Giuseppe Gioachino Belli nacque a Roma nel 1791. La sua
famiglia subì la confisca dei beni durante gli avvenimenti della
rivoluzione giacobina. Rimasto orfano di entrambi i genitori, grazie all'interessamento
di alcuni parenti trovò un impiego nell'amministrazione pontificia.
Continuò a fare l'impiegato anche dopo l'arrivo dei francesi, ma
nel 1810 venne esonerato; visse allora prestando il proprio.servizio di
segretario presso alcune famiglie nobili. L'estrema povertà non
gli impedì di dedicarsi al lavoro letterario: risalgono a questi
anni alcuni componimenti d'occasione che lo resero noto negli ambienti
della cultura romana. Alla fondazione dell'accademia Tiberina (1812) Belli
ne divenne il segretario.
Nel 1816 sposò la vedova del conte Pichi, di 13 anni più
anziana; questa donna fu assai importante per il Belli, perché
gli diede la possibilità di vivere con una certa agiatezza e gli
permise di.compiere i molti viaggi che lo misero in contatto con realtà
culturali e sociali a lui sconosciute. Visitò due volte Firenze
(1824 e 1825), dove conobbe Vieusseux; ma fondamentali furono i suoi soggiorni
a Milano (1827, 1828, 1829), durante i quali si entusiasmò per
la poesia di Carlo Porta e apprezzò l'opera dei romantici lombardi.
Nel 1828 si dimise dall'accademia Tiberina; è il segnale di una
maggiore indipendenza dalla cultura ufficiale dell'ambiente romano che
coincide anche con l'inizio della composizione dei Sonetti in romanesco.
Furono gli anni più sereni e più prolifici, che si interruppero
nel 1837, con la morte della moglie; allora Belli scoprì che il
patrimonio della Pichi era in gran parte ipotecato e che essa, per non
turbarlo, gli aveva tenute nascoste le difficoltà finanziarie.
Nel 1841 ottenne un impiego al Debito pubblico. L'atteggiamento del Belli
di fronte alla proclamazione della repubblica romana nel 1849 fu di accesa
avversione, che espresse anche in alcune composizioni in lingua. Alla
restaurazione del potere temporale di Pio IX venne eletto presidente dell'accademia
Tiberina e nel 1852 fu incaricato di esercitare la censura sulle opere
di teatro in prosa e in musica sotto l'aspetto morale e politico, distinguendosi
per alcuni giudizi talmente retrivi da mettere in imbarazzo lo stesso
governo pontificio. Negli ultimi anni si dedicò alla poesia religiosa,
traducendo in italiano gli Inni ecclesiastici. Morì nel 1863.
La sua opera principale sono i Sonetti in romanesco, quasi
2300, composti tra il 1830-38 e il 1843-47. Quasi tutti pubblicati postumi,
che mostrano l'altra faccia di Belli: non l'austero e ben poco fantasioso
autore in lingua, non il politico reazionario, bensì il ribelle
e violento accusatore, l'idealista, il contestatore, il cantore della
plebe a cui dedica quello che chiama un "monumento" poetico.
E infatti i suoi componimenti rappresentano scene di vita popolare, vivaci
ritratti, invettive comiche, sempre però accompagnate dall'amarezza
di chi ha una visione profondamente pessimista e tragica della vita.
Si tratta di una poesia a forti tinte, molto originale rispetto alla tradizione
italiana, come dimostra del resto la scelta originale del dialetto. In
queste poesie non vengono risparmiate neppure le tematiche religiose e
infatti i riti cattolici sono rappresentati come copioni privi di significato.
Persino la morte è sbeffeggiata, con un atteggiamento volutamente
irrisorio. Risalta invece appieno la rappresentazione realistica del mondo
popolare romano, ben identificato nelle sue effettive caratteristiche
(in primo luogo linguistiche), anche se in fondo idealizzato: le figure
di popolani dalla risposta pronta, astuti, abili a maneggiare il coltello,
sono caricate di un valore esemplare che le rende protagoniste di un'epica
minore, modesta, in fondo povera in senso sia economico sia culturale.
Spiega la scelta del sonetto nell'Introduzione dell'opera, sonetto che
viene utilizzato per dipingere situazioni del popolo romano e non per
costruire una storia articolata. Utile al fine di capire lo stile del
Belli è analizzare un suo sonetto come per esempio La creazzione
der monno tratto da 'La Bibbia del Belli', Adelphi editore.
|
La creazzione der monno
L'anno che Gesucristo impastò er monno,
ché pe impastallo già c'era la pasta,
verde lo vòrse fa, grosso e ritonno,
all'uso d'un cocommero de tasta.
Fece un sole, una luna, e un mappamonno,
ma de stelle poi di' una catasta:
su uccelli, bestie immezzo, e pesci in fonno:
piantò le piante, e doppo disse : "Abbasta".
Me scordavo de dì che creò l'omo,
e coll'omo la donna, Adamo e Eva;
e je proibì de nun toccaje un pomo.
Ma appena che a magnà l'ebbe veduti,
strillò per dio con quanta voce aveva:
"Ommini da venì, séte fottuti".
|
Come per tutti i sonetti del Belli si possono dare diversi
livelli di interpretazione.
La prima interpretazione è sicuramente quella comica sottolineata
ed amplificata dall'uso del dialetto romanesco ed innegabilmente dalla parolaccia
posta al termine di un movimento di salita della tensione. Ma subito ci
si accorge di un'altra chiave comica di questo romanesco del Belli che all'improvviso
riprende la prestigiosa costruzione prohibeo quominus trasformandolo in
un più comprensibile "je proibì de nun toccaje un pomo",
comicità ripresa anche nella figura di un Dio che "strilla"
impietosamente una maledizione-parolaccia.
Ed ecco comparire la seconda interpretazione, quella satirica, o per meglio
dire satirico-illuminista enunciata nei primi due versi "L'anno che
Gesucristo impastò er monno, ché pe impastallo già
c'era la pasta," con la teoria della creazione dal nulla e con l'errore
teologico di porre Gesucristo e non Dio come essere creante. Questo ci introduce
alla terza interpretazione o la parodia del villano. Il Belli si sofferma
sulla denuncia morale dell'iniquità del Dio creatore che punisce
non solo i colpevoli ma tutti gli "ommini da venì". Il
sonetto si fonda tutto sull'invenzione di un personaggio parlante esterno
che ricalca le narrazioni della cultura popolare.
La quarta chiave di lettura è la metastoria introdotta dalla metafora
tratta dall'esperienza popolaresca del venditore di cocomeri con l'utilizzo
di una forma cara al Belli, l'anacronismo che con la traduzione geografica
crea degli effetti surreali alla narrazione di avvenimenti e luoghi.
Appare ora la fonte violata come quinta interpretazione. E si intende, naturalmente,
la citazione della fonte, la parafrasi del testo biblico. I primi versi
ricalcano, infatti, l'inizio del racconto della Genesi con le dovute semplificazioni
popolari ma con il proseguire della lettura ci si accorge che nel Belli
non c'è possibilità di riscatto a differenza dei racconti
Biblici. Il Dio così presentato risulta impositore di un assurdo
divieto che lo fanno diventare tiranno e persecutore.
Tutte queste caratteristiche ci introducono alla sesta ed ultima chiave
di lettura: l'ambiguità. Il popolano che narra quella Bibbia apocrifa
è contemporaneamente beffato e beffatore. Quindi il compromesso è
l'unica soluzione che consente al cattolico Belli di rimanere sufficientemente
ateo e di identificarsi in parte con il suo personaggio-narratore.
|