RACOZ

dedicato ad 

ALDO SPALLICCI

con

il prof. Dino Mengozzi

ed il prof. Dino Pieri  

Ha aperto la conversazione il professor Dino Mengozzi  che ha sviluppato il tema "Spallicci, il dialetto romagnolo e l’italiano di Romagna" offrendo ai presenti una vera e prorpia lectio magistralis. 

Il professore ha esordito con la premessa: Non sono un linguista né uno specialista del dialetto romagnolo. Assunta Bionda e Dino Peri avrebbero avuto più titoli di me. Cercherò di leggere Spallicci dal lato della storia delle mentalità o per le implicazioni di storia sociale connesse all’uso del dialetto di Romagna. Il mio approccio, dunque, privilegia i contenuti della lingua come specchio di una società, almeno negli ultimi cento anni, quando il dialetto romagnolo si trova a subire la concorrenza della lingua italiana. Lorenzo Bedeschi nel suo saggio che conclude l’opera omnia di Aldo Spallicci, da lui diretta, nel licenziare il tredicesimo volume, scriveva che dobbiamo a Spallicci di avere cooperato ad elevare a dignità di lingua il dialetto dei campi e degli scariolanti (vol. 8, p. 7).Eravamo nel 1998 e Bedeschi si chiedeva che cosa i giovani di oggi potranno ancora trovare nella poesia dialettale. Non aveva una risposta precisa, però – diceva – che il DNA di una cultura regionale come la romagnola non è facilmente cancellabile. Il fatto che siamo ancora qui, a parlarne, mi sembra la conferma che egli aveva ragione.

A proseguito quindi rispondendo alla domanda : COME NASCE L’INTERESSE PER IL DIALETTO IN ROMAGNA?

È un effetto della modernità. Quando arriva in Romagna, la modernità viene percepita come tabula rasa del passato, egualitarismo e democrazia: ossia piattezza. Un fenomeno distruttivo del tessuto locale dell’artigianato (nel Faentino le ceramiche) e della cultura: la tabula rasa significa mancanza di religiosità, materialismo, egoismo, un mondo rapportato a relazioni monetarie. Le folle urbane appaiono scettiche, solo attratte dal materialismo, dall’edonismo. La fede nel progresso e nell’igiene abbatte le antiche mura, le porte urbiche; atterra i fabbricati “vecchi” e malsani, distruggendo con le mura la tradizione che vi era impressa come l’ombra. La produzione in serie cancellava le botteghe artigiane. Un grido d’allarme percorre larga parte del mondo della cultura, a partire dallo stesso Carducci, che molti giovani umanisti romagnoli eleggono a loro maestro, incontrandolo all’Università di Bologna. Come contrastare questa piega “rovinosa” della modernità?

La risposta era nell’insegnamento carducciano, in quel suo “memore innovo”, ossia rinnovarsi senza dimenticare l’antico. Innovare nella continuità. Come il Maestro. i giovani intellettuali romagnoli del periodo hanno simpatie mazziniane, radicali, anarco socialiste, non amano l’Italia bottegaia, non eroica, che ha smarrito le idealità del Risorgimento. Costruiscono una “terza via” attraverso la difesa della loro regione tra progresso e conservazione. Danno alla Romagna la dimensione della piccola patria, nella grande patria italiana. Una piccola patria che sappia conciliare il nuovo con l’antico. La divisa di Spallicci, che coltiverà per tutta la vita, ha l’accento carducciano: fare del nuovo senza dimenticare l’antico.  

E’ UN FENOMENO EUROPEO

Il discorso può essere allargato. La reazione alla produzione standardizzata dell’industrialismo è un fenomeno europeo. Si pensi all’esperienza di John Ruskin in Inghilterra nella seconda metà dell’Ottocento, quando si mette a costruire musei per le arti minori al fine di istruire gli operai.

In Italia lo stesso processo veniva a coincidere con la scoperta della dimensione regionale, una volta acquisita la coscienza della scomparsa degli antichi Stati regionali con l’unificazione nazionale. È anche un modo per le élite locali di ergersi a dirigenti dei nuovi processi sociali, mostrandosiegemoniche verso il centro, con il governo (per esempio per contrattare i finanziamenti ai lavori pubblici). Mi viene in mente la Valle d’Aosta, per esempio, ma potremmo citare anche l’esempio della Sicilia, della Sardegna, di Napoli. È in questo periodo che acquistano spiccati profili etno-storici. E qui la Romagna si sente avvantaggiata avendo un nome famoso, già consacrato nella Commedia di Dante. Gli intellettuali si mettono all’opera per darne un profilo originale.

