Ribolla, 4 maggio 1954

   

Notizie sui caduti e i feriti nella disgrazia

  Relazione del CORPO DELLE MINIERE

Cosa scrissero i giornali

  Il processo

Ribolla: la morte differenziale di Amadeo Bordiga e Lorenzo Parodi  

A Ribolla. Da "Battaglia Comunista", organo del Partito Comunista Internazionalista

 

Il 4 maggio 1954 è da sempre "quel giorno" nella memoria di tutti; sono le prime due parole che ogni persona dice parlando della miniera, con pudore e forse doveroso rispetto.

"Quel giorno" oggi sembra solo un racconto e per chi non ha visto è difficile immaginare i volti, la disperazione; uno dei primi feriti arrivati in infermeria, sorretto da due uomini, che gridava di "andare laggiù" perché tanti erano dentro e intanto insieme agli abiti bruciati cadeva anche la pelle. "Io sto bene, andate laggiù c’è bisogno di aiuto" ma dopo pochi giorni è morto.

                                                                                                                       

Chi non ha sentito il boato, chi non ha visto il fumo uscire dai pozzi è stato avvertito dalle porte spalancate dell’infermeria e la gente ha iniziato a radunarsi perché quelle porte significavano sciagura. 

Si sapeva che sarebbe successo perché le misure di sicurezza erano poche e i pericoli invece erano tanti; e poi c’era quella strana coincidenza nella date, come se la Miniera pretendesse le sue vittime ogni dieci anni. Nel 1925 per uno scoppio di grisou, nel 1935 per una inondazione dopo l’esplosione di una mina, nel 1945 fu ancora il gas a uccidere.

 

Ma nel ’54 non era solo un presagio a fare paura, era una situazione ormai diventata evidente, come se la vita degli operai non contasse niente di fronte alla necessità di raggiungere la produzione o di non perdere il posto di lavoro.

 

"Ma la mattina del tre la festa era finita, e allora sotto a levare lignite. Si erano riposati abbastanza o no, questi pelandroni?

Eppure il caposquadra aveva fatto storie: diceva che dopo due giorni senza ventilazione, giù sotto, era pericoloso scendere, bisognava aspettare altre ventiquattro ore, far tirare l’aspiratore a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo.

Insomma pur di non lavorare qualunque pretesto era buono.

L’aspiratore nuovo, i gas di accumulo, i fuochi alla discenderia 32 – come se i fuochi non ci fossero sempre, in un banco di lignite. Stavolta era stufo: meno storie, disse ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendio a spegnere i fuochi, ma intanto sotto anche la prima gita.

La mattina del giorno dopo la miniera esplose".

  

 

Alle 8 e 40 del 4 maggio 1954 il destino della miniera fu deciso nella sezione Camorra sud. Il primo turno era appena sceso, quarantasette persone, compreso il sorvegliante, avevano da poco iniziato a lavorare.

L'esplosione fu di una violenza incredibile con effetti termici devastanti ma anche effetti dinamici di spostamento d'aria lungo le gallerie.

Allo smarrimento iniziale si sostituì la disperazione; le prime notizie erano vaghe, non si riusciva a capire cosa fosse successo ma tutti sapevano che l'esplosione del grisou in una miniera "difficile" come quella di Ribolla non poteva che avere proporzioni tragiche.

La notizia passava di bocca in bocca; le donne, gli operai degli altri turni accorsero al pozzo Camorra sapendo che non c'erano attimi da perdere, che "con il gas non si scherza!", sperando di aiutare qualcuno ad uscire.

Anche nelle altre miniere e in tutti i paesi della Maremma si seppe che qualcosa era accaduto a Ribolla, ma non veniva detto niente di sicuro, le voci erano fumose e non si capiva cosa fare per aiutare, per dare soccorso.

 Alba Accorsi Barbafiera:


