. Per un altro verso costruirono una immagine più o meno unificata di procedimenti intellettuali, che risentiva dell'originario progetto di assicurare l'inclusione di tutto ciò che si veniva a sapere in una concezione del mondo dominata da temi religiosi. È nata così l'idea che verità morali razionali potessero collocarsi accanto a verità scientifiche, solo perché le une e le altre erano ottenute con la ragione.
    C'è un senso ovvio in cui le dottrine morali sono razionali, perché sono costruite con i mezzi simbolici dei quali si serve l'intelligenza umana. In questo senso tutte le dottrine morali sono razionali, ma lo sono anche le morali religiose, il contenuto della fede, l'interpretazione dei libri sacri e così via. Se si smantella la dottrina filosofico-teologica della razionalità diventa difficile giudicare i contenuti delle dottrine morali, come di altri prodotti intellettuali, in base all'applicazione di procedure o verità intrinsecamente razionali. Sono soprattutto le ricostruzioni storiografiche e accademiche della conoscenza scientifica che ne fanno un prodotto della ragione e perfino nel sapere scientifico effettivo è raro che un risultato di rilievo sia ottenuto con puri controlli procedurali, cioè con quella che potrebbe essere intesa come un"'applicazione della ragione". Questa interpretazione viene spesso utilizzata nelle ricostruzioni storiografiche postume e nelle polemiche culturali.
    Ciò che caratterizza le costruzioni intellettuali più complesse, come le teorie scientifiche, più che la cosiddetta "razionalità intrinseca", è il loro spessore teorico, cioè il fatto che i punti di partenza sono assai lontani dal punto di arrivo, e non sempre è facile capire fin dove si può giungere a partire da quelle assunzioni: di qui deriva la possibilità di intendere la scienza come una ricerca in senso proprio. Nelle teorie etiche invece la distanza tra punti di partenza e punti di arrivo, di solito non è molto grande, nel senso che si comprende quasi subito dove si va a parare quando si parte da certe assunzioni piuttosto che da altre. Per esempio chi sostiene che la vita è sacra giunge rapidamente a sostenere che l'eutanasia non è lecita, chi attribuisce il carattere di sostanza razionale all'embrione giustifica il divieto dell'aborto e così via.
    Questa è probabilmente la ragione per cui in etica si sviluppa più che l'esplorazione delle dottrine e delle loro assunzioni (non c'è molto da esplorare) la polemica tra dottrine diverse, nel corso della quale si cerca di mostrare che determinate assunzioni sono necessarie non soltanto per ricavarne determinati obblighi o divieti, ma anche quelli che altri farebbero derivare da un altro complesso di assunzioni. Per esempio i sostenitori della sacralità della vita affermano che questa assunzione non soltanto è in accordo con gli insegnamenti della Chiesa, ma è necessaria per proteggere esseri umani minorati o malati o addirittura gli infanti, che anche non credenti ammettono di dover proteggere. Qualcosa del genere fanno talvolta anche i sostenitori di etiche laiche: per esempio Dworkin ha cercato di ricavare la liceità dell'eutanasia dal principio della sacralità della vita. Uno degli strumenti principali della polemica etica è costituito dalla descrizione che ogni parte fa della parte avversa in modo da renderla adatta all'assorbimento o alla confutazione. Ciò rende difficile un confronto oggettivo tra dottrine diverse, perché quasi mai i sostenitori di una dottrina si riconoscono nella descrizione che ne danno gli altri. I sostenitori della morale cattolica respingono la descrizione della loro etica come escogitazione di giustificazioni delle prescrizioni religiose, mentre i laici non condividono l'interpretazione che i cattolici danno delle loro posizioni come dottrine parziali e insufficienti.
    C'è tuttavia un punto sul quale si può trovare un accordo, per così dire "descrittivo", tra sostenitori dell'etica laica e sostenitori di quella cattolica, un punto che comporta l'indebolimento estremo dell'etica laica e l'accettazione di almeno uno dei tratti che i cattolici attribuiscono ai laici. A questi essi rimproverano di non avere posizioni unitarie e di non essere d'accordo tra loro: una critica radicale per i moralisti cattolici, convinti che la morale sia una sola. Molti rappresentanti dell'etica laica si fanno intimidire e cercano di respingerla, oppure si lasciano travolgere dal balletto che in queste circostanze inscenano i filosofi, buttandosi a esaltare il pluralismo, la varietà irriducibile dell'esperienza umana e l'impossibilità di ricondurla entro i limiti di una teoria l'astratta". I filosofi sono gli unici che ho trovato contenti quando un problema non si può risolvere o non se ne può dare una soluzione semplice.
    Quando si ha che fare con teorie diverse e irriducibili, bisognerebbe sottoporle a qualche tipo di prova. Ma in etica non è facile escogitarne, che non siano complicate, dagli esiti tutt'altro che univoci e dai tempi lunghi. In queste condizioni un'etica laica respinge la pretesa di chiunque di partire da principi morali incontrovertibili, soprattutto se sono considerati tali perché costituiscono verità religiose contenute in un libro sacro, in una tradizione o nell'insegnamento di un'autorità, ma nega anche a se stessa il possesso di criteri per sceverare tra dottrine etiche vere e false. Una concezione di questo genere riconosce che le comunità umane hanno qualcosa che si potrebbe chiamare un "sistema etico", anche se non è facile descrivere una realtà del genere: già dire che esistono regole etiche significa applicare una metafora giuridica, la cui efficacia esplicativa non è del tutto chiara. Comunque si può supporre che esistano regole che sono etiche, nel senso che, trasmesse da tradizioni culturali, non sono imposte da agenzie formalmente costituite e non se ne scorge la ragione nella loro efficacia a breve termine.
    È probabile che quelle regole siano il risultato di equilibri evolutivi di lungo periodo, e l'etica laica ammette la possibilità che esse possano essere rivedute, soprattutto quando mutano i fattori che avevano contribuito all'instaurazione di quegli equilibri. E gli equilibri esistenti sono messi in crisi da fattori molteplici, tra i quali l'incontro di culture diverse, cioè di gruppi che hanno costituito i propri equilibri con modi di vita diversi, dalla comparsa e dalla diffusione di credenze religiose, ideologiche, politiche ecc., da innovazioni tecnologiche importanti. Fenomeni come la rivoluzione industriale o lo sviluppo della medicina contemporanea hanno suggerito nuove regole sulla compravendita del lavoro umano, sull'organizzazione familiare, sulla posizione della donna nella società, sulla considerazione della nascita e della morte.
    Uno degli aspetti più caratteristici dell'etica laica è il riconoscimento della liceità di rivedere le regole tradizionali per tener conto delle possibilità di scelta offerte dalle innovazioni tecniche, attribuendo ai singoli e alle comunità alle quali volontariamente aderiscono il diritto di effettuare quelle scelte. Sarebbe bello aver modo di stabilire che un'innovazione morale produce equilibri almeno equivalenti a quelli che sostituisce, ma purtroppo nulla garantisce che le innovazioni generino un equilibrio accettabile e che non conducano a disastri. C'è un solo criterio che un'etica laica minimale potrebbe far proprio, ed è la preoccupazione di evitare sofferenze dirette e sicure. Un'etica laica consapevole ammette però che perfino un programma del genere, pur potendo sembrare insoddisfacente, sarebbe ottimistico, se lo si considerasse facile da realizzare. Infatti il concetto di sofferenza non è intrinsecamente ben definito: le sofferenze possono essere dolori fisici, psicologici, morali e così via. Le sofferenze degli individui sono spesso interdipendenti, per cui la Diminuzione della sofferenza di una persona fa ' crescere quella di altre. L'ambito di distribuzione delle sofferenze non ha confini precisi. Un'etica di questo genere incontrerebbe le difficoltà dell'etica utilitaristica, della quale sembra semplicemente un rovesciamento. Si sa infatti a quali difficoltà vada incontro la regola utilitaristica che prescrive la massimizzazione del piacere o dell'utile. Anche indebolendo quella massima e riferendola a scelte o preferenze i problemi rimangono, perché non è facile rendere compatibili le preferenze di più individui, senza censurarle. Inoltre non è facile definire i gruppi di individui le cui scelte devono diventare compatibili.
    Un'etica che promettesse regole per minimizzare le sofferenze di un numero indeterminato di individui sarebbe una teoria sbagliata. La sofferenza è probabilmente ineliminabile ed è anche distribuita in modo ineguale, tra individui, gruppi sociali, comunità culturali, specie viventi. Si possono escogitare innovazioni morali per aumentare le soddisfazioni e diminuire le sofferenze di coloro che le adottano: esse sono lecite se non aumentano in ambiti e periodi prevedibili le sofferenze di altri gruppi o individui che si possano confrontare con i primi. Se c'è un punto che possa segnare la differenza tra un'etica laica e un'etica religiosa è proprio la convinzione laica che il dolore non abbia in sé un significato morale, che la sua accettazione non abbia un particolare valore, che la religione, per chi la pratica, possa essere un modo per dare significato al dolore o per liberarsene, ma non per questo possa essere imposta. Uno degli atteggiamenti laici più caratteristci è proprio il rifiuto dell'accettazione del dolore e la tendenza a ritenere che non esistono principi in nome dei quali si possa infliggere sofferenza fisica agli altri. Forse chi manifesta opinioni, chi elabora criteri di comportamento, chi li espone e magari li propaganda infligge sofferenze morali agli altri. Pazienza! I laici sanno di essere considerati scandalosi dagli uomini di fede, sanno di colpire la loro sensibilità, anche soltanto rivendicando per se stessi il diritto di rifiutare i dettami dell'etica religiosa, ma sono anche abituati a ricevere le offese morali che costantemente la propaganda religiosa arreca loro, considerandoli peccatori, incapaci di comprendere le vere ragioni di ciò che affermano, succubi dei peggiori moventi. Gli uomini di fede pretendono che anche nelle società laiche la religione sia rispettata, che si tenga conto delle suscettibilità di chi pratica una religione, spesso della religione dominante, ma non sono disposti a trattare nello stesso modo chi non pratica la religione, a non ostentare comportamenti o culti che potrebbero offendere la suscettibilità dei non credenti. Appunto, pazienza! Val la pena di cercare il benessere e l'attenuazione del dolore fisico infliggendo e sopportando sofferenze morali; ma non l'inverso.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    La bioetica e il problema della tecnica,
    di FRANCESCO D'AGOSTINO
    Comitato Nazionale per la Bioetica, Roma
    1. In che misura, nel Manifesto di bioetica laica è da considerare essenziale l'aggettivo laico? Gli estensori, probabilmente, sarebbero in imbarazzo se si chiedesse loro (come appunto alcuni commentatori del Manifesto per la verità hanno fatto) di rinunciarvi: difficilmente, credo, saprebbero come sostituirlo. Per essi laico include o comunque fa riferimento a una serie di coerenti principi che appaiono loro tali da differenziare nettamente chi li professa da chiunque invece elabori la propria visione del mondo all'interno di un paradigma di carattere religioso. 2. Secondo la mia opinione, invece, all'aggettivo laico bisognerebbe proprio rinunciare, quando si parla di bioetica. Non perché a partire dalla laicità non sia possibile costruire (come han fatto gli estensori del Manifesto) una coerente costellazione di principi, ma perché non è muovendo da questi principi che è possibile cogliere lo specifico della bioetica né elaborare strategie adeguate, capaci di gestire gli innumerevoli problemi che il progresso della biomedicina continua continuamente a sollevare. Il che non significa affatto che io intenda sostenere che una ben fondata bioetica debba ad ogni costo partire da principi teologici: questo, del resto, nessuno davvero l'ha mai pensato (tranne il compianto Scarpelli, che amava però costruirsi avversari inesistenti). Esattamente come il pensiero "laico", così anche il pensiero teologico non possiede, nel proprio armamentario concettuale, alcun canone che possa, senza ulteriori e faticosissime mediazioni, essere applicato alla bioetica. E i teologi questo lo sanno benissimo.
    3. Insomma, contro le ottime intenzioni dei suoi estensori, il Manifesto di bioetica laica, anziché chiarire le idee, contribuisce piuttosto a confonderle. Ingenera nel lettore l'idea che, per comprendere qualcosa nel dibattito bioetico attuale, basti ricorrere a un codice binario, grossolanamente formulabile nei termini di notissime antinomie: laicità/religione, pensiero laico/pensiero teologico, autonomia/eteronomia, ragione/fede, pensiero critico/pensiero dogmatico, ecc. E che, per sottrarre il dibattito bioetico ad ogni rischio di impantanamento, basti un po' di buona volontà da tutte e due le parti: basti cioè incontrarsi a metà strada. Agli spiriti religiosi basterà chiedere di rinunciare al più vieto dogmatismo, di prendere un po' più sul serio la ragione umana e lo spirito scientifico; agli spiriti laici di non cadere nelle trappole del relativismo, di proclamare ad alta voce che anch'essi credono in principi irrinunciabili. Naturalmente, sia per gli uni che per gli altri realizzare una simile mediazione non sarà affatto difficile: nessuno spirito religioso vorrà mai confondersi con un ottuso fondamentalista e qualunque spirito laico sarà prontissimo a proclamare come valori fondamentali l'autonomia della ricerca, l'autonomia delle persone, l'equità o la tolleranza. Tutto sembra così andare al suo posto; tutto, tranne lo specifico della problematica bioetica.
    4. Il punto essenziale della questione, infatti, non è questo: non è cioè da quali principi si debba partire per fare bioetica. Il punto è che la bioetica - piaccia o no ai laici così come ai non laici - in realtà non riesce a costituirsi, sia come forma di sapere teorico che come forma di sapere pratico, sul fondamento di principi. In altri termini, essa soffre, come peraltro tutto il pensiero moderno, di una malattia mortale, che nel linguaggio filosofico ha un nome tecnico: nichilismo.
    5. La bioetica, infatti, vuole - e giustamente - prendere sul serio il problema della tecnica (cioè l'unico, grande problema della modernità): di come cioè la tecnica sia giunta a trasformarsi, da mero strumento al servizio del soddisfacimento dei bisogni umani, in potenzialità fabbrile assolutamente autoreferenziale; e di come in particolare la tecnica, quando viene applicata alla vita umana e al fenomeno vita in generale, sia giunta a trasformarsi da prassi terapeutica in pura manipolazione. Ma questo problema la bioetica riesce sì ad avvertirlo, ma non è in grado di risolverlo. Essa percepisce come la tecnica abbia creato nell'agire umano una lacerazione tra senso e significato; come cioè ai singoli significati veicolati dall'agire tecnologico non corrisponda più alcun senso che sia loro intrinseco. Ma non possiede gli strumenti per riunificare ciò che la tecnica ha diviso. Certo, i bioeticisti cercano di fronteggiare il problema come possono; in genere con nobili esortazioni al rispetto della dignità dell'uomo e comunque facendo grandi appelli a un'etica della responsabilità, che attivi nella coscienza degli scienziati e in genere di tutte le persone una doverosa preoccupazione nei confronti di un futuro dominato da una cieca tecnocrazia (preoccupazione da cui dovrebbero scaturire atteggiamenti di prudenziale rigetto nei confronti degli eccessi della tecnica). Un simile modo di fare bioetica è pur sempre utile (oltre ad essere sicuramente generoso). Ma è ultimativamente sterile, perché tende inevitabilmente a trasformarsi -come è stato efficacemente detto - in una sorta di "retorica dell'impotenza, dove si implora chi può (la tecnica) di non fare ciò che può".
    6. Come uscire da questa situazione? Nessuno, onestamente, può dire di saperlo o di avere ricette adeguate allo scopo. Quello però che è sicuro, è che per uscirne è necessario acquisire un'adeguata consapevolezza del problema. E che il primo passo in questa direzione consiste nell'assumere come esigenza autentica - e non semplicemente come slogan - quella della risemantizzazione dell'agire tecnico.
    7. Risemantizzare l'agire implica ritenere intollerabile lo scarto tra senso e significato. Ritenerlo intollerabile non significa però ritenerlo facilmente superabile: i mistici, ad es., hanno sempre saputo che nella via di avvicinamento a Dio è necessario passare attraverso una notte oscura. E i teologi meno trionfalisti hanno sempre insistito nel sottolineare che per quanto ci sia una analogia tra l'uomo e Dio, pure la differenza tra di loro supera infinitamente ogni somiglianza. Insomma: la non coincidenza tra senso e significato costituisce per l'uomo un dramma, un paradosso, una lacerazione. Esistenzialmente, questo è stato sempre avvertito (almeno dagli spiriti più riflessivi). Teoreticamente, sembra invece che questo punto, nella modernità, si sia andato perdendo.
    8. Risemantizzare l'agire implica rinunciare ad ogni banale scorciatoia. È una banale scorciatoia la fin troppo scontata e rassicurante ontologia di molti metafisici (e di molti teologi). Ma è anche una banale scorciatoia l'elogio (continuamente ripetuto da tanti "laici") dello spirito critico, come contrapposto allo spirito dogmatico. Compiacersi dei propri dubbi significa banalizzare il problema del dubbio; non viverlo come lo si deve vivere, cioè come autentica sofferenza. Una bioetica non banale non potrà mai essere dogmatico, ma non potrà nemmeno compiacersi della propria criticità: perché un tale compiacimento è l'anticamera per soffocare ogni criticità autentica. Una bioetica non banale, e quindi autentica, dovrà assumere la ricerca della verità come proprio orizzonte di senso, nella consapevolezza che tale ricerca: a) ha un senso perché la verità esiste e b) non avrà mai fine, perché non è nelle possibilità dell' uomo impossessarsi definitivamente della verità. È una conclusione poverissima, questa, ma che, se viene assunta con rigore, almeno aiuta da una parte a fuoriuscire da un laicismo banale (che ha un indebito timore a parlare di verità) e dall'altra a rinunciare alle trappole di un ontologismo dogmatico (che presume che della verità l'uomo possa impossessarsi).
    9. In questo contesto, peraltro, e inopinatamente, può riallacciarsi un legittimo riferimento in ambito bioetico alla teologia e ancor più alla religione: un riferimento su cui sarebbe utile che i bioeticisti laici riflettessero senza pregiudizi.
    Abbiamo detto infatti che cuore del problema bioetico è lo scarto (apparentemente irriducibile) che nella tecnica si dà tra senso e significato; scarto che costituisce la concretizzazione, per quel che attiene ai problemi della vita, di quello scarto più generale (che potremmo meglio denominare scacco) tra l'esigenza profondamente umana di nominare il mondo nella sua totalità e il fallimento di ogni tentativo in tal senso. Ora a questo scacco la religione (o, se così si preferisce dire, il principio teologico) oppone la fede, cioè semplicemente se stessa; oppone - per chi preferisca ricorrere a un punto di vista strettamente sociologico - la propria funzione, quella, per dirla con Luhmann, di rappresentare l'appresentato, cioè specificare, determinare, o almeno rendere determinabile quella totalità che il mondo è e che, in se stesso, non è né rappresentabile né determinabile come totalità. Lungi dal rappresentare un rischio per la bioetica, il riferimento religioso, in questa prospettiva, può costituirne un punto di forza (e ciò potrebbe spiegare l'immenso interesse suscitato dalla problematico bioetica negli ambienti intellettuali cattolici): delegittimarlo, significherebbe misconoscerne le ragioni profonde (il che, naturalmente, non implica che ad esso si debba aderire!). Si noti, per concludere, che il riferimento alla religione non ha, in questo contesto, alcuna valenza confessionale; esso cerca piuttosto di superare il fraintendimento vetero-positivista nei confronti di questa umanissima (e universale) dimensione di esperienza e di aprire, anche per il pensiero laico, un orizzonte di riflessione sistemica, rigorosamente non confessionale, che è poi quello di cui il pensiero bioetico ha oggi veramente bisogno.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Pensare e credere il bene in un contesto pluralistico.
    per una bioetica non ideologica
    di PAOLO CATTORINI
    Università degli Studi, Pavia; Dipartimento di Medicina e Scienze Umane, H San Raffaele, Milano; Comitato Nazionale per la Bioetica, Roma.
    C'è un problema aperto che il Manifesto di bioetica laica, ha positivamente toccato; e c'è invece nello stesso Manifesto la persistenza di un fraintendimento che pensavamo in buona parte già superato dalla discussione degli anni scorsi[1].
    Cominciamo dal fraintendimento, che si lega all'uso dell'espressione di Grozio, etsi Deus non daretur, intesa qui come requisito irrinunciabile per accedere al dibattito etico. Questo requisito, che viene avvertito come sleale da molti esponenti di tradizioni religiose, muove in effetti da una comprensione troppo superficiale del rapporto fra fede e ragione, particolarmente nell'etica. Una pregiudiziale di stampo illuminista porta infatti a ritenere del tutto separabili i due ambiti e quindi a consideare la fede inutile o esosa, quando si argomenta dilemmi morali.
    A questa affermazione occorre replicare che la fede è figura costitutiva dell'agire morale[2]: ogni uomo che decide per il bene, decide ad un tempo di sé e del significato ella sua vita, a partire dal senso che egli in ultima analisi attribuisce alla realtà. Vi è cioè una visione della vita buona spesso non adeguatamente tematizzata e riflessa, che sta alla base dei criteri mediante i quali viene riconosciuta la razionalità o l'irrazionalità di determinate pretese o conclusioni morali. In altri termini, bisogna partire non dal presupposto di una ragione avulsa dalla condizione storica e culturale dell' individuo, bensì dalla comprensione della ragione incarnata, concretamente operante nelle scelte individuali: la riflessione filosofica appare allora come "il ritorno su di sé", l'applicazione del "conosci te stesso" alle dinamiche effettive della ragione e non l'imposizione di un criterio astratto e riduttivo di correttezza.
    Il progetto di rimuovere il conflitto fra le diverse interpretazioni del senso del nascere, del morire, del generare, per pervenire ad un'etica fatta di norme impersonali e meramente procedurali non appare realmente praticabile; da un lato, infatti, ogni forma di rimozione della domanda sul senso dell'agire umano induce, in ultima analisi, una disaffezione verso le regole procedurali che quella domanda dovrebbero sostituire; d'altro canto, la domanda di senso riemerge costantemente a denunciare nell'esperienza il riduzionismo dell'etica procedurale.
    Ogni uomo, infatti, che rifletta seriamente sulla struttura del proprio sapere morale, riconosce che tale sapere si costituisce sulla base di un'opzione personale nei confronti di una determinata verità morale, un'opzione che non è totalmente trascrivibile in termini di evidenza intellettuale, ma a cui egli crede in assenza di dimostrazioni conclusive. D'altro canto, egli sa anche che questa verità non è solo sua o per sé, ma che necessita di essere comunicata e testimoniata, poiché essa interpella ogni uomo: naturalmente, in questo processo di comunicazione, tale verità viene esposta alla critica dell'altro e può essere dunque modificata, riformulata oppure solo riespressa in maniera più approfondita.
    Siamo perciò consegnati ad un conflitto di interpretazioni (per usare l'espressione di Ricoeur) e non esiste un punto di vista impersonale, pacifico, neutrale, dal quale osservare immuni tale conflitto. Chi abita in un contesto pluralistico e reclama l'uso di una lingua secolare non dovrebbe essere interessato alla scomparsa o all'ammutolimento delle tradizioni religiose in bioetica, ma piuttosto dovrebbe essere interessato al fatto che esse esprimano e comunichino la ricchezza della loro peculiare prospettiva e manifestino i motivi per cui la verità di fede è creduta come una verità proponibile e raccomandabile a tutti[3]. Usare un linguaggio universalmente accessibile, nel testimoniare la verità in cui si crede, non significa smettere di credere ad una verità determinata, una verità che è, per chi la crede, la verità. Chi presumesse di tirarsi completamente fuori dalla sua collocazione prospettica e di assumere un punto di vista del tutto impersonale ed astratto, da cui osservare il confronto pluralistico che si accende fra fedi diverse, perderebbe nello stesso tempo la propria verità esistenziale, ossia quella verità che non può essere dismessa o abiurata[4].
    Credo sia chiaro a tutti che il dibattito bioetico, prima di essere un dibattito su articolati di legge, è e deve essere una riflessione sul senso di condotte che occorrerebbe appunto normare o lasciare non non- nate. Non si può, ad esempio, affrontare il problema della legittimità della fecondazione eterologa presentandolo immediatamente come una questione di diritto: cioè come la rivendicazione di un nuovo tipo di esercizio della privacy. Ci sono in realtà in gioco modi diversi e conflittuali di intendere il significato dell'avere un figlio ed occorre una riflessione che si impegni ad entrare nel merito di tale significato, mostrandone la coerenza o l'incoerenza, la dignità o l'inautenticità[5]. Le diverse tradizioni di pensiero devono lavorare in questa direzione, non rifiutare l'incontro e la provocazione delle altre. Fare a meno di una tale riflessione significa perdere il contributo dell'etica al diritto, nel senso cioè che la ricerca di significati e valori comuni di una società passa ineluttabilmente attraverso un dialogo tra visioni del mondo differenti ed attraverso il tentativo di plasmare assieme una figura di vita buona.
    Come scriveva Peter Kemp, vi sono alcune immagini o scene rappresentative della vita vera, della vera attitudine di generosità nei confronti di altri, che "costituiscono la base della nostra etica come modelli immaginari e narrativi del suo principio fondamentale, modelli che consentono di valutare ogni altro racconto e di giudicare ogni azione e ogni regola d'azione"[6]. Come è dunque possibile chiedere che nel fare etica si prescinda dalla figura di bene, che si crede vera? Come è possibile per un cristiano praticare una riflessione morale che prescinda del tutto dalla storia di Gesù, dai suoi gesti, dal suo stile, dalle sue parole? Non gli si starà chiedendo semplicemente di assumere una figura del bene diversa ma non ancora e non per questo più ragionevole di quella in cui crede? Non è peraltro difficile mostrare che anche dietro le proposte più "procedurali" dell'etica contemporanea si nasconde una visione dell'uomo precisamente determinata, nient'affatto neutrale o impersonale. Uno dei principali "miti delle origini" dell'approccio contrattualistico-libertario alla relazione medico-paziente è quello tracciato da T. Hobbes. Il mito di Hobbes presenta appunto un'immagine determinata dell'essere umano in quella che dovrebbe essere la sua "condizione naturale" quella cioè di un conflitto generalizzato fra gli individui. Dietro la procedura, c'è una opzione morale di contenuto molto chiara e specifica.
    La divaricazione programmatica tra ragione e fede rientra nel carattere minimalistico che certe correnti dell'etica contemporanea assegnano all'etica. Ciò a cui l'etica pubblica di derivazione anglosassone impegna il singolo ci sembra sostanzialmente descrivibile come la delineazione di regole civili volte a promuovere il livello minimo della consistenza e della reciprocità; in tal senso è ovvio che le forme della convivenza siano chiamate a garantire a ciascuno la possibilità di perseguire liberamente il proprio piano di vita, nel rispetto di un insieme di restrizioni intese a demarcare le opportune distanze rispetto a diritti altrui. Il vizio fondamentale di tale impostazione è quello di prescindere in maniera pregiudiziale dal riferimento alla categoria della vita buona, e dunque dall'interrogazione genuinamente morale a proposito delle ragioni sostantive del bene; la riflessione etica si raccoglie invece esclusivamente attorno alla domanda sul giusto, ovvero sulle regole di comportamento suscettibili di generare un accordo, quanto meno provvisorio, al fine di disciplinare i conflitti all'interno di pratiche sociali determinate. Detto in altri termini, l'etica di cui qui si tratta non ha molto a che vedere con la riflessione sul senso dell'agire e sui criteri che qualificano tale agire come buono: elaborare una simile morale - si sostiene - sarebbe infatti un compito impossibile o comunque non pertinente rispetto all'etica pubblica, un compito i dunque da demandare in toto alla competenza che si presuppone esistere presso la coscienza privata dei singoli.
    E lecito tuttavia dubitare che nel "sacrario" insindacabile e privatissimo della coscienza individuale, demarcata da ogni altra coscienza a causa di una radicale estraneità morale, ci siano le risorse per farsi carico di un compito così grande. C'è da chiedersi invece se la medicalizzazione della vita e la sua collusione con le logiche del mercato non siano la prova, proprio in ambito bioetico, che a tale compito si sia ampiamente abdicato[7].
    Dicevamo in apertura che c'è, però, anche un aspetto positivo nel Manifesto, un aspetto che coincide con la denuncia dell'intolleranza, la chiusura al dialogo, l'adesione dogmatica a principi morali, tutti tratti di laicità che ogni credente deve coltivare e che si oppongono invece ai tratti ideologici della bioetica. Intendiamo come ideologia, in senso deteriore, una teoria intessuta di pre giudizi, sottratti ad ogni valutazione critica e volti a mascherare interessi di parte: questo carattere ideologico, oltre a comprimere l'apporto della creatività individuale alla comune ricerca di soluzioni plausibili, costituisce il retaggio di un atteggiamento di preclusione apriorica, di svalutazione del confronto, di incomprensione pregiudiziale delle ragioni altrui, atteggiamento che proprio l'odierna rinascita della riflessione etica ha in più modi cercato di ribaltare. Si tratta però di un carattere ideologico che non è affatto proprio esclusivamente delle bioetiche religiose.
    Un momento importante della riflessione bioetica è il lavoro pregiuridico che disegna i criteri per la miglior legge possibile, allorquando tutti comprendono che una legge occorre, ma i principi di riferimento propri delle diverse posizioni risultano lontani o incompatibili. Il Manifesto paventa giustamente la profonda svalutazione del dialogo etico che potrebbe venire intessuto all'interno di un organismo pluralistico e interdisciplinare nel momento appunto dell'elaborazione pregiuridica. Tale svalutazione è in effetti sovente determinata sia dai sostenitori di posizioni fortemente proibizioniste, sia dai fautori di posizioni libertarie. I primi argomentano che il loro orientamento dottrinale è espresso ed argomentato all'interno della propria tradizione in modo così soddisfacente, che nulla essi avrebbero da imparare, né sul piano etico né su quello giuridico, da un confronto pluralistico: le proposte normative dovrebbero dunque semplicemente recepire tale orientamento in toto ed ogni proposta di emendamento o negoziazione viene ritenuta impertinente e respinta con decisione. I secondi ritengono a priori che in ambiti nei quali vi sia un pluralismo di opinioni, la legge deve essere permissiva e leggera, cosicché tutto dovrebbe essere permesso, salvo che conduca a danni dimostrati e seri. Non varrebbe dunque la pena di riaccendere le discussioni tra opzioni morali ritenute a priori non componibili, né di trovare una proposta capace di coniugare le preoccupazioni -a giudizio di tutti - più gravi e di evitare gli eccessi peggiori; la legge non dovrebbe veicolare alcuna opzione morale e dovrebbe semplicemente garantire ai singoli l'esercizio della libertà e la difesa della privacy.
    E evidente che, partendo da entrambe le premesse, il dialogo pregiuridico intessuto da un comitato di bioetica sarà difficoltoso; sia i proibizionisti più severi sia i permissivisti ad oltranza faranno presumibilmente mancare, da un certo punto in poi, il loro apporto costruttivo.
    Un esempio può essere illuminante: si tratta del Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica sulle tecniche di procreazione assistita. Sintesi e conclusioni. Questo testo, che è stato approvato all'unanimità dal CNB (prima della ricomposizione decisa da Berlusconi nel dicembre 1994) è stato criticato da qualcuno per la sua natura di "verbale". In realtà il documento mi sembra avere questo vantaggio: esso offre anzitutto la geografia delle posizioni morali delineatesi all'interno di una commissione pluralistica e indica i principi su cui tali posizioni poggiano. Presentando poi i punti di accordo e quelli di divergenza, si trasmette chiaramente e direttamente a chi ne è democraticamente deputato, il compito di sciogliere i punti controversi e di prendere una posizione di fondo sulle materie che non si possono lasciare prive di regolamentazione.
    Inoltre, nella redazione di un documento come quello del CNB si opera necessariamente una misura del grado di elasticità con cui una determinata posizione morale considera posizioni differenti, si rapporta ad esse e riesce a tollerare impostazioni giuridiche più o meno distanti da quella privilegiata. Attraverso il confronto pluralistico, ciascuna opzione morale è sollecitata a discernere tra le proprie preferenze quelle essenziali, rispetto a quelle meno importanti, esibendo quindi il grado della propria tolleranza nei confronti di norme e regolamentazioni ispirate ad opzioni morali differenti. Tale tolleranza preliminare o transitoria non equivale affatto all'indifferenza sterile o alla rinuncia morale, vivendo anzi della speranza che col tempo si palesino le contraddizioni dell'orientamento avversario. Ad esempio, al proibizionista è chiesto di disegnare una scala di gravità dei veti che vorrebbe imporre, mentre al libertario è chiesto di indicare le situazioni in cui la società avrebbe maggior diritto di coartare l'auto nomia individuale. Si può dire, in altri termini, che ciascuna posizione morale è chiamata a compiere un difficile ma imprescindibile esperimento mentale, così riassumibile: "immagina che in ambito legislativo vinca, con un metodo democratico, un orientamento culturale differente dal tuo: quali suggerimenti daresti affinché le deliberazioni siano le meno lontane possibile dalle tue posizioni e quindi le più in grado di tutelare i valori in cui tu credi?".
    In un paese come l'Italia, poco abituato a un coraggioso confronto pluralistico e spesso irretito nelle contrapposizioni tra schieramenti ideologici precostituiti e stroncature ingenerose, questo documento è stato oggetto di fraintendimento da parti opposte. Ciò mi pare confermare il rischio che, in un clima culturale in cui impera non raramente la logica del muro contro muro, la caricatura dell'avversario, l'uso di accattivanti quanto semplicistici slogan, e dove la preoccupazione di mostrare che "non si è ceduti al compromesso" prevale spesso sulla preoccupazione di dare una buona legge al paese, un laboratorio di dialogo pluralistico corre molti rischi di essere svalutato o addirittura temuto e svuotato dall'interno. È evidente infatti che non ha senso partecipare a gruppi di lavoro come il CNB semplicemente per reiterare le proprie posizioni personali o di scuola, pretendendo che vengano recepite tout-court e minacciando in caso contrario le proprie dimissioni; per svolgere un compito di questo tipo, una commissione è inutile, basta se ci si consente una battuta - stare nel proprio istituto e inviare via fax ai colleghi le proprie conclusioni. Il fatto è che, dopo lo scambio dei fax, il lavoro giuridico richiesto dalla bioetica non è ancora cominciato.
    Per concludere vorrei asserire che, se per laico (come qualcuno ha definito il termine nel corso del recente dibattito) si intende "colui che non crede in una fede religiosa" oppure "quel credente che non riconosce alla propria comunità di fede il diritto di proporre indicazioni etiche sulla base della propria tradizione morale e dalla luce di un'idea determinata di vita buona", allora io non mi considero laico. Mi considero tale invece nel senso del tentativo di essere non dogmatico. Infatti la riflessione bioetica inizia allorché una tesi di ordine morale, pur autorevolmente espressa e proposta come verità (per un credente di orientamento cattolico ciò significa espressa ad esempio dal Magistero della Chiesa), viene pensata e non semplicemente intesa, citata e ripetuta. Gli esiti di questo lavoro di riflessione, trattandosi di una ricerca veritativa, non sono scontati né preordinati dall'inizio. La verità - come scriveva K. Jaspers - non è nostro possesso, la verità è la nostra via.
    La tradizione morale cattolica esige oggi un pensamento più profondo delle cifre concettuali e degli strumenti linguistici con cui le valutazioni etiche sono state in altri tempi giustificate, formulate e poi proposte ai credenti. Un processo di riflessione sull'apparato teorico della morale cristiana è già stato intrapreso dal rinnovamento teologico seguito alla stagione conciliare: tuttavia, deve ancora essere compiutamente svolto il percorso che porta a recuperare il carattere originario e distintivo dell'etica cristiana. Tale recupero è necessario per garantire che l'etica cristiana non finisca per essere né una mera replica di prospettive filosofiche determinate, da cui mutuerebbe i propri criteri, né la reiterazione acritica di istruzioni comportamentali elaborate in contesti qualitativamente diversi dagli attuali. Occorre peraltro superare gli iati, che permangono sotto molti profili ancora aperti, tra riflessione teologica, enunciazione magisteriale, esperienza di fede e lavoro pastorale.
    Il livello della fede (che riguarda l'orizzonte di senso ultimo del vivere) è livello irrinunciabile per un'autentica esperienza e decisione morale ed è la cornice ermeneutica entro la quale si fondano e poi si interpretano le prescrizioni etiche concrete. Queste ultime vivono di un dinamismo evolutivo, sia perché si riferiscono a dilemmi e situazioni storico-culturali determinati, sia perché la loro formulazione concettuale è sempre inevitabilmente più povera (in quanto più astratta) della complessiva esperienza di fede e della lunga tradizione morale che ispirano e giustificano tali prescrizioni.
    Note
    nota 1 Al Manifesto M. Reichlin, R. Mordacci e P. Cattorini hanno replicato sul "Sole 24 Ore" del 30 giugno 1996. L'articolo è ora raccolto in questo fascicolo. Il testo integrale del nostro intervento è stato sottoposto per pubblicazione alla rivista Kos.
    nota 2 Cfr. G. Angelini, "Il senso orientato al sapere. L'etica come questione teologica", in AA.VV., L'evidenza e la fede, Milano, Glossa 1989.
    nota 3 Per un tentativo di approfondire concetti di largo impiego in etica medica quali alleanza e contratto, alla luce dì un'interpretazione giudeo-cristiana dell'esperienza di malattia, cfr. P. Cattorini, Malattia e alleanza, Firenze, Pontecorboli-Karta 1994.
    nota 4 K. Jaspers, La fede filosofica, Torino, Marietti, 1973, p. 57 ha lucidamente distinto la fede che muoveva Giordano Bruno dal sapere di cui Galilei era certo. Questi poté ritrattare una teoria, il cui valore universale e oggettivo la rendeva impersonale. Quello subì la morte dei martiri, poiché era in gioco una verità in cui egli incondizionatamente credeva e su cui poggiava la sua esistenza. "Voler morire per qualcosa di esatto e dimostrabile è fuori luogo", scriveva Jaspers. Al contrario, chi ritratta la verità, in cui come uomo crede, attenta a tale verità.
    nota 5 Su questi temi cfr. P. Cattorini-M. Reichlin, Bioetica della generazione, Torino, SEI 1996. Riflessioni simili in tema di fine della vita si trovano in P. Cattorini, La morte offesa, Bologna, Dehoniane 1996.
    nota 6 La struttura dialogica della bioetica è stata oggetto di particolare attenzione nella cura del volume Introduzione allo studio della bioetica, Milano, ESUE 1996 (a cura di P. Cattorini, R. Mordacci, M. Reichlin), ove tra le diverse teorie è istituito un confronto sistematico.
    nota 7 P. Kemp, "Per un'etica narrativa", Aquinas, 31(1988), p. 457.
    nota 8 Cfr. su questo ambito di problemi gli scritti del già citato teologo G. Angelini, ad es. "Dimenticanza dell'ethos. Questione teorica e questione civile", Teologia, 12 (1987), pp. 289-308.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Il Manifesto di bioetica laica .
    per una bioetica non ideologica
    di SERGIO ROSTAGNO
    Facoltà Valdese di Teologia, Roma; Gruppo sulla Bioetica, Tavola Valdese, Roma.
    La laicità è quella zona pubblica, individuata dalle costituzioni degli stati moderni, dove le leggi trovano applicazione al di fuori degli assoluti religiosi e senza la pretesa di tradurre alcun assoluto in legge positiva, ma anche senza costituire a loro volta assoluti irreligiosi, anzi muovendosi nel campo del relativo. E questo anche il senso che il Manifesto dà alla laicità, oppure tende a contrapporre laicità e religione, qui intesa soprattutto come cristianesimo?
    Pur apprezzando, in generale, le tesi del Manifesto mi permetterei due rilievi. Il primo è di minor momento e riguarda la distinzione tra etica e diritto.
    È giusto distinguere tra norme giuridiche vincolanti per tutti e principi morali liberamente professati. Distinguendo così tra etica e diritto, non si deve tuttavia attribuire al diritto soltanto il campo generale comune lasciando all'etica il campo dell'individuale: «l'adesione volontaria da parte degli individui». L'etica infatti s'interessa anch'essa primariamente all'universale comune, anzi essa appunto potrebbe arbitrare conflitti che nascono sulla base di diverse esigenze e determinare indirizzi piuttosto che altri. Il Manifesto stesso fa appello per esempio a principi contraddittori quando da un lato auspica libertà d'iniziativa per la scienza e dall'altro prende partito per una certa visione democratica, nella quale si deve tener conto anche dei diritti delle persone meno favorite. Se quindi siamo in presenza di esigenze talvolta contraddittorie, chi ci dà i criteri da seguire se non l'etica?È probabile che i criteri emergano dalla storia e dalla coscienza, ma non emergono senza attiva discussione proprio sui principi, proprio sulle cose prioritarie ed importanti. L'etica è il campo del relativo, ma è anche il campo che ci coinvolge nella discussione di quel che reputiamo essere sostenibile e giusto (sostenibile nel doppio significato di argomentabile e di vivibile, tollerabile) . Quindi tutt'altro che una questione privata.
    L'altro punto sul quale vorrei soffermarmi è più complessivo. Il Manifesto intende contrapporre «principi a principi». Così facendo, dà l'impressione di sostenere la contrapposizione tra assoluti ad assoluti, in particolare tra assoluti religiosi ad assoluti (etici non religiosi o laici. All'etica laica chiederemmo invece proprio di evitare questo e di offrirci un terreno d'intesa.
    Il Manifesto si dà come Manifesto di un'etica laica. In che cosa le sue tesi vogliono essere laiche? Perché hanno bisogno di darsi come tali? Noi non abbiamo bisogno in fondo di tesi «laiche» o «religiose» le une contrapposte alle altre, abbiamo bisogno di tesi comuni, di tesi che delineino un terreno d'intesa che sia quello della nostra natura di cittadini, non quello che potremmo darci con etichette religiose o laiche.
    Tanto più che i principi enunciati come "laici" dal Manifesto possono essere condivisi da qualsiasi cristiano. Chi non darebbe credito alla scienza, o all'autonomia della persona, o alla distinzione tra ambiti pubblici e privati e così via? Inversamente, vi sono temi che si potrebbero definire cristiani, che il Manifesto non avrebbe difficoltà a fare propri. La solidarietà per esempio, o la mutualità. La solidarietà, in quanto appunto fa parte del terreno etico, consiste in una richiesta e un appello che come tale interessa tutti. Sappiamo che esistono ambiti di solidarietà limitata a cerchie di persone, a ceti, a popoli, mentre, per fare un esempio, l'appello alla solidarietà in campo cristiano non vuole riconoscere questi limiti, ma, per principio, intende scavalcarli. Analogamente la mutualità, grande conquista pubblica (oggi forse in pericolo) nasce su un terreno non sappiamo se più laico o più cristiano. Sicché non esiste una opposizione tra principi «laici» e «cristiani», né tra principi «buoni» e principi «cattivi», ma se opposizioni vi sono, allora tra principi accettabili e principi non accettabili, in prospettiva, per tutti.
    La ragione per cui respingo la contrapposizione è che mi pare che essa rimanga nel gioco che vorrebbe invece non giocare.
    Questo gioco sembra insinuare che l'unico esito di un'educazione cristiana debba essere o la stretta osservanza di regole religiose oppure la perdizione e il nulla.
    Proprio quest'alternativa sarebbe da respingere a limine, come risultato di una cattiva scuola. Persone che escono da importanti scuole danno, talvolta, l'impressione di vivere con l'aria di chi è stato messo davanti ad una scelta praticamente impossibile o insensata tra l'accettazione di formule autoritarie e un vuoto. Una cultura, i cui esiti consistessero in una polarizzazione di questo tipo, si renderebbe responsabile proprio essa di quello stato di fatto, che conduce all'abbandono del riferimento religioso, come mi sembra abbia bene messo in evidenza, tra altri, G. Vattimo nel suo intervento Credere di credere (Milano 1996), che così pronta e sospetta disapprovazione ha suscitato in un certo mondo cattolico. Responsabili del distacco dalle idee religiose sono proprio quei religiosi che le difendono con tanto accanimento, ma con tesi il cui esito, si direbbe, è proprio quello della scelta tra assoluto e nulla. Il cri stianesimo consiste invece nella negazione più schietta e convinta di tale tragica alternativa. Ma a questa alternativa sembrano portare certe impostazioni della cultura universitaria nel nostro paese.
    Dove si presenta l'alternativa tra un diktat e un nulla rovinoso e fallace, siamo in presenza di un cattivo esito dell'educazione cristiana. Un'educazione di questo tipo e con tali esiti dovrebbe essere vietata in uno stato moderno. Sento che a questo proposito potrei essere molto intransigente e tradire i miei principi di tolleranza.
    La nostra educazione ci porta invece a integrare un certo principio di laicità, senza il quale non si dà alcuna società moderna, con elementi della tradizione occidentale intrisa di una cultura cristiana che nessuna modernità ha mai del tutto rifiutato.
    Oggi le discussioni etiche risentono di certi equivoci che sarebbe bene venissero evitati. Un esempio.
    Accade che si telefoni per conoscere la posizione dei valdesi su questioni connesse alla bioetica. Recentemente mi è stato anche chiesto - con molta discrezione che cosa pensano i valdesi della trasfusione del sangue. Il mio imbarazzo, in casi come questo ultimo, è indescrivibile. Ci avviamo forse verso un'epoca in cui ogni singolo gruppo religioso avrà le sue teorie su a, su b, su tutto? Ha senso la domanda in se stessa? Che cosa c'immaginiamo che sia il cristianesimo, se ci vengono poste queste domande? Non credo che sulle trasfusioni nessuno possa avere opinioni diverse da quelle di un medico. Non credo che sulla prostituzione si possano avere idee diverse da quelle di un sociologo, oppure di una commissione parlamentare seria e onesta.
    Ai religiosi si dovrebbe dunque chiedere di non porre su ogni questione etica una specie di mozione di fiducia come fanno i governi in certe procedure parlamentari. Altrimenti dovremo discutere che cosa sia la fede in Dio e non ne usciremmo più, anche se, in altre occasioni, potrebbe essere una discussione non inutile.
    Che cosa chiedere invece ai laici? Chiedere non di opporre assoluti ad assoluti, ma di stabilire un consenso pubblico al di fuori di ogni preteso assoluto, facendo leva sul fatto che il campo dell'etica è il dominio dove ogni vera scelta e decisione deve essere rivedibile e provvisoria, alla luce di principi meglio compresi e meglio applicati.
    Mi appello al buon senso. Sfido chiunque a mettere sullo stesso piano l'annientamento di milioni di persone ieri nel lager o oggi a causa di fame e malattie perfettamente curabili, e l'annientamento, per usare il medesimo termine, di 70.000 embrioni umani in qualche cella frigorifera in uno stato di conservazione che non ha nulla di propriamente umano. Credo che chiunque farebbe una differenza.
    Qual è allora il vero tema in discussione? L'etica è piena di criteri di saggezza che ne bilanciano altri e lo stesso campo giuridico è pieno di regole relativizzanti, pur in presenza di criteri oggettivi per quanto essenziali. Questa contemporaneità tra oggettivo e relativizzante è il vero tema e campo del dibattito, non la contrapposizione tra laicismo e cristianesimo.
    Del resto lo stesso cristianesimo è relativizzante. Per affermarlo, nei termini della teologia cristiana, occorre ricordare due cose.
    In primo luogo il Dio cristiano è concepito in termini trinitari cioè relazionali. Relazionale è lo stesso che dire relativo. Un filosofo italiano ben noto, Massimo Cacciari, in una sede ecclesiastica, ha ultimamente chiesto di concepire anche l'umano in termini trinitari, il che significa, se le parole hanno un senso e non sono soltanto formule più o meno brillanti, che anche l'umano va concepito in termini relazionali, cioè relativi.
    In secondo luogo, il cristianesimo si presenta appunto come una teoria antidualistica, che esclude per principio le contrapposizioni polarizzanti tra tutto e nulla e imbocca invece la strada della contraddizione. Proprio questa strada porta lontano perché risolve i problemi nei fatti prima che nei principi. Ma lo fa con un senso profondo sia della gradualità, sia della non "vanità" complessiva dell'impresa umana.
    Il cristianesimo appoggia dunque in qualche modo anche il dominio del relativo. Lo può fare proprio in base a propri principi. Non rinuncia all'assoluto nel senso della sua fede in Dio, ma proprio questa le impedisce di assolutizzare se stesso. La religione, o la filosofia, che ancora parla di assoluto può essere soltanto quella che ha rinunciato a prenderne il posto, come anche Hegel, a modo suo, s'intende, c'insegna (Enciclopedia § 74). Così la religione non è l'ultimo rifugio dell'assoluto, ma è proprio il luogo in cui si ricorda a tutti coloro che sono capaci d'intenderla, l'immensa verità del relativo.
    Che cosa c'è mai in questi principi di così antagonistico al Manifesto dell'etica laica? Non solo non si tratta di affermazioni antagoniste, ma si tratta invece essenzialmente di quegli stessi principi che vengono in altre parole enunciati anche nel Manifesto.
    Per quanto mi riguarda li enuncerei come ricerca dell'equilibrio tra senso critico e audacia, tra giustizia e equità, tra solidarietà e rigore.
    Credo di cogliere bene l'intenzione del Manifesto, al di là della sua formulazione, quando dico che il terreno etico è appunto quello sul quale siamo chiamati a confrontarci come cittadini, a confrontarci non a lume di naso, oppure ciascuno gridando i propri assoluti, bensì facendo leva sui motivi più profondi della nostra tradizione culturale, animata dalla libertà scientifica, dall'autonomia delle coscienze, dalla ricerca di miglioramento e dalle nozioni-guida di solidarietà e di mutualità. Tutte cose non scontate, ma pagate una per una da lunghe lotte e polemiche. Non c'è opposizione tra laicismo e cristianesimo, ma l'uno e l'altro formano il substrato della nostra cultura, intrisa di ideali illuministici eppure ancora ben lontana dal rinunciare al suo fondamentale cristianesimo.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Le ragioni del dialogo.
    di ADRIANO PESSINA
    Centro di Bioetica, Università Cattolica, Roma.
    Premessa[1]
    Gli estensori del Manifesto di bioetica laica hanno avuto indubbiamente il merito di richiamare l'attenzione sulla necessità di un confronto teorico e, se possibile, di un accordo pratico su alcuni principi in grado di indirizzare sia la futura riflessione nell'ambito della bioetica sia l'attività legislativa.
    È un progetto ambizioso, ma assolutamente condivisibile, se vuole porsi, per così dire, «a monte» di quelle risoluzioni pratiche e di quelle scelte politiche, che pure dovranno essere prese, per regolare l'attività biomedica, che ha rilevanti ripercussioni morali, sociali e culturali e coinvolge non soltanto il campo della ricerca e della sperimentazione ma anche la concreta esistenza di molti cittadini. Occorre quindi sviluppare un'ampia riflessione nella convinzione che, comunque, la materia trattata resterà in via di evoluzione: questo progetto, mi sembra, vuole quindi costituire le premesse teoriche in grado di dar luogo, in seguito, a possibili accordi laddove non si verificasse una motivata convergenza intorno ad alcuni criteri regolatori della prassi biomedica.
    Qualche perplessità va peraltro espressa per la sede che si è scelta per «lanciare» questo manifesto: per quanto autorevole, un quotidiano resta pur sempre un mezzo che risponde ad esigenze comunicative differenti da quelle richieste da una comunicazione filosofica. La necessità della semplificazione, connessa con l'intento di trovare un consenso che coinvolga il più vasto pubblico, può infatti andare a discapito del rigore della proposta. Di contro, peraltro, si può valorizzare questa scelta apprezzando l'idea di sollecitare una maggiore attenzione da parte dell'opinione pubblica nei confronti di problematiche che non sono soltanto «di confine» ed hanno, e sempre più avranno, un'ampia ricaduta sociale. L'aver promosso, sebbene in tempi così rapidi, un convegno che cerchi di fissare quali siano le condizioni di confronto e di dialogo oggi praticabili all'interno di una comunità di ricerca sorretta da impostazioni e metodologie differenti, è segno comunque di una positiva volontà di superamento dei limiti di una proposta veicolata in chiave giornalistica, senza che peraltro venga trascurata l'esigenza di mantenere anche un serio spazio di dibattito aperto ad un pubblico di non specialisti.
    Il Centro di Bioetica dell'Università Cattolica di Roma aderisce oggi a questa iniziativa con la speranza che si inauguri un confronto teorico meno condizionato da quelle strategie comunicative che erano presenti nel Manifesto stesso. Con ciò si intende sottolineare un atteggiamento di dialogo che va ben oltre la semplice tolleranza e si costituisce nei termini del rispetto e della consapevolezza che la verità si acquisisce tramite un confronto dialettico. Il rispetto per l'altro è uno dei valori che appartengono alla tradizione propria del personalismo filosofico: ed è proprio a motivo di questa considerazione che le altrui tesi sono considerate seriamente ed anche criticamente, come meritano.
    Detto altrimenti: noi pensiamo che il «dialogo» non sia semplicemente la condizione della consistenza sociale e una delle modalità di relazione tra persone civili, ma la sostanziale condizione per la verifica della consistenza teorica delle proprie valutazioni morali e dei propri convincimenti.
    L'auspicio che è sottinteso a questa mia relazione è perciò che si rafforzino ambiti di «dialogo», ovvero di confronto e non soltanto di «mediazione» politico-culturale. L'ampliamento di una «comunità» di ricerca autenticamente tesa ad individuare i criteri necessari ad orientare le scelte in campo bioetico e a fornire indicazioni per lo sviluppo tecnico-scientifico, è perciò un progetto serio e positivo, che va valutato positivamente.
    Fatta questa premessa, data la necessità di contenere i termini di una riflessione che, di per sé, meriterebbe un'articolata serie di considerazioni, mi limiterò a qualche cenno su alcuni punti che, a mio avviso, possono costituire, se non la base, almeno l'avvio di un più ampio e consolidato dialogo e con fronto, che comunque di fatto già esiste, sebbene all'interno delle pubblicazioni specialistiche dedicate alla bioetica.

