I più recenti studi organologici hanno finalmente messo un po’ d’ordine riguardo le antiche origini degli strumenti moderni. Per quanto riguarda la chitarra, si può affermare con certezza che lo strumento è di derivazione medio-orientale. Gli studiosi evidenziano che nelle antiche lingue locali e nel sanscrito, la parola "Tar" significa invariabilmente "corda" e da qui il "Do-Tar" ed il "Se-Tar" indicano strumenti, rispettivamente a due e a tre corde (esemplari del primo sono ancora usati nel Turkestan). Esiste inoltre un significativo bassorilievo in pietra risalente al XIII secolo a. C., denominato "La chitarra ittita", che raffigura appunto un ittita nell'atto di suonare uno strumento le cui caratteristiche morfologiche (eccetto le dimensioni notevolmente ridotte) sono simili alla chitarra moderna. in questo importante reperto archeologico è rappresentato infatti uno strumento a corde pizzicate, a forma di otto, con manico tastato e con una cassa armonica dal fondo piatto. Con la penetrazione dei costumi (la cultura musicale islamica fu notevolmente influenzata nel Medioevo da quella persiana) è facile seguire l'introduzione in Europa dello strumento al seguito degli arabi e ritrovarlo rappresentato immutato a distanza di secoli nelle "Cantigas de Sancta Maria" (1270 d. C.). E' valsa la pena puntualizzare le caratteristiche originarie della chitarra per capire quali modificazioni essa abbia poi subito nel corso della sua lunga storia. Brevemente, i liutai hanno apportato delle migliorie alla chitarra quasi esclusivamente lungo due direttrici: 1) l'accrescimento dell'esiguo volume sonoro; 2) l'estensione della gamma dei suoni eseguibili al registro grave con l'aggiunta di corde. Per il primo punto, si è lavorato instancabilmente maggiorando in modo apprezzabile le dimensioni della cassa armonica. Per quanto riguarda il secondo punto, l'evoluzione dello strumento è avvenuta schematicamente attraverso le tappe riportate qui di seguito. La chitarra rinascimentale era armata di quattro "cori" (corde di budello appaiate ed accordate all'unisono ed all'ottava). Nella seconda parte del sec. XVI vi si aggiunse il quinto coro al grave. La chitarra così descritta da Juan Bermudo, si qualificherà come "chitarra spagnola" e rimarrà in auge fino allo spegnersi del Settecento. Di fattura raffinata, con notevoli decorazioni proprie dell'epoca barocca, la chitarra incontrò persino il favore di principi e di re, tant'è vero che presso la corte di Luigi XIV v'era regolarmente stipendiato un maestro di chitarra. Sul finire del sec. XVIII, lo strumento abbandonò i raddoppi delle corde ma acquistò una sesta corda al grave e con queste sembianze in un primo tempo fu chiamata "chitarra francese". Lo strumento subì un'ulteriore maggiorazione della cassa armonica, nonché un innalzamento della tastiera rispetto al piano armonico, ad opera del liutaio Antonio Torres, nella seconda metà del sec. XIX. Ma ancor oggi non si è esaurita l'affannosa ricerca di un maggior volume sonoro, compensata in parte dall'uso sempre più frequente di impianti di amplificazione nelle grandi sale da concerto.