“Erano circa le 8 e mezzo ed i miei bambini dormivano ancora. Abitavo a Montemassi; la finestra della cucina era aperta. Ad un tratto si sentì un boato in lontananza, che sembrava provenire dalle viscere della terra, ma non ci feci caso più di tanto
, perché alla cava della Bartolina spesso venivano fatte brillare le mine.
Dopo un po', lanciando occhiate fuori dalla finestra, mi accorsi di strani movimenti: la fila davanti alla fonte non c'era più e le brocche per l'acqua erano state abbandonate in un angolo.
Si erano formati capannelli di gente: donne e uomini anziani uscivano dalle case e si fermavano a parlare in modo concitato.
Non potevo scorgere l'espressione dei loro volti, ma si capiva dal loro comportamento che doveva essere accaduto qualcosa si molto grave.
Improvvisamente il portone di casa si aprì e mio marito, il dottor Giorgio Barbafiera, entrò e con aria preoccupata disse:<<non mi aspettate a pranzo, devo andare a Ribolla. In miniera, al pozzo Camorra, è scoppiato il grisou e pare che ci siano tanti morti...tutti i minatori della gita della mattina.
Stanno arrivando autoambulanze da tutta la Toscana, hanno precettato i medici della zona, infermieri, vigili del fuoco. Ma i feriti saranno sicuramente pochi, si parla di una strage>>.
Mi veniva da piangere e da pregare mentre vedevo l'auto di mio marito percorrere la piana che porta a Ribolla.
Partirono anche i minatori di Montemassi, a piedi attraverso i campi o in bicicletta; in paese si facevano i nomi degli uomini della gita e non si sapeva che cosa pensare, non si avevano notizie.
Mio marito tornò sul tardi, a pomeriggio inoltrato, stanco, avvilito, atterrito per quello che aveva visto: <<sembra l'inferno... i vivi sono tutti là, intorno al pozzo e c'è una grande confusione. La polizia cerca di tenere lontano i parenti, alcune donne si sono sentite male.
I primi a calarsi giù hanno trovato un lago: i tubi di aspirazione dell'acqua erano scoppiati, la galleria si era allagata e in una pozza galleggiavano sette cadaveri. Sembravano pezzi di carbone, alberi anneriti e disseccati.
Noi medici abbiamo potuto fare poco. Fanno già la conta: mancano 43 operai all'appello>>.
I minatori avevano dato una giornata ciascuno per costruire il cinema, ma non avrebbero mai pensato di vederlo diventare una camera ardente.
Il giorno dei funerali furono pochi a parlare perché non era il momento, sarebbe bastata una parola per far precipitare la situazione.
E' vero che quel giorno “il dolore gelò la rabbia”.

Ero ai funerali con mio marito... era impressionante vedere quel mare di gente; c'erano diverse centinaia di uomini della celere perché si temeva una sommossa.

Le bare erano sui camion, avvolte dal tricolore e su ogni bara c'era l'elmetto; intorno ad ogni camion c'era la polizia, poi i familiari e infine gli altri operai venuti da tutte le miniere della zona ed anche da fuori.
Tutti camminavamo trascinando i piedi sulle strade sterrate e polverose; era come ascoltare l'abbandono, lo sconforto, la disperazione in un'aria pesante come una cappa di piombo.
La cerimonia funebre fu lunga, dolorosa, ma nessuno pregava...
Sicuramente Dio era lì con quei morti ma il dolore era più grande della voglia di credere”.


 Florido Rosati:

Ero stato “comandato” per la sera, perché la miniera non poteva mai essere lasciata sola; specialmente nella zona del Camorra il carbone era “intestonito”, come si diceva, cioè mischiato con parecchio calcare, e per autocombustione incendiava. La sera andai in miniera.
La mattina il lavoro era un po' in disordine e dopo di me entrava un amico che era passato minatore facendo il manovale a me; gli volli quindi lasciare il lavoro un po' più in ordine e uscii anche più tardi del solito.
Scesi giù nella galleria di base dove c'erano gli incendi; la notte c'erano stati un minatore di Ribolla, il Bianciardi, conosciuto da tutti come Cartolina, e due di Roccastrada che avevano lavorato a tener bassi questi fuochi. Misurai l'aria con la lampada grisoumetrica che avevo perché ero capo-compagnia, e la miscela era alta.
Dissi:” Se parte il gas qui non si salvano nemmeno i topi”.
Uscimmo fuori. Arrivai al pozzo, il pozzo era libero; erano le 7 e 20, il trenino ci portò ai pullman.
Quando arrivai a Montemassi vidi un pennacchio di fumo sopra il Camorra e pensai che fosse partito il fuoco dentro la 33; invece era partita la botta del gas.
Il tempo di prendere un caffè in casa, sentivo gridare la gente fuori e un amico mi riportò giù in motocicletta; ritornai a Ribolla.
Dopo poco iniziarono ad arrivare i minatori dalle altre miniere, da Boccheggiano, Niccioleta; però il lavoro nella miniera di Ribolla era di competenza nostra, per quelli abituati a lavorare nelle rocce dure, consistenti, la nostra era come camminare in un magazzino di riso: terre fine e friabili, marne, specialmente quando era stato esposto all'aria il terreno veniva giù da sé.
La sera scesi di nuovo in miniera; ne erano stati portati fuori una decina, non mi ricordo con esattezza... il Ferioli, che era un sorvegliante e carissimo amico mio, il Femia che avevo avuto come manovale, il Vannini di Roccastrada.
Lavorai giù in miniera, con me c'era Bramante Bernini, si riprendeva una crociera intermedia; lavorammo per 5 ore.
Ebbi la fortuna di non dover toccare nemmeno un morto.
Il giorno dopo andammo dove li ricomponevano, nel vecchio garage della Montecatini a riconoscere qualcuno ma non si vedeva più niente; mi ricordo un amico di Montemassi che la moglie riconobbe dalle calze, gli intestini gli erano calati giù dentro i genitali, roba spaventosa!
Nei giorni successivi lavorammo alla ricerca dei corpi.
Penso che sia passato qualche mese, ci dettero dei giorni di cassa integrazione a turno, un po' a tutti.
Ero in cassa integrazione e una sera vennero i fratelli Bernini, Bramante e Beppe a chiamarmi perché c'era da fare il lavoro di recupero degli ultimi due morti.
Anche allora ero di notte. La mattina uscii e dissi a quelli che entravano che la frana era passata, e che avevo trovato il vuoto con il paletto; dissi che probabilmente al di là c'erano loro però ero arrivato allo stremo delle forze. Laggiù le condizioni erano incredibili... in due si lavorava avanti, con due ventole, una mandava l'aria e l'altra la portava via, in modo da creare il giro. Dietro di noi c'era un capo servizio con il faro che illuminava il lavoro e due della squadra delle maschere, con gli autorespiratori, che portavano fuori quelli che perdevano i sensi.
Queste erano le condizioni al limite della sopportazione umana e posso dire, con soddisfazione, di essere sempre uscito con i miei piedi.

I minatori spontaneamente avevano formato squadre di soccorso e di servizio d'ordine, che la CGIL (l'unico sindacato realmente presente a Ribolla) non doveva che dirigere: gli stessi agenti di pubblica sicurezza andavano a chiedere loro ragguagli e disposizioni.

 

Il senso di solidarietà, di rabbia e di dolore che dette vita alla spontanea organizzazione di questa gente, fece sì che essa fosse certo più immediata e migliore nella sua impulsività e con tutti i suoi limiti, di quella della Montecatini, la società che gestiva la miniera.

Negli ambienti della società il nervosismo era tale che non si riuscì subito né ad utilizzare le squadre di soccorso dei minatori messesi a disposizione della direzione, né a decidere il da farsi. Il direttore, ing. Padroni, era quel giorno assente, sostituito dall'ing. Gentilini, vice direttore.

La prima squadra che scese in miniera, nella mattinata, si calò dal pozzo Raffo ma fu immediatamente costretta a risalire perché già palesi i sintomi di intossicazione da ossido di carbonio. La mancanza di mezzi e strumenti era evidente.

Solo nel pomeriggio, con l'arrivo di altri autorespiratori mandati dai vigili del fuoco, il lavoro di soccorso iniziò veramente, ma sempre in maniera disordinata e confusa,

Si dette ordine di iniziare i lavori al pozzo Raffo e poi invece vennero spostati al pozzo Camorra.

 

Alle cinque del pomeriggio del quattro maggio vennero estratti i primi cadaveri.

L'opera di soccorso e di recupero continuò ininterrotta per tutta la notte e nei giorni seguenti. La lentezza dei lavori era dovuta essenzialmente ai continui pericoli cui si andava incontro man mano che si accedeva all'interno, sia per le frane continue, sia anche per la cautela che doveva essere adottata a causa del pericolo di ulteriori esplosioni.>>

 

Dr. Andrea Palazzesi:

"....quella mattina fui chiamato d'urgenza per andare all'infermeria della Montecatini, in quanto il loro medico era assente e c'erano solo gli infermieri.

La gravità della situazione si era rivelata subito imponente, il quadro disastroso.

Cominciarono a portare i primi infortunati, soprattutto ustionati e contusi, in stato di shock, gente che era in preda al panico oltre che a sofferenze fisiche vere e proprie.