    Chiarificazione linguistica e pluralismo culturale
    La prima condizione per un dialogo è data da quella che definirei la «necessità di una chiarificazione linguistica».
    Non è infatti priva di fondamento l'impressione che molte volte si usino le medesime parole con significati assolutamente differenti e che, favoriti da una certa polisemia, non si sfugga alla tentazione di costruire un'immagine inconsistente, se non addirittura ridicola, delle tesi di coloro che appartengono ad orizzonti culturali differenti dal proprio. Per comprendersi, ma anche per discutere, è necessario sapere non soltanto di che cosa si parla ma anche che cosa intendano i nostri interlocutori con certe parole.
    A questo proposito proporrei il definitivo embargo del termine «laico», che ognuno usa come vuole (come già ricordava E. Agazzi nel suo intervento sul "Sole 24 ore") e che spesso designa la pretesa di qualcuno di poter parlare a nome di tutti, escludendo posizioni teoriche differenti, semplicisticamente definite come «visioni di fede», e come tali in grado di vincolare soltanto coloro che le condividono.
    In particolare, l'individuazione di due poli contrapposti, desinati come «bioetica cattolica» e «bioetica laica» rischia di essere strumentale e di introdurre elementi di confusione nel dibattito laddove non si venga a chiarire in nome di quale «titolo» una posizione si autodefinisca in un modo o in un altro.
    Un'attenta considerazione dell'attuale letteratura bioetica permette in realtà di fare distinzioni meno semplificatorie:, infatti si possono distinguere bioetiche filosofiche e bioetiche a base teologica o confessionale, intendendo queste ultime nel significato specifico che loro compete, cioè concezioni che dipendono direttamente da una religione storica, positiva, come la religione ebraica, quella cristiana, musulmana o buddista. Sia chi suole invocare il pluralismo come valore, sia chi lo consideri come condizione di un dialogo o semplicemente come un dato di fatto, deve prendere atto dell'esistenza di diverse voci teoriche, tutte chiamate a contribuire ad un serio ripensamento della questione bioetica.
    Il pluralismo, quindi, va inteso in duplice modo: all'interno delle bioetiche filosofiche e tra queste ultime e quelle schiettamente religiose o confessionali. E poiché, come nel caso delle riflessioni sviluppatesi all'interno della fede cattolica, alcune proposte vengono argomentate nel convincimento che esse possano venir comprese e condivise anche da coloro che non si collocano nella fede nel Cristo Risorto, è giusto che vengano prese in considerazione e discusse anche da coloro che si collocano in una prospettiva metodologica di stampo strettamente filosofico. A ciò si aggiunga che un coraggioso atteggiamento di confronto culturale, pur tenendo conto delle distinzioni sopra menzionate, dovrebbe al fondo includere tutte le posizioni bioetiche, al fine di verificare le possibilità di una convergenza teorica prima di accedere alla mediazione pratica, ad un consensuale accordo pragmatico.
    Ciò che invece risulta illegittimo, a mio avviso, è il tentativo di qualificare una teoria filosofica come «cattolica» o come «laica» (qualora, ovviamente, quest'ultimo termine assumesse esso stesso una connotazione «dogmatica»): esiste forse un'ortodossia filosofica laica e un'ortodossia filosofica cattolica? Penso, motivatamente, proprio di no.[2]
    Su questa osservazione innesterei un altro punto.
    Il presidente della Consulta di Bioetica, il professor Defanti, intervenendo sul "Sole 24 ore" nel dibattito sul Manifesto di bioetica laica, ha infatti espresso una tesi che mi sembra si discosti da quella del Manifesto stesso in quanto egli non si limita ad affermare la tolleranza per le concezioni «religiose» del mondo, ma formula un criterio metodologico che dovrebbe sancire la qualità della bioetica «laica». Questo principio è espresso nei termini di un'ipotesi, ragionare in bioetica «come se Dio non ci fosse - etsi Deus non daretur - ». Questo principio, aggiungeva Defanti, non va inteso come negazione ma ovviamente nemmeno come affermazione - dell'esistenza di Dio (ciò che si ritiene di non poter provare nemmeno si può confutare), ma come, se ben ho inteso, «terreno comune» su cui innestare il dialogo tra le diverse prospettive e tradizioni morali. In questo modo viene ripresa anche l'impostazione che fu di Scarpelli, pensatore che in Italia si fece promotore di quella linea di riflessione che si suole denominare come «non-cognitivismo etico».
    Anche qui mi permetterei di fare un' altra proposta. Innanzi tutto quell'impianto potrebbe venir definito senza usare il termine «laico»: esso esprime, con accentuazioni che però ultimamente non condivido, l'idea della cosiddetta «etica autonoma», cioè di quella riflessione che alcuni (come Gadamer) vorrebbero far risalire persino ad Aristotele, ma che ha come autentico referente storico Kant. A partire da Kant si ritiene che si possano individuare delle norme di condotta senza entrare in merito al problema dell'esistenza o meno di una finalità ultima della vita, e assumendo come impossibile ogni dimostrazione dell'esistenza di Dio, condizione, invece, ritenuta necessaria da coloro che propongono un'etica teleologica non utilitaristica. Ma per Kant, come è noto, la tesi dell'esistenza di Dio, che può essere soltanto un postulato, oggetto di una «fede», sia pure una «fede razionale», continua a svolgere una sua funzione nell'ambito della riflessione morale.
    Non è questo il momento per discutere questa prospettiva: personalmente condivido l'idea che la morale abbia una sua autonomia ma non ritengo che essa sia totalmente scindibile da una prospettiva metafisica. Infatti non è la stessa cosa pensare ed agire come se Dio non ci fosse o come se Dio ci fosse: di fatto ci sono anche alcuni negatori dell'esistenza di Dio che poi propongono valori e si comportano come se Dio ci fosse.
    Una «pretesa» neutralità finisce di fatto con introdurre surrettiziamente elementi che ultimamente dipendono da una non esplicitata impostazione metafisica. Già Sartre, e prima ancora Nietzsche, ricordavano con lucidità le conseguenze che si dovrebbero trarre sul piano antropologico qualora si pensasse sul serio l'inesistenza di Dio. E la storia della filosofia testimonia come sia difficile negare un Fondamento ultimo dell'intelligibilità del reale. Non si può infatti scordare che la concezione dell'uomo, della sua vita e della sua relazione con i suoi simili e con il suo ambiente, dipende in larga parte da quei presupposti metafisici, che possono anche non intervenire direttamente nell'argomentazione etica, ma che di fatto le sono alle spalle.
    Per il metafisica, come per l'uomo religioso, infatti, certe connessioni tra Dio e l'uomo esistono ed hanno una loro funzione nell'interpretazione della scala dei valori. E questa osservazione dovrebbe valere anche per l'ateo professo, cioè non per chi nega la possibilità di provare con la ragione l'esistenza di Dio, ma per chi nega che Dio sia. Nessuno pretende che si accetti dogmaticamente la prospettiva metafisica, né quella anti-metafisica, ma che semplicemente non si escludano dal dialogo tutte le posizioni «forti», per privilegiare un vago scetticismo di maniera che ha il solo torto di non essere sufficientemente scettico anche verso se stesso.
    Non è questa, ovviamente, la sede per aprire una discussione su questi problemi. Il motivo per cui li ho, per così dire, evocati, deriva, anche in questo caso, dall'esigenza di essere propositivo e di formulare quindi una diversa «condizione di dialogo», che formulerei con la richiesta di lasciare «spazio» sia a coloro che coltivano una riflessione metafisica (ed è, per esempio, il caso di coloro, come chi vi parla, che si collocano all'interno di un personalismo ontologico, che ha radici metafisiche), sia di chi si colloca in una fede storica o in una prospettiva di «fede» razionale o, invece, crede che Dio non sia.
    La prima condizione formale del dialogo e della ricerca comune è che non si escluda a-priori il confronto con tutti coloro che intendono porre delle ragioni per difendere e fondare dei valori: tutto questo nella speranza che si possano trovare tesi condivisibili anche partendo da presupposti differenti (e in alcuni casi persino opposti). Se questa ipotesi di lavoro manca allora èimpossibile ed inutile iniziare una qualsiasi ricerca comune.
    Se il dialogo deve essere a tutto campo, penso che si debba e si possa discutere senza richiedere che si assuma come unico presupposto l'agnosticismo, ma prendendo le mosse da ciò che si presenta nell'esperienza e aprendo un confronto su quei criteri interpretativi che, fondati e giustificati in modo differente, sono messi in atto dalle diverse tradizioni filosofiche per individuare norme di comportamento. Esperienza e ragione sono, in fondo, i due poli di ogni riflessione: siano anche le uniche condizioni per andare insieme a verificare come le rispettive teorie sono in grado di interpretare in modo significativo l'esperienza.