Con caratteri elitari ed un po’ troppo da eruditi lo facevano Gasperoni e Grilli con la rivista “Romagna”; già Emilio Rosetti nel 1894 aveva scritto la guida alla Romagna, stabilendone i confini, la storia a mo’ di dizionario. Antonio Morri, faentino, che già aveva abbozzato un dizionario romagnolo nel 1840, lo riprendeva in mano nel 1863.

Partecipano a tale costruzione culturale della Romagna, con piglio popolareggiante, intellettuali e scrittori della prima generazione dell’Italia unita, come Spallicci (1886), Beltramelli (1874), Pratella (1880), fondando riviste regionali come “Il Plaustro” (1911) e poi “La Piè” (1919). Costoro traducono localmente uno degli indirizzi culturali di una grande rivista nazionale come “La Voce” di Prezzolini e Papini. Se nel programma della rivista fiorentina figurava il proposito di “far conoscere l’Italia agli italiani”, “Il Plaustro” si dà la missione di far conosce la Romagna ai romagnoli.

 ORGANIZZAZIONE DEGLI INTELLETTUALI

Si costituiva su queste coordinate di massima la prima organizzazione degli intellettuali regionali, che contava su un cenacolo a dimensione regionale, con una voce a stampa e la messa in cantiere di una serie di iniziative: mostre, esposizioni, musei, insomma la promozione delle arti e delle arti applicate. Si sentivano al passo con il Governo nazionale, che si segnalava sul piano legislativo con la promulgazione nel 1904 della legge per la difesa (reimpianto, in verità) della Pineta di Ravenna. Nello stesso periodo Gaetano Ballardini a Faenza ricreava le botteghe per le ceramiche e ne faceva ripartire il commercio; veniva poi il museo (ancora oggi in funzione).

 UN PASCOLI CARDUCCIANO

Uno snodo importante è Pascoli, erede di Carducci sulla cattedra bolognese. E carducciano lo intendono i romagnoli. Spallicci è in collegamento con lui, da quando la fidanzata e futura moglie, Maria Martinez, ha deciso di fare una tesi sulla poesia popolare romagnola, diretta dal poeta di San Mauro. Spallicci sottopone a Pascoli il progetto di una nuova rivistine romagnola: il “Plaustro” nel 1911. Il titolo allude alla coperta dei buoi e vuole essere un omaggio al Pascoli romagnolo, al poeta che ha introdotto termini del dialetto nel lessico della cultura alta.

 INTERVENTO SULLA LINGUA

Se Pascoli aveva introdotto nelle sue poesie solo alcune parole in dialetto romagnolo, Spallicci va oltre, sia per i contenuti sia per l’uso del dialetto.

La promozione del dialetto per Spallicci si inseriva in un’operazione politica e civile: fare partecipare la popolazione ai nuovi orizzonti della patria e della storia risorgimentale, dalla quale era nata l’Italia. Occorreva dare nuove canzoni a quel proletariato che cresceva con ideali di rivolta e di opposizione all’idea di patria.

 IL ROMAGNOLO NON AVEVA STATUTO DI LINGUA

Alla fine dell’Ottocento, il dialetto romagnolo era considerato una parlata barbara, gutturale, tutta consonanti, priva della sonorità e della dolcezza delle vocali.Papini diceva che quando sentiva due romagnoli discutere fra loro aveva l’impressione che non si scambiassero parole, ma pugni.Stecchetti che viveva a Bologna come bibliotecario all’Archiginnasio lo usava ma fra gli amici ma per fare ridere. Se rileggiamoIl critico d’artee l’altraDe verborum significatione,risulterà più chiaro il senso dell’operazione linguistica.Nella prima, spicca la caricatura dell’italiano tagliato col dialetto a scopo palese di provocare il riso. Il critico d’arte è ignorante e la lingua lo conferma: confonde l’iscrizione sulla croce posta da Pilato: INRI,JesusNazarenus Rex Judaeorum, Gesù Nazzareno re dei giudei, con la firma del pittore.Nella seconda, Automedonte, è il termine usato da chi ha fatto studi umanistici: ovvero il nome dell’auriga di Achille, qui usato per cocchiere, ma questo non può saperlo l’interessato, separato dalla sapienza umanistica proprio dal suo dialetto, che quindi reagisce irritato, maledicendo il padrone.

