S.I.O.M.M.M.S. (Società
Italiana dell’Osteoporosi del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello
Scheletro)
Introduzione
L’osteoporosi è una malattia dello scheletro, caratterizzata dalla compromissione della resistenza dell’osso, che predispone il malato ad un aumento del rischio di fratture.
I.
In
pazienti con fratture non dovute a traumatismi efficienti una diagnosi clinica
di osteoporosi può essere formulata anche in assenza di specifiche indagini
strumentali (densitometrie) atte a valutare la massa ossea. In altri casi
l’indagine è consigliata perché:
a.
la malattia può essere
silente,
b.
i fattori di rischio per
ridotta massa ossea non sono sufficientemente sensibili per la diagnosi di
osteoporosi o per la sua esclusione,
c.
è utile per quantificare
meglio il rischio di frattura,
d.
è utile per valutare il
decorso della malattia e la risposta ad un eventuale trattamento.
La densitometria
L’indagine densitometrica consente oggi di misurare in modo abbastanza
accurato e preciso la massa ossea ed in particolare la sua densità minerale,
che giustifica il 60-80% della
resistenza meccanica dell’osso. Quest’ultima risulta anche correlata ad altre
caratteristiche dell’osso quali la microarchitettura, il metabolismo e la
conformazione geometrica.
Il rischio di frattura
aumenta di 1,6-2,6 volte (a seconda del sito di misurazione e del tipo di
frattura) per ogni deviazione standard di riduzione del valore della densità
minerale ossea:
Sito
di misurazione |
Rischio
relativo di Frattura |
||
|
Polso |
Femore |
Vertebre |
Radio
prossimale |
1.8 |
1.6 |
1.6 |
Collo
femorale |
1.6 |
2.6 |
1.9 |
Colonna
lombare |
1.6 |
1.3 |
2.0 |
Per l’OMS la diagnosi
densitometrica di osteoporosi si basa sulla valutazione con tecnica dual-energy
x-ray absorptiometry (DXA) della densità minerale, raffrontata a quella media
di soggetti adulti sani dello stesso sesso (Picco di massa ossea). L’unità di
misura è rappresentata dalla deviazione standard dal picco medio di massa ossea
(T-score). È stato osservato che il rischio di frattura inizia ad aumentare in
maniera esponenziale con valori densitometrici di T-score < -2.5 SD, che
secondo l’OMS, rappresenta la soglia per diagnosticare la presenza di
osteoporosi.
Definizioni diagnostiche
secondo i valori densitometrici in T-score
T-score |
Diagnosi |
>
-1 |
NORMALE |
-1
a –2.5 |
OSTEOPENIA |
<
-2.5 |
OSTEOPOROSI |
<
-2.5 con frattura osteporotica |
OSTEOPOROSI
CONCLAMATA |
La densitometria ossea
rappresenta quindi il test diagnostico di osteoporosi e di rischio di frattura
come la misurazione pressione arteriosa
serve per diagnosticare la presenza di ipertensione e quindi il rischio di
ictus. Trattasi tuttavia solo di una diagnosi densitometrica che solo dopo una
valutazione complessiva di diagnostica differenziale può o meno tradursi in
diagnosi clinica.
La soglia diagnostica in
T-score non coincide con la soglia terapeutica poiché altri fattori sceletrici
ed extrascheletrici condizionano il rischio di frattura del singolo soggetto e
la decisione di intraprendere o meno un trattamento.
L’espressione della densità
minerale in termini di deviazione standard dal valore medio di soggetti di pari
età e sesso è definito Z-score. Uno Z-score ridotto può far sospettare forme
secondarie di osteoporosi od indicare l’opportunità di un intervento preventivo
anche in assenza di franca osteoporosi. documentato
Tecniche densitometriche
Attualmente la metodica di
riferimento è costituita dalla densitometria ossea a singolo o doppio raggio X
(SXA, single x-ray absorptiometry; DXA, dual-energy x-ray absorptiometry). La
densitometria SXA permette di misurare esclusivamente segmenti ossei
appendicolari, circondati da scarso tessuto molle, e viene applicata in
particolare alla porzione distale dell’avambraccio e al calcagno. La metodica
DXA permette di misurare anche altri siti specificamente interessati dalle
fratture osteoporotiche come le vertebre lombari e la porzione prossimale del
femore, oltre che l’intero scheletro. L’esposizione radiologica del paziente
varia da 1 a 5 μSv.