    Progresso scientifico e autonomia Su altri due punti mi sentirei di fare ulteriori annotazioni: il primo riguarda la relazione tra progresso scientifico-tecnologico e i compiti propri della bioetica come disciplina interdisciplinare ma a valenza filosofica; il secondo riguarda invece la valorizzazione del significato dell'autonomia personale, espressione che, una volta ampiamente chiarita, potrebbe costituire un punto di accordo preliminare.
    A mio avviso lo scopo attuale della bioetica è quello di costituirsi come coscienza critica dello sviluppo scientifico e tecnologico. Questo comporta almeno due elementi: una chiara consapevolezza epistemologica e il convincimento che sia necessario trovare dei criteri per indicare quali ricerche siano da privilegiare, quali da vietare, quali da permettere.
    Di fatto la scienza non è mai «neutra»: essa viene esercitata in un contesto storico-culturale determinato, subisce l'influsso positivo e negativo delle condizioni economiche, si intreccia con esigenze che non sono mai soltanto conoscitive, ha una pesante e potente ricaduta sull'esistenza quotidiana di moltissimi uomini, almeno di tutti quelli che appartengono alle cosiddette società avanzate.
    Basterebbe la scarsità delle risorse ad imporre l'esigenza di una regolamentazione dei progetti di ricerca: ma a questo si deve aggiungere che in realtà non soltanto il fattore economico richiede l'individuazione di criteri che la comunità scientifica (e in essa la «comunità bioetica») deve porre, ma anche una questione morale. Molte conoscenze richiedono infatti interventi manipolatori che debbono essere valutati moralmente poiché incidono direttamente sulla vita di alcuni uomini e sulle vite future. Oggi non è più possibile proporre l'ingenua separazione tra una scienza pura, sempre buona in sé, ed una tecnologia che può percorrere vie perverse: nelle conoscenze sperimentali tecnologia e scienza si condizionano a vicenda e spesse volte è proprio un'esigenza tecnologica, cioè operativa, a dettare le linee di una ricerca scientifica.
    Senza aprire già un confronto contenutistico, penso che si debba partire dall'assunto che la bioetica non può registrare semplicemente le dinamiche delle ricerche scientifiche ma deve saper intervenire, coinvolgendo, in linea di principio, gli stessi scienziati, nella stessa progettualítà scientifica, fornendo criteri capaci di salvaguardare non soltanto un generico interesse generale ma anche il bene specifico degli uomini e dei cittadini sui quali ricadranno gli esiti dell'attività scientifica. La bioetica, ponendo ad oggetto della propria indagine una specifica attività umana. quella che interessa direttamente la vita umana, non può esimersi dal considerare criticamente sia gli sviluppi sia i progetti della ricerca scientifica: essa deve saper riproporre quel tema della responsabilità morale e civile del sapere scientifico che, dopo tempi di appassionati confronti, non privi di storture ideologiche, sembra oggi essere abbandonato in favore del nuovo mito del «buon scienziato» che dovrebbe essere anche «scienziato buono». Il confronto tra le diverse prospettive bioetiche può, o almeno dovrebbe, incrementare un più acuto senso critico che, senza scadere nello scetticismo o in un ingiustificato atteggiamento antiscientifico, permetta lo sviluppo di una nuova stagione culturale, non più segnata da una immotivata separazione tra scienza e filosofia ma anche immune da una indebita confusione tra quanto appartiene all'una e quanto è specifico dell'altra.
    In ultimo un richiamo al concetto di «autonomia», molto valorizzato dal Manifesto. Personalmente ritengo che esso indichi un aspetto decisivo della condizione umana nella sua valenza etica. Una lunga tradizione filosofica vede nell'autonomia dell'uomo la modalità con cui si afferma la responsabilità concreta del singolo rispetto ai suoi simili. L'autonomia perciò non è sinonimo di arbitrarietà ma fonte di quella moralità vissuta che si apre alla cura e al rispetto della vita e delle varie condizioni di vita di coloro che non sono in grado di esercitare l'autonomia della volontà perché si trovano in particolari fasi della vita (dallo sviluppo alle possibili malattie che ledono questo eserci zio dell'autonomia).
    L'autonomia, in sé, è perciò la condizione necessaria della moralità: ad essa si oppone sia la pura eteronomia della coazione sia l'eteronomia dovuta all'assenza di discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male moralmente. Ma non è condizione sufficiente: occorre infatti stabilire quali siano quei valori che l'uomo, proprio perché autonomo, cioè libero, deve seguire per realizzare la propria umanità, cooperando alla crescita dell'umanità altrui. Dovere ed autonomia sono strettamente connessi, poiché non avrebbe senso individuare una necessità morale laddove esistesse un totale determiniamo della volontà.
    Perciò, anche in questo caso, un termine può appartenere a più tradizioni ma rischia di esprimere diverse concezioni dell'uomo. Iniziare con uno sforzo di chiarimento delle posizioni reciproche, dei presupposti e del linguaggio che appartengono alle singole tradizioni culturali, può essere uno dei modi per rinforzare quei dialogo che, al di là di ogni ingenuo fattualismo, tende comunque ad andare «a vedere come stanno le cose», ed aspira a trovare, nella consapevolezza della rilevanza decisiva dei problemi posti in gioco, dei criteri capaci di definirsi nei termini della verità.
    L'auspicio, per quanto mi riguarda, è quello che comunque vengano a cadere quelle intemperanze verbali che spesso hanno vicendevolmente contraddistinto, nel passato, certe tappe del confronto, specialmente quello attuato e pensato avendo sullo sfondo l'esigenza di ottenere consensi. Una discussione ferma e pacata dovrebbe infatti avvenire senza sacrificare il rigore dell'argomentazione alla retorica: è infatti condizione necessaria di ogni dialogo la condivisione di una meta, che in filosofia è, prima di tutto, la scoperta della verità.

    Note
    nota 1 Il presente testo è stato preparato in vista del Convegno indetto per il giorno 11 luglio 1996 a Milano ed è stato parzialmente letto in quell'occasione, perciò non contiene riferimenti ad aspetti del dibattito emersi nell'ambito del Convegno stesso e, tanto meno, a questioni sollevate in seguito.
    nota 2 Non è certo questo il luogo e il momento per aprire il discorso su questi temi: ho accennato ad essi soltanto per rimarcare come sia auspicabile evitare l'introduzione di elementi che invece di facilitare il confronto lo rendano equivoco. In ogni caso, la presente comunicazione si colloca esclusivamente a livello filosofico e il relatore non ha né la pretesa, né l'autorità per esprimere o rappresentare un'eventuale bioetica cattolica in senso confessionale.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    La bioetica e il problema dello statuto dell'embrione.
    di LUIGI LOMBARDI VALLAURI
    Università degli Studi, Firenze; Università Cattolica, Milano.
    Come uomo che "non può non dirsi cattolico", e che guarda alla trave nel suo occhio prima che alla pagliuzza in quello altrui, sono davvero lieto che abbiano fatto a gara di laicità gli eredi culturali di quei poteri che il 17 febbraio del 1600 hanno bruciato vivo Giordano Bruno dopo avergli immobilizzato la lingua, o che nel Concilio ecumenico di Firenze del 1442 hanno sancito che tutti i non cattolici "statim in infernum descendunt". Mi pare sia molto confortante per l'Europa questa evoluzione. Adesso tutti, laici e cattolici, sono laici. Ossia tutti rifiutano il principio di autorità. Per quello che riguarda il papa, la sua limitata autorevolezza (al di fuori delle asserzioni dogmatiche su stati di cose inverificabili, come i processi generativi endotrinitari o la verginità e immunità dal peccato originale della mamma di Gesù) è evidente anche proprio in campo morale: mi limito, come esempio, all'inferno per il bacio senza escalation, "sine ulteriori consensu et sine periculo pollutionis", comminato da Alessandro VII Chigi nel 1666, a chiusura di un dibattito durato oltre un secolo su questo grave problema. Il punto che volevo fare (scusate l'anglismo: lo commetto apposta) è che l'etica laica è tale anche perché rifiuta l'autorità di Dio in quanto Dio. L'etica c'è, ed è indipendente da Dio, non solo, con Grozio e contro Dostoevski, anche se Dio non esiste ("etsi Deus non daretur"), ma anche se Dio esiste ("etsi Deus daretur"). Posto che Dio promulgasse un'etica contraria al riconoscimento della dignità ontologica dell'uomo, per esempio un'etica secondo cui i padri devono immolargli i figli primogeniti, noi saremmo davanti a un tiranno etico e a questo tiranno sarebbe doveroso disobbedire anche se lui è in grado di mandarti all'inferno perché è più grosso di te. Come non può promulgare una matematica in cui due più due fa cinque, Dio non può promulgare un'etica contraria alla verità etica come quella che ha reso benemerito Abramo. L'etica è laica "etsi Deus daretur", cioè anche (per così dire) in faccia a Dio. Comunque, Dio è imperscrutabile: dalla sua essenza filosoficamente studiata non si può trarre alcun contenuto etico se non in tema di doveri afferenti alla virtù di religione. Quindi non ha più senso, anzi non ha mai avuto senso, parlare di una bioetica laica e di una bioetica religiosa, se non sul piano storico e psicologico. Come scriveva recentemente il cattolico Possenti, c'è un'unica etica, quella che si fonda non sull'autorità di provenienza ma su argomenti: l'etica laica-universale. E io auspico con tutto il cuore un'etica fatta unicamente di tesi e argomenti senza Vaticani e senza centrali laiche, un ampio ridente paesaggio solo tesi e argomenti.
    Con questo ho detto tutto quanto avevo da dire su etica laica e cattolica, e quindi, per approfittare del tempo che resta, mi permetto, oltre che parlare del problema bioetica, di parlare anche di un problema bioetico, il problema degli embrioni in vitro. E uno dei punti salienti che dividono la cosiddetta bioetica laica dalla cosiddetta bioetica cattolica. Ed è un problema attualissimo perché si sta proprio discutendo della sorte di alcune migliaia di embrioni congelati in Gran Bretagna giunti alla data di scadenza, 5 anni di vita (se si può parlare di vita per l'esistenza di embrioni crioconservati). Questi embrioni rischiano di non essere più in buona salute (se si può parlare di salute) e quindi creare problemi se venissero impiantati. lo credo che il più illuminante problema della bioetica sia quello dello statuto dell'embrione in vitro, perché scinde la questione dell'embrione, definitivamente, dalla questione gravidanza e aborto con le sue componenti femminili e femministe e fa apparire nella purezza la dimensione ontologica: qui non c'è la donna, la sua vita, la sua maternità, il suo corpo, c'è soltanto l'essere dell'embrione.
    lo vi suggerisco di collegare il problema dell'embrione in vitro al problema che io chiamo dell'incubo dell'incubatrice. Se ci fosse un'incubatrice capace di portare a termine tutte le vite concepite fin dall'istante della fertilizzazione dell'ovulo (non è qualcosa di impossibile, credo che le difficoltà maggiori riguardino la sostituzione della placenta; comunque, lasciamolo a livello di esperimento mentale), tutti gli embrioni congelati potrebbero in teoria venire salvati senza l'angosciosa domanda a quale madre li faccio portare: devo precettare tremila madri? quali? quelle che hanno dato l'ovulo? le altre? quelle cattoliche del Movimento per la vita? (forse sarebbe la soluzione più logica). Con tremila incubatrici il problema sarebbe risolto. Anzi, più generalmente sarebbe risolto il problema del diritto alla vita di tutti gli embrioni concepiti, anche in utero. La donna che volesse abortire avrebbe il diritto e il dovere di consegnare l'embrione all'organizzazione sanitaria per la medicina prenatale, che avrebbe il dovere, in base all'art. 7 della legge italiana sull'aborto, di portarlo a termine in incubatrice. Se avesse successo il referendum promosso da Carlo Casini per conferire i diritti dell'uomo al concepito, è in questa direzione che ci si dovrebbe muovere: una capillare organizzazione di medicina prenatale destinata a tutti gli esseri umani concepiti, compresi i milioni di embrioni naturali che rischiano il non annidamento. Se si realizza l'incubo dell'incubatrice, il problema dello statuto ontologico dell'embrione appare, ripeto, in assoluta purezza, completamente scisso dai problemi delle donne.
    Allora, qual è lo statuto dell'embrione. lo confesso di trovarmi imprigionato in un koan, cioè in un rompicapo insolubile, di quelli che affrontati seriamente fanno passare, secondo il buddismo Zen, dal piano della ragione a un altro piano, superiore (che non sono sicuro di sapere esattamente quale sia).
    Da una parte vedo, con evidenza, che l'embrione è un individuo-uomo in atto, è semplicemente un uomo che comincia a vivere, a partire dallo stadio zigote (se c'è scissione e diventano due, gli uomini sono due; se diventano tre, gli uomini sono tre). Quando si parla del 14º giorno, della stria primitiva, di qualsiasi altro criterio che divida l'indivisibile diacronia dell'individuo (individuo vuol dire indivisibile), a me sembrano tutti arrampicamenti sugli specchi. Vedo con evidenza che a partire dalla fusione dei pronuclei c'è un individuo-uomo in atto, che è in potenza solo all'acquisizione di capacità ulteriori come io sono in potenza spero - all'apprendimento del sanscrito, ma non è in potenza all'acquisizione della natura di uomo. Questa è la prima evidenza.
    La seconda evidenza, forse più immaginativa che intellettuale (ma l'immagine può essere veicolo di ragioni che poi vengono esplicitamente), è che io mangio castagne. Ora, tutte le volte che viene mangiata una castagna viene impedito di vivere a un castagno, a un grande castagno in fiore. lo mangio nocciole. Chi mangia nocciole rompe involucri, protettivi, li schiaccia, li spacca col martello, ne estrae il contenuto con la sua bella forma a nocciola, lo stritola tra i denti, lo riduce in poltiglia e interrompe la vita, già iniziata, di un arbusto di nocciolo in fiore. Ebbene tutti noi siamo perfettamente d'accordo che con una ciliegia messa nelle condizioni opportune si fa continuare a vivere un ciliegio e con un embrione crioconservato messo nelle condizioni opportune si fa continuare a vivere un uomo, e tutti noi mangiamo ciliege, e siamo più pronti a spaccare con una martellata una ciliegia che a segare alla base il ciliegio in fiore.
    lo avevo pensato a organizzare durante il convegno un piccolo happening Zen: portare un ceppo, simile a quello delle decapitazioni nella Torre di Londra o della ghigliottina, dove con una sgorbia avrei scavato un piccolo buco, più o meno del diametro di un nocciolo di ciliegia: ci mettevo il nocciolo di ciliegia e con una martellata lo spiaccicavo davanti all'uditorio. Devo dire mi ha fatto così impressione questo atto che non me la sono sentita e mi sono addirittura chiesto se non devo diventare frugivoro o vegano, se non devo diventare uno che mangia solo foglie e polpe ma non magia noccioli, frutti o semi, noci, nocciole, castagne, mele intere, grano, cereali. Mi sono chiesto se non c'è qualche giainista vegetale che ci ha già pensato. Sinceramente, all'idea di spaccare sul ceppo la testa di quel ciliegio non me la sono sentita. Un marron glacé è un feto di castagno conservato nello zucchero. E tutti noi, quando possiamo permettercelo, mangiamo marrons glacés. Forse l'umanità del futuro guarderà a noi che mangiamo marrons glacés come noi guardiamo agli schiavisti.
    Allora io sono in questo koan. Da una parte c'è irrefutabilmente, l'individuo-uomo, lo zigote che si autotrasforma in embrione, feto, bambino, adulto; e dall'altra mi fa molta più impressione che schiacciare una ciliegia tagliare un ciliegio in fiore.
    Vorrei concludere ripetendo, in forma ancora più netta e accentuata, il koan e aggiungendo alcune cose sul diritto.
    Sul koan. Invito pressantemente i cattolici, o - senza più chiamarli cattolici - i sostenitori della tutela incondizionata dell'embrione, a farsi carico del problema delle centinaia di migliaia di embrioni all'anno, in Italia, che non si impiantano. Come facciamo a tradurre operativamente il principio "gli embrioni presi sul serio" senza affrontare questo problema ineludibile, qualitativamente identico a quello degli embrioni crioconservati e quantitativamente molto più grave. Dire che la natura darwinianamente li elimina non è un argomento, perché la natura sappiamo tutti che ci fa ammalare e morire ma noi con la medicina cerchiamo di difenderci, non registriamo solo approvazione o rassegnazione il comportamento della natura. Se il Movimento per la vita vuole che siano loro riconosciuti i diritti del cittadino italiano, il primo è il diritto costituzionale alla salute e la prima elementare forma di salute è la vita normale; quanto al codice penale, non occuparsi di un minore di anni dieci abbandonato o altrimenti in pericolo (qui, in pericolo di morte) è omissione di soccorso. lo spero che il 12 luglio Francesco D'Agostino, quando presenterà il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica sullo statuto dell'embrione, dica che il problema non è irrilevante. Sarebbe strano che un Comitato nel quale sono nettamente maggioritari i sostenitori della tutela incondizionata del concepito non si facesse carico di questa strage silenziosa per omissione. È una cosa che io sto dicendo da molto tempo, e che non trova nel Movimento per la vita la minima considerazione. Allora viene quasi da pensare che il referendum per attribuire al concepito i diritti del cittadino sia una bandierina di riconoscimento, come quelle dei gruppi di turisti giapponesi, per dire "noi siamo il popolo della vita", che serva più per asserire un'identità di gruppo che per tutelare gli embrioni che muoiono.
    Invece ai laici io vorrei nuovamente sottoporre l'altro lato del koan: come si difende il disponibilismo, cioè la tesi che l'embrione è una vita di cui si può disporre, senza cadere nell'adultismo, cioè senza privilegiare l'adulto in quanto adulto e non in base a caratteristiche sostanziali che lo distinguano dall'embrione. Infatti per ogni aspetto di "minore umanità" riscontrabile nell'embrione si trovano anche classi di adulti che ce l'hanno e della cui vita invece è vietato disporre: quindi chi discrimina negativamente l'embrione commette fallacia di adultismo simile alle fallacie di razzismo, sessismo, specismo tanto (e giustamente) invise proprio ai laici.
    lo mi sento tutte e due le cose. Sono antiabortista (credo anzi di essere una delle persone che ha contribuito a salvare più vite prenatali in Italia come fondatore del primo Centro di aiuto alla vita: non mi sono limitato a fare il moralista teorico) e al tempo stesso, sia pure per ora con scarsi argomenti logici e ontologici, non riesco a ricusare l'evidenza dell'immagine "castagno > castagna", "ciliegio > ciliegia", evidenza che sembra valere per gli uomini e per gli ordinamenti giuridici di tutta la Terra.
    Sul diritto vorrei solo riprendere un momento cose dette a Convegno da P. Cattorini, F. Viola e A. Santosuosso. Cattorini mi sembra classificabile come un pluriprospettivista nel senso dato al termine dal compianto Alberto Caracciolo (per esempio nel bel volume Il problema dell'errore nelle concezioni pluriprospettivisti che della verità). Il pluriprospettivismo non coincide con lo scetticismo, il relativismo o il noncognitivismo etici: ammette una verità etica conoscibile, ma sfaccettata, prismata in punti di vista non propriamente contraddittori bensì complementari e quindi legittimi.
    Non è la stessa cosa del pluralismo puro, perché non tutte le posizioni hanno la dignità di una autentica, necessaria prospettiva. In questa linea di pensiero una bioetica pluralizzata in prospettive non postula necessariamente un diritto minimo o astensionista, un diritto senza verità. Del resto, anche il diritto liberale classico fondato sulla tolleranza ha una sua verità infrangibile, anch'esso è un diritto naturale sottratto alle vicende storiche della libertà. Questo mi consente di concordare con Viola quando chiede una costituzionalizzazione di alcuni principi bioetici fondamentali (come è avvenuto, del resto, in ordinamenti stranieri). Non credo che siamo così indietro da dover continuare a rinviare ogni intervento in termini di norme generali. Certo, l'intervento non può consistere nella diretta costituzionalizzazione di una tra le prospettive bioetiche concorrenti, occorre il filtro di una tecnica giuridica ispirata ai principi liberali e demo cratici irrinunciabili. Ma nemmeno si è costretti da questi principi a lasciare la decisione a un sistema anarchico di comitati etici sovrani. Quasi da subito, da quando facevo parte della Commissione presieduta da F. Santosuosso, io mi sono pronunciato per una funzione prevalentemente giurisdizionale, anziché legislativa, dei comitati etici. Solo bisogna stare attentissimi alla composizione delle istanze deputate a preparare l'intervento legislativo: non bisogna, per esempio, che un Comitato nazionale per la bioetica si trasformi in un Comitato nazionale cattolico (o eventualmente anticattolico) per la bioetica; occorre un Comitato, e domani una legislazione, pluriprospettivista. In accordo con A. Santosuosso mi limito ad aggiungere una modesta testimonianza di stima per l'intelligenza del diritto: intelligenza non brillante, ma solida. Non ricordo, ma approvo, chi ha detto "les intellectuels sont léger", gli intellettuali sono leggeri, dicono cose alla leggera. Bene, il diritto è un intellettuale pesante. In genere, l'antropologia filosofica che giunge a incorporarsi oggettivamente nel diritto è ponderata, è realistica. Con questo non sostengo che il diritto è particolarmente esaltante, o nobile, o simpatico. Dico che dover tradurre idee in norme giuridiche può anche far bene alle idee. La traduzione in biogiuridica potrebbe anche far bene alla bioetica.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Può la Bioetica non essere laica?
    di DEMETRIO NERI
    Università degli Studi, Messina; Consulta di Bioetica, Reggio Calabria.
    Premessa
    Questo intervento è diretto a presentare le ragioni della mia adesione al Manifesto di bioetica laica, che hanno a che fare con tre punti nodali del documento: a) l'affermazione della costitutiva laicità della bioetica; b) la fiducia nel progresso e l'ottimismo sulla nostra capacità di controllare l'apporto della scienza al progresso dell'umanità; e) il principio di autonomia come centrale nella laicità della bioetica. Esporrò ora alcune considerazioni su questi tre punti, anche alla luce del dibattito suscitato dal Manifesto. Prima di farlo, vorrei però esprimere un rilievo di natura lessicale.
    Io avrei preferito che gli estensori del Manifesto non avessero usato la parola "principi" per indicare quelli che mi sembrano piuttosto linee fondamentali o capisaldi della visione laica connaturata alla bioetica. Il termine "principio" è piuttosto impegnativo, sembra implicare è qualcosa da cui si parte e che non è ulteriormente argomentabile e non credo che questo sia quel che il Manifesto abbia voluto dire. Condivido però il senso di questo andare alla ricerca dei principi: esso esprime la sensibilità della bioetica laica al problema di come sia possibile, entro la condizione ormai irrinunciabile di pluralismo etico, costruire un minimo di tessuto morale condiviso per l'azione comune. E a questa sensibilità è legato il fatto che il terreno preferito dal discorso bioetico (laico) sia quello, indubbiamemente di assai incerta delimitazione, che sta tra l'etica e il diritto, quello cioè in cui le questioni morali acquistano un rilievo pubblico e le soluzioni normative devono poter essere, in linea di principio, difese di fronte a tutte le comunità morali. E' un punto estremamente complesso, sul quale non mi trattengo in questa sede. Noto però che esso scaturisce (e vengo così alla prima ragione della mia adesione) dalla stessa constatazione della costitutiva laicità della bioetica, che è un portato della sua stessa storia. Vorrei chiarire questa affermazione, difendendola da fraintendimento che mi sembrano piuttosto pretestuosi e sperando così di cogliere l'intenzione del Manifesto.

    L'intriseca laicità della bioetica
    In un supplemento speciale al numero 6 del 1993 dell'Hastings Center Report dedicato alla nascita della Bioetica, Daniel Callahan[l] ha osservato che per fare accettare la bioetica è stato necessario per prima cosa "mettere da parte la religione", esattamente come - aggiungo - la prima cosa che dovette fare Galileo per fare accettare la nuova scienza della natura è stata di mettere da parte la fisica aristotelica. Uno può benissimo continuare a fare fisica commentando le opere di Aristotele, ma deve sapere che sta facendo qualcosa di differente da quel che, da Galileo in poi, intende per fisica la comunità scientifica, dalla quale evidentemente egli stesso si autoesclude. Ma che cosa significa, nel nostro caso, mettere da parte la religione"? Non certo rinunciare, per fare bioetica, alla propria fede religiosa: significa semplicemente accettare alcuni vincoli, peraltro molto deboli, che scaturiscono dal modo stesso in cui si è storicamente costituito il campo della bioetica. Nello stesso fascicolo speciale sopra citato, Warren Reich ricorda che la ragione per la quale i fondatori del Kennedy Institute accolsero il termine bioetica per indicare il campo di studi al quale l'Istituto intendeva dedicarsi, fu soprattutto il fatto che il termine apparve molto suggestivo e potente: "esso - scrive Reich - suggerisce una nuova ottica, un nuovo modo di mettere insieme varie discipline, finalizzato a creare un nuovo forum che tendeva a neutralizzare l'intonazione ideologica che la gente associava al termine etica"[2]. Il campo a cui questo termine così bene si adattava era quello (secondo la ben nota definizione dell'Enciclopedia promossa dall'Istituto) dello "studio sistematico della condotta umana nell'ambito delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto questa condotta viene esaminata alla luce di valori e principi morali" e quindi, con tutta evidenza, sulla base di una schietta opzione pluralistica, che peraltro è alla base del programma di ricerca perseguito dall'Istituto, improntato ad un attento ascolto della tradizione sapienziale del passato e del presente in tutte le sue espressioni, sia religiose sia non religiose. Ciò significa che dentro la bioetica possono darsi tanti approcci ai problemi quante sono le etiche di riferimento. Ancora una volta, ciò che viene esclusa non è l'ispirazione religiosa, ma semmai la sua cristalizzazione dogmatica e cioè l'etica teologica. E la ragione di tale esclusione sta nel fatto che tali etiche (alcune di esse, almeno) non sono in grado di accettare il vincolo che deriva dal riconoscimento del pluralismo, quello per il quale, quali che siano i principi ultimi di riferimento, il valore delle posizioni normative non dovrebbe dipendere unicamente dalla loro deducibilità dai valori ultimi, ma dovrebbe puntare invece sulla forza razionale, il rigore, la coerenza e la plausibilità degli argomenti grazie ai quali quelle posizioni possono essere difese in una conversazione morale libera e pluralistica, l'unica adeguata ad un mondo nel quale nessuno può più pensare di possedere la verità: insomma, la bioetica è laica perché non contempla, tra i propri argomenti, quelli che hanno bisogno di fare riferimento a una qualche versione del principio di autorità.
    lo penso che questo è quel che gli estensori del Manifesto abbiano voluto dire affermando che la storia della bioetica è la storia di un'etica laica e non riesco a comprendere come gli esponenti del Centro di Bioetica dell'Università Cattolica di Roma (Fiori, Pessina, Sgreccia e Spagnolo, che d'ora in poi identificherò con Fiori et al.) abbiano potuto interpretare questa affermazione come implicante l'idea che esiste una sola bioetica, quella professata dagli estensori del Manifesto. Questa è con tutta evidenza una interpretazione pretestuosa, introdotta solo per amor di polemica: il Manifesto non dice mai nulla del genere e non potrebbe dirlo senza contraddire lo spirito pluralistico che lo ispira. Tra l'altro, se la laicità della bioetica viene intesa nel senso sopra precisato, allora essa coincide con l'accezione preferita da Fiori et al.: l'un metodo del filosofare come tale attuato e attuabile anche dal credente" e gli unici vincoli sono appunto metodologici, come ad es., quello sopra ricordato di non ricorrere al principio di autorità. E questo, mi pare, dovrebbe essere accettato da Fiori et al., dal momento che essi rivendicano (anche se sbagliano a farlo contro gli estensori del Manifesto) l'esistenza di tanti approcci alla bioetica quante sono le concezioni etiche che ne costituiscono la prospettiva di base. Se ben comprendo, questo dovrebbe significare che tutte le concezioni della vita moralmente buona hanno pari cittadinanza in bioetica, con l'esclusione soltanto di quelle eventuali concezioni che, in ragione di un qualche fondamento ultimo, si ritenessero in qualche modo depositarie dell'unica e sola verità. Una concezione di questo genere, ad esempio, mi sembra emergere nell'articolo di Mario A. Cattaneo, che curiosamente sembra imputare agli estensori del Manifesto l'esatto contrario di quel che imputano loro Fiori et al. e cioè di credere che esistano molte morali mentre, a suo dire, la morale è una sola e viene da Dio come la luce, anche se diverse (come mostra il riferimento a Voltaire e a Manzoni) possono essere le vie attraverso le quali ognuno di noi perviene a conoscere quest'unica morale. Non intendo discutere le tesi storiografiche sulle quale Cattaneo basa la sua convinzione: mi preme invece sottolineare che con questa base di partenza è assai difficile che uno possa poi accogliere i vincoli del dialogo morale "laico", che implicano un'attitudine genuina all'ascolto delle ragioni degli altri e quindi a non escludere di poter modificare le proprie opinioni alla luce degli argomenti addotti dagli altri partecipanti al dialogo. Non dico che si devono modificare le proprie opinioni, ma certo che si deve mostrare una concreta disponibilità a farlo, se le ragioni dell'altro sono convincenti. Ed è chiaro che una tale disponbilità è esclusa in linea di principio quando si parte dalla premessa che l'altro non può avere nulla di valido da proporre o, al massimo, che quel che di valido potrebbe avere coincide già con la nostra (unica) verità.
    Hanno ragione allora Fiori et al. quando rivendicano la loro appartenenza all'area della (delle, essi dicono) bioetica laica? Certamente sì, perché i vincoli sono metodologici e la loro osservanza va giudicata dai fatti e cioè dal modo di fare bioetica. Ciò che tuttavia mi rende perplesso è che affermazioni come quella di Cattaneo circolano abbondantemente, e con ben altra intonazione ultimativa, negli scritti degli esponenti del Centro di Bioetica. Ad esempio, una tesi del genere è stata di recente espressa da Antonio G. Spagnolo, il quale, chiudendo un articolo di critica di quel progetto di 'Convenzione' europea sulla bioetica che ha tentato faticosamente di mettere insieme differenti tradizioni culturali, etiche, religiose, ecc., scrive appunto che la morale è una sola per tutti gli uomini[3]. Ma quale, tra le diverse morali che nell'articolo di replica al Manifesto che anche Spagnolo firma vengono riconosciute, sarebbe quella che si pone come unica? Stando all'articolo sul progetto di Convezione, dovrebbe essere quella che si riallaccia alla tradizione personalistica, che dovrebbe fondare una "via europea alla bioetica", secondo uno stile di pensiero regionalizzante che, in altri autori, scorge persino l'esistenza di una bioetica mediterrranea[4] e, se si vuole, persino una sicilianità della bioetica. Con queste credenziali, ho l'impressione che, persino assumendo la laicità nel senso più debole possibile, il personalismo antologicamente fondato cui Fiori et al. si ispirano si autoescluda dall'ambito della laicità della bioetica, il che poi significa autoescludersi dal modo di fare bioetica sviluppatosi ormai a livello mondiale.

    Sul progresso della scienza
    Passiamo ora alla seconda ragione della mia adesione al Manifesto, che ha a che fare col tema della fiducia nel progresso della scienza. lo condivido questa fiducia e mi riconosco interamente nella visione ottimistica del progresso scientifico che percorre il Manifesto. E difficile argomentare qui compiutamente questa affermazione. Posso solo dire che la nostra mi sembra un'epoca in cui il livello di qualità della vita è incomparabilmente migliore che nelle epoche precedenti: certo con molti squilibri (ad es. quello tra parti ricche e parti povere del mondo, che però non starebbero meglio se progresso non vi fosse stato) e anche molti rischi, legati a quella ambivalenza della tecnologia che peraltro era cosa ben avvertita anche da quegli autori nei quali una storiografia di maniera (del tipo di quella che si esprime nelle annotazioni iniziali di Fiori et al.) insiste nel vedere soltanto una ingenua e sanguigna ideologia del progresso. E certo non sono ignorati questi rischi da coloro che oggi pensano che il modo migliore di affrontarli non sia certo quello di spargere a piene mani allarmismo e visioni catastrofiche, ricordando a ogni pié sospinto singoli episodi per gettare ombre sinistre sulla realtà del contributo della scienza al progresso: un argomento, questo, il cui valore non è superiore a quello che avrebbe il ricordare singoli episodi della storia della Chiesa per gettare ombre sinistre sulla natura del Cristianesimo. Comunque, io sto dalla parte degli ottimisti e nel farlo condivido anche l'auspicio contenuto nel Manifesto che la rivoluzione scientifica nella quale stiamo entrando non sia accompagnata "dallo stesso atteggiamento ideologico che ostacolò la formazione della visione scientifica del mondo nell'età moderna".
    Luciano Gallino contesta la tesi storiografica soggiacente a questo auspicio, sostenendo che è falso asserire, come fa, a suo dire, il Manifesto, che le visioni religiose abbiano ostacolato la formazione della visione scientifica del mondo: "La scienza moderna - egli scrive - si sviluppò in Occidente piuttosto che in India e in Cina, perché gli studiosi occidentali credevano nella prevedibilità del mondo, assicurata da un Dio razionale, e gli studiosi orientali no". Ora, intanto questa affermazione sembra in parte contraddire la tesi generale di Gallino e cioè che le visioni religiose non ostacolano la concezione scientifica del mondo: alcune, quelle orientali, l'ostacolano e altre, quella sviluppatasi in occidente, no: e ciò accade evidentemente a causa di alcune differenti caratteristiche di questa forma di religiosità rispetto a quelle orientali. Ma siccome nei discorsi su questo tema c'è sempre incombente l'ombra dei guai di Galileo, Gallino sente il bisogno di fare un'ulteriore distinzione: all'interno di questa visione religiosa c'è una variante che ha effettivamente tentato di ostacolare la formazione della visione scientifica moderna e un'altra variante che non l'ha ostacolata ed anzi favorita. Potremmo allora ridimensionare l'auspicio limitandoci a dire che non vorremmo che oggi prendesse il sopravvento la variante che ostacola: è pur vero che qualcuno a Galileo ha tentato di mettere i bastoni tra le ruote e ci ha messo trecentocinquant'anni per riconoscere di aver sbagliato; ma, fuor di battuta, a me sembra che la spiegazione del perché la religiosità cristiano-occidentale ha favorito o almeno non ostacolato la visione scientifica del mondo è vacillante. In primo luogo, bisognerebbe poter dimostrare che l'idea di un ordine cosmico è specifica ed esclusiva della religione cristiana ed è inscindibilmente connessa all'ipotesi di un "Dio razionale". In realtà, ci sono buone ragioni per pensare che tale idea risalga alla tradizione culturale greca e sia stata ereditata dal Cristianesimo e non abbia quindi bisogno necessariamente della garanzia di un Dio razionale (forse basta un Demiurgo). In secondo luogo, l'ipotesi di un Dio razionale è solo una parte della visione cristiana di Dio; c'è anche, e ne è parte integrante, quella di un Dio la cui volontà può mutare i suoi eterni decreti sconvolgendo l'ordine della natura. Convengo che nella tensione tra razionalismo e volontarismo, Galileo probabilmente parteggiasse per la versione del Dio razionale, ma ho dei dubbi sulla effettiva influenza di ciò sul suo modo di fare scienza: nella sua incrollabile convinzione che noi possiamo conoscere le leggi che regolano i fenomeni con gli strumenti della matematica perché la natura stessa è scritta con caratteri matematici io ci vedo più una buona dose di platonismo che di Cristianesimo.
    La seconda idea che Gallino contesta è quella secondo la quale non è possibile determinare ciò che è lecito e ciò che non lo è a partire dalla distinzione tra ciò che è naturale e ciò che non lo è. Dire questo significa, secondo Gallino, ignorare quel pezzo della scienza contemporanea che è la teoria dell'evoluzione, alla quale, se ben comprendo, dovremmo riferirei per imparare che cosa è la natura umana e trarne così il criterio di giudizio tra ciò che è lecito in quanto conforme a natura e ciò che non è lecito in quanto non conforme a natura. Ma - a parte che questa di Gallino è solo una versione pseudo-scientifica del vecchio giusnaturalismo, e non spiega affatto perché mai, per dirla con Kant, quel che vuole la "natura" dovrebbe avere per noi valore normativo - io non vedo in che senso la teoria dell'evoluzione possa insegnarci qualcosa come l'esistenza di una natura umana fissa ed immutabile. Ci insegna certo che l'essere umano è il risultato di processi evolutivi in corso da milioni di anni dei quali sappiamo ben poco: ma ciò e qui sta la differenza tra un atteggiamento ottimistico e uno pessimistico - dovrebbe indurci a cercare di saperne di più, con cautela e prudenza certo, ma non certo rinunciando in partenza alla più ampia possibilità di ricerca compatibile con l'interesse generale della collettività. Questa - e qui concordo con Gallino e con altri interventi - è una formulazione troppo vaga: ma allora discutiamo per cercasse di migliori e più precise, mettendo in campo il massimo di razionalità possibile per creare strumenti idonei a governare oggi i processi di sviluppo della scienza per evitare domani di doverli subire. Ma governare non vuol dire intralciare o ostacolare, che è esattamente quello che si propone di fare chi si contenta di assumere un atteggiamento pessimistico, predicatorio e tutto sommato sterile.