Mi trovai in difficoltà perché con infortunati di quel genere la mia prestazione in un ambulatorio infermieristico come quello non aveva neanche molto senso, tant'è che iniziai immediatamente il trasferimento di questi operai nei diversi ospedali della zona. Grosseto, Massa Marittima.

Rimasi solo come medico a svolgere l'attività di soccorso per circa un'oretta, poi cominciarono a venire a Ribolla medici, infermieri, autoambulanze.

Si dettero tutti da fare, ma soprattutto si trattava di sistemare questi infortunati negli ospedali. Tutti furono mandati in ospedale, perlomeno in osservazione, anche i più leggeri, quelli che sembravano apparentemente non aver subito danni gravi. Questo nostro lavoro durò tutta la mattinata.

Purtroppo però dentro la miniera era rimasto imprigionato il gruppo maggiore di operai. La possibilità di salvezza di quella gente apparve subito molto difficile.

Anche i lavori di soccorso erano difficili: le gallerie erano bloccate, c'erano state delle frane.

Quando finalmente il lavoro di sfondamento delle frane, apertura, penetrazione iniziò veramente, era già pomeriggio.

Si cominciò a trovare i corpi dei minatori. La maggior parte dei cadaveri presentava delle distese ustioni diffuse un po' a tutto il corpo, i vestiti erano bruciati, lacerati.

Avevano contusioni alla faccia, al tronco. Insomma erano traumatizzati e ustionati, soprattutto.

Cominciarono le difficoltà per poter individuare i cadaveri.

Ora, i primi che furono portati fuori non presentarono grossi problemi in questo senso, ma quelli che stettero più a lungo nella miniera, nei quali a volte si avevano anche fenomeni di decomposizione.... L'opera di riconoscimento per alcuni non fu tanto semplice.

Per molti fu possibile attraverso elementi di vestiario riconoscibili, attraverso caratteristiche particolari.... Qualcuno anche dalla dentatura.

Io, mi ricordo riconobbi uno che altrimenti sarebbe stato difficile individuare perché gli avevo fatto una protesi dentaria e mi ricordavo benissimo di avergli messo un ponte, un ponte fisso in un'arcata superiore... Quindi fui io a riconoscerlo da questo particolare, altrimenti non sarebbe stato possibile da quelli che erano i dati somatici residui.

Alcuni furono riconosciuti da cicatrici che avevano sul corpo, non so, da intervento operatorio, da traumi precedenti.

Si notò però che mentre alcuni erano ustionati, bruciati, altri, dato lo stato di conservazione, si poteva pensare che fossero più che altro morti per asfissia, per intossicazione.

Ricomposizioni vere e proprie non se ne dovettero fare, in genere i corpi erano integri dal punto di vista della costituzione.

Come sanitari oltre a me c'erano l'ufficiale sanitario di Grosseto, il medico della Montecatini di Ribolla, ma anche quelli di altre miniere tipo Boccheggiano, Gavorrano. Venne anche il direttore sanitario della Montecatini.

Quelli che erano riusciti ad uscire dalla miniera si salvarono tutti, tranne uno che morì dopo circa un mese, la causa fu riportata al trauma subito nello scoppio del 4 maggio... "

 

 Silvano Radi: 

 “Sotto era una cosa terrificante; una frana dopo l'altra... Furono di certo pochi attimi quelli dell'esplosione, ma dovevano essere stati lunghi, terrificanti: la deflagrazione, e subito dopo la fiammata. Li trovammo in posizioni diverse, qualcuno a terra, qualcun altro con le mani alzate come per pararsi da qualcosa di spaventoso. Nelle gallerie laterali, forse, fu il peggio. Perché la vampata percorse in un baleno la galleria principale, e causò i crolli; ma nelle galleria laterali, forse, l'onda d'urto non causò morti sul colpo....
Era la mattina del 7 maggio quando ci furono i funerali. Le bare erano solo 37, perché gli altri corpi erano ancora in fondo alla miniera. Quando stavo per calarmi nel pozzo per l'ennesima volta, mi avvicinò uno dei miei minatori, un amico , Ubaldo Testini e mi disse ...”deve esserci mio fratello Marcello là sotto. Ormai è morto, però mi faccia un favore, state attenti a non sciuparlo quando lo troverete”.
Marcello era anche amico mio.
Da sotto la frana venne fuori per primo un braccio, e allora scavammo con le mani, per non rischiare di sciupare il corpo con qualche colpo affrettato di un attrezzo. Trovammo Marcello e trovammo anche il suo compagno di lavoro.
Li mettemmo nei sacchi, come si faceva, e risalii nella gabbia fino alla superficie, con quei due sacchi....”