 LA RIFORMA DEI GIOVANI INTELLETTUALI ROMAGNOLI

Spallicci e i suoi sono all’oscuro di Stecchetti. Lo riconosceranno come predecessore solo negli anni Venti del Novecento. Ai primi del secolo, iniziano a costruire una letteratura regionale, con riferimenti storici e allo stesso tempo mitologici. Non sono dei freddi divulgatori, ma degli educatori. La loro letteratura deve incidere sulla società, come critica, invettiva, imitazione. Beltramelli nel 1904, con il suo romanzoGli uomini rossidescrive una Romagna innamorata della politica, divisa in rossi e neri, ossia clericali e anticlericali, sempre esagerata, virile e pantagruelica. E pretende di dare una lezione ai romagnoli mediante l’ironia.

Spallicci, a sua volta, come poeta e organizzatore di cultura, torna alla vita popolare, ai riti folklorici, visti come rituali antichi, carichi di sacralità. La sua idea è che nel romagnolo “barbaro” si celi, in verità, un personaggio non livellato dalla modernità, un tipo autentico, capace di grandi sentimenti e generosità.Spalliccisi propone di correggerne l’immagine, mediante il teatro popolare, ad esempio, e naturalmente riformando la lingua. Il dialetto va addolcito mediante l’aggiunta di vocali, per dare sonorità alla parlata, lavorando sul vocabolario, affinandolo, per renderlo capace di esprimere sentimenti delicati, alla “bela burdela fresca e campagnola”, e grandi aspirazioni di libertà (come il grillo che non si rassegna a fare il canterino, se tenuto in gabbia).

Spallicci prescrive una fonetica del dialetto (come trascriverlo?) e ne amplia il vocabolario mettendovi parole nuove: il trattore, appunto, ovvero la modernità. Si rilegganoE singioz di muturoppure Mutor da partigher o ancoraCs’el che pasa travers a i mi chemp?eSera sora i cudalnuv,  e si noterà il lavorio linguistico per adattare il “trattore” al dialetto.

 L’INDUSTRIA DELLA ROMAGNOLITA’

L’intrapresa riscuote un certo successo. Per la prima volta un disegno culturale e artistico crea occupazione.A Faenza il successo delle ceramiche, altrove le coperte stampate, il ferro battuto, le gite, i trebbi di poesia dialettale,poi arriveranno i vini, perfino il turismo incoraggiato dall’immagine della Romagna “ospitale”. Per non dire della penetrazione nel tempo libero, con i trebbi di poesie, il teatro.

 URBANIZZAZIONE ANNI ‘60

Tutto cambiava con l’urbanizzazione degli anni ’60. Il fenomeno è noto. Un’unica lingua s’imponeva nelle famiglie anche grazie alla televisione. Un italiano standard, che fa vergognare i dialettofoni. I giovani scolarizzati cercano un’integrazione rapida e il dialetto nataleviene nascosto.

Di più: nella politicizzazione degli anni ’60-’70 il culto del dialetto è considerato un fenomeno “reazionario”. Pasolini in una nota antologia di poeti dialettali mettevaSpallicci fra i tardi imitatori di Pascoli, facendone il frutto di una ideologia “piccolo borghese”. Ovviamente sbagliava: Spallicci è se mai un carducciano, ma non è qui il punto. Il punto è che nessuno si ergeva a difendere Spallicci. Come nessuno si metteva a difendere Garibaldi e la tradizione risorgimentale di fronte alla mitologia di Che Guevara.

 IL DIALETTO EMIGRAVA FRA L’ELITE

Abbandonato dal popolo, il dialetto però non moriva, ma si trasferiva lentamente fra un’elite urbana, che lavorava nella letteratura e nel cinema. Lo aveva notato già Lorenzo Bedeschi nell’introduzione citata. Se Spallicci attraverso la lingua aveva cercato di farsi riconoscere dal popolo dei dialettofoni, i nuovi cultori del dialetto cercano invece una diversa espressività dell’io e il dialetto si fa lingua intima, ermetica.