    Il valore del principio di autonomia
    Quanto alla terza ragione della mia adesione al Manifesto, essa ha a che fare con la centralità che il Manifesto assegna al principio di autonomia nel campo della bioetica. "Naturalmente, sono consapevole (e credo che lo siano anche gli estensori del Manifesto) che il senso di questo principio è differente nelle differenti etiche: una cosa è, ad esempio, il concetto kantiano di autonomia come autolegislazione del soggetto morale, altra cosa è il concetto di autonomia resoci familiare dalla tradizione liberale inglese, come connotante una sfera individuale protetta dalle altrui interferenze. C'è però un'aria di famiglia tra le varie concezioni, una radice comune che dipende dal fatto che il principio di autonomia individuale si è affermato nel contesto di quel generale processo di secolarizzazione della vita dal quale è nata la modernità. Anzi, secondo Tristram H. Engelhardt[5], il principio di autonomia dovrebbe essere considerato, prima ancora che un valore di questa o quell'etica, una sorta di principio costitutivo, di precondizione della stessa eticità nel tempo della modernità. Secondo Engelhardt, il principio di autonomia è al di qua di ogni bene e male concreto, nel senso che fornisce la grammatica minima del linguaggio morale ed è tanto inevitabile quanto l'interesse delle persone a biasimare o lodare in maniera giustificata. Il principio è giustificato non come risultato di una argomentazione razionale, ma come risultato di un atto di volontà: la volontà, cioè, di avere un punto di vista morale e una struttura morale intersoggettiva. In un certo senso rappresenta il presuppposto costitutivo, trascendentale (Engelbardt si riferisce spesso all'argomentazione trascendentale kantiana in questo contesto) di un settore vitale del pensiero e dell'azione umana. È neutrale rispetto alla sostanza delle concezioni etiche perché ha la funzione di rendere sensato lo stesso porre questioni etiche. È questa sua imprescindibilità logica (e non, ad esempio, la sua eccellenza come valore, che rinvierebbe a un'etica particolare) che ne fonda l'assolutezza.
    Comunque, anche se non si accetta totalmente il discorso di Engelhardt, resta in ogni caso difficile pensare che si possa ragionare oggi di etica senza dare un ruolo centrale al principio di autonomia. Si tratta semmai di indagare fino in fondo qualisono le conseguenze di questa centralità escegliere la versione del principio più appropriata a dar conto delle questionibioetiche. Quel che è certo è che tra queste conseguenze non c'è quella paventata da Fiori et al. quando chiedono "E la responsabilità?". Ma la responsabilità è intimamente connessa al principio di autonomia ed è anzi una delle ragioni fondamentali per le quali il principio di autonomia si fa apprezzare sul piano morale. È l'autonomia che ciassegna la responsabilità per quel che facciamo della nostra vita, per il tipo dipersone che vogliamo essere e per le conseguenze delle nostre azioni che incidano sui diritti, interessi e bisogni di tutti coloro che sono da esse coinvolti e, in generale, sullo stato del mondo del quale siamo parte.

    Note
    nota 1 D. Callahan, "Why America Accepted Bioethics", Hastings Center Report, 1993, 6 (Special Supplement), p. 58.
    nota 2 W. Reich, "How Bioethics got its Name", ivi, p. 56.
    nota 3 A. G. Spagnolo, "Il progetto di Convenzione europea sulla bioetica", Vita e pensiero, 1995, n. 4, pp. 249-268.
    nota 4 Cfr. A. Savignano, Bioetica mediterranea, Ed, ETIS, Pisa, 1995.
    nota 5 T.H. Engelhardt, The Foundations of Bioethics, New York, Oxford University Press, 1986 (trad. it. Manuale di Bioetica, Il Saggiatore, Milano, 1991).
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Il Manifesto di bioetica laica: quale base comune per la riflessione in Italia?
    di CARLO ALBERTO DEFANTI
    Consulta di Bioetica, Milano.
    Il merito principale che ha avuto il Manifesto è stato, a mio parere, quello di aver proposto, agli studiosi che si collocano nell'ambito "laico" alcuni principi' o valori sui quali si ritiene possibile raggiungere un ampio consenso; la proposta anzi non è stata limitata ai laici, ma è estesa agli studiosi di ispirazione religiosa che acconsentono a ragionare in bioetica prescindendo da pro poste normative non razionalmente argomentate.
    Il difetto del dibattito che esso ha stimolato è che anche in questa occasione si èriprodotta la classica querelle "laici versus cattolici" che sembra contrassegnare inevitabilmente la bioetica italiana. Non c'è dubbio che uno dei veleni che hanno caratterizzato il primo decennio della bioetica italiana sia stato l'incessante riproporsi di questa querelle; in altre parole, la tenden ziale divisione degli studiosi in due campi avversi: i "laici" e i "cattolici".
    Nell' editoriale di un numero recente di «Medicina e morale», non per caso è intitolato "Bioetica laica e bioetica cattolica", Angelo Fiori si è interrogato sul significato originario del ten-nine laico, chiedendo lumi al classico dizionario "Devoto-Oli"; lo seguirò in questa esplorazione.
    In un primo significato (a) il termine laico (contrapposto a chierico) indica il religioso che non fa parte del clero; si tratta di una divisione categoriale in seno al corpo stes so della Chiesa; non è ovviamente questo il significato che qui ci interessa maggiormente. Un secondo senso (b), nel quale laico è opposto a confessionale, si riferisce a chi, nel campo della propria attività, rivendica un'assoluta indipendenza e autonomia di scelte nei confronti della Chiesa cattolica o di altra confessione religiosa. Vi sono però almeno altri due significati del termine che sono rilevanti per il nostro discorso: un senso (e) secondo cui può essere considerato laico, per estensione, chi si pone dinanzi a problemi e scelte, specie etici e politici, con atteggiamento scevro da pregiudizi o vincoli ideologici, e infine un senso (d), in cui laico, sempre contrapposto a confessionale, può indicare "estraneità rispetto all'ambito di pertinenza diretta o indiretta della Chiesa, che può anche espri mere un atteggiamento ostile o polemico, a seconda del modo in cui si verifica la constatazione o l'affennazione di indipendenza e di autonomia".
    Cerchiamo ora di vedere quali connotazioni il termine laico assume nel dibattito odierno nel nostro paese. Coloro che rivendicano a sé questo titolo, per esempio noi della Consulta di Bioetica, intendono per lo più il termine nel senso (b), intendono cioè rivendicare la loro non- appartenenza ad una particolare confessione e il loro collocarsi in una cultura che, con le parole di Scarlelli, "ragiona fuori dall' ipotesi di Dio,'áccettando i limiti invalicabili dell' esistenza e della conoscenza umana" o, secondo il nostro Statuto sceglie di ragionare etsi Deus non daretur.
    Non pochi partecipanti alla discussione, però, e fra di essi autorevoli studiosi cattolici, fanno proprio il senso esteso del termine laico ed accettano che la loro riflessione sia designata in tal modo: penso, fra i presenti al Convegno, a Luigi Lombardi Vallauri, che parla di etica laica come "un'etica fondata su argomenti fra i quali non rientra l'argomento di autorità; un'etica senza rivelazioni e senza magisteri divinamente assistiti", e a Paolo Cattorini, che condivide 1"'obiettivo di rimuovere il carattere ideologico della bioetica per cui le soluzioni ai problemi emergenti dalla prassi vengono rigidamente predeterminate dalle rispettive appartenenze culturali, svalutando ogni contributo che il dialogo può apportare".
    Ma c'è di più: gli stessi studiosi del Centro di Bioetica dell'Università Cattolica di Roma, qui rappresentati da Adriano Pessina, che si sono sempre distinti per l'asprezza delle critiche mosse ai laici, affermano nel loro intervento sul "Sole" che anche la loro riflessione si situa all'interno delle bioetiche laiche (caratterizzando il proprio orientamento come ispirato ad un personalismo ontologicamente fondato). Dunque tutto bene: la discussione bioetica in Italia avviene all'interno del campo laico, senza ricorso al principio di autorità, senza soluzioni preformate, si vive nel migliore dei mondi possibili, o per lo meno in una società liberale perfetta. Ma è proprio così?
    Sappiamo bene che così non è, come testimonia l'editoriale di Fiori testè citato. Secondo l'editoriale, gli esponenti cattolici son6 vittima di una pesante discriminazione da parte dei mezzi di comunicazione e si trovano a operare in condizioni di difficoltà; essi vengono tacciati dai laici di asservimento a pregiudizi, mentre in realtà sono gli stessi laici a soggiacere a pregiudizi, a non sapersi liberare da ispirazioni ideologiche palesi od occulte, addirittura ad essere strumento, forse inconsapevole, al servizio di potenti interessi economici. In questo senso si potrebbe dire che i sedicenti laici sono tali solo nell' ultimo senso del termine, cioè, lo ricordo, nel senso dell"'estraneità rispetto all'àmbito di pertinenza diretta o indiretta della Chiesa, che può anche esprimere un atteggiamento ostile o polemico, a seconda del modo in cui si verifica la constatazione o l'affermazione di indipendenza e di autonomia". Come si può spiegare un contrasto di questa gravità fra il tono civile del dibattito di cui ho parlato e l'asprezza dello scontro cui assistiamo ogni giorno quando si affrontano alcuni temi di bioetica?
    Mi sembra opportuno introdurre a questo punto una distinzione fra i sensi diversi in cui il termine "bioetica" è impiegato, almeno - ma non solo - nel nostro paese. Bisogna riconoscere che il termine può essere inteso in almeno tre modi:
    a) nel primo senso esso si riferisce ad un ramo della filosofia morale, applicata allo studio della medicina e delle scienze biologiche (vedi la definizione standard dell'Encyclopedia of Bioethics, dovuta a W. T. Reich, parlo qui della prima edizione);
    b) la seconda accezione è più ampia ed analoga al senso in cui, nel primo numero del 1993 di «Bioetica», U. Scarpelli parlava di etica come comprendente "la morale, il diritto e gli altri sistemi di norme, in genere tutte le direttile, o insiemi di direttile, afondamento tradizionale, religioso, ideologico, autoritario ecc., da cui una vita individuale o sociale può essere govemata" e affermava di "ritenere prezioso un nome complessivo sotto il quale si possano considerare i rapporti fra la morale, il diritto ecc.";
    c)il terzo senso corrisponde all'accezione, oggi divenuta comune, di "luogo" sociale ove si intrecciano: c1) la riflessione filosofica, teologica e giuridica sugli aspetti normativi dell'agire umano in ambito biomedico fra loro interagenti, c2) i continui avanzamenti delle scienze mediche, c3) le sentenze innovativi della magistratura, italiana e straniera, su "casi cruciali", c4) le ondate di emozione suscitate da questi casi e queste sentenze nell'opinione publica, attraverso i mass media, c5) le contrastanti tensioni politiche verso l'emanazione di leggi in materia. In quest'ultima accezione, la bioetica non è (solo) una disciplina scientifica, ma un intreccio complesso di idee, di eventi, di movimenti sociali e politici.
    Perchè ho introdotto questa distinzione?
    à importante riconoscere che al primo livello (bioetica come disciplina scientifica) il dibattito, pur se acceso, può mantenersi fair e che la convivenza fra posizioni teoriche anche molto diverse èpossibile, non di rado con reciproco arricchimento nella discussione e nella critica delle tesi altrui. è- quanto accade, ad esempio, nelle riviste internazionali e nei convegni di bioetica, in cui si discute civilmente cercando di portare i migliori argomenti a sostegno delle proprie posi zioni. Non altrettanto avviene nella bioetica pratica, o sensu lato, cioè nella bioetica come istituzione sociale. A questo livello infatti nel nostro paese non di dibattito, ma di scontro fra parti avverse si tratta. Se questo è vero, è allora legittimo chiedersi se non sia valida, anche per l'Italia, la descrizione che H. T. Engelhardt ha dato delle società occidentali contemporanee (e in particolare di quella americana). È ben noto che questo autore sostiene, anche sulla scorta dell'a nalisi di Alasdair Mclntyre, che, essendo fallito il progetto dell'Illuminismo moderno di costruire una visione razionale dell'etica da tutti condivisibile, non esiste più un sentire morale condiviso e che la società contemporanea è formata da comunità di stranieri morali, ognuna con le proprie idee del mondo e della vita buona, incapaci di comunicare fra loro. L'accordo fra i membri delle diverse comunità non può essere cercato, in positivo, su contenuti concreti, bensì unicamente su procedure di negoziazione basate sul reciproco riconoscimento e sulla rinuncia all'uso della forza. Così, pur essendo egli un fervente seguace della Chiesa cristiana ortodossa, ragionando su un'etica condivisibile e perciò priva di contenuti, giunge a formulare analisi e proposte che, agli occhi di molti, sono apparse espressione di un atteggiamento pericolosamente libertario e che sono in contrasto con le indicazioni normative suggeritegli dalla sua stessa comunità morale.
    Mi pongo due quesiti: 1) a quale livello si situa la descrizione di Engelhardt?; 2) può tale "racconto" essere considerato corretto, almeno ad uno dei livelli distinti? 1) A prima vista, esso sembra riguardare essenzialmente il terzo livello (della bioetica come istituzione sociale) in quanto descrive, o afferma di descrivere, come può avvenire la negoziazione fra le diverse comunità morali esistenti de facto nella società. Essa però mette radicalmente in questione anche il primo livello, nella misura in cui afferma la radicale incapacità della ragione di attingere alla verità in ambito morale. Qui Engelhardt è chiaramente partecipe della ricostruzione fatta da Mclntyre della grande rottura del ensiero morale tradizionale e della frammentazione in una "cacofonia di discorsi morali contrastanti".
    2) Questa visione però è tanto pessimistica, q#anto infondata, per lo meno se presa nella sua versione radicale. Le critiche che si possono muoverle sono varie e in questa sede posso soltanto accennarle: credo in un primo luogo che non sia mai esistita questa vagheggiata "età dell'oro" (pre- iluministica) del sentire condiviso, per lo meno in senso forte (dissensi più o meno appariscenti attraversano tutta la storia della nostra cultura); in secondo luogo non credo che la divisione radicale che attualmente esisterebbe fra le diverse comunità sia reale. Basti vedere i fermenti innovativi, di senso liberal in atto in una delle comunità teoricamente più coese, quella cattolica ; penso ad esempio alla contestazione, spesso aperta, del pensiero dell'attuale Pontefice, da parte di influenti teologi e gruppi cattolici all'estero (e in minor misura nel nostro paese). Basti guardare alle inchieste sociologiche recenti condotte in Italia, fra cui quella promossa dalla CEI; essa dimostra in quale importante percentuale persone che si dicono cattoliche dissentono su temi-chiave, per esempio di morale sessuale.
    Credo perciò, in buona sostanza, che il modello di Engelhardt non rappresenti correttamente la società contemporanea. Credo inoltre che, sia pure in modo confuso, stiano emergendo nel sentire comune, nella common sense morality del nostro paese, nuovi atteggiamenti che tendono a diffondersi e a irrobustirsi. È questo emergere che altri studiosi, come Maurizio Mori, ha descritto come emergere dell'etica della Qualità della Vita, contrapposta a quella tradizionale della Sacralità della Vita. Si sa quanto Mori sia stato criticato per questa descrizione, giudicata semplicistica e non atta a cogliere la complessità della situazione. Si può discutere se il valore-Qualità della Vita sia atto a descrivere il fondamento del nuovo modo di sentire, ma è altrettanto indiscutibile che mutamenti profondi sono in atto e che il tentativo, evidente in Italia, di erigere barriere politico-religiose contro di essi è destinato a fallire. Probabilmente la risposta almeno in parte positiva all'appello del Manifesto laico discende anche dalla consapevolezza degli studiosi cattolici che l'intransigenza non potrà essere mantenuta indefinitamente. E vero però che tra una generica risposta di attenzione e cambiamenti reali di atteggiamento la distanza è grande e che occorrerà ancora molto tempo (e molte lotte) per ridurla. Tornando alla realtà del nostro paese, credo che esista un nucleo di valori condivisi, che si tratta ora di individuare. Va da sé, comunque, che una bioetica fondata unicamente su questi valori, con l'esclusione di altri, peculiari di alcune tradizioni morali (nel nostro caso di quella cattolica), tende ad essere più "giuridicamente permissiva" di quella fondata sui valori propri di una tradizione determinata. D'altronde, poiché la bioetica è in primo luogo ricerca di un'etica pubblica, è inevitabile che vi siano discrepanze tra bioetica pubblica, condivisa, e bioetiche proprie delle diverse prospettive morali.
    Penso che uno dei compiti fondamentali di chi opera nella bioetica intesa sensu lato in una prospettiva laica sia quello di individuare quali valori o princìpi possono rappresentare un terreno di convergenza fra le diverse correnti che attraversano la società italiana. Non credo che i celebri "quattro princìpi" di Georgetown siano la soluzione, in quanto il loro carattere generico li rende utili piuttosto alla costruzione di un linguaggio comune (a ciò del resto essi dovevano servire e sono serviti nell'intenzione degli Autori) che all' elaborazione di soluzioni normative condivise. Penso che i princìpi debbano essere ricercati a un diverso livello, cioè ad un livello di maggiore concretezza; ho fatto un tentativo di questo genere in un articolo che verrà pub blicato su «Bioetica» (1996 n. 3). Non èquesta la sede per addentrarmi in questo tentativo, di cui vedo bene i limiti; basti dire che propongo, come princìpi-base, i seguenti:
    - il rispetto dell'autodeterminazione (e la correlativa virtù della tolleranza);
    - la tutela della dignità;
    - l'attenzione alla qualità della vita (e la correlativa virtù della compassione);
    - il rispetto per la vita senziente (e di tutti i senzienti);
    - il principio dell'equo accesso ad un livello adeguato di cure mediche.
    È chiaro che il mio tentativo è solo uno stimolo alla discussione. Un punto che desidero infine sottolineare è che, pur situandomi io in modo netto nel "campo laico", penso che i laici possano trarre vantaggio dal confronto e dallo studio delle soluzioni proposte dalle diverse tradizioni religiose. Non c'è dubbio che la secolarizzazione che caratterizza l'epoca moderna comporta elementi di crisi e di confusione. Il venir meno non solo degli aspetti più caduchi e deleteri delle tradizioni, ma anche degli stessi valori che tali tradizioni incarnavano e che in molti casi avevano costituito, almeno al loro sorgere, un grande elemento di progresso e di arricchimento dell'uomo, ha lasciato un vuoto che è necessario in qualche modo colmare. Nella costruzione di una nuova etica per la società di oggi e di domani anche gli insegnamenti morali delle religioni tradizionali, e non mi riferisco solo al filone giudaico-cristiano, ma anche alle religioni dell'Oriente, possono essere di grande interesse.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Convinzioni religiose nella vita pubblica.
    di KENT GREENAWALT
    Columbia University School of Law.
    Durante la sua visita negli Stati Uniti lo scorso autunno, Papa Giovanni Paolo Il ha parlato frequentemente della relazione tra credenze religiose e mentalità pubblica. In un'omelia pronunciata a Baltimora, per esempio, egli ha detto: "Cristo ci ha comandato di far splendere la luce del Vangelo nel nostro servizio per la società. Ma come possiamo professare la fede nella parola di Dio e poi rifiutare di farle ispirare e dirigere il nostro pensiero, la nostra attività, le nostre decisioni e le nostre responsabilità verso gli altri?" Riferendosi alla storia americana ed alle specifiche sfide che impegnano la democrazia americana, il Papa ha sostenuto che la visione religiosa permea la discussione dei problemi centrali nella nostra vita pubblica:
    La domanda fondamentale di una società civile è: "Come dobbiamo vivere insieme?" Nel cercare una risposta, può la società escludere la verità e il ragionamento morale'? La saggezza biblica che ha svolto un ruolo così decisivo nella stessa nascita di questo paese, può essere esclusa dal dibattito?... Questo vorrebbe dire che milioni di americani non possono più offrire il contributo delle loro più profonde convinzioni alla formazione delle politiche pubbliche?
    Tuttavia quando i filosofi e i teorici della politica si chiedono se sia possibile includere le convinzioni religiose appropriatamente nel processo decisionale di una società democratica, presto scoprono che non è una semplice questione di giusto o sbagliato. Le questioni sono molto più complesse. Per cominciare, consideriamo l'ampia gamma di problemi che potrebbero avere una dimensione religiosa. L'aborto è l'esempio più controverso ma non il solo. Le misure di welfare, la pena capitale, i trattamenti sugli animali, la difesa dell'ambiente, la politica militare e una lunga serie di altre questioni politiche potrebbero essere legate ad interpretazioni religiose. Questo fatto ci aiuta a spiegare una difficoltà nel dibattito circa il ruolo della religione nella vita politica: la gente spesso condanna l'uso di argomenti 'religiosi quando va contro posizioni politiche che predilige, ma ne accetta l'uso quando invece le appoggia. Chi condanna le basi religiose delle posizioni a favore della vita non ha avuto difficoltà nell'utilizzare argomenti religiosi per promuovere diritti civili o per opporsi alla pena capitale. Se vogliamo affrontare questo argomento in modo serio, dobbiamo resistere alla tentazione di trarre la facile conclusione che la religione è buona quando sostiene le nostre tesi e illegittima quando vi si oppone. Dobbiamo essere meno di parte. Allo stesso tempo dobbiamo riconoscere che nessuno di noi è capace di separare le proprie convinzioni sui vari argomenti, non più di quanto siamo in grado di separare completamente le nostre emozioni dalle nostre posizioni intellettuali. Se le persone hanno forti convinzioni religiose, queste influenzeranno in qualche misura le loro opinioni politiche; non possono fare altrimenti. Ma ciò non significa che la gente debba, con piena autocoscienza, contare sulle convinzioni religiose per risolvere questioni politiche. Forse dovrebbero formulare le loro opinioni in qualche altro modo.

    Principi costituzionali
    Negli Stati Uniti discussioni su questi temi spesso si concentrano sulle clausole in materia di religione del Primo Emendamento. Secondo la clausola della libertà di culto, i cittadini sono liberi di credere in quello che scelgono, di manifestare le loro credenze e, con limitate eccezioni, di esercitare il culto come desiderano. Secondo la clausola dell'establishment, al governo è vietato istituire come religione di stato alcuna religione determinata, nel modo in cui la Chiesa Anglicana è riconosciuta in Inghilterra, o anche solo preferire una religione o una Chiesa ad altre; non possono essere preferiti gruppi cristiani ad ebrei; gruppi cristiani ed ebrei ad islamici o buddisti. Secondo la moderna interpretazione della Corte Suprema, lo Stato non può preferire tutte le religioni a nessuna religione oppure all'antireligione. Quest'ultimo principio, tuttavia è controverso; molti ritengono che una generale preferenza per la religione dovrebbe essere permessa.
    Cosa hanno a che fare questi vincoli giuridici con il nostro tema? Quando consideriamo la relazione tra la libertà di culto e il problema di come vengono prese le decisioni politiche, una cosa è certa: molte persone considerano le loro convinzioni religiose come dotate di implicazioni politiche. Un aspetto dell'esercizio pieno della loro religione è il loro agire in base a queste implicazioni. Un altro aspetto è forse meno ovvio. Se alcuni agiscono in base alle loro convinzioni religiose, ciò potrebbe contrastare la libertà di culto di altri con convinzioni religiose diverse. Per esempio, se un sufficiente numero di persone sono d'accordo che l'uso di droghe è peccaminoso, questa convinzione religiosa può ledere la libertà di culto di altre persone la cui religione invece lo richiede. Come vedremo, tuttavia, solo alcuni usi delle convinzioni religiose contrastano effettivamente con la libertà di culto di altri; altri non lo fanno.
    La clausola dell'establishment ha nello stesso modo significative conseguenze per le decisioni e la comunicazione politiche. Supponiamo che una legge sia basata in modo schiacciante su argomenti religiosi e destinata a promuovere una particolare interpretazione religiosa. Supponiamo inoltre che tutto questo venga annunciato nel preambolo del documento legislativo. Ciò equivarrebbe senza ombra di dubbio ad un riconoscimento di quel punto di vista religioso. Alcuni autori hanno concluso che ogniqualvolta dei pubblici ufficiali, o forse anche dei cittadini, promuovono una particolare posizione politica per motivi religiosi, questo implica una reale o potenziale violazione della clausola dell'establishment. Una posizione più moderata, ma allo stesso tempo analoga, è quella secondo cui fare assegnamento su un argomento religioso reca offesa al valore o spirito del nonestablishment. Da questo punto di vista i valori che stanno alla base della clausola dell'establishment premono in direzione di un giudizio politico non religioso.
    Da questa prospettiva possiamo ravvisare una certa tensione fra la libertà di culto e la clausola dell'establishment. Una visione più ampia della libertà di culto potrebbe permettere a cittadini e pubblici ufficiali di usare argomenti religiosi tutte le volte che lo ritengano opportuno. La visione più ampia del nonestablishment potrebbe precludere l'uso di argomenti religiosi.
    Come possiamo risolvere il problema?

    Imposizioni religiose
    Il primo passo è quello di distinguere tra imposizioni religiose - azioni che inibirebbero la libera professione di fede - e altri usi di argomenti religiosi nel giudizio politico. Supponiamo che, in base alle convinzioni cristiane, qualcuno proponga che tutti i non cristiani siano tassati, e che i proventi vadano alle chiese cristiane. Questa iniziativa dimostrerebbe una chiara propensione per la religione cristiana con la conseguenza di scoraggiare la pratica di altre religioni. Una legislazione di tal tipo è chiaramente in contrasto con le clausole in materia di religione. In ogni caso, ogniqualvolta i legislatori e i cittadini hanno una motivazione simile anche se le politiche da essi favorite sono meno spropositate - essi offendono come minimo lo spirito delle clausole in materia di religione. à saggio riconoscere che tali imposizioni religiose sono sbagliate tanto quanto le loro motivazioni. Non sono appropriate per nessun cittadino nella nostra democrazia liberale.
    Tuttavia, non tutti gli usi di argomenti religiosi comportano una imposizione. E sono questi altri usi che vanno analizzati più da vicino. Immaginiamo, per esempio, che un legislatore proponga di limitare gli allevamenti industriali. E convinto per motivi religiosi che gli animali meritino una maggiore considerazione da parte dell'uomo di quanta ne abbiano ricevuta finora. Non desidera promuovere il suo credo religioso o scoraggiare chiunque da pratiche religiose. Vuole soltanto rendere la vita degli animali più degna. Se si adottasse una legislazione in tal senso nessun credo e nessuna pratica religiosa verrebbe direttamente toccata. È un uso di argomenti religiosi che non implica un'imposizione; in questo caso nessuna libertà di culto viene toccata. Nessun punto di vista religioso è riconosciuto se non nel senso che la legge riguardante il trattamento degli animali coincide in parte con qualche visione religiosa.
    Come dovrebbe procedere la nostra riflessione su tale legge? La maggior parte degli animali che mangiamo vive in modo terrificante, costretta in gabbie. Dovremmo preoccuparci molto di questo? I maiali e le galline sono molto importanti o dovremmo guardare alle loro vite essenzialmente in vista dei nostri interessi? Parte della popolazione si risponde senza curarsi delle convinzioni religiose; altri vi attingono. Ciò non significa che esiste una precisa connessione tra religioni e posizioni particolari. Alcuni cristiani ed ebrei, per esempio, credono che la Bibbia stabilisca che gli animali siano al servizio degli esseri umani; se così fosse non dovremmo preoccuparci degli allevamenti se non per garantire la salute degli esseri umani che vi lavorano o ne consumano i prodotti. Altri cristiani ed ebrei, invece, pensano che siamo chiamati a prenderci cura seriamente di tutte le creature. Da questa prospettiva l'idea dell'allevamento è molto più allarmante. Forse sarebbe giusto pagare un prezzo più alto per la carne allo scopo di dare agli animali che uccidiamo più libertà di muoversi e di vivere con altri animali. È giusto per i cittadini e i legislatori, quando affrontano questo argomento, prendere una decisione sulla base di argomenti religiosi e difendere le proprie scelte in questi termini o piuttosto dovrebbero decidere sulla base di argomenti non religiosi?

    Posizioni basilari
    I filosofi della politica non sono d'accordo su questo. Alcuni sostengono che i cittadini e i pubblici ufficiali sono completamente liberi di fare assegnamento su qualunque argomento sembri loro convincente. Tale posizione, naturalmente, si adatta bene all'idea che la libertà religiosa includa anche il fare assegnamento su argomenti religiosi quando si compiono scelte politiche. Una posizione opposta è quella secondo cui in una democrazia liberale la gente dovrebbe prendere decisioni su basi che siano ampiamente condivise e accessibili a tutti i cittadini. Fino a questo punto, certe idee - per esempio che lo Stato dovrebbe mostrare un eguale interesse per tutti i cittadini - sono principi fondamentali di tutte le democrazie liberali.
    Queste idee sarebbero il punto di partenza appropriato per ogni decisione politica; mentre non lo sarebbe l'idea espressa dalla Genesi secondo cui gli animali sono al servizio dell'uomo.
    Una versione di questa argomentazione sottolinea l'ingiustizia (unfairness) di leggi coercitive per la ragione che non è possibile aspettarsi che una parte rilevante della popolazione le accetti. Secondo questa visione sarebbe ingiusto limitare l'allevamento industriale, ed impedire agli allevatori di vendere ai consumatori la carne migliore che producono al minor prezzo, perché i giudizi religiosi di alcuni non sono accettati, ragionevolmente, da molti allevatori e consumatori. L'argomento basato sulla giustizia (fairness), d'altra parte, dice che non è giusto impedire alla gente di fare assegnamento su motivi che considerano più convincenti.
    Un'altra argomentazione, secondo cui i motivi religiosi sono basi inadatte per sostenere posizioni politiche, è che una massiccia immissione di religione causerà conflitti, dissensi e sentimenti d'esclusione. Secondo la visione opposta, invece, un'apertura verso posizioni religiose potrebbe accrescere la comprensione di possibilità politiche e la rilevanza della religione per la società.
    Pertanto ci sono diverse posizioni intermedie. Accennerò brevemente a due. La prima è che tutto dipende dal tipo di posizione religiosa. Visioni che non sono troppo dogmatiche e faziose, che sono aperte a punti di vista concorrenti, giocano un ruolo utile in politica. Quelle che sono invece ristrette e dogmatiche, che non lasciano spazio al dialogo con altre, non fanno parte della politica di una democrazia liberale. Tuttavia una differente posizione intermedia, sviluppata da John Rawls, distingue le questioni politiche ordinarie da quelle costituzionali e di giustizia fondamentale. Nelle questioni ordinarie gli argomenti religiosi sono appropriati, mentre, nelle questioni costituzionali la gente dovrebbe fare assegnamento su ragioni pubbliche, ragioni che avrebbero una forza persuasiva per tutti i cittadini ragionevoli. Sulla base di quanto detto, il trattamento degli animali sarebbe considerato, probabilmente, come una questione ordinaria, l'aborto come una questione costituzionale.