Tutti questi metodi
densitometrici misurano il contenuto minerale osseo (Bone Mineral Content,
BMC). Il rapporto tra BMC e l’area di proiezione della porzione ossea su cui si
esegue la scansione permette di derivare la densità minerale ossea (Bone Mineral
Density, BMD) che costituisce il parametro usato ai fini diagnostici. Infatti,
la densità permette di eliminare in buona parte l’effetto della dimensione
corporea, che renderebbe impossibile comparare i risultati di persone con
taglia corporea differente. Trattasi in realtà di una definizione impropria di
densità perché non volumetrica e quindi influenzata dallo spessore dell’osso,
ma poiché la resistenza meccanica dell’osso dipende anche dalle sue dimensioni
la BMD si è confermata la misura più utile dal punto diagnostico. La densità
minerale ossea volumetrica può essere valutata solo con la tomografia
computerizzata quantitativa.
Densitometria
ossea mediante tomografia computerizzata
La tomografia computerizzata
può essere impiegata in maniera quantitativa (Quantitative Computerized
Tomography, QCT) per la misurazione della densità ossea vertebrale,
implementando dei sistemi specifici di calibrazione in apparecchi standard .
Viene in questo modo misurata la densità della porzione centrale delle vertebre
lombari, con alcuni vantaggi ed alcune limitazioni rispetto alla DXA. Il
principale vantaggio è costituito dall’evitare l’interferenza dei processi
artrosici che possono causare una significativa sovrastima della densità ossea
vertebrale misurata con metodo DXA. Inoltre consente di distinguere l’osso
corticale da quello trabecolare, che si modifica più rapidamente del primo a
seguito di condizioni metaboliche fisiologiche, patologiche o indotte da
farmaci. Le principali limitazioni derivano dalla dose nettamente più elevata
di radiazioni cui è sottoposto il paziente e dalla minore precisione ed
accuratezza. Anche i costi sono nettamente più elevati. Per tutti questi motivi
la QCT del rachide trova indicazione nella diagnostica clinica solo in casi molto
selezionati. Esiste anche una applicazione della QCT allo studio di segmenti
ossei periferici (p-QCT) ed in particolare dell’avambraccio distale mediante
strumenti dedicati. In Italia la diffusione della QCT vertebrale e della p-QCT
è molto limitata.
Densitometria
ad ultrasuoni
Da pochi anni sono stati
introdotti metodi quantitativi di valutazione dell’osso basati sull’uso di
ultrasuoni (Quantitative UltraSound, QUS), definiti impropriamente
densitometrie ossee ad ultrasuoni o meglio ultrasonometrie ossee o
osteosonometrie. I più diffusi misurano al calcagno od alle falangi delle mani
la velocità di propagazione o l’attenuazione di frequenza degli ultrasuoni od
altre caratteristiche della traccia ultrasonografica. Il loro interesse risiede
soprattutto nel fatto che non vengono impiegate radiazioni ionizzanti, nel
basso costo e nella possibilità che forniscano anche informazioni su alcuni
aspetti micro-strutturali tridimensionali e/o qualitativi dell’osso.
Alcune tecniche
ultrasonometriche, limitatamente per ora alla popolazione femminile anziana, si
sono dimostrate in grado di predire il rischio di frattura, al pari delle
tecniche DXA secondo alcuni studi. Il valore ultrasonometrico osseo è risultato
talora essere un fattore predittivo di fratture indipendente dalla BMD e la
combinazione dei due risultati potrebbe migliorare la valutazione del rischio
di frattura.
La precisione standardizzata
(Coefficiente di variazione/variazioni attese) delle tecniche ultrasonometriche
ossee è attualmente inferiore a quella della DXA, per cui queste metodiche risultano meno utili per misurare nel
singolo individuo le variazioni nel tempo, sia spontanee che indotte dalle
terapie. Un problema aggiuntivo deriva
dalla notevole varietà di strumenti commercializzati, con caratteristiche
tecniche e prestazioni assai differenti, che hanno reso finora impossibile
standardizzare i valori di riferimento e la loro applicazione pratica nella
diagnostica clinica.