Di qui Guerra, Fellini e poi Raffaello Baldini, vincitore del Bagutta a Milano: un premio nazionale di letteratura conferita a un poeta che scrive in vernacolo.Il fenomeno non ha riguardato solo il dialetto romagnolo, ma qui da noi va sottolineato il successo di massa riscosso in questi anni da Raffaello Baldini, grazie anche a Ivano Marescotti, che lo ha portato in giro nei teatri della Romagna.

Dov’è la novità? In tale dialetto d’elite scompare la gerarchia fra dialetto e italiano o addirittura fra dialetto, italiano e inglese: dall’uno si passa all’altro, se serve a dare espressività al verso. Si pensi solo al titolo dell’ultima raccolta di versi di Baldini, Intercity, il nome del treno che lo riporta in Romagna, ma che diventa metafora del viaggio e della vita.

 L’ITALIANO DI ROMAGNA

Ma un’altra novità si è imposta. Lo ha notato la linguista Valeria Miniati, recentemente, con il suo volume Italianodi Romagna. Storia di usi e di parole, Bologna, Clueb, 2010. Ho avuto l’onore di presentarlo a Forlimpopoli, nella Sala del Consiglio comunale, il 12 novembre 2011. Il lavoro della Miniati parte dalla seguente constatazione. L’italiano che si è affermato a partire dagli anni ’60, che tipo di fenomeno linguistico ha prodotto? Ha prodotto in ciascuno di noi romagnoli qualcosa di simile a tanti Baldini minori. Vale a dire un italiano che ha radici nel dialetto o, per altri versi, un dialetto italianizzato.

La linguista spiega il fenomeno storicamente. I vocabolari dialettali dell’Ottocento – spiega - avevano un intento pedagogico: offrivano ai dialettofoni la corretta voce italiana corrispondente a un termine in dialetto. E ci si accontentava della correzione. Il problema nasceva quando non esisteva un diretto corrispettivo in italiano, specie quando si faceva riferimento a cose prettamente locali. Allora nel tentativo di tradurle in italiano si ricorreva a sinonimi, cioè a voci con significato affine, ma che non rispecchiavano pienamente il valore che la parola aveva nel dialetto.Finché la norma dell’italiano standard e l’imbarazzo per l’uso del dialetto hanno tenuto banco, il problema è rimasto senza soluzione.Cadendo però l’imperativo dell’italiano standard, quell’incongruenza è stata avvertita come limite e i parlanti hanno finito per mantenere il termine dialettale adeguandolo foneticamente o morfologicamente alla lingua (ivi, p. 10).

 LA RICERCA SUL CAMPO

Il libro-dizionario di Valeria Miniati raccoglie frasi reali, tratte dalla viva voce dei parlanti, brani di conversazione spontanee, risposte e spiegazioni direttamente fornite da informatori che usano i termini nel contesto. Per questo la studiosa si è servita di registrazioni di interviste, colloqui guidati, conversazioni spontanee, condotti in luoghi diversi di svago e di lavoro, con parlanti di età diversa, sesso, estrazione culturale e sociale, cioè un contesto comunicativo reale.

Ne risulta che lo spettro dei contenuti di questa lingua è molto ampio: prendo alcuni esempi. Resta la parola dialettale pura: pedga, per orma, accanto a termini che nel processo di italianizzazione subiscono adattamenti: lozzo per sporcizia, schioppare per scoppiare.Altri termini continuano a vivere in senso figurato e non nel loro significato proprio: fare i franchi, ovvero arricchirsi, senza riferimento al franco moneta. Così fare pochi franchi, per dire scarso successo.Altri sono costrutti usati anche da persone di cultura medio-alta, perché non avvertiti come dialettismi: un caspo d’insalata, ho rimasto solo pochi euro; ci sono andato da per me; prendersi dietro l’ombrello.