    Reciproca autolimitazione
    Gli argomenti finora citati si trovano in forte opposizione: fare una scelta tra loro non è facile. La mia opinione personale è intermedia ed implica due tesi. Primo, non credo che le premesse fondamentali di una democrazia liberale possano stabilire con esattezza fino a che punto le convinzioni religiose debbano contare nella vita politica. Molto, infatti, dipende dal contesto storico-culturale di determinate società. Possiamo ipotizzare un tipo di reciproca autocolimitazione nell'uso di argomenti religiosi: "Non ricorrerò all'uso di miei argomenti religiosi per obbligarti se, alter nativamente, non userai i tuoi argomenti religiosi per costringere me". Supponiamo che potenzialmente tutti in una società, ora, facciano riferimento ad argomenti religiosi per giungere a conclusioni politiche. Sostenere che essi non dovrebbero farlo non sarebbe giusto; sarebbero in questo caso privati del loro uso di argomenti religiosi, e sarebbero contemporaneamente soggetti all'uso prevalente degli argomenti religiosi altrui. Se ci chiediamo cosa, ragionevolmente, si può chiedere alla gente, oggigiorno, negli Stati Uniti, dobbiamo interrogarci sulle sue attuali abitudini ed attese.
    La mia seconda tesi riguarda i ruoli particolari nella nostra democrazia liberale e richiede di effettuare numerose distinzioni. Le più importanti sono tra privati cittadini e pubblici ufficiali e tra basi di giudizio effettive e ragioni dichiarate. Molto brevemente, credo che i privati cittadini debbano considerarsi liberi di fare affidamento su, ed esprimere, ragioni religiose; i funzionari, al contrario, agendo in veste ufficiale, raramente dovrebbero dichiarare ragioni religiose come base per le decisioni politiche e dovrebbero essere persino più esitanti dei privati cittadini nel contare su di esse.
    Passo ora alle questioni specifiche che i legislatori si trovano a dover fronteggiare nel dare giudizi influenzati sia dalle proprie convinzioni religiose che da quelle dei loro elettori.

    Vincoli sui legislatori
    Un primo gruppo di questioni riguarda le giustificazioni offerte da determinati legislatori, dentro e fuori l'assemblea legislativa, e le loro basi effettive di giudizio. Nel presentare un disegno di legge per limitare gli allevamenti industriali, dovrebbe un legislatore sostenere che «nella Bibbia ci viene chiesto di occuparci degli animali più di quanto sia stato fatto finora; quindi il convertire in legge tale disegno sarebbe una prova della nostra fedeltà alla volontà di Dio»? Qualunque sia la logica di un tale discorso nelle aule parlamentari, dovrebbe un legislatore spiegare in questo modo agli elettori la propria posizione? Dovrebbero i legislatori decidere sulla base di simili argomenti, anche se essi non li rendono pubblici?
    Almeno sul piano nazionale, credo che si sia raggiunto un accordo generale in base al quale i legislatori non dovrebbero addurre simili argomenti religiosi. Ci sono ovvie ragioni sul perché questo accordo è prevalso. In primo luogo, un discorso basato esplicitamente su visioni religiose probabilmente non contribuisce direttamente alla risoluzione di questioni politiche attuali. Anche quando un tale discorso è comprensibile sia per i legislatori che per i cittadini, anche se questi ultimi non ne condividono la posizione implicita presentata, esso funziona come una sorta di tappo nel dialogo politico. In molte argomentazioni religiose, chi parla sembra porsi in una specie di posizione privilegiata come se fosse il depositario di una verità fondamentale che molti altri non hanno. E questa asserzione del possesso di una conoscenza privilegiata può sembrare implicare una ineguaglianza di status che è in forte tensione con la fondamentale idea di eguaglianza dei cittadini nelle democrazie liberali.
    L'idea che i legislatori non dovrebbero addurre in modo palese argomenti religiosi a favore di leggi e politiche particolari, riflette, inoltre, il principio che essi rappresentano tutti gli elettori, membri di diverse religioni. Perciò non dovrebbero presentare come argomenti cruciali ragioni che sono applicabili solo ai membri di certe religioni. Astenendosi da tali argomenti, dimostrano di avere rispetto per la diversità religiosa della popolazione. Poiché le tensioni religiose permangono rilevanti negli Stati Uniti, anche la prassi riduce in modo desiderabile il conflitto politico e religioso. Quanto alla libertà religiosa dei legislatori, questa restrizione comporta un indebolimento piuttosto lieve: avendo scelto liberamente un ruolo pubblico, essi sono abituati a dire meno di quanto pensano.
    Un problema più complesso è, invece, per me, come dovrebbero decidere i legislatori.
    Sebbene possiamo convenire che essi dovrebbero concentrarsi per prima cosa su ragioni pubbliche, non dovremmo aspettarci che trascurino sistematicamente le ragioni personali e i motivi religiosi. Purificare il discorso è più semplice che purificare il giudizio; ed è molto più semplice dire se gli altri stanno contenendo il loro discorso di quanto non lo sia dire se essi stanno contenendo il loro giudizio (un aspetto di una certa importanza in cui la limitazione include una aspettativa di reciprocità). Il vincolo primario sul legislatore dovrebbe essere immaginato come un vincolo sul discorso pubblico e non sul giudizio.
    Questa proposta approva la disonestà e la dissimulazione? Credo che nessuno si aspetti realmente dal legislatore che egli riveli tutti i propri argomenti. E se questo è vero, il mancato sviluppo di argomenti religiosi, di una certa importanza per esso, non è una cosa effettivamente disonesta. La questione della dissimulazione è più preoccupante. Alcuni credono che sia bene per i cittadini conoscere il più possibile le basi su cui fanno affidamento i legislatori nel prendere decisioni. Una tale conoscenza può aiutare i cittadini, tra le altre cose, a decidere se appoggiare di nuovo i membri dell'assemblea alle elezioni. Questo è un aspetto importante ma non abbastanza da giustificare un generale discorso politico, mascherato in termini religiosi. In ogni caso, credo che i legislatori sostengano correttamente che gli argomenti religiosi sono importanti per loro e, certamente, essi non dovrebbero mentire se interrogati direttamente circa l'esistenza di ragioni religiose a sostegno di una certa posizione. Ciò che un legislatore non dovrebbe fare è addurre autentici argomenti religiosi nell'arena politica pubblica.
    C'è un'ultima questione circa i legislatori: per quanto essi votino correttamente in accordo con le opinioni dei propri elettori, devono anche attenersi all'opinione dell'elettore basata su convinzioni religiose? Supponiamo che la maggior parte degli elettori abbia ragioni religiose per ritenere che la ricerca sul tessuto fetale sia sbagliata. Questo dovrebbe ripercuotersi sul voto del legislatore, oppure egli dovrebbe trascurare idealmente i sentimenti formati in questo modo?
    La risposta dipende sostanzialmente da come i comuni cittadini dovrebbero decidere e discutere le questioni. I cittadini, a mio avviso, attuano giustamente quelle che credono essere valide fonti di accordo, anche se riconoscono che queste non sono condivise. Non sono e non dovrebbero essere educati a limitare i propri giudizi e le proprie argomentazioni alla maniera dei legislatori. Chiedere ai cittadini di distillare i giudizi che formulerebbero se accantonassero le loro convinzioni religiose su ciascuno di quei temi che influenzano la loro condotta di voto, sarebbe chiedere loro troppo, ed è illusorio pensare che la maggior parte dei cittadini riuscirebbero a farlo. La stragrande maggioranza di loro sicuramente nutrirebbe dubbi sulla possibilità che altri cittadini ci riescano, ed i più attenti tra loro nell'attenersi a ragioni pubbliche sospetterebbero di dover rinunciare ingiustamente a basi di giudizio che sarebbero usate, invece, da altri.
    Se i cittadini contano, a ragione, su argomenti religiosi per sviluppare posizioni su temi politici, i legislatori spesso saranno consapevoli di queste posizioni. Potrebbero non conoscere esattamente gli argomenti su cui i cittadini fanno affidamento, ma se scoprono che essi sono religiosi, allora i legislatori ne dovrebbero tenere conto. Essi, piuttosto, dovrebbero preoccuparsi di ciò che i cittadini credono sia giusto, qualunque siano gli argomenti appropriati per loro. Tuttavia, il peso che i legislatori accordano è al fatto che ci sia questa credenza. In conclusione, il legislatore, non dovrebbe considerare i giudizi dei cittadini basati principalmente su argomenti religiosi come una sorta di prova di ciò che in un senso indipendente è realmente giusto.
    (Traduzione dall'inglese di Debora Penzo)

    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Bioetica e ragione pubblica.
    di FRANCESCO VIOLA
    Università degli Studi, Palermo; Comitato di Bioetica, Regione Sicilia.
    Non si può non riconoscere un merito all'iniziativa di Carlo Flamigni, Armando Massarenti, Maurizio Mori e Angelo Petroni ed è quello di avere attivato un dibattito sulla bioetica che si è svolto sul piano della ragione pubblica. Dobbiamo infatti riconoscere che in realtà, in Italia, di bioetica non si discute in pubblico. Certamente i giornali riportano le notizie più eclatanti e i commenti di approvazione degli uni o di esecrazione degli altri, ma questa non è una discussione. Poi vi sono questi comitati di saggi, che si riuniscono e discutono, ma la stragrande maggioranza della gente non sa neppure che esistano, chi ne faccia parte e come venga scelto. Ogni tanto si ha notizia di qualche documento prodotto dai lavori di questi comitati e i più attenti (in verità molto pochi) si precipitano a leggerli per esserne illuminati. Ma, se il comitato è già ideologicamente schierato, si sa già cosa dirà prima ancora di leggerlo e, se invece è pluralistico, ognuno troverà nel documento la conferma delle proprie opinioni e le cose resteranno come prima. In realtà la finalità dei comitati di bioetica non è quella di discutere la validità di una concezione morale, ma di mettersi d'accordo sulle soluzioni di problemi concreti in un regime di pluralismo. Se i loro rappresentanti vengono scelti per dare voce agli orientamenti differenti, non è perché si pensa che alcuni potranno convincere altri sulla maggiore solidità dei propri princìpi morali, ma perché si vogliono elaborare direttive comuni riguardanti problemi applicativi controversi. Non per nulla la bioetica è un'etica applicata. Per questo in tali comitati non si discute dei giudizi supremi di valore, ma, quand'è il caso, essi si mettono ai voti, dando per scontato che ognuno debba restare fedele alla sua direzione di pensiero, che è poi una delle ragioni che gli conferiscono una certa rappresentatività.
    Caso emblematico è la recente pronuncia del Comitato Nazionale a proposito dello statuto dell'embrione. Molti si sono scandalizzati del suo giudizio salomonico a proposito della questione se l'embrione sia o no una persona. Ma il Comitato non poteva per motivi strutturali andare al di là di ciò che ha fatto, altrimenti sarebbe stato accusato di essere un'appendice del Centro di bioetica dell'Università cattolica o della Consulta di bioetica. L'obiettivo del Comitato non poteva che essere quello d'individuare quei casi di trattamento dell'embrione intorno a cui si poteva coagulare una certa unità d'indirizzo.
    Bisogna rendersi conto che i comitati di bioetica sono istituzioni organiche ad un certo modo meramente contrattualistico d'intendere la pratica del pluralismo. Tribù morali diverse mandano i loro rappresentanti per concordare comportamenti comuni. Ma non è mai accaduto (almeno a mia conoscenza) che uno di questi sia tornato dall'assise comune, dicendo ai correligionari che la tribù nemica aveva ragione. Di solito dirà che ha ottenuto il massimo delle concessioni possibili. Affermare che l'embrione deve essere trattato come se fosse una persona è uno di questi casi. Alcuni lo interpreteranno, pensando che debba essere trattato in tutto e per tutto allo stesso modo in cui dovrebbero essere trattate le persone, cioè con rispetto sacrale. Altri pensano che, non essendo sicuri che è una persona, alcune eccezioni potranno pure essere ammesse. Tutto ritorna a posto, ma la discussione pubblica non c'è stata. Voglio dire che non bisogna aspettarsi dai comitati di bioetica un discorso da cui scaturisca la possibilità di una bioetica comune sul piano dei princìpi. Il Manifesto di bioetica laica ha, invece, attivato qualcosa che comincia ad assomigliare ad una vera e propria discussione pubblica. Si sono presentate tesi e controtesi forti, tutti in linea di principio sono stati ammessi alla partecipazione al dibattito, ci sono state in qualche caso delle repliche e, soprattutto, documenti finali non ce ne sono stati. L'unico documento è stato quello iniziale, in cui gli estensori hanno esternato le loro convinzioni, le loro preoccupazioni e le loro speranze e aspettative, ma esso ha avuto solo la funzione di accendere un dibattito che non si può dire concluso.
    Io credo che si possa parlare di vera e propria discussione quando la si fa non già per mostrare i muscoli o per influenzare l'opinione pubblica, ma per spiegarsi il fatto strano che gli altri non la pensano come noi, come invece ci sembrerebbe naturale. In quest'ottica ritengo che avere innalzato delle insegne ideologiche (nel nostro caso quelle del laicismo) sia stato un errore. Forse gli animi si sono accesi più per il revival del conflitto atavico tra laici e cattolici, che appartiene al nostro DNA culturale, che per la sostanza delle questioni stesse poste sul tappeto, cioè per i rapporti tra etica e scienza, tra tecnica e natura, tra libertà e persona, tra diritto e morale. Direi che il dibattito non ha sempre mostrato partecipanti maturi, pienamente consapevoli che tali questioni sono ben più importanti della schermaglia trita e ritrita tra coloro che giudicano i loro oppositori come pericolosi totalitari e repressivi dogmatici e coloro che di rimando considerano gli avversari come scatenati libertari e corrotti relativisti. Tuttavia mi rendo conto che solo toccando le corde della sopravvivenza culturale si a volte ottenere un coinvolgimento delle persone in appassionate discussioni.
    Per queste ragioni il dibattito svoltosi, e soprattutto quello orale avvenuto nell'incontro di Milano organizzato da Politeia, può anche essere considerato come un piccolo osservatorio delle posizioni attuali dei cattolici e dei laici nei confronti della questione etica in generale. Mi ha colpito a questo proposito una progressiva accentuazione di una tendenza già presente nel passato. I cattolici insistono sempre più radicalmente sulla razionalità dei loro princìpi morali, sulla loro indipendenza dalla fede cristiana e sul dovere che anche i non credenti hanno di condividerli. I laici, al contrario, vanno sem pre più rinunciando alla possibilità di fondare razionalmente i primi princìpi della morale, li considerano come opzioni di fondo non discutibili e ne sottolineano il carattere di credenza nei cui confronti gli altri devono avere rispetto. I cattolici sembrano presentarsi come nazionalisti in morale e i laici come fideisti. Certamente non è una novità, perché la legge naturale è sempre stata legata al pensiero cristiano e il noncognitivismo è una creatura del laicismo. Ma quello che mi colpisce è la tendenza ad enfatizzare queste linee di pensiero. La mia impressione è che si resti fortemente influen zati dalla valutazione che diamo del nostro avversario dialogico. Si crede che il migliore argomento nei confronti di chi pensiamo sia un nazionalista sia quello tratto dalla pura ragione e che il modo migliore per mettere al tappeto un dogmatico sia quello di avanzare a nostra volta affermazioni dogmatiche. In questa confusione delle lingue le contrapposizioni s'irrigidiscono e l'incomunicabilità si accresce.
    Io credo che accettare di discutere i principi della morale non abbia alcun senso se non significa anche che essi hanno in qualche modo a che fare con la ragione. In caso contrario discutere si ridurrebbe a battere i pugni sul tavolo, a proclamare ex cathedra le proprie credenze e il proprio orgoglio di stranieri morali. La morale ha un senso se penso che i miei princìpi di giustizia dovrebbero anche essere seguiti dagli altri, cioè se non sono princìpi di uno straniero morale o se non credo di essere tale nel seguirli. In caso contrario non v'è affatto ciò che generalmente intendiamo per morale, ma vi sono solo gusti e preferenze come quelle per il gelato al limone. La volontà è la mia o la tua volontà, ma non ha senso dire che la ragione è la mia o la tua ragione. Tuttavia la ragione in morale ha uno statuto proprio, che non deve essere confuso con quello della conoscenza scientifica.
    Non è qui il luogo per discettare sulle caratteristiche della ragion pratica e sul suo statuto epistemologico. Ma vorrei solo notare la particolare importanza che per essa ha la dimensione intersoggettiva del consenso. Bisogna però ben intendere quest'aspetto dell'esperienza morale. E un fatto che a noi non basta avere princìpi morali, ma abbiamo bisogna che anche gli altri li riconoscano. Anche chi vuole essere uno straniero morale, non vuole però essere trattato dagli altri come tale. Vuole che gli altri gli dicano: fai bene a vivere così e ad avere queste credenze. Questo è il principio del rispetto per gli altri, che giustamente il Manifesto ha evidenziato e che è uno dei pochi princìpi morali intorno a cui c'è un consenso universale. Non sarebbe però vero e proprio rispetto il riconoscimento della pura e semplice libertà di fare ciò che piace. Il riconoscimento che si chiede alla società è nella sostanza un'approvazione degli altri. Non già nel senso che gli altri condividano il nostro progetto di vita e lo adottino essi stessi, ma nel senso che esso viene riconosciuto come appartenente a quell'universo di valori che la società nel suo complesso condivide e può essere comunicato attraverso il linguaggio comune della vita morale. Alle coppie di omosessuali non basta che la legge tuteli in qualche modo il loro menage, ma vogliono essere considerati famiglie vere e proprie, perché il consenso comune attribuisce alla famiglia un particolare valore morale. Solo così essi si sentono veramente rispettati dagli altri e credono che il loro progetto di vita appartenga al comune discorso morale. In tal modo però essi accettano di sottoporre le loro scelte morali alla ragione pubblica ed escono dal mero solipsismo delle preferenze. Voglio dire che, se accettiamo d'intendere in un modo non puramente estrinseco il principio del rispetto, allora dobbiamo attivare un ragionamento morale comune sui princìpi della morale.
    Qualcosa di simile succede anche nei confronti dell'altro principio morale ormai universalmente riconosciuto, cioè quello dell'autonomia. Laici e cattolici sono d'accordo sul fatto che nessuno può essere costretto ad agire contro la propria coscienza. Non c'è dubbio che non si possa togliere al cristianesimo il grande merito di avere introdotto questo principio nella storia umana, anche se i cristiani non sempre hanno saputo praticarlo. Tuttavia spesso si confonde l'autonomia morale con l'autonomia personale e si crede che la capacità di gestire da sé la propria esistenza, scegliendo i progetti di vita che si preferiscono, significhi anche la libertà di scegliersi i princìpi morali che ci vanno a genio. "Autonomia morale" non significa anarchismo etico, ma indica che il motivo per cui accettiamo i princìpi morali non può essere quello della pressione della tradizione o della forza di un'autorità. Noi dobbiamo accettarli nella libertà, ma non siamo liberi di crearli a nostro piacimento. Se sono veri e propri princìpi morali, debbono valere anche per gli altri e se debbono valere anche per loro, dobbiamo cercarli con loro. Un altro principio etico, che a mio parere ha una forza universale - anche se ciò non è riconosciuto dal Manifesto -, è quello per cui "non è lecito realizzare tutto ciò che è possibile fare". Negare questo principio significherebbe eliminare la differenza tra fatti e valori e credere che il progresso scientifico sia per ciò stesso un progresso morale. Quest'ultimo dipende dal modo in cui si conduce il dibattito privato e pubblico sulle giustificazioni delle nostre scelte morali. Qualora non si prestasse ad esso tutta la dovuta attenzione e non si riconoscesse l'indipendenza della ragion pratica, allora s'introdurrebbe una nuova autorità, accanto a quella politica e a quella religiosa, l'autorità della scienza. A queste condizioni sarebbe più logico accettare l'autorità religiosa. La scienza al potere mi fa molto più paura e non sono il solo.
    Se vi sono princìpi generali in comune, per quanto ancora insoddisfacenti, allora c'è una base per uscire dal pluralismo contrattualistico e per muoversi verso un forma diversa post-pluralista. lo credo che per questa svolta, necessaria se non si vogliono sottoporre le decisioni sulla vita e sulla morte ai calcoli della maggioranza (cosa ripugnante qualunque sia questa maggioranza), un aiuto consistente possa venire dal diritto. Il che potrebbe sembrare strano, perché l'opinione diffusa è quella che vede nel diritto un semplice notaio delle istanze e dei valori della gente, così come si esprimono attraverso le leggi di uno Stato democratico. Questa in fondo è anche l'opinione del Manifesto, che identifica il diritto con la norma imperativa e con la sanzione secondo i canoni del giuspositivismo. Ed è anche l'orientamento espresso dall'intervento di Guido Alpa (raccolto in questo fascicolo), che richiama il Parlamento ai suoi compiti di mediazione tra le posizioni estreme e di composizione degli interessi. Ma il diritto non è solo questo ed oggi appare sempre più evidente quanto più complesso sia il suo metodo di coordinazione delle azioni sociali.
    Il costituzionalismo ci ha insegnato che vi sono due livelli di norme giuridiche e che quelle costituzionali rappresentano un insieme di princìpi non negoziabili, mediante cui si può articolare il discorso pubblico interno ad una comunità politica. I princìpi costituzionali non sono oggetto di agire strategico, ma devono essere collegati a quel discorso pubblico che s'intreccia al di là e al di sopra degli schieramenti etico-culturali. Se questo discorso nel senso sopra indicato non è possibile, allora neppure si potrà più parlare di princìpi costituzionali, cioè di quell'orizzonte non disponibile all'interno del quale è possibile la comunicazione del pluralismo.
    L'irriducibile mentalità imperativistica del giurista conduce a pensare le nonne costituzionali allo stesso modo in cui vengono considerate le leggi ordinarie, cioè come comandi di un'assemblea costituente. Si pensa che essi saranno validi finché non intervenga un'altra assemblea costituente o finché non si metta in atto un procedimento di revisione costituzionale. Ma i princìpi costituzionali e i diritti fondamentali hanno una configurazione del tutto particolare. A differenza delle norme ordinarie essi non s'identificano con le loro formulazioni storiche. C'è sempre una loro sporgenza rispetto alle applicazioni contingenti, cosicché ci si trova sempre di fronte a casi che mettono in luce un'inadeguatezza della formulazione costituzionale. Bisognerà allora rinegoziare i princìpi? Certamente no, ma bisognerà attivare un discorso pubblico sulla loro formulazione. Voglio dire che ogni costituzione è cosa morta se non è sostenuta dalla continuazione del discorso pubblico, che mantiene vivo un minimo di etica comune. Si è creduto invece che fosse sufficiente fare lo sforzo dell'elaborazione di una carta costituzionale per costruire definitivamente la cornice della mediazione. Ciò ha retto per qualche tempo, finché s'è mantenuta in certo qual modo un'etica comune. La fine di questa e l'avvento del pluralismo ha evidenziato che il diritto costituzionale o è cosa vivente - come i costituzionalisti più attenti hanno sottolineato - o perde il suo ruolo specifico.
    I problemi della bioetica rappresentano macroscopicamente uno di quei casi in cui la formulazione costituzionale dei princìpi è entrata in crisi. Tutte quelle innovazioni biomediche, che oggi costituiscono i problemi fondamentali della bioetica, non credo che abbiano neppure lontanamente sfiorato la mente dei nostri padri costituenti. C'è indubbiamente una lacuna costituzionale riguardo all'etica della vita umana, specie considerando i problemi che essa deve oggi affrontare. Certamente ci sono princìpi costituzionali che possono essere -utilizzati, ma la loro formulazione è inadeguata. Di conseguenza, da una parte, si verifica una funzione di supplenza da parte della Corte costituzionale e, dall'altra, si cerca di rimediare con la legislazione ordinaria, cioè con la negoziazione. Entrambe le soluzioni sono insoddisfacenti e generano più conflittualità di quanta ne eliminino.
    Credo che sia urgente oggi porre mano ad una costituzionalizzazione dei princìpi della bioetica (un discorso consimile potrebbe essere fatto per l'ecologia). L'opinione di Rodotà, che vede nella decisione giudiziaria lo strumento adeguato ad una società pluralista, perché più aderente alle situazioni concrete e meno rigido delle regole, ha un certo valore nei confronti della legislazione ordinaria, ma occorre che i giudici siano guidati da princìpi comunemente accettati dalla società politica, altrimenti il loro intervento sarà condizionato dalle idee della tribù morale a cui appartengono.
    Per questo ho apprezzato l'iniziativa degli autori del Manifesto, cioè il loro intento di collocarsi a quel livello del discorso pubblico che incide sulla formulazione dei princìpi morali. Non credo - come ho cercato di mostrare - che i princìpi che essi propongono, almeno così come sono stati formulati nel Manifesto, possano costituire una buona base di partenza per una discussione veramente post-pluralista. Bisogna formularli meglio e aggiungerne altri per poter stabilire dei punti comuni, su cui tutti possano essere d'accordo. Ad uno di questi, cioè alla non necessaria identificazione tra progresso scientifico e morale, ho già accennato. Un altro principio dovrebbe essere quello della "corresponsabilità", che deve essere coniugata con la libertà se si vuole intendere la bioetica come aver cura della vita e non soltanto come la possibilità di realizzare i propri desideri con il solo limite dell'eguale libertà altrui.
    Ogni uomo è in certo qual modo responsabile dell'umanità e oggi questa responsabilità sta assumendo proporzioni gigantesche. t per questo che le decisioni riguardanti l'atteggiamento nei confronti della vita umana, degli embrioni umani e dei malati terminali umani non possono essere lasciate ai singoli interessati al modo di quelle puramente "private". Ora la responsabilità deve diventare "correspon sabilità". Questa non può essere intesa come la mera somma delle responsabilità individuali, ma richiede che gli individui siano considerati come membri di una comunità di linguaggio e di cooperazione di dimensione mondiale, che Apel si rappresenta come una sorta di meta-istituzione mondiale di tutte le istituzioni possibili. Quando parliamo della responsabilità della scienza e della tecnica nei confronti della crisi ecologica o della manipolazione genetica, nessuno di noi può tirarsi fuori da quest'azione collettiva di dimensioni mondiali. Prova ne sia che si cerchi d'istituire dei luoghi in cui questa corresponsabilità acquisti visibilità e possa essere in qualche modo controllata, come ad esempio le conferenze e i trattati internazionali, che dovrebbero essere (ma spesso non sono) una delle forme di manifestazione della ragione pubblica. Ognuno di noi dovrebbe sentirsi interpellato in prima persona dai problemi che interessano le radici stesse dell'umanità.
    Tuttavia la determinazione di questi princìpi generalissimi è solo il presupposto della comunicazione nella discussione che ha per oggetto i princìpi primi della bioetica, cioè essi sono la griglia comune dell'intendere e del comprendere nel regime di un pluralismo interattivo. Non si deve credere che con ciò stesso si sia già raggiunto un atteggiamento comune nei confronti della vita e della morte e una considerazione comune degli stati marginali della condizione umana. Ci troviamo, pertanto, di fronte ad un bivio storico nel modo di affrontare la questione bioetica, paradigma centrale dell'etica contemporanea. La soluzione negoziale rappresentata dai comitati di bioetica e dal principio del "consenso informato", la cui attuazione spesso si riduce ad una finzione, non basta più. Imboccare la strada comunitaria propugnata di recente dal bioeticista americano, Veatch, che vede nella chiusura nella propria comunità morale e nella scelta di medici correligionari l'unico modo per rispettare la volontà del paziente, significa sancire la divisione dell'umanità in tribù morali incomunicabili e, tra l'altro, ritornare al paternalismo. Non resta che la strada diffiylc del discorso pubblico in cui i partecipanti non si presentano come rappresentanti di una decisione già presa, ma come attori responsabili nei confronti non solo della libertà, ma anche della vita dell'umanità in tutte le sue manifestazioni.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Una chance per la bioetica e per il diritto.
    di AMEDEO SANTOSUOSSO
    Magistrato, Milano; Consulta di Bioetica, Milano.
    Il conflitto tra bioetica laica e cattolica o religiosa in Italia è valorizzato in modo assolutamente particolare. Ciò è certo dovuto alla massiccia presenza di istituzioni cattoliche nel nostro paese, ma credo che in buona parte dipenda anche dalle caratteristiche che ha assunto e dal modo in cui si è presentata la bioetica in Italia. Il punto di partenza per una riflessione di tal genere è inevitabilmente costituito dagli Stati Uniti, dal momento che la bioetica ha indiscutibilmente origine e maggiore svi luppo (ancora oggi) proprio in quel paese[1].

    Caratteristiche della bioetica negli USA
    La bioetica americana è sorta ed è segnata dai grandi casi giudiziari di cui si sono occupati la Corte suprema federale e le corti statali. Si pensi, per esempio, a come il dibattito sul consenso informato, punto centrale della relazione medico paziente, èstato in larga parte un dibattito su alcuni casi di confine, come Salgo (1957), nel quale per la prima volta in termini espliciti viene affermato che il consenso deve essere preceduto dall'informazione del paziente e viene adottata l'espressione "informed consent", oppure Canterbury (1972), nel quale viene dibattuto e delineato un certo standard di informazione da dare al paziente. Inoltre il dibattito sulle decisioni sui trattamenti quando il paziente non è cosciente e, quindi, in parte sull'eutanasia, è impossibile da distinguere dal dibattito sul caso Quinlan (1976), nel quale i genitori di una giovane donna in stato vegetativo persistente furono autorizzati a rimuovere il collegamento con il respiratore automatico, e su una serie di altri casi analoghi fino a quello Cruzan, che ha visto la Corte suprema federale pronunciarsi per la prima volta sul "right to die". Infine il dibattito sul right to privacy è stato tutt'uno con il dibattito su una serie di decisioni della Corte Suprema, come Griswold (1965) e Eisenstadt (1972), sull'uso degli anticoncezionali e sulla decisione di fare figli o meno, Roe (1973) sul diritto della donna di interrompere la gravidanza e Bowers (1986), che, in controtendenza rispetto a precedenti pronunce, considera costituzionale la legge dello stato della Georgia che punisce gli atti omosessuali, anche se commessi in privato e tra adulti consenzienti.
    Daniel Callahan, uno dei fondatori del notissimo e prestigioso Hastings Center di New York, sottolinea come la bioetica sia figlia del suo tempo e non sia certo un caso che abbia gravitato quasi dall'inizio verso un'etica dell'autonomia. A suo avviso ciò èun riflesso dell'ideologia dominante negli Stati Uniti, alimentata per giunta da episodi nei quali vi erano state importanti violazioni dell'integrità individuale. Questo insieme di circostanze spiega, secondo Callahan, il fatto che il campo della bioetica sia stato spinto sin dall'inizio verso una asserzione del diritti individuali e abbia adottato il linguaggio dei diritti[2].
    Questo ovviamente non significa che tutto il dibattito sia stato di tipo giuridico. Ognuno dei commentatori è certo intervenuto con i propri strumenti disciplinari, e quindi in termini filosofici o giuridici o di altro genere, ma lo ha fatto a partire dalla particolare forma che quei problemi assu mevano come conflitti giuridici, specie davanti alle corti. Il che costituisce una particolarità unica, non riscontrabile in altri paesi (e meno che mai nel nostro, come diremo fra un attimo).
    E si spiega così il fatto che, nei commenti, l'argomentazione etico filosofica e quella giuridica sono state fortemente intrecciate e hanno assunto talora, quando erano in discussione i poteri della Corte Suprema, i caratteri di un vero e proprio I.constitutional drama", secondo l'efficace espressione di Ronald Dworkin.
    Il dato incontrovertibile, sul quale convergono i più autorevoli studiosi, è comunque che, per un verso, i bioetici non giurasti hanno regolarmente discusso gli argomenti giuridici e, per altro verso, i giuristi si sono a lungo uniti nella collaborazione multidisciplinare che ha creato la moderna bioetica.
    Il tutto è avvenuto in un contesto culturale dominato dal "principlism" di Beauchamp e Childress, che è un modo di ragionare deduttivo a partire da un set limitato di principi etici di medio livello giù verso il caso in esame. I principi di Beauchamp e Childress sono, come è noto, quelli di autonomia, beneficenza, non maleficenza e giustizia, e hanno fino ad epoca recente totalmente permeato la letteratura bioetica, la pratica clinica e la formazione bioetica, in un modo così esteso e condiviso che qualcuno vi ha visto "un periodo di quiescenza" del dibattito teorico.
    Alla fine di tutto, nonostante le più recenti critiche provenienti da un fronte composito, nel quale si trovano tra l'altro communitarians, femministe e neri, risulta confermata la centralità del ruolo giocato dal diritto, centralità che si manifesta sia come ampiezza della casistica giudiziaria intorno alla quale gli studiosi sono stati chiamati a schierarsi sia come influsso culturale della particolare configurazione di un diritto che si forma attraverso i casi giudiziari, sia come centratura particolare sul concetto di autonomia, che, se ha origine e fondamento filosofici, trova nel sistema normativo giuridico il massimo di realizzazione sociale estesa.
    Ancora oggi George Annas può affermare che "il diritto americano, e non la filosofia o la medicina, è il principale responsabile delle scadenze, degli sviluppi e dello stato corrente della bioetica americana". E anche chi, come Alexander Capron, non condivide la radicalità di questa posizione, afferma comunque che "il diritto ha senza dubbio fortemente influenzato il fuoco centrale della bioetica, i suoi valori e la sua metodologia".