 Armonide Pasquini:
...si lavorava all'avanzamento nel pozzo Raffo. D'un tratto sentii un sapore strano, acido, alle labbra. <<Scoppia il gas>>, dissi ai miei compagni di squadra, e subito sentimmo tremare forte la terra, e un polverone ci avvolse tutti, un polverone che non faceva vedere il compagno che era a un passo”.
Uscirono rapidamente dal pozzo e seppero che in Camorra era scoppiato il gas.
Si calarono nel pozzo Camorra nella speranza di aiutare i sopravvissuti. “Si bussava nei tubi, ma i tubi erano scoppiati tutti e l'acqua aveva allagato la galleria. Fumo non c'era più, aspirato dalle ventole. Fatti una quarantina di metri, una pozza enorme, e nell'acqua galleggiavano sette cadaveri, pancia all'aria. Poi una frana chiudeva la galleria. Avevo la maschera e riuscimmo a far passare una corda al di là della frana, e aprimmo un piccolo varco e passai da quel varco. Una volta di là, sentii una malore alla testa, mi abbassai e svenni. Era l'ossido di carbonio. Poteva essere la morte per me, però i miei compagni capirono, mi raggiunsero, e fui portato subito verso il sole.
Tanti vennero trovati sotto le frane, ma qualcuno fu trovato sdraiato come in attesa, e certi, si sentì dire allora, avevano le unghie consumate fino alla carne, quando li ritrovarono, per la furia di grattare disperati la terra della frane, per aprirsi un varco”.

Fra l'altro l'esplosione trovava tutti impreparati. La direzione della miniera non fu in grado di portare subito i primi soccorsi e neppure di indicare che cosa si dovesse fare; fino alle dieci non dette nemmeno l'ordine di abbandonare il lavoro negli altri cantieri.

 

Fu organizzata qualche squadra di soccorso, più che altro per lo slancio appassionato ma sprovveduto degli operai. Un gruppo che scese immediatamente nel pozzo Raffo dovette uscirne fuori sotto la minaccia di un nuovo immediato pericolo: i soccorritori risalivano pallidi, semisvenuti, con sul volto i primi segni di intossicazione da ossido di carbonio.

Non c'erano autorespiratori a sufficienza, e si dovette attendere il primo pomeriggio, che arrivassero quelli dei vigili del fuoco. Fu allora che le prime squadre cominciarono ad organizzarsi con un certo metodo: anche dalle miniere vicine scesero gruppi di minatori, chiedendo essi stessi di partecipare al soccorso, ma non c'era lavoro per tutti.

La direzione della miniera non sapeva evidentemente dove mettere le mani: l'altoparlante della lampisteria ordinava alle squadre di dirigersi al Raffo, poi l'opera di soccorso si spostò verso il Camorra, che è il punto più a sud dell'intero bacino lignitifero: proprio al Camorra, alla bocca del pozzo 9 - bis, era stato ferito uno dei capi servizio, l'ing. Roberto Baseggio. Stava ispezionando l'impianto di areaggio, quando l'onda esplosiva proiettò in avanti una balaustra metallica che lo colpì alla testa.

Non era facile precisare subito il numero e il nome delle vittime. La direzione sostenne che l'elenco degli operai del primo turno di lavoro al pozzo Camorra era irreperibile; si trovava nelle tasche del sorvegliante Gino Ferioli, morto anche lui nella sciagura e carbonizzato dallo scoppio. Era una notizia falsa, scioccamente pietosa, con la quale si tentava di illudere per qualche tempo ancora le famiglie degli operai: infatti non era credibile che dell'elenco esistesse una sola copia, e l'elenco stesso, del resto, doveva pur essere stato compilato dalla direzione sulla base dei registri di lavoro.

Anche il soccorso medico si rivelò a prima vista decisamente inadeguato: le ambulanze, di ogni tipo e di ogni provenienza, si dovettero raccogliere da varie zone della provincia di Grosseto e di quella di Siena.

 

 

Bibliografia:

- L. BIANCIARDI (1999), La vita agra. Ed. Bompiani.

- M. PALAZZESI (1983), Ribolla, storia di un villaggio minerario. Ed. Vieri.

- Il Tirreno. 3 maggio 1994: "Speciale strage di Ribolla".

- BIANCIARDI-CASSOLA, I minatori della Maremma.