Valeria Miniati disegna tutto un mondo che resiste ai processi di omologazione attraverso la salvaguardia della propria cultura tradizionale e della lingua della propria comunità. Si pensi che diverse tv locali hanno adottato la formula dei salotti d’intrattenimento, dove il linguaggio è il parlato comune, infarcito da localismi. C’è poi c’è la riscoperta di feste, fiere e soprattutto sagre di paese, processioni religiose, giochi; la riscoperta dell’insegnamento del dialetto nelle scuole elementari; la riscoperta dei vecchi mestieri contadini. Talvolta si tratta di reinventare una tradizione volta alla promozione di certi prodotti commerciali (si pensi al formaggio di fossa).

 ALCUNI CONTESTI

Per cogliere la vivacità dell’italiano di Romagna, ho provato a procedere per situazioni. E faccio qualche esempio.

LA QUOTIDIANITA’ DOMESTICA

Impiluccarsi, impiluccato: riempirsi di peluzzi, granelli di polvere.

Non mi piacciono i vestiti blu, perché s’impiluccano subito.

Spazzolati il bavero della giacca, che è tutto impiluccato.

Tra cani e gatti, il divano è sempre impiluccato.

 Impazzimento, per lavoro, impegno: Bisognerà almeno regalargli qualcosa per l’impazzimento, visto che non vuole essere pagato.

 Incriccarsi: T’incricchi perché sei vecchio, mica per l’umidità.

Indentro, dare indentro: Dacci indentro al caffè, che lo zucchero è in fondo.

oindidentro: Ripiega le maniche un po’ indidentro, perché sono troppo lunghe.

 RELAZIONI SOCIALI QUOTIDIANE

Incantonare, in senso figurato: mettere alle strette verbalmente e in modo violento qualcuno:

Ho avuto una bella paura, stamattina: mi ha incantonato urlando come una matta.

Incantonare per circuire maliziosamente: Non so più cosa fare con lui: ogni volta che mi vede da sola, m’incantona.

Incantonare per nascondere beni o denaro, spesso in modo disonesto: Sai quanti (soldi) ne hanno incantonati in Svizzera.

 Incarognirsi, incarognito: oltre ai significati di lingua: incattivirsi, ma anche impuntarsi:

Non è mai stato simpatico, ma con l’età s’è proprio incarognito.

Quando s’incarognisce su un’idea, non lo smuove più nessuno.

 Immattire, immalgato, immaltato, impaciugare, impallinare, impalugarsi, e imparare, per dire: venire a conoscenza di qualcosa o di sentito dire:

Guarda, sono sicuro, perché l’ho imparato proprio da lei (cioè dall’interessata)

 PARLARE USANDO “IN”

L’uso di in preposizione: La minestra nei fagioli, con i fagioli

Il libro è nella tavola, sulla tavola

Stiamo andando in stazione, alla stazione

S’è innamorata in un fatto tizio, s’è innamorata di un tipo strano

Nella gara di pesca sono arrivato negli ultimi, tra gli ultimi

Era nel caffè, al bar

Smettila subito di darmi nella voce, di darmi sulla voce, non interrompermi.

 INSULTI

Indarlito, inderlito

Inaquarito per annacquato. Ti s’è inaquarito il cervello?

Incantato, oltre ai significati di lingua: affatturato, passa al significato di ingenuo e infine stupido, imbecille:

Vacci te, perché quell’incantata di tua sorella non è capace.

 Dino Mengozzi ha quindi così concluso la sua affascinante lezione:

La parola dialettale italianizzata, insomma, è usata comunemente da tutti senza suscitare censure, effetto di un ibridismo che ha conquistato lo statuto di norma regionale del parlare in italiano.Dunque, una Romagna dialettale esiste, in fondo, sempre enonostante la tv e l’omologazione, di cui si parla. C’è una marca della romagnolità negli italiani di Romagna. E questa norma, a differenza del dialetto “puro”, è quella più proteiforme, perché passerà inevitabilmente anche agli immigrati recenti.A costoro, c’è da scommettere, il dialetto arriverà come radice di quell’italiano di Romagna che i loro figli stanno imparando a scuola. In fondo è questa la lezione più esaltante del “dialetto italiano” o dell’ “italiano dialettale” di Romagna, che certo sarebbe piaciuta a Spallicci. Nessuna chiusura, nessuna frontiera dialettale, nessuna torre contro chi non può intendere il dialetto; nessuna rivendicazione di una supposta superiorità della “razza bianca”, ma apertura al nuovo, senza smarrire l’antico.