    La bioetica italiana
    Nella bioetica italiana la miscela è completamente diversa. Il discorso di tipo etico filosofico o teologico morale ha avuto finora una netta prevalenza rispetto a quello di tipo giuridico. Ciò è riconducibile per un verso al particolare peso che hanno avuto e hanno in Italia le posizioni cattoliche e per altro verso alle caratteristiche della bioetica laica che ha teso a configurarsi principalmente come discorso etico filosofico di tipo critico verso le posizioni cattoliche dominanti. Il mondo giuridico, per parte sua, non ha mostrato, almeno fino a un certo punto, una particolare apertura verso i nuovi profili del dibattito che si andava svolgendo in altri paesi.
    Le eccezioni di alcuni giuristi sensibili a questi temi sono ben note, ma non incrinano la netta prevalenza di un certo "spirito dei giuristi italiani", che hanno escluso dal loro orizzonte l'idea che i conflitti che si pongono nella medicina potessero essere analizzati in termini giuridici e hanno abdicato a favore o dell'autorità morale dell'insegnamento della Chiesa cattolica o delle "leggi dell'arte medica", rinviando in tal modo a sistemi normativi diversi, di derivazione religiosa o tecnico scientifica. A conferma della limitata influenza dell'apporto giuridico sta la scarsezza di casistica giudiziaria in Italia fino a epoca recente. Inoltre quando alcuni casi di rilievo portano a importanti decisioni della magistratura, queste rimangono per lo più scollegate dal dibattito bioetico e non vengono valorizzate. Per esempio il caso Oneda (genitori Testimoni di Geova che non fanno trasfondere la figlia talassemica), all'inizio degli anni '80, è stato certo dibattuto in campo giuridico, ma probabilmente ha influito molto poco, forse nulla sulla bioetica italiana che andava nascendo in quegli anni per vie e con caratteri del tutto diversi. Quando poi all'inizio degli anni '90 vi è stato il caso clamoroso di un medico condannato a sei anni di reclusione per aver operato una paziente senza il suo consenso, la reazione è stata di panico in ambienti medici, a volte male informati dei termini della questione. Ma non si può certo dire che vi sia stato un dibattito ampio tra medici, giuristi e bioetici in senso più ampio. Infine non si può dimenticare il fatto che in alcuni settori il ritardo legislativo è clamoroso e ancora oggi (estate 1996) manchi una legge che regoli la fiorente attività dei centri per le fecondazione assistita.
    E interessante notare però come il limitato attivismo dei giuristi italiani non abbia impedito e, anzi, va di pari passo con l'ingresso nel dibattito italiano di alcuni temi e spezzoni di ragionamento giuridico di derivazione americana. Un particolare canale di penetrazione di esperienze e teorie giuridiche americane si è rivelato il mondo medico, e quella sua parte più aggiornata, che segue le riviste in lingua inglese, americane in particolare, sulle quali ha trovato (e trova) discussi ampiamente, da medici, da filosofi e da giuristi, i temi bioetici e giuridici. Così temi bioetici dibattuti negli Stati Uniti e aventi un forte contenuto giuridico (di diritto vigente in quel paese) sono stati conosciuti in Italia prima in ambienti medici che in ambienti giuridici.
    Così è sicuramente accaduto per il consenso informato.
    Altrettanto era accaduto per il dibattito sull'accanimento terapeutico che, negli anni '80, aveva ruotato intorno alla nota proposta di legge Fortuna, che riproduceva espressioni e concetti tratti dal Natural Death Act dello Stato della California del 1976: espressioni e concetti incongrui e non significativi nel nostro ordinamento giuridico.
    Qualcosa del genere è infine accaduto negli ultimi anni anche per alcune proposte relative al living will in Italia, come per esempio il testo proposto dalla Consulta di bioetica di Milano nel 1992, che riproduceva la struttura dei "will" americani più che essere calibrata sulla realtà normativa italiana.
    Nelle grandi linee sembra che si sia prodotta una sorta di stratificazione multipla nella quale sono presenti elementi di bioetica americana, intrisa di diritto americano, elementi di bioetica italiana, che recepisce i termini del dibattito USA (inclusi alcuni contenuti giuridici americani), e elementi di diritto italiano, che pur ha una sua storia e sue compatibilità.
    Tutto ciò è particolarmente evidente nel documento del Comitato Nazionale per la Bioetica sul "consenso informato" (1992). Nel testo, pur di grande interesse, si possono trovare nell'introduzione affermazioni di carattere generalissimo e un po' astoriche sul consenso informato come regola aurea da sempre [?] del rapporto medico paziente; sezioni giuridiche dove il problema dell'informazione e del consenso viene trattato in modo puntuale secondo il diritto italiano vigente (e non a caso in questa parte non viene usata l'espressione consenso informato); altre parti, di tipo etico, nelle quali, per esempio, si parla degli standard di informazione del paziente (oggettivo, paziente razionale e soggettivo) riproducendo, come dibattito etico di carattere generale, quello che invece è il dibattito tecnico giuridico specialmente statunitense e che ha preso forma nelle sentenze delle corti di quel paese.
    Gli esempi potrebbero continuare, ma non farebbero altro che confermare la singolarità del rapporto tra bioetica e diritto nella situazione italiana. A voler usare una metafora teatrale si potrebbe dire che, in una prima scena, si vede la bioetica che rivendica la sua alterità rispetto al diritto e, per parte sua, il diritto che fa il riottoso a intervenire sui temi della bioetica o prende la separata veste del biodiritto. In altra scena (o dietro le quinte) la stessa bioetica si fa veicolo (sempre consapevole?) di elementi di un particolare diritto, quello americano, e lo contrappone, magari sotto l'abito dell'etica, al diritto italiano.
    Nulla di scandaloso in ciò, purché si sappia di cosa si sta parlando e sia chiaro che talvolta, più che un discorso etico, si sta facendo (in modo un po' provinciale) del diritto al quadrato o, semplicemente, della comparazione giuridica non precisa.

    Mancanza di un sentire bioetico condiviso
    In Italia manca un sentire bioetico condiviso, questo mi sembra il nodo centrale, piuttosto che la contrapposizione, pur corposa e innegabile, tra orientamento laico e religioso in bioetica.
    Se si paragona la situazione italiana con quella degli Stati Uniti emerge con estrema chiarezza come da noi non vi sia stato, e non vi sia, nulla che abbia svolto la funzione che in quel paese hanno svolto i quattro principi di Beauchamp e Childress, principi variamente interpretati, ma universalmente accettati e considerati operativi e vincolanti, tanto da costituire la base di quello che secondo qualcuno sarebbe stato persino un periodo di quiescenza teorica. Certo anche in Italia questi principi, così come l'opera di quegli autori, sono conosciuti e citati dai cultori della bioetica, anche di diverso orientamento, ma sono ben lungi dall'essere diventati un patrimonio comune di chi fa bioetica in Italia. Per esempio, in campo cattolico il diffusissimo e particolarmente influente manuale di Elio Sgreccia, nelle prime edizioni, nonostante che avesse un apposito capitolo dedicato a "la bioetica e i suoi principi", non citava nemmeno questi principi.
    La mancanza della centralità condivisa di questi (o altri) principi e, invece, la netta distinzione tra una bioetica di ispirazione religiosa e una bioetica laica è un fatto sotto gli occhi di tutti nell'esperienza italiana.
    L'accentuazione della bioetica come disciplina filosofica, secondo una particolare concezione filosofica, aggrava questo problema. Così l'opinione dell'attuale presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, Francesco D'Agostino, che pone un particolare principio, come quello di relazionalità, a fondamento e confine della bioetica, è di quelle idonee a fondare "una" bioetica, ma non a creare un contesto condiviso.
    La proposta proveniente da autori laici di porre a fondamento e caratterizzazione della bioetica l'idea di qualità della vita, parte da una presa d'atto fattuale e teorica della impossibilità di porre a fondamento dell'etica oggi il dovere assoluto ed è quindi sicuramente più aperta, ma nel momento in cui dall'idea di qualità della vita trae sistematicamente tutte le conseguenze razìonalmente deducibili, rischia di creare uno sbarramento non molto diverso, negli effetti, da quello posto da un'etica sostan zialísta come quella di D'Agostino.
    Sembrerebbe quindi giustificato l'atteggiamento di chi, da parte sia laica che cattolica, preferisce parlare di "bioetiche al plurale" più che di una "bioetica al singolare", che ha all'intemo diversi orientamentì. Il prezzo di questa situazione, o di questa scettica presa d'atto, è però alto. In tal modo infatti la diversità di orientamenti culturali e morali (in sé fatto positivo) porta alla rottura, o nel caso dell'Italia alla mancata costruzione, di un contesto unitario di riferimento per la bioetica. Perché è evidente che una volta che si accetti l'esistenza di diverse bioetiche, ognuna di esse è libera di assumere i propri principi di riferimento e i propri linguaggi, ma il risultato sarà quello della mancanza di scambio e, soprattutto, la difficoltà o impossibilità di adottare politiche pubbliche, e quindi di fare scelte anche legislative, che siano sentite da tutti come vincolanti, pur se con diversi livelli di adesione morale a particolari contenuti.

    Una chance per il diritto?
    Nella situazione italiana sembra presentarsi in forma particolarmente evidente e lacerante un problema generale della bioe tica e delle società attuali e cioè "l'incapacità della ragione di imporre a questa società il riconoscimento di un qualsivoglia canone morale vocato a risolvere tutte le difficoltà, in forza della sola capacità a convincere nello stesso modo tutti gli esseri dotati di coscienza e di ragione"[3].
    Ci si può chiedere allora se la consapevolezza della mancanza di un sentire comune condiviso in bioetica in Italia e della difficoltà per la filosofia morale di dare una risposta a questo specifico problema, apra delle prospettive per il ruolo del diritto in bioetica e a quali condizioni.
    Su questo piano formulo alcune ipotesi.
    1)È possibile che il diritto, in quanto campo nel quale il processo di secolarizzazione è più avanzato (e in un certo senso ha carattere costitutivo) e nel quale quindi è centrale l'individuo e la sua autonomia, costituisca un luogo o un elemento di quel sentire condiviso?
    2) È in grado il diritto, per assumere questo ruolo, di regolare i propri conti per un verso con la tradizione strettamente giuspositivista (che lo riduce a mera legalità) e per altro verso con il giusnaturalismo, riuscendo a delineare un quadro di principi e diritti fondamentali cui sia assegnato il compito di riferimento e di contraddittori costante della legislazione ordinaria?
    3) Può dirsi già oggi esistente un certo patrimonio condiviso da giuristi laici e cattolici su alcuni punti rilevanti in bioetica, come i seguenti? Per esempio, su un piano generale, l'evoluzione complessiva del diritto alla salute nelle sentenze della Corte costituzionale e nelle più importanti della Corte di cassazione, pur nei suoi aspetti contraddittori e pur tenuto conto dei passaggi controversi al suo interno (si pensi all'aborto e al mutamento di sesso) sembra delineare un percorso sul quale è possibile un ampio consenso tra i giuristi, in part'ícolare sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione di ogni individuo in ordine alle scelte relative alla sua salute e alla sua persona. Inoltre il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica su "il consenso informato", e in particolare la sua parte giuridica, contiene l'importante affermazione che il diritto costituzionale alla salute è anche un diritto di libertà, che legittima la pretesa del soggetto che gli altri si astengano da ogni interferenza illegittima verso la sua autodeterminazione. Infine giuristi, pur di diverso orientamento morale, riconoscono da tempo il diritto di rifiutare terapie anche quando possono scaturire conseguenze negative per la salute e persino per la vita, in base al principio della incomprimibilità della volontà e della non possibilità di invadere la sfera personale di alcuno senza o contro la sua volontà.
    4) Può questo iniziale patrimonio giuridico condiviso reggere all'impatto di questioni radicalmente controverse come l'aborto? La nettezza di alcune posizioni, come quella di chi dall'idea morale che l'embrione èpersona trae direttamente la conseguenza giuridica che l'interruzione della gravidanza viola la sfera personale di un terzo (l'embrione), travolge certo ogni possibilità che quel patrimonio comune regga. Ma forse non è questa l'unica soluzione possibile: non può sottovalutarsi infatti che, su un piano strettamente giuridico, è s tata proprio l'illegittimità di ogni invasione della sfera personale della donna l'argomento decisivo sulla base del quale la Corte suprema federale degli Stati Uniti, pur avendo al suo interno una maggioranza antiabortista, ha negli ultimi anni confermato il diritto della donna di decidere, in ultima istanza, se proseguire o meno la gravidanza.
    Non è facile dire se la prospettiva che queste ipotesi delineano sia praticabile. Essa avrebbe certo il vantaggio di rendere possibile il confronto sui valori profondi in gioco, un confronto che può essere tanto più approfondito quanto meno i singoli contrasti hanno la forza di pregiudicare il quadro comune, sia come quadro culturale sia come accettazione e non boicottaggio di leggi esistenti. Un risultato del genere sarebbe di straordinaria importanza perché non bisogna dimenticare che, se sull'aborto vi è una rottura netta e sull'eutanasia un contrasto grave, vi sono altri temi bioetici, tra i più urgenti, come quelli collegati alla genetica, nei quali la divisione tra posizioni laiche e religiose è molto meno netta e nei quali quindi l'esistenza di un quadro unitario di riferimento può consentire scelte all'altezza dei problemi.

    Note
    nota 1 Le considerazioni che seguono sono tratte dal mio "Bioetica e diritto", in Barni-Santosuosso (a cura di), Medicina e diritto. Prospettive e responsabilitìz della professione medica oggi, Giuffrè, Milano, 1995 (pp. 21-45), nel quale è possibile trovare un'argomentazione più ampia, inseme ai completi riferimenti bibliografici.
    nota 2 Daniel Callaban, Bioethics: Private Choice and Common Good, "Hastings Center Report", vol. 24, n. 3, May-June, 1994, pp. 28-31: in quel numero vari altri interessanti contributi sull'argomento.
    nota 3 H. Tristram Engelhardt, Bioetica: i limiti della legislazione, "Biblioteca della libertà", 1994, 2, 125, pp. 85-107 (in particolare p. 91). E, in altro punto, "la filosofia morale, quale la si concepisce attualmente, non può soddisfare il bisogno, avvertito dalal maggioranza, di disporre di 'principi guidà tali da consentire di regolare ogni cosa" (p. 85). Sono le posizioni alla fine di tutto del noto Foundations of Bioethics, vedi anche la Replica a Civiltà Cattolica su bioetica laica e religiosa, in "Bioetica", 2, 1993, 346-350.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Il contributo dell'ecologia alla bioetica.
    di MARIACHIARA TALLACCHINI
    Università degli Studi, Firenze.
    Le osservazioni che propongo sono tese a superare alcuni equivoci nella contrapposizione tra bioetica laica e cattolica: taluni punti di dissenso tra le due prospettive possono forse appianarsi attraverso la contestualizzazione dei problemi dibattuti in un orizzonte più ampio. Vorrei avanzare un «argomento ecologico» e un «argomento dell'incertezza scientifica». Tali argomenti indicano due diverse vie per contestualizzare i problemi bioetici: il primo colloca questi nella più vasta prospettiva delle questioni ecologiche; il secondo arricchisce le scelte di valore della specifica assiologia implicata da alcune condizioni in cui si trova a operare la scienza. Entrambe le riflessioni contribuiscono a svincolare in parte le decisioni su tali temi dalla secca alternativa tra posizioni laiche e cattoliche.
    Argomento ecologico
    Il primo argomento è di fatto implicito nei principi sostenuti dal Manifesto di bioetica laica. Dopo aver affermato che l',nomo è parte della natura, il Manifesto precisa l'attuale inscindibile connessione tra naturalità e artificialità, le cui interazioni devono avvenire nel "rispetto degli equilibri e dei legami che (... ) uniscono (l'uomo) alle altre specie viventi".
    Si può osservare che se attualmente ben poco degli aspetti della vita si sottrae all'artificialità, è però indubbio che carattere congenito della bioetica nei confronti delle modalità dell'esistenza sia stato fin dall'inizio un accentuato «sguardo da laboratorio»: l'idea di vita con cui la bioetica si confronta è essenzialmente la vita manipolata artificialmente. Ciò ha a che fare con gli specifici problemi da cui storicamente ha preso le mosse la bioetica. Si tratti delle tecnologie riproduttive o degli interventi di modificazione del genoma, del problema dell'eutanasia e dell'accanimento terapeutico, la vita della bioetica è sempre estrapolata dalle sue condizioni di naturale svolgimento: la bioetica è caratterizzata da un'immagine della vita marcatamente considerata come vita «in vitro» e non «in vivo»; ma questa non è la totalità della vita, non è la vita considerata nel suo globale svolgersi.
    Se si prende sul serio il principio di partecipazione dell'uomo alla natura, non èpossibile separare la discussione sulla bioetica dalle questioni di vita globale messe a fuoco dalla riflessione ecologica. Si può, per esempio, porre il quesito circa la «sostenibilità»[1] - criterio che fonde valutazione economica e biofisica - delle scelte bioetiche, analogamente a quanto accade con le decisioni di tipo ecologico. Tale quesito vale, in particolare, a proposito della questione demografica, che non può essere considerata trascurabile in relazione alle tecnologie riproduttive. Così il principio dell'autonomia degli individui in ordine a tali scelte va contemperato con il dato delle risorse finite, la gestione delle quali esige scelte razionali collettive che possono anche comprimere la libertà individuale.
    La necessità di valutare le connessioni tra temi bioetici ed ecologici - che non equivale comunque alla riduzione dei primi ai secondi[2] - può essere considerata come una "valutazione di impatto ambientale" delle opzioni bioetiche[3]. Una concreta previsione di valutazione di impatto delle biotecnologie è, per esempio, contenuta nella Convenzione sulla biodiversità, che dispone particolari cautele per l'inserimento negli ecosistemi di organismi geneticamente modificati (GMO)[4].

    Argomento dell'incertezza
    Come è stato osservato da alcuni partecipanti al dibattito, il principio del valore della conoscenza come fonte di progresso muove dalla convinzione che il sapere scientifico possegga una certezza e un'uni vocità di cui è ragionevole dubitare. Il secondo argomento che vorrei avanzare concerne, appunto, il fatto che la scienza sia divenuta in modo crescente il luogo dell'incertezza, nel senso che il suo fre quente agire in condizioni di (maggiore o minore) ignoranza ne pregiudica le capacità di previsione dei fenomeni.
    lan Hacking[5] ha osservato che la centralità epistemica che l'ignoranza ha acquisito in relazione all'applicazione delle scienze non è tuttora sostenuta da un'adeguata riflessione sul suo statuto epistemico. Il termine ignoranza ricomprende sia il rischio che l'incertezza: nel giudizio in condizioni di rischio, non è possibile affermare con certezza che un evento si verificherà, ma si può quantificarne la probabilità; nel giudizio in condizioni di incertezza, diversamente, non è disponibile alcuna quantificazione di probabilità, e talora nemmeno l'individuazione dell'evento possibile.
    L interessante sottolineare che la condizione di incertezza è tipica dei cosiddetti «effetti di interferenza» tra laboratorio e natura, le reciproche interazioni tra leggi naturali ed effetti dell'impiego tecnologico delle leggi naturali; e che tale condizione è quasi definitoria di molte situazioni che pongono problemi bioetici, generati proprio dall'incontro tra fenomeni naturali ed antropici.
    Sempre in materia ambientale, la cospicua presenza di giudizi puramente probabilistici ha suggerito l'elaborazione di un altro criterio giuridico prudenziale, il principio dell'approccio cautelare (o pre cauzionale)[6], secondo cui l'assenza di certezza scientifica circa il verificarsi di un danno ecologico non è una ragione per evitare di assumere misure di prevenzione[7].
    Non è fuori luogo pensare ad una applicazione del principio precauzionale ad alcune questioni bioetiche, laddove il potere di manipolazione non sia sostenuto da una conoscenza adeguata dei fenomeni su cui si interviene. Si pensi per esempio alle conoscenze piuttosto scarse relative alle sterilità di coppia: benché sia ancora raro riuscire a definire senza ambiguità la causa dell'infecondità[8], a tale ignoranza non è ricollegata nessuna conseguenza cautelare, ed essa resta subordinata al principio della scelta autonoma degli individui e a un presunto «diritto» alla procreazione. Le proposte di legge italiane avanzate in tema di fecondazione assistita si contrappongono nella scelta tra autodeterminazione della donna e inserimento della procreazione in un contesto familiare tradizionale, ma concordemente riducono la questione alla sola opzione tra valori alternativi, ritenendo del tutto ovvio che le asserzioni assiologiche prescindano dai fatti (e dall'incertezza sui fatti).
    L'orizzonte ecologico delle sfide globali e le incertezze della scienza sono fatti rilevanti nella scelta dei valori, o almeno importanti nell'escludere le scelte che da essi nettamente prescindono. Questi fatti possono consentire la revisione di alcune scelte bioetiche e la creazione di un terreno di incontro tra cornici di valori eterogenee.