Le prime raccolte di composizioni destinate alla chitarra (a quattro cori) vedono la luce quasi contemporaneamente in Spagna, Francia ed Italia, attorno alla metà del sec. XVI. Il repertorio formato da tali musiche comprende: a) Composizioni solistiche originali; b) Trascrizioni di celebri musiche vocali; c) Musiche di derivazione popolare a carattere di danza; d) Brani per voce con accompagnamento di chitarra. Merita spendere qualche parola per la notazione musicale per chitarra di quel periodo. Le composizioni per chitarra, così come quelle per liuto, suo strumento antagonista, non vengono redatte sul pentagramma, bensì in "intavolatura", cioè con un sistema di scrittura che su una pagina o "tavola", rappresenta la tastiera dello strumento in ogni momento dell'esecuzione ed indica il posto che le dita dell'esecutore debbono occupare secondo il valore di tempo indicato in verticale. Questo ingegnoso sistema di notazione è ancor oggi usato per un certo tipo di repertorio destinato a coloro che non sanno "leggere la musica". Nel periodo barocco, se si eccettuano le composizioni degli italiani F. Corbetta, L. Roncalli, G.B. Granata, o dello stesso spagnolo G. Sanz, del francese de Visée (che scrisse tra l'altro una accorata "Tombeau" per la morte del re Luigi XIV), la qualità della musica per chitarra è inversamente proporzionale al favore che lo strumento incontra presso il pubblico. Infatti, buona parte del repertorio, redatto ancora con il sistema dell'intavolatura, è formato da gruppi di danze stilizzate da eseguirsi con le "botte", cioè con accordi battuti ritmicamente in stereotipe sequenze armoniche. Con la nascita dello strumento moderno a sei corde semplici e con l'adozione del sistema di notazione mensurale (quello tuttora in uso), sul finire del Settecento si assiste ad un crescente interesse dei compositori verso la chitarra. Nel 1798-99, Luigi Boccherini compone e adatta 12 Quintetti per quartetto d'archi e chitarra, offrendo un lucido esempio sull'utilizzo dello strumento a pizzico in organici cameristici. E' questa una delle prime opere per chitarra moderna. Nel corso della prima metà del sec. XIX si incrementa notevolmente l'attività concertistica e compositiva soprattutto ad opera di chitarristi italiani. Il napoletano Ferdinando Carulli (1770-1841), autore di un celebre Metodo ancora in uso, si insedia a Parigi, dove si dedica principalmente all'insegnamento. Il pugliese Mauro Giuliani (1781-1829), un altro caposcuola della chitarra moderna, incanta il mondo musicale viennese con le sue virtuosistiche esibizioni e dedica allo strumento importanti pagine solistiche e da camera, componendo tra l'altro tre Concerti per chitarra e orchestra. La chitarra in questo periodo "suona italiano"; Luigi Legnani, Matteo Carcassi, Francesco Molino sono infatti i concertisti emergenti, assieme al geniale Niccolò Paganini (1782-1840), più famoso come violinista, che ci ha lasciato un corpus considerevole di pezzi per chitarra sola, Duetti, Terzetti e Quartetti per archi e chitarra di estrosa bellezza e di notevole importanza. Brilla ancora a Parigi lo spagnolo Fernando Sor (1778-1839) noto a tutti gli studenti di chitarra per i suoi bellissimi e odiatissimi Studi. Sebbene con risultati diversi anche numerosi autori dell'area tedesca si cimentano in questo periodo nella composizione per chitarra poiché era grande la simpatia del pubblico per questo strumento. Basti ricordare che alcuni Lieder di Franz Schubert furono editi dapprima nella versione per voce e chitarra e solo in un secondo momento per voce e pianoforte. 

Lo stesso Carl Maria von Weber (1786-1826) scrisse alcune raccolte di Lieder con accompagnamento di chitarra. Sebbene i musicologi stiano ancora vagliando i più recenti ritrovamenti di brani per chitarra composti nella seconda metà del sec. XIX, è indubbio affermare che nel periodo romantico c'è comunque una crisi dello strumento la cui causa principale viene concordemente indicata nell'impossibilità della chitarra di competere con i più agguerriti strumenti antagonisti quali il pianoforte, vincente in partenza e per emissione sonora e per agilità, e d'altro canto lo strumento a pizzico è impotente di fronte alla predilezione crescente del pubblico per il repertorio sinfonico. Se a quel tempo nel resto d'Europa la chitarra è pressoché scomparsa dalla vita musicale che conta, in Spagna essa continua a godere dell'attenzione di molti musicisti. Alla scuola del chitarrista Francisco Tarrega (1852-1909), cresce Miguel Llobet, buon didatta ed acclamato concertista. Ma è con Andrés Segovia (1894-1987) che la chitarra si fa conoscere al pubblico mondiale. Segovia, dotato di una tecnica esemplare e di una sensibilità artistica eccezionale, dimostra a coloro che non lo credono, che la chitarra ha una espressività ed una capacità tecnico-musicale pari agli altri strumenti. Da quel momento, compositori di fama quali Heitor Villa-Lobos, di cui ricordiamo i misteriosi Preludi ed i fantasiosi Studi, Mario Castelnuovo-Tedesco, Manuel Maria Ponce, Joaquin Turina e Joaquin Rodrigo, autore quest'ultimo del fortunato "Concierto de Aranjuez", dedicano sempre più energie a scrivere per chitarra, mentre altri autori forse lo avrebbero fatto se, pur dimostrando le proprie simpatie per lo strumento, fossero stati stimolati in tal senso. Prende avvio così un costante interesse di compositori non chitarristi per lo strumento che emette un suono affascinante dalla "…sua nera cisterna di legno" (Federico Garcia Lorca). Chiarificatrice ci sembra quindi questa puntualizzazione del compositore Angelo Gilardino: "Una fondamentale differenza distingue la musica contemporanea per chitarra da quella composta nei secoli precedenti; fino a Manuel de Falla, infatti, furono i chitarristi (in misura quasi esclusiva) a scrivere per il loro strumento, mentre da de Falla in poi la chitarra è divenuta un mezzo comune di espressione per tutti i compositori, indipendentemente dal loro grado di conoscenza diretta dello strumento". Anche in Italia i compositori contemporanei si sono prodigati ad arricchire il repertorio dello strumento: Silvano Bussotti, Franco Donatoni, Goffredo Petrassi, Luciano Berio e tanti altri hanno dedicato già diverse pagine alla chitarra. Così come, ad ulteriore attestazione che lo strumento attraversa oggi un buon momento, ricordiamo con piacere le importanti pagine di autori della nostra regione: da Giulio Viozzi a Pavle Merkù, Giampaolo Coral, Franco Dominutti, Cecilia Seghizzi Campolieti, Marco Sofianopulo, Daniele Zanettovich e Giuseppe Radole che in un fortunato saggio dedicato alla chitarra scrive:"…la chitarra risulta in definitiva uno strumento vivo: entra a far parte degli strumenti che si studiano nei conservatori, dove si preparano nuove generazioni di interpreti, e d'altra parte continua a godere del favore di molti dilettanti, per sostenere il canto popolare o accompagnare la danza".