Ha preso quindi la parola il professor Dino Pieri che attraverso un percorso che, come lui ha anticipato, potrebbe intitolarsi "I giorni del confino di Aldo Spallicci a Mercogliano" ha voluto ricordare l'uomo, il soldato Aldo Spallicci. 

Spallicci, è noto a tutti, fu antifascista, durante il Regime lui e tutta la famiglia trascorsero momenti davvero difficili,duri; la moglie era stata espulsa dall'insegnamento nelle scuole statali, lui stesso subì dapprima il domicilio coatto a Milano, quindi il confino, sino ad essere imprigionato a San Vittore. La prigione l'aveva già conosciuta nella rocca forlivese. Ma non tutti sanno che tra Spallicci e Mussolini vi era stata, nella prima giovinezza, una certa amicizia.  

Da Dovia di Predappio spesso Mussolini veniva a Forlì ed incontrava l'amico Aldo in biblioteca e passeggiando lungo il corso. Mussolini a quei tempi era socialista ed anche Spallicci, prima di abbracciare la fede repubblicana, aveva idee socialisteggianti, aveva scritto qualche articolo di Medicina sull'Avanti. quando nel 1911 scoppiò la guerra di Libia, entrambi erano contrari alla guerra come lo erano Pietro Nenni, Renato Lolli. Spallicci non era un rivoluzionario, era meno "baricadero" di Mussolini, che con Nenni, Lolli ed altri tentarono di bloccare la partenza dei treni che portavano agli imbarchi i militari. Per questo vennero pure processati e Mussolini chiese appunto Spallicci come teste della difesa. Anche durante la prima guerra mondiale l'amicizia tra i due non si era ancora incrinata, entrambi furono volontari poichè credevano che attraverso ad essa si sarebbe realizzata l'Unità d'Italia, acquisendo quelle regioni ancora irredenti. A seguito dello scoppio di una bombarda Mussolini ebbe qualche  decina di scheggie nel corpo e Spallicci lo andò a trovare all'ospedale. La rottura si sarebbe consumata più avanti con il sorgere di una "dittatura borghese, liberticida ed intollerante delle opinioni altrui " (parole di Spallicci). Nel 1926, quando ormai il Fascismo si era consolidato, Spallicci fu inviato al domicilio coatto a Milano con la famiglia. In una lettera a Piero Zama scriveva "...a quarant'anni rifare tutto da capo è doloroso quanto mai ma essere d'accordo con se stessi ripaga di tante ansie e di tanti scoramenti...". Il domicilio coatto lo estraniava, lo sradicava dalla gente di Romagna, dalla direzione de la Piê che nel 1933 sarebbe stata soppressa. Non gli si potè impedire di praticare la professione di medico, in caso contrario la famiglia non avrebbe avuto alcun sostentamento, però pure come medico era sempre seguito da agenti della Prefettura, dopo la guerra scoprirà che pure la sua infermiera era una spia dell' O.V.R.A. ed un suo paziente che curava gratuitamente, un delatore. Proprio per le delazione di questi, nell'aprile del 1941 Spallicci venne condannato al confino a Mercogliano (Avellino), un paesino dell'Irpinia vicino al Santuario di Monte Vergine. La Prefettura milanese infatti aveva definito Spallicci "...attivo antifascista che non tralascia occasione per muovere critiche al Regime e svolgere una subdola propaganda pericolosa in rapporto all'attuale momento...", siamo nel 1941, l'Italia è in guerra da due anni. Di quel periodo vissuto in condizioni di reietto, come si definisce, Spallicci tenne un diario, che però pubblicò trent'anni dopo, nel 1972, pochi mesi prima della morte, quando già, in seguito alla scomparsa della figlia Anna, si era trasferito dall'altra figlia Ada a Premilcuore. Dalla premessa, del 1972, si ha l'impressione ancora di una vitalità intellettuale e morale intatta, egli scrive "...rileggo ora, dopo un trentennio queste pagine, e non vi trovo accenni di disperazione ed odio verso i miei persecutori; una rassegnazione al triste destino come una pena inevitabile a chi si ostina a tener fede ai propri ideali..." parole sulle quali, ha sottolineato il professor Pieri, ancora oggi si dovrebbe meditare a lungo. Chi vuole tener fede ai propri ideali, deve essere preparato, pronto a sopportare, ad affrontare pene inevitabili. Tener fede ai propri ideali, l'imperativo categorico che ha orientato Spallicci nelle scelte di vita, anche le più scomode e dolorose, e ha alimentato in lui la fede per la poesia, il famoso verso ... quel ca cant a cred...  