    Note
    nota 1 Il Rapporto IUCN, UNEP, WWF del 1991 (Caring far the Earth) così precisa l'idea di sviluppo sostenibile: "Sustainable development means improving the quality of human life while living within the carrying capacity of supporting ecosystems. A «sustainable economy» maintains its natural resource base".
    nota 2 Il «contestualizzare» la bioetica all'interno della prospettiva ecologica è cosa diversa dal «fondare» ecologicamente la bioetica, vale a dire di risolvere le questioni bioetiche con i criteri di un'ecologia normativa. Nel primo caso, infatti, non si assume l'ecologia come sapere «forte», ma ci si limita a ricordare che le scelte bioetiche accadono e producono ricadute nel mondo globale. Per quanto riguarda il rapporto di generalità tra bioetica ed eco-etica, opinioni opposte sono state formulate da P. Kemp, Un'etica per il mondo vivente, in E. Agazzi (a cura di), Quale etica per la bioetica?, F. Angeli, Milano 1990, pp. 104-121, secondo il quale l'etica dell'ambiente deriva dalla bioetica, che è etica della vita umana; e da J. B. Callicott, Non-anthropocentric Value Theory and Environmental Ethics, in "American Philosophical Quarterly", 1984, 21, pp. 299-309: "(..) environmental ethics is not an applied ethics similar to biomedical or business ethics; it constitutes, rather, nothing less than an incipient paradigm shift in moral philosophy" (p. 300).
    nota 3 Earth Charter, 14.6.1992, Principle 17: "Environmental impact assessment (..) shall be undertaken for proposed activities that are likely to have a significant adverse impact on the environment (...).
    nota 4 Convention on Biological Diversity, Na.92-7807, 5.6.1992, Art.8 (g)(h): "Each contracting Party shall (..) control the risks associated with the use and release of living modified organisms resulting from biotechnology which are likely to have adverse environmpntal impacts, (..) taking also into account the risks to human health".
    nota 5 Hacking, Culpable Ignorance of Interference Effects, in D. Maclean (ed.), Values at Risk, Rowman & Allanheld, Totowa N.J. 1986, pp. 136-154.
    nota 6 Earth Charter, Principle 15: "(..) Where there are threats of serious or irreversible damage, lack of full scientific certainty shall not be used as a reason for postponing cost-effective measures to prevent environmental degradation".
    nota 7 La distanza che separa valutazione di impatto e approccio cautelare è queiìa che esiste tra giudizio di rischio e di incertezza; cfr. D. Bodansky, The Precautionarv Principle in US Environmental Law, in T. O'Riordan, J. Cameron (eds.), Interpreting the Precautionary Principle, Earthscan, London 1994, pp. 203- 228: "Risk assessment, unlike the precautionary principio, (..) does take a neutra] attitude towards uncertainty. (..) In contrasti the precautionary principle is not neutral towards uncertainty -it is biased in favor of safety" (p. 209).
    nota 8 Cfr. M. Geddes (a cura di), Rapporto sulla salute in Europa, Ediesse, Roma 1995.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Bioetica laica ed embrioni.
    di FRANCESCO FORTE
    Università "La Sapienza", Roma.
    Ho letto e riletto il manifesto dell'etica laica, che mi sembra un manifesto di profonda umanità e razionalità: tollerante, che non merita le critiche degli intolleranti.
    Le questioni che esso tratta, riguardanti la liceità delle sperimentazioni sugli embrioni sono due: quelle relative alla scienza medica allo scopo di promuovere la riduzione delle sofferenze umane; quelle relative alla ricerca scientifica pura. Per entrambe queste ipotesi, l'etica laica reputa che sia un imperativo morale quello di non porre barriere alla ricerca e alla sperimentazione, operando sugli embrioni che non esseri in grado di soffrire, sono speranze di vita ma non vita.
    La scelta difficile, che in altri casi si pone, fra la sofferenza o la morte dì un vivente, (una cavia) per scopi di ricerca scientifica qui non si pone. Né si pone la dolorosa problematica della sperimentazione, che si ha con riguardo a malati terminali, per farmaci con esito incerto. 0 in altri casi di scelte, che appartengono alle categorie di quelle "tragiche".
    Sarebbe errato affermare che l'etica laica non ponga barriere alla libertà della ricerca scientifica e alla libertà in genere. Questo ritratto di comodo, che ne vien fatto, da fautori - troppo orgogliosi e sicuri di sé - di etiche impegnate, basate su concezioni religiose, intese in modo obblígante, costituisce un gratuito (e forse voluto) fraintendimento, Non vi è più geloso tutore della libertà e dell'uomo, che chi in essa crede. E perciò l'etica laica alla libertà pone barriere quando un'azione, una regola leda altrui libertà, dotate di titolo valido porti alla distruzione della libertà umana come principio e dell'uomo come valore. Basta leggere anche questo testo, il Manifesto dell'etica laica di cui sto discutendo, per rendersi conto di tale modo conseguente dì ragionare. Esso afferma che l'uomo non è sopra la natura, ma parte di essa e non è opposto alla natura. "Essendo parte della natura, egli può interagire con essa, conoscendola e modificandola nel rispetto degli equilIbri e legami che lo uniscono alle altre specie viventi". Ecco, dunque, la barriera alle sperimentazioni sugli embrioni umani, vanno evitate quelle che si prefiggano di creare specie intermedie fra uomo e animali o di modificare l'uomo, come ad esempio creando dei sottouomini privi dì intelligenza creativa, da utilizzare come schiavi o di produrre uomini giganteschi o con braccia lunghissime, atte a servire da attrezzo per scaffali alti od operazioni in profondità; o con otto dita per effettuare meglio certe operazioni o molto piccoli, per la guida di piccoli servo meccanismi e così via.
    La sfera delle nostre libertà si basa sulla pari dignità degli umani, come essi sono. Questa barriera alla sperimentazione si desume dall'uomo come valore, libero di cercare il proprio destino, in una città dì uomini egualmente liberi.
    Ci sono altri problemi, su cui l'etica laica non può dare risposte definite, perché non sono dei primi due tipi (quelle che non debbono essere perseguite).
    Ad esempio, la scelta del sesso; nel caso della inseminazione artificiale; l'inseminazione artificiale non di chi non può altrimenti avere figli ma di chi li vuole in quel modo, per poter scegliere l'embrione.
    Invece mi pare chiaro che all'etica laica ripugni il commercio degli embrioni, come attività produttiva remunerata di chi li genera; e l'impiego selettivo degli embrioni per modificare la specie umana o quella di una certa razza o di una certa regione, così come si fa, ad esempio, per le mucche frisone, che tramite tali selezioni, ora sono capaci di produrre più latte e dì farsi mungere più agevolmente.
    Ci sono punti in cui la discussione può chiarire meglio il "che suggerire": fermo restando che secondo l'impostazione dell'etica laica si tratta di proporre codici di autoregolamentazione, non già norme di legge, salvo casi veramente estremi.
    Discutere cori il professor Agazzi sui temi che egli ha prospettato, sarà certo di grande valore, per gli uni e per gli altri. Peraltro, mi sia consentito porre in dubbio la necessità della sua premessa, alle note di cautela, con cui egli tratta della liceità dell'utilizzo degli embrioni in soprannumero, per scopi di ricerca e per scopi di riricerca diversi da quella originari riproduttivi.Egli dice che tale cautela discende dalla premessa che, pur non essendo persone, gli embrioni potrebbero diventarlo e, quindi, essi vanno trattati con il rispetto dovuto a tale possibilità.
    Al riguardo, io presento due obiezioni, la prima si riferisce al pericoloso ragionamento all'indietro, che così si innesta. Anche lo sperma non fecondato potrebbe diventare persona. Dovremmo trattare con rispetto quello che è racchiuso in un preservativo, gettato per terra? Anche lo sperma non ancora uscito potrebbe diventare persona, ove uscisse e servisse per fecondare. Dobbiamo impedire che si disperda, ad esempio tramite una polluzione involontaria nel sonno'? La seconda obiezione riguarda il rispetto dovuto a chi può diventare persona. Un defunto non può diventare persona, ma noi lo rispettiamo. Si risponde che è stato una persona. Bene. Ma allora la potenzialità di esser persona non è più l'unico requisito che rileva, cioè il, requisito della "vita" non è più quello determinante. Penso che dobbiamo rispetto ad un cane, vivo o schiacciato da un'auto su una strada. Eppure non è una persona. E non lo è mai stato.
    Penso che si possa dire che vi sono molte ragioni per agire con rispetto, per quanto riguarda l'impiego o 'la distruzione o la surgelazione di embrioni "in soprannumero", anche se essi non varino considerati come persone, in quanto ne hanno una qualche probabilità, E lascio al professor Agazzi, che è un filosofo di quattro quarti, mentre io non lo sono, il compito di trovare per questa cosa, che ha a che fare con la vita umana, ragioni di rispetto, anche senza inseguire la probabilistica, che dopo Port Royal risulta un esercizio opinabile, nelle questioni che stanno fra la metafisica e la morale (o l'etica pubblica).
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Bioetica laica e bioetica religiosa sullo sfondo del dialogo ecumenico.
    di SANDRO SPINSANTI
    Istituto Giano, Roma.
    Man mano che l'impatto che il Manifesto di bioetica laica ha avuto tra studiosi di bioetica e intellettuali italiani si rivelava come il classico sasso nello stagno, che suscita onde di riflessione sempre più ampie, l'osservatore esterno non poteva sottrarsi all'impressione che il dibattito in corso avrebbe potuto ricavare un sostanziale beneficio da un punto di vista totalmente diverso da quello formalmente evocato. Consapevoli di voler deliberatamente produrre un effetto di "estraniamento", proponiamo di leggere le vicende relative al rapporto tra bioetica laica e bioetica religiosa in parallelo con un'esperienza, allo stesso tempo intellettuale e spirituale, che si è sviluppata in tutt'altro contesto: il dialogo ecumenico tra le chiese cristiane. L'accostamento, per quanto inusuale, non èinappropriato. Le posizioni discordanti sulle questioni fondamentali della bioetica (sia quella del metodo o della fondazione stessa della disciplina, sollevata dal Manifesto di bioetica laica, sia quelle relative alle tematiche concrete, come la questione degli inizi della vita umana che il documento Identità e statuto dell'embrione del Comitato nazionale per la bioetica proponeva nello stesso periodo di tempo) sono almeno altrettanto irriducibili quanto quelle che per secoli hanno contrapposto tra di loro i fedeli di varie chiese (con l"'odium theologicum" in meno ... !). Nel dibattito teologico l'inflessibilità nella difesa di capisaldi dottrinali aveva, come aggravante, il riferimento non a un'opinione filosofica, ma a una rivelazione divina. Fatte salve tutte le differenze, le analogie con il dibattito bioetico non mancano. Anche in questo è circolata, per esempio, l'accusa di considerare la personalità dell'embrione come un "dogma". È chiaro che in questo caso l'imputazione ha solo un significato polemico, essendo chiaro a chiunque che in bioetica non può essere questione di "dogmi" in senso stretto; tuttavia sembra stabilire un parallelo con quanto avveniva nelle dispute secolari tra cristiani, nelle quali verità di fede si contrapponevano a verità di fede, con praticamente nessuna possibilità di far avanzare l'intesa. Ed è effettivamente l'impressione che si ricava da molti dibattiti sulla bioetica, relativi sia al metodo che ai contenuti; si risolvono in uno schieramento di posizioni contrapposte, in cui ogni concessione fatta all'avversario sembra equivalere a una debolezza. Il presentarsi statico di fronti irremovibili ci autorizza a proporre il parallelo tra il dibattito bioetico e la lunga guerra di posizione tra le chiese e confessioni cristiane.
    Un'aggravante ulteriore per i conflitti teologici è stata la lunga tradizione di sopraffazioni e di intolleranza, che ha dato esito perfino a "guerre di religione". E quando le spade e le bombarde sono diventate impresentabili agli occhi della società civile, sono state sostituite con le armi più raffinate della polemica (che, non per caso, ha la parola "guerra" nel suo etimo) e dell'apologetica. Generazioni di intellettuali organici leggi: teologi - sono stati educati a praticare l'apologetica, che consisteva essenzialmente nell'individuare i punti deboli dell'avversario e nel presentare la propria posizione come l'unica intellettualmente e moralmente difendibile. In pratica, la macchina dell'ar gomentazione apologetica doveva costringere l'avversario ad ammettere o di essere intellettualmente incoerente , o di mancare dell'onestà morale necessaria per arrendersi alla verità, abbandonando il proprio errore. L'apologetica mirava alla conversione dell'avversario, così come in precedenza la spada tendeva al suo sterminio. In pratica, l'apologetica svolgeva la funzione che von Clausewitz attribuiva alla politica: essere una prosecuzione delle guerre, con altri mezzi...
    Abbiamo tutti i motivi per stupirci che la contrapposizione tra concezioni teologiche che è stata praticata per secoli abbia ceduto il posto a qualcosa di radicalmente nuovo. Le religioni - si sa - sono resistenti ai cambiamenti. Eppure il cambiamento è avvenuto, grazie al movimento ecumenico. E nato per iniziativa di alcuni pionieri, all'inizio del secolo; progressivamente ha coinvolto le stesse istituzioni ecclesiastiche. Anche la chiesa cattolica, dopo il doloroso confronto interno avvenuto nel concilio Vaticano 11, vi ha aderito. Persone aperte alla teoria e alla pratica del dialogo, da Socrate in poi, sono sempre esistite; ma l'ecumenismo è stato nella storia dell'Occidente il primo esempio di dialogo per grandi numeri, tra istituzioni forti come sono le chiese. È stata una scuola molto faticosa. L'ipotesi che vogliamo proporre è che le sue acquisizioni possono essere utili per altre controversie di tipo ideologico, come sono quelle che, sul finire del secolo, si stanno addensando intorno alla bioetica. In modo estremamente sintetico, ci si presentano tre lezioni possibili.
    In primo luogo praticando il dialogo ecumenico si è dovuto riconoscere che esistono i cosiddetti "fattori non teologici" delle divisioni. Là dove il dibattito teologico registrava posizioni dottrinali inconciliabili, fonti di diatribe infinite - basti pensare alla questione del "Filioque", o al primato papale, o alla dottrina della transustanziazione la pratica dell'ecumenismo faceva scoprire che i dissensi teologici erano sostenuti e alimentati da situazioni di carattere culturale e sociale, riconducibili sostanzialmente a prevaricazioni nell'esercizio del potere. Possiamo esemplificare riferendoci al peso che hanno avuto legislazioni discriminatorie nei confronti dei protestanti in Italia o dei cattolici in Inghilterra (per non parlare dei "fattori non teologici", ma di natura sociale, dello scontro tra cattolici e protestanti nell'Ulster). Per fare un altro esempio, la pratica confluenza di interessi tra Democrazia Cristiana e chiesa cattolica ha impedito ai protestanti italiani di riconoscersi in quel partito, dando alle scelte politiche un carattere "teologico" del tutto indebito. Potrebbe essere utile domandarsi quanto, in modo analogo, la contrapposizione ideologica tra bioetica laica e bioetica religiosa non possa essere alimentata da "fattori non ideologici", ovvero da questioni che risalgono alla gestione del potere. Non è un segreto che nel nostro paese intorno alla bioetica si sia sviluppata una occupazione di posti strategici nelle cattedre universita rie e nei comitati - a cominciare dal Comitato nazionale, con la vicenda delle sostituzioni di carattere politico avvenute nel dicembre 1994 - che ha tutto il sapore della discriminazione nei confronti dei cultori della disciplina non "organici" alla difesa di una linea di assoluta fedeltà ai dettami del magistero papale. Anche la stessa vibrata difesa del perimetro della bioetica laica - un fatto culturale tipicamente italiano, che potremmo considerare idiosincratico di una tradizionale contrapposizione tra guelfi e ghibellini, se non volessimo addirittura svalutarlo come un fatto provinciale, incomprensible in altri contesti culturali - può essere ricondotto a una comprensibile reazione al controllo stretto che le strutture della Chiesa cattolica esercitano in Italia su tutto ciò che ha attinenza alla bioetica. Se così è, un ravvicinamento reale tra posizioni diverse non dovremo aspettarcelo dal raffinamento delle argomentazioni rispettive, ma qualche cambiamento nei rapporti di potere.
    Una seconda acquisizione importante che proviene dall'esperienza del movimento ecumenico è quella relativa alla necessità di una "rivoluzione copernicana" per sbloccare situazioni di contrapposizione dottrinale congelata. Per le chiese questo ha voluto dire abbandonare l'idea del "ritorno" quale via per ricostruire l'unità della chiesa, sollecitando la conversione dei "fratelli separati". Nell'ecumenismo concepito come un ritorno ogni confessione si considerava al centro, allo stesso modo della terra nel sistema tolemaico; gli altri raggruppamenti cristiani giravano attorno al perno costituito dalla propria struttura dottrinale e istituzionale, a distanza più o meno ravvicinata. La difesa della propria integrità dottrinale equivaleva a una lotta per la sopravvivenza. Per questo le chiese si sono a lungo opposte all'ecumenismo: temevano che, aderendo a una pratica del dialogo che rimetteva in discussione proprio la centralità del proprio sistema dottrinale, sul quale misurare gli altri, avrebbero perso la propria identità. Nella chiesa cattolica le forze ostili all'ecumenismo proponevano un "ecumenismo cattolico", come contrapposto a quello protestante od ortodosso: i tradizionalisti erano disposti a entrare solo in un dialogo che accettasse le proprie condizioni.
    La svolta copernicana può essere esemplificata dal ruolo che gioca l'aggettivo riferito all'ecumenismo: la chiesa cattolica è entrata ufficialmente e istituzionalmente nell'ecumenismo solo quando ha accettato, nel decreto conciliare sull'unità delle chiese - "Nostra aetate", del 1965 - di rinunciare ad aggettivare l'ecumenismo (e quindi a proporre un "ecumenismo cattolico" contrapposto ad altri), a favore di un ecumenismo tout court, al quale ci si avvicina a partire da "principi cattolici". Le implicazioni dello spostamento dell'aggettivo sono enormi. La rivoluzione copernicana nell'ecumenismo ha comportato l'abbandono del posto centrale in cui ogni chiesa metteva se stessa, rapportando gli altri ai propri parametri di riferimento. Quando si entra in un ecumenismo senza aggettivo (cattolico, protestante ecc.), tutti sono invitati a considerarsi pianeti che ricevono luce da Colui a cui, come al sole nel sistema copernicano, viene riconosciuta la funzione di "Lumen Gentium". La posizione eccentrica permette a ognuno di modificarsi e crescere, interiorizzando quella parte di verità che viene meglio riflessa da altri. Allo stesso tempo lo spostamento permette che si realizzi quella dialogicità che è l'espressione originaria del pensiero etico.
    Condizione essenziale per il dialogo è la fiducia tra gli interlocutori. La fiducia naufraga là dove si ritiene che gli altri giochino in modo sleale, oppure si partecipa al confronto con la presunzione di avere la risposta giusta già pronta, cercando solo il modo per imporla. Perché si realizzi un dialogo secondo le esigenze già teorizzate da Socrate, gli interlocutori devono essere tutti disponibili ad essere guidati da un "daimon", sottraendosi all'influsso del "diabolos" (la radice greca "dia-ballo" contiene in sé i germi della separazione, dello scetticismo, della posizione difensiva). Senza la fiducia reciproca e la convinzione dell'eccedenza della verità rispetto a tutte le diverse posizioni, anche le più solidamente argomentate, non si ha etica del dialogo. E nemmeno una bioetica compatibile con quell'acquisizione filosofica e culturale che sta al cuore dell'esperienza dell'Occidente. La bioetica ha come una vocazione innata a realizzare la sua propria "rivoluzione copernicana", costringendo i sistemi filosofici e le diverse ideologie morali a smettere di considerarsi come l'unità di misura. La bioetica nasce, infatti, dalla percezione del pericolo in cui versa la vita nel suo insieme. Prendendo in prestito un'immagine da Paul Kennedy - sviluppata nel libro Preparing for the Twenty-First Century, di cui riferisce Daniel Maguire in un articolo sulla rivista «Bioetica» - possiamo considerare la diversità della terra rispetto agli altri pianeti vicini costituita dall'essere ricoperta da una pellicola di materia chiamata "vita". È una pellicola estremamente sottile; pesa non più di un miliardesimo del peso del pianeta che la sostiene. Entro quella delicata pellicola stanno le piante, gli animali, le terre coltivate e la stessa specie umana. Per via dell'attività dell'uomo, il delicato fenomeno della vita, che rende il nostro pianeta unico e prezioso, ora è in pericolo. La crisi della vita, che giustifica la bioetica, è la situazione di emergenza in cui si trova la vita - sia nella sua qualità che nella sopravvivenza del suo stesso essere - a causa di quella epidemia che è l'uomo stesso. Se concediamo all'etica della responsabilità per la vita di occupare il posto centrale attorno a cui girano i sistemi di pensiero, laici e religiosi, non è più giustificata nessuna forma di monopolio della preoccupazione per la vita. Cade così anche quell'arroganza intellettuale che porta a giudicare tutti coloro che difendono posizioni differenti dalla propria come se non avessero a cuore l'uomo e i suoi migliori interessi, erigendosi a unici paladini della vita e della sua qualità.
    La svolta copernicana in bioetica può tradursi anch'essa in uno spostamento di aggettivi. Se diamo alla bioetica quale responsabilità per la vita il posto centrale, non ha più senso difendere una "bioetica laica" o una "bioetica religiosa" quali sistemi chiusi in competizione fra di loro. Possiamo invece proporre che i principi o approcci filosofici, o concezioni antropologiche - con i quali si affrontano i problemi della bioetica siano legittimamente e utilmente diversi. L'aggettivo va a qualificare l'approccio, non il prodotto del dialogo, il quale si pone in una posizione superiore rispetto a quella di partenza dei dialoganti. Nessuno è autorizzato a sentirsi minacciato da un approccio laico o da un approccio religioso alla bioetica; al contrario, il pluralismo si traduce in un arricchimento di tutti.
    Una terza lezione, infine, che possiamo mutuare dal movimento ecumenico è il rapporto organico che esiste tra l'ortodossia e l'ortoprassi. L'unità tra i cristiani ha trovato una via di accelerazione quando la preoccupazione per la corretta interpretazione della dottrina si è sposata all'impegno per risolvere insieme i problemi degli uomini. Dalla comune testimonianza di fede alla coopera zione nel campo sociale, per i cristiani coinvolti nel movimento ecumenico si è aperto davanti un campo di "ortoprassi" che non presupponeva una preliminare soluzione di tutte le divergenze dottrinali. "Se la teologia intende svolgere il suo compito al servizio degli uomini e delle chiese - affermava Hans Küng negli anni in cui anche la chiesa cattolica cominciava ad aprirsi all'e cumenismo - deve impegnarsi a indicare, come conseguenza delle sue motivazioni teoretiche, delle soluzioni responsabili nel campo dell'azione". Anche i teologi dovevano scoprire che l'impegno comune risolve questioni che dal punto di vista dottrinale potrebbero essere discusse all'infinito. L'etica della responsabilità e l'etica dei principi, nella classica distinzione proposta da Max Weber, non sono proprietà esclusive dell'approccio laico o dell'approccio religioso, ma si devono compenetrare.
    L'accento spostato sulla prassi è tanto più rilevante per la bioetica, in quanto questa nasce come guida all'azione, piuttosto che come attività accademica. Le differenze non sono di poco conto. Nel mondo universitario la modalità di rapporto dominante è la sfida. È nelle regole del gioco accademico cercare di trovare il punto debole dell'avversario, distruggere le sue argomentazioni e produrne di migliori. Nella bioetica invece gli uomini di pensiero sono sollecitati a incontrarsi con gli uomini d'azione: non per dettare loro le proprie regole, frutto di speculazione teorica, ma per imparare da loro. 0 meglio, per imparare insieme, in quanto gli uomini di pensiero e gli uomini di azione dipendono gli uni dagli altri. L'etica, che in quanto disciplina appartiene alla filosofia pratica, non può essere pratica se non include le complicazioni della sfera operativa nelle riflessioni con cui si giustifica una norma. "Fare" l'etica, e non solo pensarla, è il punto di vista innovativo che è stato introdotto dalla bioetica. Per chi "fa" l'etica deve essere chiaro che le sue idee valgono soltanto se adeguate ai presupposti sociali e istituzionali. Il peggio che si possa dire di un esperto di bioetica è: «Egli aveva una soluzione..., ma non era adatta al problema!».
    Scoperta dei fattori non ideologici ma riferiti all'esercizio del potere nelle divisioni; ricerca di un punto di convergenza esterno e più alto rispetto ai sistemi di pensiero; rilevanza della prassi per un pensiero responsabile: altrettanti insegnamenti che la bioetica può mutuare dall'ecumenismo. A meno che non si preferisca deliberatamente la contrapposizione frontale. Questa sembra la via che è deciso a percorrere il bioeticista americano Tristram Engelhardt, paladino di un'etica concepita in funzione di mediazioni contrattualistiche tra cittadini intesi come irriducibili "stranieri morali". Engelhardt ha da poco fondato una «Rivista di Etica cristiana» per promuovere il suo progetto. A scanso di equivoci, ha messo esplicitamente nel sottotitolo: "Rivista non ecumenica".
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Per una bioetica globale.
    di LUISELLA BATTAGLIA
    Università degli Studi, Genova; Istituto Italiano di Bioetica, Genova.
    Il Manifesto di bioetica laica è sicuramente un testo apprezzabile e significativo. È senz'altro da condividere l'auspicio che il documento contribuisca ad avvicinare due mondi - quello laico e quello cattolico - che in Italia rischiano continuamente di fraintendersi e che, invece, sui principi qui proposti potrebbero trovare un terreno di avvio per una discussione pubblica. Occorre, tuttavia, aggiungere che la contrapposizione tra cultura "cattolica" e "laica" sembra rispondere assai spesso a esigenze di classificazione ideologica e politica e appare sempre meno adeguata a rappresentare la complessa realtà del pensiero e del sentire contemporanei. Tale visione polarizzata può indurre alla ipersemplificazione e non aiuta a trovare le ragioni di un confronto critico e di un dialogo costruttivo.
    Fatta questa breve premessa, vorrei introdurre qualche motivo di riflessione su alcuni punti problematici del Manifesto, suscettibili di un ulteriore approfondimento.«La visione laica - vi si legge - vede l'uomo come parte della natura, non come opposto alla natura. Essendo parte della natura, egli può interagire con essa, conoscendola e modificandola nel rispetto degli equilibri e dei legami che lo uniscono alle altre specie viventi». Confesso di nutrire qualche dubbio che tale visione - che potrebbe in senso lato definirsi ecologica - sia propria solo di una bioetica laica. Probabilmente può dirsi laico il non riconoscimento di gerarchie fisse, ontologicamente fondate, tra l'uomo, la natura e le altre specie. Una concezione gerarchia degli enti - che prevede una supremazia umana sulle altre creature - è senz'altro propria di una visione religiosa, cristiana. Sottolineo cristiana perché assai diverso e più complesso sarebbe il discorso per altre religioni - come, ad es., il buddismo - che insistono sulla comunione tra l'uomo e gli altri viventi. E tuttavia, occorre aggiungere, anche nell'ambito della visione religiosa cristiana si nota, specie di recente, l'emergere di un'ispirazione che potrebbe definirsi appunto ecologica, nel senso che al riconoscimento dell'ordine gerarchie degli enti si accompagna una crescente attenzione per la natura e il mondo non umano. Si pensi al l'importanza di temi come la custodia, la cura ecc., che fanno esplicito riferimento a una responsabilità ministeriale umana nella gestione dell'ambiente.
    «La visione laica - si legge ancora nel documento - vede nel progresso della conoscenza la fonte principale del progresso dell'umanità, perché è soprattutto dalla conoscenza che deriva la diminuzione della sofferenza umana». Senonché, con tale restrizione dei benefici della conoscenza alla sola specie umana, mi sembra prevalere una prospettiva di tipo antropocentrico. In tal modo, nonostante le asserzioni precedenti sul rapporto uomo/natura, non siamo sollecitati ad avviare una riflessione critica sulle questioni di valore connesse al nostro rapporto con l'ambiente (oggetto di un'importante dimensione della bioetica, quella ambientale). E qui veniamo a un punto nodale del Manifesto: il suo impiego del termine bioetica, nel senso, assai ristretto e limitato, di bioetica medica. Ciò appare tanto più singolare in quanto si considera una positiva acquisizione della bioetica aver allargato l'ambito di considerazione ed esteso lo sguardo etico oltre l'uomo, verso l'ambiente e le altre specie, accrescendo la consapevolezza della nostra appartenenza a una comunità di destino terrestre. Esistono questioni che, in quanto attinenti al rapporto tra azioni umane e mondo vivente, esulano dall'ambito medico e preludono a un'ulteriore estensione dei confini della morale. Tale estensione - che conduce al concetto di bioetica globale - sembra inevitabile in un'epoca in cui le biotecnologie minacciano di trasformare tutti gli esseri vi venti, umani e non umani, in oggetti delle più svariate manipolazioni e implica una critica radicale dello sfruttamento del mondo animato da parte della nostra specie. Se prendiamo davvero sul serio le interazioni tra uomo e ambiente - ovvero il modo in cui l'uno agisce sull'altro e viceversa -, non possiamo non affrontare temi riguardanti la salute e la qualità stessa della vita in termini più comprensivi. L'ambiguità feconda e strategica del termine bioetica, lo ha ricordato T. Engelhardt, consiste nella sua capacità di collegare e di fare interagire dimensioni prima separate, elementi della realtà che parevano scissi. Siamo alla ricerca di un pensiero complesso che riunisca ciò che è disgiunto e sappia discernere le interdipendenze tra i fenomeni. All'interno di tale visione globale, la bioetica medica e quella ambientale appaiono sempre più correlate e la stessa nozione di qualità della vita sembra ormai doversi definire in relazione a parametri che corrispondono agli interessi, oltre che della comunità umana (presente e futura), delle altre specie.
    Il terzo principio di una bioetica laica, per il Manifesto, «quello di garantire agli individui una qualità della vita quanto più alta possibile», rischia di trascurare, pertanto, la portata globale di tale nozione e la necessità di ripensare in termini planetari l'etica, la politica, l'economia, la demografia ecc.«Un'etica che si occupa solo degli esseri umani - aveva già rilevato Albert Schweitzer - è disumana». In tale ottica, l'uomo non può più essere l'unico referente del discorso etico e... bioetico.
    Un altro punto degno di discussione del documento riguarda l'affermazione per cui «I principi sopra enunciati si fondano a loro volta sopra un assunto implicito: la separazione della sfera morale da quella della sfera religiosa. In modo analogo, è proprio della visione laica tenere distinti i piani della morale e del diritto». Ma, ancora una volta, se questo è vero perché usare il termine generico laico - sulla cui equivocità ha svolto considerazioni pertinenti Evandro Agazzi - e non impiegare direttamente il termine liberale? L'espressione bioetica liberale sembra, infatti, definire con maggiore precisione e chiarezza taluni valori di riferimento e una sostantiva concezione del bene incentrata sulla razionalità, l'autonomia, lo sviluppo dell'individualità e, infine, la libertà che costituisce la condizione fondamentale, sul piano sociale e politico, della loro attuazione.
    Pienamente ispirata a una visione liberale è, in particolare, l'idea che «la legislazione in campo biomedico debba essere guidata dall'idea di lasciare a ogni ricercatore e a ogni medico la più ampia sfera di decisioni autonome compatibile con l'interesse generale della collettività». Aggiungerei, tuttavia, che tale istanza dovrebbe valere, oltre che per la comunità scientifica, anche per la cittadinanza nel suo complesso. Si tratta di favorire quei processi di crescita, di democrazia cognitiva (per riprendere l'espressione di Edgar Morin), attivando quelle prese di posizione dei singoli cittadini che ne valorizzino l'autonomia di scelta, la possibilità di opzioni reali nei confronti di uno Stato paternalistico, consentendo il formarsi di uno stile di vita ad essi congeniale. Serviamoci di un esempio relativo alla vexata quaestio della sperimentazione animale e della relativa farmacopea. In una società non paternalistica, dovrebbe essere la gente a decidere quale medicina sostenere e, quindi, quale ricerca è disposta a finanziare. Due modelli di medicina - e di ricerca - aumenterebbero il ventaglio delle nostre opzioni. In questa prospettiva, quanti ritengono che la sperimentazione animale sia una pratica moralmente illecita e non intendono pagare il "costo etico" di un esperimento, dovrebbero avere la possibilità di scegliere, non per tutti, ma per la parte che li riguarda, una ricerca che escluda l'impiego degli animali e che sia riconosciuta e legittimata pubblicamente. Certo, gli adattamenti possono essere complicati ma, se è proprio del fanatico pretendere che la sua concezione della vita buona diventi il dovere di tutti, è un preciso diritto delle minoranze - nel quadro di una bioetica liberale - esigere una medicina e una ricerca rispettose dei valori e delle istanze etiche di cui sono portatrici.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Bioetica e casi concreti.
    di VITTORIO BERTOLINI
    Consulta di Bioetica, Parma.
    Uno degli scopi del Manifesto di bioetica laica è quello di «avvicinare due mondi quello laico e quello cattolico - che, in Italia, rischiano continuamente di fraintendersi. Due mondi che, invece, sui principi proposti potrebbero almeno trovare un terreno comune per condurre costruttivamente una discussione pubblica che si farà ogni giomo più pressante».
    Dagli interventi che il "Sole 24 ore" ha pubblicato nelle domeniche successive, alla pubblicazione del Manifesto, pare però che ll "fraintendimento", almeno per quanto riguarda le espressioni ufficiali, sia destinato a continuare. Sarebbe però riduttivo risolvere il tutto in una pura e semplice "incomprensione" fra mondo "laico" e mondo "cattolico"; il confronto vero è fra un paradigma di ispirazione "empirista" ed uno "metafisico". Fra chi cioè assume come centrale per ogni discorso etico l'uomo Mario Rossi, John Smith, François Dupont, calato in una realtà storica in continua evoluzione, e chi invece pensa all'uomo come essenza partecipe di una "natura" immutabile e inviolabile. Accettando la prima prospettiva, il Manifesto si colloca in una corrente di pensiero tra le più vivaci del mondo moderno.
    Dati i presupposti resta difficile però intravedere come possa avviarsi almeno un confronto fra due concezioni culturali che affrontano i problemi secondo metodi che non è azzardato considerare incommensurabili. Ma se il confronto più che sui metodi sorgesse dal che fare di fronte a casi concreti? Se lo scopo è quello di superare le incomprensioni, il più delle volte condizionate da tabù semantici (quanti ."empiristi" fra i cattolici, e quanti "metafisici" fra i laici), perché non si mettono in tensione le rispettive teorie per quanto riguarda la specificità di singole situazioni? Di fronte alle sofferenze di un malato terminale conta solo la "sacralità della vita", o non bisogna anche tener conto della "sacralità della qualità della vita"?
    Questo confronto non può limitarsi però solo a pochi specialisti: medici, biologi, filosofi ecc. La "scienza in un mondo libero" non può non tener conto del pensiero di chi alla fine beneficia o soffre dei progressi della ricerca scientifica e del suo utilizo in campo terapeutico.
    Feyerabend e Lakatos hanno già da tempo posto l'accento sul problema di chi, in una società democratica e pluralista, decide e perché e per cosa; se da più parti si fa riferimento a Galileo, non si deve però dimenticare che non più di qualche decennio fa c'è stato il caso Lysenko.
    Se è concesso scomodare Wittgenstein, "il mondo sono i fatti e non le cose", e i fatti sono che al di là dei paradigmi culturali, delle concezioni filosofiche o teologiche, milioni di persone vivono sulla loro pelle molti dei problemi trattati dalla bioetica (dall'aborto ai malati terminali, all'aspettativa di un bambino con handicap e quanto altro).
    Se da un lato è perciò necessario che i "laici" ricerchino il dialogo con le controparti ideologiche, non meno necessario è che sappiano pure rapportarsi con i problemi che nascono dal complesso sociale e ne sappiano cogliere le esigenze con meno timidezza.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Alcune distinzioni relative ai principi della bioetica laica.
    di PATRIZIA BORSELLINO
    Università degli Studi, Milano; Comitato etico, Fondazione Floriani, Milano; Consulta di Bioetica, Milano.
    Tra le più serie critiche di cui è stata fatta oggetto la bioetica laica vi è quella di non essersi adeguatamente impegnata nella formulazione di principi capaci di fornire un solido supporto alla giustificazione delle scelte e delle azioni che riguardano la vita e la salute, e quella di non aver portato, o di non aver portato abbastanza, sul piano dei principi il confronto con la bioetica cattolica.
    La critica può apparire non del tutto fondata a chi consideri che, fino dall' '87, un esponente di primissimo piano della bioetica laica italiana quale Uberto Scarpelli aveva valutato negativarnente l'atteggiamento di chi «tende ad affrontare le questioni bioetiche a livello di senso comune, appellandosi alla "plausibilità" caso per caso delle soluzioni»[1] ed aveva individuato nella formulazione di «principi regolativi onde ricavare norme, valori e fini per la condotta»[2] il compito fondamentale della bioetica direttiva.
    Va però riconosciuto che non molti esponenti della bioetica laica hanno raccolto l'invito di Scarpelli a non mettere da parte i principi, così come va, del resto, riconosciuto che il confronto e l'accordo con la bioetica cattolica sono stati effettivamente ricercati e, talora, realizzati più sul piano dei comportamenti sostanziali, nella soluzione di questioni concrete[3] che sul piano dei principi. Merita perciò grande plauso l'iniziativa di un Manifesto di bioetica laica nel quale viene compiuto l'apprezzabile tentativo di individuare un insieme di principi, sufficientemente specificati ed articolati, suscettibili, nell'intento o, perlomeno, nell'auspicio degli autori, di essere sottoscritti da credenti e da non credenti, da cattolici e da laici.