Quale tecnica e quale sito scheletrico valutare
Attualmente il gold-standard per la diagnosi
densitometrica di osteoporosi è rappresentato dalla DXA del femore e della
colonna lombare. Il valore predittivo del rischio di frattura è più elevato se
si misura il sito specifico. La valutazione del “total body” non è ancora stato
validato per la diagnosi e per la valutazione del rischio di frattura.
Anche se in misura
inferiore, la valutazione densitometrica a raggi X o ad ultrasuoni di siti
periferici (polso, calcagno, falangi) è comunque predittiva di fratture in sedi
scheletriche clinicamente più rilevanti quali quelle vertebrali e di femore.
Tuttavia mentre i metodi che misurano la densità ossea del rachide o del femore
prossimale sono adatti a porre diagnosi di osteoporosi, la densitometria ossea
periferica deve invece essere utilizzata solo come indice di aumentato rischio
di frattura e pertanto il sospetto diagnostico va poi confermato con una
valutazione centrale.
La densitometria della
colonna lombare è più sensibile alle modificazioni longitudinali ed è quindi preferita nel monitoraggio
della massa ossea postmenopausale o in corso di terapia cortisonica. Il sito lombare è tuttavia, ma è
poco accuratoa
nelle persone anziane per l’interferenza di osteofiti vertebrali,
calcificazioni extra-scheletriche o, paradossalmente, di esiti di frattura. Per
questo motivo e per la maggiore capacità predittiva della frattura senile più
temuta, la valutazione della densità femorale può essere preferibile dopo i 65
anni.
Qualora la metodica
DXA non sia fattibile può essere giustificato il ricorso ad altre metodiche
densitometriche, ma si devono tenere presenti le loro limitazioni di impiego.
Nell’impossibilità o nell’attesa di eseguire una densitometria della colonna o
del femore, in presenza di altri fattori di rischio per frattura si può impostare
un regime terapeutico anche sulla base del risultato di una densitometria
periferica a raggi X o ad ultrasuoni.
Un principio generale che riguarda ogni test
diagnostico è che esso va eseguito se:
1.
Il risultato del test ha
implicazioni terapeutiche. Così, ad esempio, se una donna decide di assumere
comunque la terapia ormonale sostitutiva dopo la menopausa, l’indagine
densitometrica è ingiustificata.
2.
Il trattamento che si
instaura a seguito del risultato dell’indagine può modificare il decorso della
malattia cioè, in questo caso, ridurre il rischio di fratture.
3.
I benefici connessi al
trattamento sono molto superiori ai rischi + costi connessi all’indagine
diagnostica.
Non è al momento considerato realistico e
“cost/effectiveness” uno screening densitometrico generalizzato, specie in
perimenopausa. Tra i 50-59 anni il numero di donne da screenare ed
eventualmente trattare per prevenire una frattura di femore o vertebrale è
ancora troppo alto (da 700 a 1500). Inoltre la reale efficacia e quindi i
rapporti costi/benefici dei trattamenti ora disponibili non è nota.
C’è ampio consenso nel consigliare l’indagine
densitometrica solo su base individuale ed in considerazione dell’età e della
presenza di fattori di rischio.
L’indagine densitometrica è pertanto indicata in
presenza di una delle seguenti condizioni cliniche:
1. Menopausa precoce (£45 anni)
2. In previsione di prolungati (>3 mesi) trattamenti corticosteroidei
(>5 mg/die di prednisone
equivalenti)
3. Donne in postmenopausa con anamnesi familiare positiva per fratture non
dovute a traumi efficienti e verificatesi prima dei 75 anni di età.