è che scriva poesie per il senso estetico, vi è in lui un'estrema coerenza tra vita e poesia. Durante il viaggio da Milano a Mercogliano, in treno si trova in compagnia di alcuni ufficiali baldanzosi, fiduciosi nella vittoria, che parlano tra loro e Spallicci ascolta e annota ... ero avviato verso il mio esilio, quelli erano in armi, fiduciosi nella vittoria del paese come ero io ventisei anni prima. Cosa era accaduto in questo tempo perchè io fossi diventato un reietto e loro sempre sulla trincea nel nome d'Italia? Molte cose erano accadute, il mio atto di fede all'Italia era tutt'uno con il mio credo mazziniano, che non sapeva percepire la Patria se non con il rispetto delle patrie altrui - Non nazionalismo, una nazione sopra altre nazioni, ma una nazione accanto alle altre nazioni - quindi alla voce che mi tempestava dentro "e tu cosa fai per il tuo paese?" dovevo rispondere con il mio foglio di via... Quel provvedimento inaspettato naturalmente mise a dura prova l'intera famiglia, il cui sostentamento, una volta chiuso l'ambulatorio a Milano, cadde tutto sulle spalle della moglie Maria che già teneva lezioni private di greco e latino, una volta espulsa pure lei dall'insegnamento. Questa donna coraggiosa, vera consorte del marito condividendone le sorti, raddoppiò l'impegno e fu di grande sostegno morale al marito con telegrammi, telefonate di incoraggiamento. L'amore e l'affiatamento dei due fu davvero l'arma vincente con la quale riuscirono a superare quella difficile situazione senza abbandonarsi ad uno sterile sconforto, in sintonia del resto con la loro forte fibra morale....a vegh par la mi strê, incontra a la mi guëra, s'a chésch a chésch in tëra, zidenti a ch'i m' tô sò... Spallicci si era portato al confino il libro di poesie di Leopardi e scrive il 13 maggio prendendo spunto dalla poesia leopardiana La Ginestra "...Leopardi è sul mio tavolo, sono con lui ad odorare la ginestra sulle falde del Vesuvio ma non lo segue in quella sua cieca disperazione, La malinconia, così perdutamente nera, è patologia dello spirito, ed a me piacciono gli spiriti sani... Al confino, gli giovò anche continuare la sua attività di medico a favore della popolazione, pur con difficoltà, la Questura lo osteggiava e pure i colleghi del posto, anche se Spallicci svolgeva l'attività gratuitamente. Tra i suoi assistiti vi furono, oltre ai confinati, pure gli internati, persone degli stati in guerra con l'Italia. Scrive Spallicci "... grande conforto essere medico, poter giovare agli altri, mi prendo omaggi di parole..." Dalle lettere degli ex compagni di confino emerge tutto tondo la personalità di Spallicci. Scrive infatti Lorenzo Bedeschi "...si direbbe che egli instauri nel borgo avellinese fra non pochi confinati sballati diffidenti toni prima sconosciuti, di reciproca affidabilità, oltre che di rispetto. Attorno a lui si raggruppano gli appartati, gli abbandonati a se stessi, il suo entusiasmo, serenamente mazziniano e romagnolo, sembra attirare coloro che i vari settarismi partitici hanno trascurato e respinto. Tra gli abbandonati vi erano pure le sorelle Warren, due anziane signorine inglesi citate più volte nel diario, oggetto spesso di azioni teppistiche duramente riprovate da Spaldo che scrive "... un paese che non rispetta i vecchi non è un paese civile. <La ragazzaglia cenciosa e lurida si è scatenata a grida e sassate contro le due vecchie signore inglesi Warren..." . Questo episodio rappresenta forse l'acme del disagio nei confronti dei mercoglianesi che pur apprezzavano le sue prestazioni di medico. Scrive sempre Spallicci "... quando vado a Torelli ( una frazione di Mercogliano) pare che vi arrivi un vecchio amico, sono tutti a farmi festa e non chiamano altri...." Figuriamoci i volti gialli dei colleghi! Irritava soprattutto Spallicci, confinato a causa di delazioni, la propensione di molti degli abitanti di Mercogliano a spiare per poi riferire alle autorità."