    Ma i principi enunciati nel documento sono davvero idonei a costituire un terreno comune per la discussione pubblica di questioni la cui urgenza e ineludibilità si palesa ogni giorno di più anche ai non addetti ai lavori? In altri termini, è possibile e probabile, oltre che auspicabile, che l'incontro tra la bioetica laica e la bioetica cattolica abbia luogo sul terreno dei principi e, più precisamente, sul terreno dei fondamentali principi che ispirano i laici?
    Vediamo innanzitutto di che principi si tratta.
    I principi in questione sono quelli relativi alla conoscenza e al suo progresso e quelli relativi al rapporto dell'uomo con la natura, nonché il principio di autonomia, il principio del rispetto delle convinzioni religiose degli individui, il principio di qualità della vita e il principio di equità in relazione all'accesso degli individui alle cure mediche, principi, questi, a cui si accompagnano gli ulteriori due principi o, forse meglio, due assunti impliciti della separazione della sfera della morale dalla sfera della fede religiosa, nonché della separazione della morale dal diritto.
    Si tratta, a ben guardare, di principi che sintetizzano efficacemente le principali conquiste che la cultura occidentale moderna, nel suo sviluppo dal Rinascimento ai giorni nostri, ha messo a segno, ingaggiando una lotta, spesso assai dura, proprio con alcuni degli assunti e delle convinzioni maggiormente caratterizzanti la visione cattolica dell'uomo e del mondo.
    Tra questi, ad esempio, l'idea che la conoscenza meriti senz'altro di essere perseguita ( ... nati non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza ... ), ma non oltre il limite segnato dalle "Verità" di fede, di cui la Chiesa si pone come unica interprete; l'idea della superiorità dell'uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, rispetto alla natura, ma, al tempo stesso, anche l'idea di una sorta di subordinazione dell'uomo alla natura, teleologicamente intesa come ambito di fini e di valori precostituiti all'uomo e che all'uomo basta rilevare per poter distinguere ciò che è moralmente lecito da ciò che non lo è; l'idea che il rispetto dell'autonomia di ogni individuo adulto e consapevole discenda dal rispetto che si deve ad ogni persona, ma incontri un limite invalicabile nell'assoluto valore della vita umana che, in quanto dono di Dio, non costituisce un bene disponibile per le scelte e le decisioni; l'idea che la vita non acquista valore attraverso i valori che consente di realizzare, ma costituisce un valore in sè e non può essere sacrificata per quanto straziata dalla sofferenza e, per chi la vive, priva di qualità che la rendano meritevole di essere vissuta.
    Per rispondere alla domanda circa la possibilità di un incontro tra etica laica ed etica cattolica sul piano dei principi enunciati nel Manifesto è necessario, a mio parere, chiedersi se il ruolo giocato da quelle idee all'interno della cultura cattolica sia rimasto invariato, oppure se, riguardo ad esse o ad alcune di esse, vi siano stati, in anni recenti, segni di qualche ripensamento significativo. Solo in quest'ultimo caso vi sarebbero, infatti, ragionevolmente i presupposti dell'auspicata convergenza sui principi.
    Limitando a poche sintetiche battute un discorso che richiederebbe, invece, ampio spazio e accurate considerazioni analitiche, osservo che, per quanto riguarda, ad esempio, il problema della conoscenza, del suo valore e dei suoi limiti, la cultura cattolica non ha abbandonato l'idea che all'etica, e in particolare alla bioetica, spetti segnare «frontiere» [4] e, quindi, rammentare che non tutto ciò che è scientificamente possibile e tecnicamente attuabile è anche eticamente lecito. Se questo è vero, è peraltro vero che non sono mancate, ai massimi livelli dell'autorità ecclesiastica, coraggiose critiche di celeberrimi anatemi pronunciati dalla Chiesa contro la scienza, in nome della fede e della Verità rivelata (si pensi, ad esempio, alla riabilitazione di Galilei!). Se, inoltre, non son venute meno le preoccupazioni nei confronti delle enormi potenzialità distruttive di una ricerca non assoggettata a severi controlli e non sottoposta a precise limitazioni, non sono però mancati nemmeno significativi riconoscimenti del ruolo che la conoscenza scientifica e le sue applicazioni tecnologiche hanno avuto e possono avere nel ridurre sofferenze, povertà e malattie
    Non è azzardato parlare di ridimensionamento, da parte cattolica, dell'atteggiamento di diffidenza e sospetto nei confronti della scienza, e forse, anche di attenuazione, con riferimento al vasto e vario ambito dei fenomeni al centro della riflessione bioetica, della contrapposizione tra comprensione scientifica e comprensione etica, una volta posto in chiaro che - come peraltro la cultura laica moderna ha sempre affermato - alla scienza compete soltanto l'indicazione dei mezzi adeguati per il raggiungimento di determinati fini, non l'individuazione dei fini stessi e la valutazione della loro bontà morale.
    Caratterizzate da una forte continuità rispetto alla tradizione appaiono invece le posizioni cattoliche in tema di rapporti tra uomo e natura e, soprattutto, l'idea di un'intrinseca normatività della natura, alla quale l'uomo può guardare come ad un serbatoio di fini pre-costituiti alla sua scelta. La cultura cattolica appare riluttante a riconoscere che, come si legge nel Manifesto, «nulla è più culturale dell'idea di natura», e fonda tuttora soprattutto sull'argomento della non conformità a natura la valutazione negativa ad esempio della contraccezione (eccezion fatta, ovviamente, per quella praticata con metodi «naturali») o della procreazione senza atto sessuale, in alcune o in tutte le sue forme.
    Per quanto riguarda poi la vita umana, qualunque ne sia lo stadio di sviluppo e la condizione, la cultura cattolica continua a ravvisarvi un valore assoluto, e ne richiede l'incondizionata protezione, tenendo ferma la condanna dell'aborto e di ogni forma di eutanasia. Va però riconosciuto il manifestarsi di una sempre più acuta sensibilità per il problema del controllo della sofferenza, non più considerata necessariamente salvifica, nonché il diffondersi di atteggiamenti sempre più fortemente critici nei confronti del cosiddetto «accanimento terapeutico». Tendenze, queste, che autorizzano ad affermare che considerazioni in termini di «qualità della vita» non possono più essere considerate estranee nemmeno alla cultura cattolica.
    Se collocato sullo sfondo del complesso intreccio di elementi di continuità e di innovazione che, pur con diverse accentuazioni e sfumature, caratterizza la cultura cattolica nelle sue diverse componenti, l'incontro tra bioetica laica e bioetica cattolica sul piano dei principi appare, rispetto ad alcuni principi possibile, rispetto ad altri assai difficile, se non addirittura illusorio, e rispetto ad altri ancora necessario.
    L'incontro mi sembra possibile, ad esempio, in relazione al principio di equità, che, applicato all'ambito dell'assistenza sanitaria, comporta che ogni individuo possa accedere a cure mediche del più alto standard possibile, tenuto conto delle risorse disponibili. Ma la sempre più diffusa e convinta condanna, in ambienti cattolici, dell'insistenza in interventi diagnostici e terapeutici di comprovata inutilità ai fini di un miglioramento del paziente, nonché la sempre maggiore attenzione per la medicina palliativa [5],specificamente orientata a lenire la sofferenza, quando non è più possibile rimuoverne la causa, lasciano intravedere, a mio parere, una possibilità d'incontro anche sul principio che assegna alla pratica medica il compito di garantire agli individui il maggior grado possibile di qualità della vita, e non tanto o non solo la maggior durata possibile della vita stessa. Certo è, comunque - e vengo così ai principi rispetto ai quali l'incontro si presenta, allo stato attuale, assai difficile, se non addirittura impossibile - che accoglimento del principio di qualità della vita non sembra ancora voler o poter significare, nell'odierna bioetica cattolica, abbandono o ridimensionamento del principio di sacralità della vita. Se, infatti, per un verso, si riconosce che prestare attenzione alla qua lità della vita che gli individui conducono sia il miglior modo per dare sostanza al «rispetto della vita», per altro verso non ci si spinge a considerare il principio di sacralità della vita un principio solo prima facie, suscettibile di eccezioni proprio sulla base di considerazioni di qualità di vita.
    Detto in altri termini, nella bioetica cattolica, permane, costituendone elemento caratterizzante, il riconoscimento che vi è almeno un principio deontologico assoluto la sacralità della vita, appunto - valido in sè, a prescindere dalle conseguenze a cui conduce, e tale persistente riconoscimento frappone un ostacolo all'accettazione, da parte cattolica, sia della concezione laica dell'etica come creazione tutta interna all'orizzonte umano, relativa, percettibile e funzionale alla soluzione dei problemi che, via via, si presentano; sia del principio che attribuisce ad ogni singolo individuo il diritto di valutare ciò che, nelle diverse circostanze, costituisce il suo bene o il suo miglior interesse.
    Riguardo a questo punto mi pare illusorio, se non addirittura mistificante, pensare ad un possibile incontro a breve termine tra bioetica cattolica e bioetica laica sul piano dei principi, e mi sembra decisamente più realistica e praticabile la ricerca di convergenze nella soluzione di questioni concrete. Resta da proporre qualche considerazione sui principi rispetto ai quali ho parlato di incontro necessario tra bioetica laica e bioetica cattolica.
    I principi a cui mi riferisco sono quelli procedurali, finalizzati a rendere attuabile, entro una determinata società, la consistenza di individui e di gruppi che non condividono gli stessi impegni morali e non riconoscono i medesimi valori sostanziali, la cui formulazione costituisce, a mio parere, uno dei più importanti, se non il più importante contributo dell'etica laica, vale a dire il principio di autonomia e la sua specificazione rappresentata dal principio di tolleranza, nel quale già Scarpelli aveva individuato il principio fondamentale della bioetica laica.
    Ora, sostituendo opportunamente il linguaggio della tolleranza con il linguaggio del rispetto, gli autori del Manifesto hanno inserito tra i fondamentali principi della bioetica laica un principio, quello del rispetto delle convinzioni religiose dei singoli individui, sulla cui idoneità ad essere sottoscritto da chi si pone nella prospettiva di un'etica religiosa e, in particolare, di un'etica cattolica, non pare ragionevole avanzare alcun dubbio.
    Dal Manifesto esce riaffermata con decisione, e questo mi pare uno dei suoi principali meriti, l'idea dell'etica laica come etica potremmo dire di «secondo grado» [6], nella quale la stessa etica cattolica trova le condizioni e le garanzie dell'affermazione e del rispetto del complesso di valori in cui si sostanzia.
    Resta fermo, comunque, che l'etica cattolica è solo uno dei possibili sistemi di valori a cui l'etica laica riserva piena cittadinanza, e v'è da sperare che la bioetica cattolica, sottoscrivendo, come non può non fare, il principio del rispetto delle convinzioni religiose degli individui, si ponga sulla strada che porta a sottoscrivere anche il più generale principio che impone di rispettare il dissenso rispetto a qualunque valore, compresi i valori religiosi, e, al tempo stesso, impone di rispettare la regola che garantisce la possibilità del dissenso.
    Note
    nota 1 U. Scarpelli, La bioetica. Alla ricerca dei principi, in «Biblioteca della libertà», 99, 1987, p. 9.
    nota 2 U. Scarpelli, op. cit., p. 8.
    nota 3 Che l'accordo non sia, su tale piano, talora mancato è dipeso dal fitto intreccio di componenti laiche e cattoliche nella nostra cultura così come nel nostro sentire comune
    nota 4 E. Sgreccia, Manuale di bioetica, Vita e Pensiero, Milano i 990, p. 32
    nota 5 Cfr., al proposito, il documento che il Cornitato Nazionale per la Bioetica, a composizione prevalentemente cattolica, ha recentemente (14 luglio 1995) dedicato alle Questioni bioetiche relative alla fine della vita umana.
    nota 6 Di «etica di secondo grado» parlava, a proposito dell'etica laica già Pietro Rossi nel Convegno «Etica laica ed etica cattolica a confronto», svoltosi a Milano, per iniziativa di Politeia, nel novembre del 1991. Il concetto ricorre comunque anche nell'opera di H. T. Engelhardt.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Laicità senza fondamentalismi.
    di LINO RIZZI
    Pontificia Università Gregoriana, Roma.
    Nella presentazione del Manifesto di bioetica laica si sollecita ad intervenire sul tema al fine di favorire un incontro principalmente tra le bioetiche di due "mondi"; quello laico e quello cattolico. Gli estensori ammettono che "anche tra i laici non vi è accordo unanime" su questi problemi, tuttavia sembra che tra loro l'accordo vi sia almeno su di un punto; su che cosa sia un "laico". Un laico non è un non credente, è un "non dogmatico" ; aggiungo con due cattolici - Yves Congar e Giuseppe Lazzati - che un "laico" è colui per cui "le cose esistono" ; ossia è capace di entrare in un mondo comune agli uomini. Per converso un non laico è un "dogmatico" , ossia uno che oltre che a credere nel dio in cui crede, avanza una pretesa morale inaccettabile: quella di dedurre dalla sua concezione della verità la norma di condotta di tutta l'umanità.
    Questa contrapposizione mi trova perfettamente d'accordo, ma, ahimè!, la ragione non è cosa che si. possa dividere dal torto con il coltello, il fondamentalismo è un'insidia diffusa, e non penso ai vari idealismi o materialismi, ma anche a quei liberali (non i giacobini) , estensori della Constitution civile du clergè, che si attribuivano i poteri di un concilio, (un'assemblea politica stabilisce chi e come deve amministrare i sacramenti ai credenti. Non basta dirsi "laici" e neppure a volte "liberali", per essere immuni da questo morbo. Dico questo perché nella netta contrapposizione tra "noi laici" e le "visioni religiose" ravviso il ritorno di vecchi fantasmi: una confusione tra la laicità come norma di condotta (o come virtù civile) e la laicità come ideologia secolarizzante. Si afferma che "la visione laica" considera il progresso stesso (delle conoscenze) un valore' etico fondamentale", e su questo si può essere in parte - la "scienza" non è però tutta la conoscenza, e soprattutto non implica il suo uso morale. Ma poi si va oltre e si afferma che questo processo "è in alternativa alle visioni religiose". Un'"alternativa" tra etiche da un lato e tra morale e religione dall'altro mette in luce una miopia morale della cultura "laica" italiana che non ha eguali in altri paesi, neppure in quelli a laicità più spinta come la Francia. Sui dollari americani leggiamo "in God we trust", e non si può certo dire che quello stato non sia laico, non è areligioso.
    Non è pertanto la "società complessa" ad impedire che "possa esistere un canone morale a vocazione universale", bisogna comunque arrivare ad un ipotetico consensus iuris perchè si possa legiferare. E' invece la pretesa di scontrarsi in una società democratica con le categorie risorgimentali del duopolio stato-chiesa, di parlare in nome di un popolo laico o di un popolo di Dio che la cultura dei "comitati" - come un tempo quella delle cancellerie - raggiunge. Mi chiedo quanti dei cultori dei reciproci schieramenti - ossia cittadini che parlano ad altri cittadini - abbiano nel proprio studio la "Biblioteca della libertà" assieme a quella della Cittadella di Assisi. L'ostacolo sta nella parrochialità di una condotta culturale incapace di divenire civile, che scinde - invece di unire - il corpo "morale" dei cittadini. La società aperta la si guadagna con la capacità di rettificare al ruggine istituzionale delle nostre culture politiche.
    In questo mi sembra che manchi il bersaglio anche un maestro del liberalismo italiano come Valerio Zanone. Nel suo intervento del 16 giugno afferma: "l'avversario più temibile di ogni etica laica è in realtà il fondamentalismo". Il rimedio lo trova nella nota tesi di Uberto Scarpelli: "l'etica senza verità". L'etica laica, rileva Zanone, non si affida all'"assoluto", come è invece per quella religiosa. Ma è proprio necessario che per avere un'etica pubblica condivisibile - perchè è questo il significato liberale di "laica" - si debba chiedere all'interlocutore di rinunciare al suo fondamentale prepolitico? Né Kant né Rawls la pensano così. Ci dicono che sì è fedeli ai doveri etici non per quel che rendono ma per quel che valgono. D'altro canto è difficile praticare una morale senza credere in un ideale. Giulio Cesare Vanini fu bruciato perchè non credente e morì - riporta Bayle - con la fede di "martire ateo". Fu moralmente integro nonostante non credesse ed ebbe una fede tale da affrontare il supplizio. Gli "ideali" diceva il politeista Weber sono necessari, pena l'apatia. Senza una ragione profonda, noi non mettiamo in gioco noi stessi, la nostra condotta pubblica. In altri termini, la richiesta garantista di rinunciare al fondamento non può essere tale da sabotare le risorse ideali - e tra queste c'è anche la religione - che motivano la condotta morale q quindi la possibilità di una cittadinanza comune.
    Ciò che non chiede lo stato di diritto non può chiedere la morale dei laici! Ossia non può chiedere ai credenti di convertirsi all'ideale di progresso in cui credono altri. Vorrei che il discorso delle "etiche" fosse portato sul terreno che rende possibile la cittadinanza in una società pluralista. Qui tutti devono godere della dignità di cercatori di verità, nessuno ne è depositario; ma ciascuno è esposto al rischio di far valere la propria convinzione a spese dell'altro. John Rawls ha sottolineato come il "liberalismo" che assume come ideale l'"autonomia" individuale non sia esso stesso privo di fondamentalismo, non è affatto condiviso dai comunitari. Egli indica la terapia nel concetto di "consenso per intersezione". Ossia in una società pluralista gli attori entrano in rapporto tra loro ciascuno con le proprie credenze. Essi "possono" pervenire ad una decisione condivisa a due condizioni :1) che nessuno dei partners chieda all'altro di rinunciare alla propria identità: 2) che ciascuno eserciti verso il suo personale ideale una sospensione di validità , che si interroghi con le ragioni dell'altro. Una cittadinanza morale è rispettosa degli ideali di ciascuno. Saul di Tarso e l'apostolo Paolo conservano la stessa identità pubblica prima e dopo l'illuminazione sulla via di Damasco. Si ha l'impressione - forse più per il linguaggio che per le intenzioni - che il Manifesto voglia concedere la cittadinanza "morale" - e la patente di laicità - solo a chi si converta alla loro fede nel progresso e nella scienza. Insomma per entrare a far parte del club della "bioetica laica" sembra che si pongano i credenti di fronte ad un aut aut: o abiurate o siate integralisti. Mentre non pensa - altrimenti non parlerebbe di "alternativa" di fare altrettanto rispetto alla propria fede, tutta immanentista, che dal progresso scientifico scaturiscano scienza e norme morali. La laicità è una condizione della cittadinanza comune e quindi implica una reciproca presa di distanza dagli ideali: è un'idea antecedente alle varie filosofie della secolarizzazione che contendono alla chiesa il dominio sulle anime. La laicità è un metodo del filosofare, come tale attuato e attuabile anche dal "credente". Si legge nell'intervento del Comitato del Centro di Bioetica , ma con un'avvertenza: che il punto di arrivo dell'etica pubblica che ci riguarda, non è né l'unità dei laici, né l'unità universale dei credenti, né quella dei cittadini di questo angolo del mondo.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Riflessioni a margine delconvegno.
    di ROBERTA SALA
    Istituto Scientifico H San Raffaele, Milano.
    Molto rumore ha provocato la pubblicazione del Manifesto di bioetica laica. Molto rumore, a volte anche qualche grido preoccupato, specie da parte di coloro che si sono sentiti in qualche modo chiamati in causa in quanto appartenenti per scelta o per eredità alla composita schiera dei bioeticisti cattolici. È curioso notare come, da una parte come dall'altra, si commetta a volte l'errore di cambiare le parole "in tavola", precipitando - almeno a mio parere - in un pericoloso nominalismo; le parole sono spesso usate in modo equivo co, ma quel che è peggio l'equivocità non è denunciata, l'ambiguità si fa strada per pregiudicare l'esito della discussione. Il confronto ha avuto un seguito nel dibattito pubblico svoltosi lo scorso I I luglio, organizzato da Politeia e dalla Consulta di Bioetica; ad esso sono stati espressamente invitati alcuni dei più autorevoli studiosi italiani di bioetica, rappresentativi di vari orientamenti. Il momento pubblico ha avuto certamente il pregio dell'immediatezza ed è stato forse più accattivante rispetto al dibattito sulla stampa, anche se al confronto diretto alcune posizioni sembrano aver perduto lo spessore teoretico e la profondità degli argomenti evocati.
    Così, per venire alla riflessione che si è svolta nel corso del dibattito aperto al pubblico, mi è sembrata condivisibile la preliminare affermazione, quasi un monito, di Carlo A. Viano, filosofo laico, in cui egli ha condannato senza mezzi termini l'atteggiamento di coloro che deliberatamente turbano il dialogo e la comprensione, usando per descrivere la parte avversa espressioni nelle quali questa stenta a rico noscersi. Altra grave critica è quella che Viano ha mosso a coloro che patemalisticamente attribuiscono al laico una religiosità implicita, malgrado il suo opposto convincimento. Ma anche questo, evidentemente, è un atteggiamento tutt'altro che rispettoso e, vorrei aggiungere, del tutto illiberale. Il laico - ha concluso Viano - è colui che rifiuta di riconoscere nell'autorità la fonte della motivazione all'agire morale.
    Quale è allora la sostanza del Manifesto, che tanto ha infervorato gli animi di coloro che hanno sentito il dovere di farsi sentire? Prima affermazione: laico non significa positivista morale. Anche il laico professa i principi, quali innanzi tutto l'autonomia da qualsiasi autorità morale superiore (e, evidentemente, anche dal dio della fede). Secondo principio è il rispetto delle convinoni religiose altrui. Ciò non esclude che quando «sono in gioco scelte difficili, come quelle della bioetica, il problema per il laico non è quello di imporre una visione superiore, ma di garantire che gli individui possano decidere per proprio conto ponderando i valori... che quelle scelte coinvolgono». Ciò sulla base del fatto che vi può essere una discussione e una giustificazione razionale dei principi morali anche senza la fede». Altri due principi sono la qualità di vita e l'equità, anche se «la visione laica non vuole costituire una nuova ortodossia». Laddove il contrasto morale è insanabile occorrerà - conclude lo scritto - cercare un "accordo locale". Il tutto nella cornice di una fondamentale fiducia nel progresso scientifico come fonte di continuo miglioramento per la vita dell'uomo, a condizione che questi sappia gestirlo e indirizzarlo opportunamente.
    Una prima reazione è venuta come preveibile da parte "cattolica", nella quale, l'affermazione più ricorrente è che anche il credente ragiona in termini di 'laicità', vale a dire non si appella - dovendo giustificare la sua posizione - all'autorità in cui crede. «La laicità - leggiamo nella risposta al manifesto parsa sul "Sole" il 16 giugno a firma A. Fiori, A. Pessina, E. Sgreccia e A. Spagnolo - è un metodo del filosofare come tale attuato e attuabile anche dal credente». Anche la bioetica fatta dai cattolici - ha insistito nel dibattito pubblico Francesco D'Agostino - è allora bioetica laica nel senso che la bioetica o le bioetiche devono necessariamente essere laiche cioè razionali e argomentative. L'uso della ragione, evidentemente, è ciò che contraddistingue la bontà e la credibilità di qualsiasi argomentare.
    A questo proposito è interessante e al contempo provocatoria l'asserzione con cui Luigi Lombardi Vallauri ha esordito, sostenendo infatti che l'etica sarebbe laica anche se Dio volesse imporla. Se così fosse, l'uomo avrebbe il dovere di sottrarsi all' etica voluta da Dio perché neppure Dio può sottrarsi alle leggi dell'universo, alla legge matematica per cui "due più due non possono fare cinque". Così, in questa specie di giusnaturalismo, Lombardi Vallauri ha inteso restituire l'etica all'uomo rigettando anche il più cieco volontarismo morale e qualsiasi forma di obbligazione materiale. Il punto è però, a mio avviso, quello per cui per i sostenitori dell'autorità morale non si tratta tanto di verificare l'aderenza del volere divino alla natura e alle sue leggi, bensì di riconoscere nella natura e nelle sue leggi precisamente l'espressione manifesta del volere di Dio. Non c'è che un'unica etica, ha ribadito Vallauri, quella laica, l'etica che non si fonda sull'autorità ma su tesi e argomenti.
    A rivendicare il diritto alla differenza di essere laico è stato Demetrio Neri, secondo il quale il punto della questione non sta nel mettere tra parentesi la religione bensì la sua cristallizzazione dogmatica". Unico vincolo metodologico valido per tutti deve essere 1"'ascoltare le ragioni degli altri ed essere anche disponibili a cambiare le proprie". Il diritto di essere riconosciuti come "stranieri morali" è stato rivendicato anche da Carlo A. Defanti e Viano, pur auspicando una convergenza su norme procedurali minime, su valori condivisi che possano essere quanto meno garanzia di un dibattito sereno. Ma a ben vedere è proprio sulla proposta di un minimum etico che i cattolici si dichiarano insoddisfatti. All'origine di una scelta morale c'è comunque - ha affermato Paolo Cattorini - una precisa visione di vita buona; la fede dunque, in quanto costitutiva della morale, non può essere dichiarata esosa. Ogni procedura del resto sottintende un'opzione morale. Un'etica semplicemente procedurale - aggiunge Cattorini - non potrebbe più stabilire la bontà dell'agire e lascia ogni decisione alla singola coscienza. Prima indicazione operativa è adeguarsi al seguente imperativo: "Immagina che a livello legislativo vinca un orientamento morale diverso dal tuo; quale suggerimento potresti dare perché anche la tua posizione possa essere tutelata?".
    Ora, crederei che questa indicazione di sapore kantiano altro non sia che la forma del rispetto e della tolleranza del più schietto liberalismo e in questo senso universalmente condivisibile. La visione liberale non invita che all'assunzione di un atteggiamento super partes, esattamente la posizione neutrale che dovrebbe occupare il legislatore per decidere nell'interesse della cittadinanza. Tale atteggiamento comporta altresì che ciascuna parte si sforzi di autocomprendersi come tale, evitando la presunzione di poter dire l'ultima parola, di essere depositario della verità. Accettare di riflettere sulle condotte, anche quelle che si ispirano ad un atto di fede, far uso dello strumento sia pur procedurale della ragione comporta il condividere alcune regole del gioco valide per tutti, dovendo alla fine il legislatore rispondere non alla domanda che cosa è buono ma a quella che cosa è più giusto. In altre parole si tratterrà non di stabilire una gerarchia di valori e priorità ma al limite di consentire il diritto di cittadinanza al maggior numero possibile di tali gerarchie. Ciò non è condivisibile per gran parte degli eticisti cattolici, per i quali già questa prima forma di autonomia è una condizione necessaria ma non sufficiente alla morale, dal momento che non risolverebbe la questione circa i valori che l'uomo dovrebbe perseguire per essere autonomo.
    Mi sembra che il discorso si avvolga su se stesso: se ai cattolici non piace parlare di autonomia poiché essa rieccheggia un certo formalisrno o proceduralismo etico, è altresi vero che è ben difficile pretendere di dare all'autonomia una sostanza morale, una opzione di fondo - direbbe Cattorini - senza con questo pregiudicarla nella sua possibilità di espressione. È vero, condivido la preoccupazione nei confronti degli incapaci, la cui autonomia è assolutamente compromessa; anch'io penso agli embrioni senza tutela, ai dementi, agli handicappati gravi e agli stati vegetativi persistenti, trovo del tutto convincente l'espressione usata nel Manifesto per cui gli individui devono avere sempre e comunque la garanzia di decidere per proprio conto, laddove anche ogni attitudine alla scelta ponderata richiede a mio avviso un'adeguata formazione. Anch'io - credente - vedo con preoccuppazione l'assunzione di troppo semplicistiche decisioni. Ma non è tradendo la onestà del confronto, non ènell'angoscioso richiamo ad un dio buono e paterno che devo sperare perché gli uomini decidano davvero di indicare almeno la via al dialogo come la prima via realmente percorribile da tutti, né nell'illusione di poter trovare sempre e comunque una soluzione comune. Sulla base di queste constatazioni è del tutto fuorviante pensare di contrapporre agli assoluti religiosi altrettanti assoluti laici. Ogni forma di ideologizzazione del dialogo morale non può che snaturare la morale stessa. La verità professata, del resto, non può temere il dialogo, non può deve temere di essere sottoposta a critica (A. Pessina); dal dialogo può trarre più solido conforto oppure, nella peggiore delle ipotesi, sufficiente motivo per decadere. Veramente laico è allora qualsiasi atteggiamento di rispetto e di tolleranza, qualsiasi atteggiamento di apertura argomentativa che si avvalga della ragione come del suo strumento comune, come terreno per qual siasi proficua intesa. Tutti allora, religiosi e non, sono tenuti al primo più immediato rispetto di regole 'deontologiche' quali l'ascolto dell'altro senza pregiudizio, la disponibilità ad essere messi in discussione e a fornire argomenti ragionevoli e convincenti per sostenere le proprie tesi. Possiamo dirci d'accordo nel definire tale atteggiamento dialogico come squisitamente laico, cioè onesto, trasparente nell'esibire la propria eventuale credenza, cercando per essa una riflessione razionale, o - volendola comunicare - delle prove accettabili da una ragionevole ragione.
    «Dibattito sul Manifesto di bioetica laica»
    Conclusioni.
    di MAURIZIO MORI
    Centro Politeia, Milano; Consulta di Bioetica, Milano.
    Le osservazioni seguenti rappresentano la mia posizione, e non impegnano gli altri estensori del Manifesto di bioetica laica. Mi auguro di interpretare anche il loro pensiero, data la consonanza di vedute su alcune questioni fondamentali, ma non ho avuto il tempo di consultarli e quindi parlo a titolo personale. Data la ricchezza del dibattito svolto nelle pagine precedenti, sembra difficile riuscire a trarre conclusioni precise: il risultato pratico più immediato sta certamente nella proposta di Paolo Cattorini di avere altri incontri su temi più specifici, per proseguire il dialogo[1].
    Assodato questo, credo che la cosa più utile da farsi sia esporre brevemente le ragioni che hanno portato al Manifesto. L'idea di un'iniziativa che potesse richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica più ampia (e non solo quella dei "bioeticisti") sui problemi della bioetica (che ha poi preso corpo nel Manifesto) covava da tempo. In Italia una diffusa tendenza porta a credere che solo l'etica religiosa sia capace di produrre una concreta e attuabile proposta morale: il crollo del muro di Berlino avrebbe mostrato l'illusorietà delle speranze di un'etica "laica" (ossia fuori dell'ipotesi di Dio). D'altro canto il "movimento ecumenico" porta molti a credere che le differenze intra-religiose siano ormai poco rilevanti, e questo da noi significa in pratica un netto vantaggio per la morale cattolica, la quale proprio sulla bioetica ha investito grandi risorse, contrapponendo una "cultura della vita" (buona e religiosa) a una "cultura della morte" (malvagia e senza Dio), e affermando che la bioetica è la "nuova questione sociale". Addirittura per alcuni la bioetica sarebbe una "creazione" cattolica e la sua diffusione sancirebbe la rinascita della morale cattolica[2].
    In un paese in cui le critiche a questa proposta non sono frequenti, abbiamo voluto mandare un messaggio forte e chiaro per far sapere al grande pubblico che esiste una bioetica laica capace di dare risposte adeguate ai nuovi problemi emergenti in campo biomedico. Mentre il papa esalta lo splendore della verità" che in bioetica porterebbe a una serie di divieti assoluti che chiudono definitivamente ogni ricerca e dibattito, nel Manifesto abbiamo proposto il pluralismo etico: la diversità di posizioni non è indice della penetrazione del male nella cittadella del bene né di una perversa concezione della libertà, ma è ricchezza per tutti e costituisce un momento di crescita culturale e sociale. L'autonomia delle persone (su cui insiste il Manifesto) non è frutto di bieco individualismo, ma è segno di rispetto delle aspirazioni delle persone e dei diversi piani di vita. Si trattava di trasmettere tale idea senza cadere nella spirale della contrapposizione: una delle obiezioni più frequenti mosse all'etica laica è quella di vivere criticando l'etica religiosa senza riuscire a produrre una proposta che si regga da sola. Per questo abbiamo cercato di avanzare le nostre tesi mostrando che la bioetica laica ha dei principi di fondo capaci di sostenere una proposta globale. Forse proprio qui sta una della ragioni del successo riscosso dal Manifesto che, tuttavia, presenta difetti ed è perfettibile: la sua finalità tipicamente non-accademica può aver contribuito a sottolineare aspetti che forse avrebbero dovuto essere più sfumati, ma nel complesso l'idea di fondo è chiara e indica una direzione verso cui puntare.
    Il successo del Manifesto è stato del tutto imprevisto e inaspettato. Lasciando ai sociologi il compito di un'analisi delle ragioni che stanno alla base di tale fenomeno, mi limito qui ad osservare che mentre negli anni '60 era la teologia a suscitare grande interesse, ora - anche in Italia sembra che valgano le parole scritte da Jeffrey Stout quando osserva che:
    nella nostra cultura, per avere un uditorio la teologia ha spesso assunto una voce che non le è propria, e si è trovata a ripetere le idee degli intellettuali laici (secular) in un linguaggio chiaramente figurativo. È facile che i teologi che hanno qualcosa di specifico da dire parlino tra loro .... Può un teologo parlare con fede a favore di una tradizione religiosa, articolando le sue implicazioni etiche e politiche, senza ritirarsi ai margini del discorso pubblico e senza restare essenzialmente inascoltato?[3].
    Forse il Manifesto ha suscitato tanto interesse e il Convegno tanto successo perché anche in Italia sta diventando chiaro che quella cattolica è una specifica proposta religiosa, e - come tale - non può pretendere il consenso universale, né tantomeno proporsi come la moralità.
    Al di là di queste considerazioni storico-sociologiche poiché da molti è stato criticato l'uso del termine "laico" (ritenuto essere polemico, in quanto evocatore di antichi steccati ormai desueti), è opportuno dire qualcosa in proposito. Si potrebbe subito replicare che gli steccati sono creati non da chi afferma la dignità del pluralismo etico e della diversità delle opinioni (anche religiose), ma da chi sostiene che smarrendo il senso di Dio si tende a smarrire anche il senso dell'uomo" (Evangelium Vitae, n. 21), vantando il monopolio della moralità. Ma così facendo non si entra in dialogo, ed è meglio chiarire perché - a mio giudizio - tutto sommato va ancora bene usare tale termine.
    "Religioso" è colui che crede nell'esistenza di un Ente trascendente (solitamente chiamato Dio); e "non-religioso" è chi nega l'esistenza di Dio o comunque non l'afferma. Ma anche entro l'ambito religioso abbiamo varie prospettive: i cattolici roma ni, infatti, ritengono che la ragione umana riesca a dimostrare l'esistenza di Dio e a conoscere le verità metafisiche e l'ordine del mondo stabilito da Dio, cosicché la rivelazione (oggetto di fede) suppone e ·completa questo quadro umano e razionale. In particolare la moralità dipende da questa concezione metafisica, ed è per questo che pretende di valere per tutte le persone (razionali), indipendentemente dalla fede. Per i cristiani non cattolici, invece, (come per molti cattolici comuni) la ragione non è capace né di dimostrare l'esistenza di Dio né di sviluppare la cosiddetta "teologia razionale": l'esistenza di Dio, come le altre questioni teologiche, sono frutto di mera fede, e le norme morali rintracciabili nella Bibbia non necessariamente rispondono ai criteri della razionalità umana. Per questo il singolo individuo può accettarle come norma per la propria vita, ma non può pretendere che siano accolte anche dal non-credente o da chi ha una diversa fede (aprendo la strada a posizioni "liberali" o "fondamentaliste"). In questo senso, mentre per il cattolico non ha senso ragionar fuori dell'ipotesi di Dio (la cui esistenza è dimostrata dalla ragione), questa posizione è plausibile e corretta per chi ha rinunciato all'assunto della dimostrabilità dell'esistenza di Dio: per costoro è sensato mettere tra parentesi l'ipotesi Dio e ragionare etsi deus non daretur per individuare soluzioni morali adeguate per la convivenza civile. In questa posizione laica non c'è alcuna polemica antireligiosa; perché al credente è garantito il rispetto della sua fede e prospettiva religiosa, ma essa non può pretendere di valere per tutti. Ecco perché "laico" mi sembra tutto sommato adeguato: esso assume un tono polemico solo per chi presuppone che la religione porti necessariamente alle vette della teologia razionale, così che il mancato conseguimento di tali elevati livelli è indice di un uso distorto (o insufficiente) delle facoltà razionali. Ma questa pretesa ci fa immediatamente tornare alla polemica, che invece vogliamo evitare.
    Per concludere vorrei fare un'ultima annotazione circa la fonte da cui scaturiscono (teoricamente) i problemi della bioetica, ed al proposito parto dalla terza massima della "morale provvisoria" di Cartesio, secondo cui è meglio sforzarsi «sempre di ... cambiare i propri desideri piuttosto che l'ordine del mondo». Questa massima è saggia in circostanze storiche in cui il mondo non può essere facilmente cambiato o non lo può essere affatto, ma diventa di dubbio valore in circostanze in cui, grazie alla tecnica, diventa possibile cambiare l'ordine del mondo con facilità e soddisfare i desideri umani. Ecco perché Scarpelli sostenne che il motto laico poteva essere "a situazioni nuove forme etiche nuove" ed è «ispirato dal timore del male che in situazioni nuove possono involonta riamente produrre forme etiche vecchie»[4]. La riflessione bioetica nasce dallo sforzo di individuare la nuova tavola dei valori adatta alle nuove circostanze storiche: è per questo che il termine "laico" resta adeguato e difendibile.
    Note
    nota 1 Nel prossimo autunno 1997 l'ospedale San Raffaele di Milano, Politeia e la Consulta di Bioetica organizzeranno un Convegno sul tema "Bioetiche in dialogo. La nozione di dignità della vita umana".
    nota 2 N. Blazquez, Bioetica fundamental, BAC, Madrid, 1996, si chiede addirittura se le altre proposte non siano forme di "nazismo sumergido".
    nota 3 J. Stout, Ethics after Babel, Boston, 1988, p. 163.
    nota 4 4 U. Scarpelli, La bioetica nell'ospedale, «Mondo economico», 8 dicembre 1988, p. 13.