Ma è proprio per l'ottusità di pochi tutori dell'accademismo musicale nel senso più deleterio, che la chitarra in Italia ha dovuto attendere la Legge del 2 maggio 1984, n. 106 (che istituisce nei conservatori di musica la "scuola di chitarra"), per entrare dalla porta principale nella scuola pubblica. Nei decenni precedenti, lo strumento veniva comunque insegnato nei conservatori italiani, ma il corso di studi era "straordinario" e quindi aveva molte limitazioni giuridiche, prima fra tutte l'invalidità dell'attestato finale ai fini dell'insegnamento nelle scuole pubbliche, poi, il limitato numero di cattedre attivate (circa una per conservatorio). Dopo un lungo e faticoso iter legislativo, la chitarra è finalmente trattata alla pari degli altri strumenti: il corso di studi ha infatti analoga durata a quello di pianoforte (10 anni) e prevede gli stessi insegnamenti complementari.

Giulio Chiandetti

 

 

 

 

Il mito greco-romano parla del piccolo Hermes-Mercurio, che nato al mattino già a mezzogiorno era in grado di camminare, e andandosene a spasso trovò sulla spiaggia una tartaruga morta e putrefatta sul cui guscio alcuni residui tendini risuonavano al vento. Il dio dell'astuzia e dell'ingegnosità si mise ad armeggiare, ed in breve ne ricavò quell'aggeggio che gli antichi greci avrebbero chiamato kithara, facendone il loro strumento nazionale.

Quella stessa invenzione avrebbe in seguito risparmiato al piccolo impertinente una divina sculacciata, con l'offrirlo a Febo-Apollo in cambio del bestiame che gli aveva rubato. E il dio-artista non avrebbe resistito alla tentazione, facendo anzi della kithara uno dei suoi attributi. E tradizionale l'immagine di Nerone, devoto ad Apollo, che la suona mentre intona il suo poema sulla distruzione di Troia nel guardare Roma in fiamme. E tuttavia, se la kithara classica ha dato alla nostra chitarra il nome e ne ha anticipato la funzione di accompagnamento del canto, non si tratta però dello stesso strumento. La rappresentazione classica ce la mostra infatti come una cassa di risonanza con ai lati due prolungamenti verticali a forma di corna, che sorreggevano una sbarra trasversale. Fra questa e il corpo inferiore della cassa di risonanza erano tese le corde: solo 4 o 5 all'inizio, ma poi divenute 7 nel VII secolo a.C., 11 nel V secolo, e infine 15. Più che verso la chitarra, l'evoluzione è verso l'arpa. D'altra parte, la tecnica moderna dell'accompagnamento con accordi non si sviluppa in Occidente che alla fine del Medio Evo, per essere poi teorizzata tra XVI e XVIII secolo. Tuttora, la pratica musicale tradizionale delle culture extra-europee si basa essenzialmente non sulla sistemazione di note in intervallo con la melodia, bensì sulla sovrapposizione di linee melodiche simili, ma non identiche.