... lungo il viale c'è sempre qualcuno che tende l'orecchio ai nostri conversari, magari nascosto dietro ad un platano, ascoltano, prendano la penna , fanno il rapporto o la denuncia al federale; e sono studenti, e alcuni universitari..." Un altro aspetto del costume locale che lo colpiva negativamente, Spallicci era un laico,  era il fanatismo della folla in pellegrinaggio al Santuario. Le donne portavano sulla testa dei grossi cesti con le vivande, il viaggio era lungo, e tutta la scalinata la facevano in ginocchio. Scriveva Spallicci "... Di costoro ne ho trovato letanianti e oranti in nenie piagnucolose sulla gradinata del convento, le donne con i canestri dei viveri intesta avanzavano in ginocchio scalino per scalino fino a che gruppo di cenci pittoresco sono giunte alla chiesa ove le voci raddoppiate di fanatico fervore hanno echeggiato sino all'altare...". Se subiva queste amarezze da parte della popolazione si riconciliava con essa mediante l'incontaminata bellezza dell'ambiente naturale "... stamane con un'aria così pura e limpida sono salito verso Capo Castello e mi sono buttato ai monti. Tutto era vestito di cielo e lievità; io andavo, correvo, quando vado per i campi e per i monti mi riconcilio con questa gente...". Il contatto con la natura continuo in quella assolata estate mediterranea, fu per Spallicci un grande corroborante sia del corpo che dello spirito. L'anima della terra che aveva scoperto fin dall'infanzia nelle larghe attornio a Santa Maria Nuova e sui colli della sua Bertinoro e che aveva avvertito persino lungo le strade di Milano, dove sotto l'asfalto arroventato gli pareva di sentire il fermento della terra buona sepolta viva sotto l'asfalto, e percepita con una intensità che raggiunge lo spasimo nel rigoglio delle campagne di Mercogliano "...quando passo tra le messi alte e i trifogli e ascolto le voci della terra le vene e le membra mi tremano come se mi annientassi..." quindi non gli interessa solo i paesaggio della Romagna, ma la natura tutta. Alla dimensione corporea delle percezioni diurne, grande protagonista il sole che vivifica la natura e gli uomini, subentra in certi notturni una sorta di misticismo visionario, nel cielo stellato si incontrano il tempo e lo spazio, il poeta sembra rivedere il volo delle anime immortali "... trascorrono sotto le stelle come nebbia ... e passano sopra le case degli uomini con il brivido delle cose perdute. Hanno dell'eterno e dello stellare, recano, quasi polverio siderale, lo scintillio delle menti...". l'immagine di Spallicci al confino, ma in pace con la propria coscienza, con lo sguardo rivolto all'immensità del cielo stellato richiama alla mente Dante che all' epistola dell'amico fiorentino che gli scrive che può ritornare a Firenze umiliandosi, chiedendo perdono e pagando una multa, risponde ringraziando ma rifiutando l'offerta.. e che, non potrò contemplare il sole e le stelle ed il loro corso dovunque io sia ?  Non potrò dovunque sotto la volta del cielo meditare verità dolcissime senza rendermi prima rendermi spregevole, anzi abbietto ? Il prezzo pagato per mantener fede ai prorpi ideali sarà molto alto anche per Spaldo. Infatti, dopo il confino, dovevano trascorre altri quattro anni densi di prove ancora più dure, terminate con la carcerazione a San Vittore, il figlio Mario carcerato a Firenze alle Murate ecc. La lettura di questo diario, giorno dopo giorno, ci ha molto svelato dell'uomo Spallicci e del poeta, poeta importante ma, ha volturo sottolineare concludendo il professor Pieri, pure un uomo importante!

L'incontro si è quindi concluso con la lettura da parte della signora Pieri, Maria Assunta Biondi, di tre poesie del poeta: 

A Mario

 Anna rundanena

A Maria

 

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