4. Donne in postmenopausa con ridotto peso corporeo (<57 Kg) o indice
di massa corporea <19 Kg/m²
5. Pregresso riscontro di osteoporosi (con indagine radiologica e/o
densitometrica)
6. Condizioni associate ad
osteoporosi*
7. Precedenti fratture non dovute a traumi efficienti
8. Donne di età ³ 65 anni e in
menopausa da almeno 10 anni
q
Malattie endocrine:
ü
Ipogonadismo
ü
Ipercortisolismo
ü
Iperparatiroidismo
ü
Ipertiroidismo
ü
Iperprolattinemia
ü
Diabete mellito
tipo I
ü
Acromegalia
ü
Deficit GH
q
Malattie
ematologiche:
ü
Malattie mielo e
linfoproliferative
ü
Mieloma multiplo
ü
Mastocitosi
sistemica
ü
Talassemia
q
Malattie
apparato gastro-enterico:
ü
Malattie
croniche epatiche
ü
Morbo celiaco
ü
Malattie
infiammatorie croniche gastro-intestinali
ü
Gastrectomia
ü
Intolleranza al
lattosio
ü
Malassorbimento
intestinale
ü
Insufficienza
pancreatica
q
Malattie reumatiche:
ü
Artrite reumatoide
ü
LES
ü
Spondilite
anchilosante
ü
Artrite
psoriasica
ü
Sclerodermia
q
Malattie renali:
ü
Ipercalciuria
idiopatica renale
ü
Acidosi tubulare
renale
ü
Insufficienza
renale cronica
q
Altre
condizioni:
ü
Broncopneumopatia
cronica ostruttiva
ü
Anoressia
nervosa
ü
Emocromatosi
ü
Fibrosi cistica
ü
Malattie
metaboliche del collagene (osteogenesi imperfecta, omocistinuria,
Ehlers-Danlos, Marfan, ecc.)
ü
Trapianto
d’organo
ü
Alcoolismo
ü
Fumo
ü
Tossicodipendenza
ü
Farmaci (oltre
ai cortisonici): ciclosporina, diuretici dell’ansa, ormoni tiroidei a dosi
soppressive in postmenopausa, anticoagulanti, chemioterapici,
anticonvulsivanti, agonisti e/o antagonisti del GnRH)
ü
Immobilizzatione
prolungata
ü
Grave disabilità
Una valutazione clinica complessiva, comprendente
un’anamnesi accurata ed un esame obiettivo, è indicata in tutti i pazienti nei
quali l’indagine densitometrica indica un quadro compatibile con osteoporosi od
un grado di densità minerale significativamente scaduto rispetto alla media per
l’età (Z-score < 1,5). Nei pazienti nei quali sia presente una
demineralizzazione ossea o fratture non-traumatiche non spiegate dalla presenza
di fattori di rischio adeguati va sempre esclusa la secondarietà
dell’osteoporosi o la presenza di altre patologie talvolta più gravi. Nella
maggior parte dei casi l’anamnesi e l’esame obiettivo indirizzano le procedure
diagnostiche da eseguire. È possibile che l’osteoporosi rappresenti l’unica
manifestazione secondaria di patologie endocrine, metaboliche, renali,
reumatiche, gastroenteriche, ematologiche o di deficit nutrizionali o di
effetti farmacologici jatrogeni (corticosteroidi, anticonvulsivanti, ormoni
tiroidei, eparina, agonisti dei gonadotropin-releasing hormone).
Talvolta invece un risultato densitometrico scadente
o fratture patologiche sono l’espressione di patologie diverse e più gravi
dell’osteoporosi come l’osteomalacia, il mieloma multiplo, le metastasi
scheletriche o l’osteodistrofia renale, che vanno escluse con un’appropriata
diagnostica differenziale.
Valutazione laboratoristica
Il laboratorio è da considerarsi un utile complemento nella diagnostica
dell’osteoporosi in quanto:
q può consentire una diagnosi differenziale con altre malattie che
possono determinare un quadro clinico o densitometrico simile all’osteoporosi;
q può individuare possibili fattori causali, consentendo una diagnosi di
osteoporosi secondaria e quindi, dove possibile, un trattamento etiologico
Alcuni semplici esami di
laboratorio di I° livello forniscono informazioni risolutive per indirizzare
verso la diagnosi corretta nel 90% dei casi:
–VES
–Emocromo completo
–Protidemia frazionata
–Calcemia
–Fosforemia
–Fosfatasi alcalina
totale
–Transaminasi
–Creatininemia
–Calciuria
Talvolta per sospetti
clinici mirati bisogna procedere con indagini di laboratorio di II° livello più
specifiche:
–TSH
–Paratormone sierico
–25-OH-vitamina D
sierica
–Cortisoluria/24 ore
–Testosterone libero
nei maschi
–Elettroforesi proteine
urinarie
–Anticorpi
anti-gliadina o anti-endomisio
–Esami specifici per
patologie associate
–Marker specifico di
turnover osseo
I markers specifici del
turnover osseo, dosabili nel siero o nelle urine, si dividono in markers della
neoformazione (isoenzima osseo della fosfatasi alcalina, osteocalcina,
propeptidi del procollagene di tipo I) ed in markers di riassorbimento osseo
(idrossiprolina, piridinolina, desossipiridinolina, telopeptidi N o C terminali
del collagene di tipo I). Attualmente questi markers non servono per la
diagnosi di osteoporosi, né per stimare il bilancio osseo tra neoformazione e
riassorbimento. Come indici complessivi di turnover osseo potrebbero invece
rivelarsi utili nel monitoraggio della terapia (vedi sessione apposita) e,
secondo alcuni studi, nella valutazione del rischio di frattura. E’ stato
infatti osservato che il grado di turnover osseo è correlato alla velocità di
perdita di massa ossea ed è un predittore indipendente del rischio di frattura.