Ma qualcosa di simile alla chitarra moderna già esisteva in Medio Oriente, anche ai tempi in cui Nerone si lanciava nelle sue “kitharate”. Come testimonianza inconografica, il più antico chitarrista della storia ci guarda da un bassorilievo ittita del 1000 avanti Cristo. Siamo in prossimità geografica e cronologica con quella Troia della grande guerra cantata, prima ancora che da Narone, da Omero (anche lui, si immagina, con in mano una kithara). E come testimonianza archeologica, alcuni prototipi di chitarra sono stati ritrovati in tombe egizie dall'VIII al IV secolo a.C.. D'altronde, è tuttora l'Egitto il Paese dei più apprezzati virtuosi di ud del mondo islamico. Ud, con l'articolo che gli arabi mettono dappertutto, è al-ud. Sì: è quel famoso liuto dei Trovatori, su cui le lingue romanze intonarono i loro primi incerti versi, e che in Europa fu riportato presumibilmente dai Crociati. E lo stesso percorso deve averlo fatto la chitarra, che rispetto al liuto è una variazione sul tema: con il fondo piatto e la forma ad 8, invece che convesso e con la forma a pera. Ma è possibile anche che il viaggio sia stato fatto attraverso quella straordinaria camera di compensazione tra Islam e Cristianità che fu per tutto il Medio Evo la Spagna. Comunque, furono artigiani spagnoli quelli che nei secoli la aggiustarono, fino a darle la forma definitiva. In Spagna si è sviluppata quella scuola di virtuosismo flamenco che è un po' l'equivalente chitarristico europeo di quel che rappresenta l'Egitto per gli estimatori di ud. Ed è dalla Spagna che la chitarra è arrivata in America Latina, per dare vita ad un'altra importante scuola virtuosistica, con sviluppo di tecniche originali.

Nel '300, la chitarra aveva quattro corde: tre doppie, come le ha oggi il mandolino, e una semplice. La quinta corda, doppia, fu aggiunta in basso alla fine del '600; la sesta arrivò, in alto, a metà del '700, mentre tutte le corde divenivano singole. E' forse questa la più importante traccia della lunga evoluzione parallela con il liuto, anch'esso passato dalle 2-4 corde originali alle 6 definitive (di cui 5 doppie). Interessante è anche ricordare il progressivo affermarsi in entrambi gli strumenti della tecnica di esecuzione con le dita rispetto all'originale prevalenza del plettro, tuttora indispensabile invece per mandolini e derivati. Ma chitarra e liuto si somigliavano troppo per poter convivere nel successo. All'inizio, con la nobiltà estasiata dall'esile timbro del liuto, la chitarra è un po' un parente povero. Ma già nel 1482 Leonardo da Vinci può mandare a Milano il curriculum che lo farà assumere da Ludovico il Moro, specificando che oltre a ingegnere, pittore, scultore e scienziato è anche un "suonatore di chitarra". E nel 1556 un trattato sulla Francia ci informa che lì "tutti sanno suonare la guiterne". Anche se non si trattava ancora della chitarra attuale di derivazione spagnola, bensì di un compromesso con la cassa a forma di pera come il liuto ma a fondo piatto. Un altro simile compromesso è rimasto nell'uso qua e là in Italia Meridionale, ed è chiamato dagli etnomusicologi "chitarra battente" (ma nella tradizione pugliese è quella la vera "chitarra". Quella che nel resto del mondo è la chitarra tout court, lì è detta "chitarra francese").

In italiano, i trattati di storia della musica chiamano la guiterne francese "cetra", termine che è però promiscuamente usato anche per la kithara greca. Probabilmente, la vittoria che relega il liuto agli specialisti di musica antica è il risultato di una democratizzazione della società: mentre il suono aggraziato ma fioco del liuto è inutilizzabile fuori di una stanza chiusa, l'energica "grattata" sulla chitarra ("rasgueo", è il termine tecnico di derivazione spagnola) permette di farsi intendere dall'auditorio più vasto che ascolta, ad esempio, i cantastorie. Oppure di far parte di un'orchestrina. Più complicato è invece metterla tra il frastuono di un'orchestra sinfonica vera e propria. Gli estimatori della chitarra, è vero, ricordano che Stradivari ne fabbricava, assieme ai suoi celeberrimi violini. Che Paganini ne era un virtuoso, oltre che di violino e mandolino. Che Haydn, Schubert, Weber e Rossini scrissero per chitarra partiture. E che Beethoven la definiva "un'orchestra in miniatura". Ma solo Verdi ebbe il coraggio di sperimentarla in qualche opera. (Nella storia italiana suoi illustri appassionati sono stati Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Massimo D'Azeglio e Bettino Craxi). Altro limite della chitarra era l'uso nella musica da ballo, al di fuori di alcuni contesti in cui appunto si è dovuto sviluppare un virtuosismo funambolico. Un esempio è appunto quello del flamenco dei gitani spagnoli; un altro è la get-fiddle del Far West, con la nascita del caratteristico stile saltellato del finger-picking. Ma zingari e pionieri erano appunto gente la cui vita nomade li portava ad apprezzare al massimo uno strumento con la dote della trasportabilità.