Tuttavia, poichè trattasi di osservazioni ricavabili solo da ampie casistiche e
considerati il costo e l’attuale grande variabilità biologica ed analitica di
tali markers, il ruolo di questi ultimi nella gestione clinica del singolo
paziente è ancora in discussione. Nella pratica clinica come indice
laboratoristico di turnover osseo è spesso sufficiente il dosaggio della
fosfatasemia alcalina totale nelle pazienti senza concomitanti patologie
epatiche od intestinali.
Valutazione delle fratture
Anche la valutazione anamnestica delle fratture,
specie se non conseguenti a traumatismi efficienti, è particolarmente
importante nella diagnostica dell’osteoporosi. Le fratture al polso ed al
femore sono di facile identificazione. La rilevazione di una frattura
vertebrale può invece essere più problematica e spesso non è clinicamente
evidente, ma la sua rilevanza diagnostica, prognostica e terapeutica è
notevole. Va infatti ricordato che:
1. La presenza di una
frattura vertebrale anamnestica è un forte fattore di rischio per recidiva o
per fratture di altre sedi, indipendentemente dall’esito della densitometria
2. Attualmente 2/3 dei
pazienti con frattura vertebrale non hanno una diagnosi clinica perché
asintomatica o confusa con sintomatologia artrosica
3. Anche modeste riduzioni
di altezza del corpo vertebrale o
fratture di riscontro radiologico casuale hanno un impatto clinico
significativo in termini di dolore e disabilità
4. La presenza di una
frattura vertebrale (o di femore) osteoporotica verificatasi in menopausa,
documentata da un esame radiologico che evidenzi una riduzione di almeno 4 mm
(15%) dell’altezza globale del corpo vertebrale, è ritenuta un’indicazione al
trattamento farmacologico, prescrivibile a carico del Servizio Sanitario
Nazionale perché ritenuto vantaggioso dal punto di vista farmaco-economico
(nota 79/ CUF-Ministero della Sanità).
Pertanto in condizioni sospette per frattura
vertebrale (sintomatologia tipica, riduzione di altezza > 3 cm, cifosi,
marcata riduzione dei valori densitometrici, età avanzata) va richiesta una radiografia della colonna
dorso lombare in proiezione laterale. La diagnosi di frattura vertebrale si
basa sulle su una diminuzione superiore a 4 mm
o del 15% della altezza
anteriore o centrale del corpo vertebrale rispetto alla sua altezza posteriorealtezze anteriore
e centrale del corpo vertebrale rispetto alla sua altezza posteriore.
In caso di crollo anche del margine posteriore il riferimento delle altezze va
fatto con quello delle vertebre sovra e sottostanti integre.
Altre indagini
Raramente, in caso di specifici sospetti in
particolare per patologie neoplastiche o ematologiche, occorre ricorrere a
procedure diagnostiche ulteriori (TAC, RMN, Scintigrafia ossea, Biopsia ossea).
La valutazione delle variazioni della massa ossea
nel tempo possono essere utili sia per monitorare l’efficacia di alcune
terapie, sia per individuare soggetti che stanno perdendo osso ad una velocità
eccessiva. La ripetizione di esami nel tempo va riservata solo ai casi in cui
la conoscenza delle variazioni di massa ossea può effettivamente modificare le
decisioni cliniche nei confronti del singolo paziente. Per trattamenti di dimostrata
efficacia in termini di “evidence based medicine” la percentuale dei cosidetti
“non responders” è minima e spesso legata più alla limitata precisione delle
metodiche che all’effettiva inefficacia della terapia; controlli ripetuti,
specie se troppo frequenti, sono pertanto spesso inutili o possono essere
addirittura fuorvianti. Considerata l’attuale precisione standardizzata (CVs)
delle tecniche densitometriche un controllo è generalmente giustificato dopo
2-3 anni e comunque mai prima di un anno. Sono comparabili solo le indagini
densitometriche eseguite con lo stesso strumento in centri sottoposti a
controlli di qualità. La sede scheletrica di valutazione densitometrica
preferenziale è quella ad elevata componente trabecolare, clinicamente rilevante
e valutabile con la tecnica con la migliore precisione: DXA colonna. Specie
dopo i 65 anni tuttavia gli incrementi densitometrici vertebrali possono essere
dovuti al progredire della patologia artrosica o paradossalmente a fratture; in
questi casi può essere più utile la valutazione del femore. Le densitometrie
appendicolari (a raggi X od a US) e la DXA totalbody sono attualmente poco
utili per il monitoraggio terapeutico perché per evidenziare variazioni certe
nel singolo paziente richiedono intervalli di tempo troppo lunghi.
Eventuale controllo densitometrico non giustificato prima di:
METODICHE
con CVs < 1
|
|
1 anno |
METODICHE
con CVs = 1-2 |
|
1,5-2 anni |
METODICHE
con CVs > 2 |
a raggi X o ad US (polso, calcagno,
falangi) |
> 2 anni |
Vi sono evidenze che
indicano l’utilità dell’impiego dei markers laboratoristici di turnover osseo
nel verificare la risposta terapeutica e la compliance al trattamento; i tempi
di attesa necessari sono più brevi rispetto a quelli previsti per valutare
densitometricamente l’efficacia sulla massa ossea. Gli
attuali trattamenti farmacologici dell’osteoporosi determinano infatti una
riduzione del turnover osseo: è stata osservata una correlazione tra la
diminuzione dopo 3-6 mesi della concentrazione sierica od urinaria di alcuni
markers e gli incrementi densitometrici successivi, documentabili con certezza
spesso solo dopo anni. In seguito al trattamento con inibitori del
riassorbimento osseo è stata anche documentata la diretta correlazione tra la
riduzione degli indici laboratoristici di turnover osseo e la diminuzione del
rischio di fratture. Possono essere impiegati indifferentemente i markers di
riassorbimento o di neoformazione: i primi danno informazioni entro tempi più
brevi (1-3 mesi, rispetto ai 6 mesi necessari per i secondi) ma sono gravati da un coefficiente di
variazione più elevato. L’utilità dei markers laboratoristici nel monitoraggio
della terapia dell’osteoporosi nel singolo paziente è tuttavia ancora in discussione
a causa della loro elevata variabilità biologica ed analitica e dei costi.
Il problema dell’osteoporosi va affrontato sia con misure preventive,
sia con trattamenti specifici. La prevenzione mira a impedire o rallentare lo
sviluppo dell’osteoporosi, mentre il trattamento si rivolge a soggetti già
osteoporotici, con o senza fratture preesistenti, ad elevato rischio di prima o
ulteriore frattura.