In Italia, ancora all'inizio del secolo gli strumenti a corde erano tipici degli artigiani di paese, che consideravano l'abilità nell'usare le dita per produrre i suoni un ideale complemento all'abilità nell'usare le dita per il loro lavoro. Caratteristica era soprattutto la bottega del barbiere, vera filarmonica dei poveri dove nelle ore di chiusura i vari "mastri" si vedevano per provare chitarre, mandolini e violini. Fu una specie di rivolta democratica quella con cui ad un certo punto il monopolio musicale di queste aristocrazie manuali iniziò ad essere sfidato dalle bande paesane. Ma il gran bisogno, prima della diffusione di radio e dischi, restava quello di uno strumento maneggevole che permettesse di sviluppare volume per il ballo senza dover pagare troppi suonatori. I pastori, gente con giornate dai molti tempi morti, utilizzavano la zampogna, dai lunghi tempi di costruzione e accordatura, e che invece dell'accordo sviluppava l'arcaico accompagnamento a bordone (in cui, invece di quattro note, la melodia è accompagnata solo da una). Nel ceto medio si affermò nell'800 il pianoforte, che ogni signorina di buona famiglia doveva imparare, ma con i problemi di trasportabilità evidenziati dalla famosa barzelletta yiddish sul perchè gli ebrei sono spesso grandi violinisti e non pianisti ("hai mai provato a dover scappare all'improvviso con un pianoforte in spalla?"). Infine, dagli ambienti contadini, si affermarono come risposta vincente fisarmonica e strumenti affini (dall'organetto italiano alla concertina anglo-sassone, al bandoñeon argentino): veri riassunti portabili del pianoforte che, inventati nel 1824, ci misero appena un secolo a divenire gli strumenti principe della musica popolare. E lo sarebbero rimasti, se proprio la diffusione della musica preregistrata non avesse cambiato totalmente i termini della questione. Non solo, infatti, si può ballare ora con un giradischi, dove prima bisognava assoldare almeno un suonatore (o servirsi di un amico che però doveva rinunciare lui a ballare). Ma l'ascolto massiccio di esecuzioni a livello professionale tende a viziare l'ascoltatore ai danni dei suonatori dilettanti, la cui esecuzione non sarà mai altrettanto pulita, nè il repertorio altrettanto vasto. E l'incentivo a passare ore a studiare, se non si vuole farlo come lavoro, viene meno in maniera drammatica. E' d'altronde un caso se negli ultimi cento anni la "biodiversità" musicale è tanto calata? Provate un po' a calcolare quanti nonni e prozii del vostro albero genealogico armeggiavano con violino o mandolino o tromba o fisarmonica. E fate il confronto con quanti dei loro discendenti lo fanno ancora...

Ma se per il bisogno di ascoltare musica la tecnologia è spiazzante, per la voglia di cantare neanche l'infernale marchingegno del karaoke è riuscito veramente a sostituire l'antico strumento ittita come fonte di accompagnamento: nè troppo forte da coprire la voce, nè troppo debole da non sentirsi, nè troppo complicato da perdercisi, nè troppo semplice da impazientire le smaliziate orecchie di oggi. Certo, un conto è imparare i quattro "accordi del barbiere" che bastano a ripetere qualche popolare canzone da cantautore, un conto è apprendere la tecnica solistica di un Andrés Segovia. Come insegna qualunque maestro la chitarra è lo strumento più facile da suonare male, ma è anche il più difficile da suonare bene. Non è questo però che interessa a coloro a cui la chitarra sul cuore è, per dirla con le parole di Carl Sandburg, "un compagno portatile, un piccolo amico che pesa meno di un bimbo appena nato".

L'unico nemico, per la popolarità di quello che è oggi lo strumento più suonato nel mondo, è in fondo sè stessa. Quel delirio di onnipotenza che, attraverso il rutilante mondo del rock e del pop, l'ha portata a farsi elettrica, a riempirsi di effetti speciali, ad assumere le più improbabili forme, dalla stella alla mannaia. Illusione suivida, visto che sul piano della tecnologia le tastiere resteranno sempre più versatili delle corde, perdendo in compenso l'handicap del peso. La chitarra acustica, insomma, è destinata a rimanere il più popolare degli strumenti tradizionali. Ma la chitarra elettrica non può che rimetterci, di fronte a quegli infernali pianini portabili in cui basta premere un tasto, e tutta la canzone salta fuori da sola. Seguita pure dai relativi applausi preregistrati...

Maurizio Stefanini