Gli obiettivi dei programmi
di prevenzione sono:
·
favorire la crescita
scheletrica per consentire il raggiungimento del massimo sviluppo osseo alla
maturità
·
prevenire la perdita ossea
nel corso dell’invecchiamento
·
prevenire il deterioramento
microstrutturale dello scheletro
·
prevenire le fratture
Mezzi
·
Misure non farmacologiche
(dieta, attività fisica, igiene di vita)
·
Misure farmacologiche in
soggetti selezionati ad alto rischio di sviluppo di osteoporosi
·
Misure non farmacologiche:
tutti gli individui
·
Misure farmacologiche: donne
con riduzione della densità ossea compatibile con osteopenia (T-score tra –1
e -2.5)
Gli obiettivi del
trattamento sono:
·
prevenire le fratture
·
stabilizzare o aumentare la
massa ossea
·
limitare le conseguenze
cliniche delle fratture e delle deformità ossee
·
ottimizzare le capacità
funzionali e la qualità di vita
·
ridurre la frequenza e
l’impatto delle cadute
Mezzi
·
Misure farmacologiche
(calcio e vitamina D, HRT, SERM, bisfosfonati)
·
Misure non farmacologiche
per ridurre frequenza e impatto delle cadute (hip protectors)
·
Uomini e donne con
precedenti fratture da fragilità (in particolare vertebre, femore, radio e
omero dovute a traumi a bassa energia)
·
Donne con riduzione della
densità ossea compatibile con osteoporosi (T-score < -2.5)
MISURE NON FARMACOLOGICHE
·
Dieta con adeguato apporto
di calcio. Numerosi studi
epidemiologici sia in soggetti giovani che in anziani hanno dimostrato che un
corretto apporto di calcio con la dieta svolge un ruolo critico nel controllo
della perdita ossea senile e rappresenta la premessa a qualsiasi trattamento
farmacologico. Se l’apporto calcico con la dieta è insufficiente, sono
consigliabili supplementi con sali di calcio. La dose giornaliera raccomandata
varia a seconda dell’età ma è generalmente compresa tra 1000-1500 mg. Non sono
consigliabili dosaggi superiori a 2500 mg/die.
·
Mantenimento di un adeguato
status di vitamina D. La carenza di vitamina D
favorisce lo sviluppo di osteoporosi (e, nelle forme più severe, di
osteomalacia) attraverso la riduzione dell’assorbimento intestinale di calcio
con conseguente iperparatiroidismo secondario. La prevalenza di ipovitaminosi D
in Italia è molto elevata soprattutto nella popolazione anziana, e raggiunge
percentuali >80% in pazienti istituzionalizzati. La vitamina D può essere sintetizzata a livello cutaneo
mediante esposizione al sole o essere introdotta con l’alimentazione, anche se
non è largamente disponibile negli alimenti. Per mantenere un apporto adeguato
di Vitamina D è raccomandata una supplementazione quotidiana fino a 400 UI nei
giovani adulti e da 400- 800 UI negli anziani in rapporto a grado di
esposizione solare, capacità di sintesi cutanea, stato nutrizionale e terapie
potenzialmente dannose (anticonvulsivanti, glucocorticoidi). La
somministrazione di dosi di vitamina D sino a 2000 unità/die (anche in dosi
depot ogni 1-4 mesi) è priva di effetti collaterali ed ha costi molto
contenuti, per cui può essere raccomandata anche senza aver preliminarmente
controllato i livelli di 25OH-vitamina D serica. L’uso dei metaboliti attivi
della vitamina D non è indicato per la prevenzione dell’ipovitaminosi D e
appropriato solo in casi selezionati (insufficienza renale ed epatica) per il
maggior rischio di ipercalcemia e ipercalciuria.
·
Attività fisica regolare. L’esercizio fisico sotto carico favorisce lo sviluppo osseo nei
giovani (soprattutto con attività ad alto impatto, come l’allenamento con i
pesi) e può rallentare la perdita ossea nei soggetti anziani anche con attività
a basso impatto come il cammino, che possono avere effetti benefici in generale
sulla salute e sulle capacità funzionali. Inoltre, l’esercizio regolare,
migliorando forza muscolare, agilità e mobilità, può prevenire le cadute. Meno
utile risulta essere per il trofismo osseo l’attività non sotto carico (nuoto,
ciclismo).
·
Limitazione o cessazione del
fumo. Il fumo ha vari effetti
dannosi sull’osso (aumenta la degradazione degli ormoni sessuali, accelera la
menopausa, i fumatori sono più magri) e rappresenta un fattore di rischio per
le fratture osteoporotiche.
·
Riduzione del rischio di
cadute. La maggior parte delle
fratture deriva da una caduta. Trials clinici randomizzati e controllati
dimostrano che un intervento multidisciplinare (medico, infermieristico,
fisioterapico, terapia occupazionale) sui fattori di rischio per caduta può
ridurre la frequenza di cadute in soggetti anziani dal 30% al 60%. La
numerosità limitata dei soggetti osservati in questi studi non consente
tuttavia di mostrare un effetto significativo sull’incidenza di fratture.
·
Riduzione dell’impatto delle
cadute. La maggior parte delle
fratture del femore dipende da una caduta laterale. Un possibile mezzo per
attenuare l’impatto di questo tipo di caduta è l’uso di protettori esterni
dell’anca (hip protectors). Un recente trial randomizzato e controllato ha
evidenziato l’efficacia di questi dispositivi nel ridurre l’incidenza di
fratture del femore in soggetti anziani di circa il 60%. Il limite principale
dei protettori esterni è legato alla scarsa accettazione da parte degli
anziani. Pertanto, il loro uso è limitato a soggetti selezionati.
·
Calcio e vitamina D. La somministrazione di
sali di calcio e vitamina D riduce
significativamente il rischio di fratture non vertebrali e di femore in anziani
istituzionalizzati; negli anziani non istituzionalizzati i dati sono
contrastanti. L’effetto di calcio e di vitamina D somministrati singolarmente
sulle fratture è incerto. Secondo alcuni studi la somministrazione di Vitamina
D parenterale può ridurre il rischio di frattura in anziani fragili
istituzionalizzati. Questa terapia è caratterizzata da un favorevole rapporto
costi/benefici.
·
Terapia ormonale sostitutiva. Dopo la menopausa, la terapia ormonale sostitutiva previene la
perdita di massa ossea ad ogni età. La compliance e tollerabilità al
trattamento è maggiore nei primi anni dopo la menopausa e diminuisce con
l’avanzare dell’età quando più pressante diviene l’indicazione per la
prevenzione dell’osteoporosi. I dati epidemiologici suggeriscono che la terapia
sostitutiva riduce di circa il 50% l’incidenza di fratture vertebrali e di
circa il 30% l’incidenza di fratture di femore nelle donne in trattamento. Non
sono attualmente disponibili studi clinici randomizzati di ampie dimensioni
sulla prevenzione delle fratture. Dati più convincenti, sia sulla prevenzione
delle fratture, sia sugli effetti extraossei, verranno da studi attualmente in
corso. Il tibolone può rappresentare una alternativa alla terapia sostitutiva classica.
E’ efficace nel controllo dei sintomi vasomotori e in grado non solo di
prevenire la perdita ma anche aumentare la densità ossea. Non vi sono dati
sull’incidenza di fratture.
·
Selective Estrogen Receptor Modulators (SERM). I composti di questa classe hanno un effetto estrogeno-simile a livello
di alcuni tessuti-bersaglio (osso in particolare) ed effetti antagonisti su
altri (utero, mammella). Il Raloxifene è attualmente l’unico SERM disponibile
in commercio. Il Raloxifene è indicato nella prevenzione della perdita ossea
postmenopausale. Per la prevenzione delle fratture, il farmaco si è dimostrato
in grado di ridurre del 30-50% le fratture vertebrali (sia nelle donne con
precedenti fratture, sia nelle donne con osteoporosi densitometrica), già entro
un anno; non sono stati osservati effetti significativi sulle fratture
extravertebrali (compresa la frattura di femore). Sono in fase di svolgimento
studi per valutare gli effetti extraossei del farmaco (su apparato
cardiovascolare e mammella).
·
Bisfosfonati:
·
Calcitonina. La terapia con calcitonina ha modesti effetti sugli indici
laboratoristici di turnover osseo e sulla densità minerale. Per la prevenzione
delle fratture mancano a tutt’oggi
documentazioni convincenti di utilità. Nell’unico trial clinico adeguato
per casistica, condotto con calcitonina somministrata per spray nasale, è stata
osservata una riduzione dell’incidenza di fratture vertebrali solo dopo 5 anni
di trattamento ed al dosaggio di 200 UI/die.
·
Fluoruri. La somministrazione di sali di fluoro determina aumenti consistenti
della massa ossea trabecolare ma non di quella corticale. L’effetto sul rischio
di frattura è controverso e talora persino negativo.
·
Altri farmaci. Per altri farmaci utilizzati per la prevenzione-terapia
dell’osteoporosi (flavonoidi, steroidi anabolizzanti, metaboliti idrossilati
della vitamina D) non sono disponibili dati convincenti sulla prevenzione delle
fratture.
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