Una Medea a Trastevere
di
Paolo Puppa

 

 

Nel cuore di Trastevere, tra pizzerie e ristorantini turistici, in una ex bisca riattata a centro teatrale, nella sala Raabe, via A. Bertani 22, ramo di piazza Cosimato, vive e pulsa un'autentica sirena.
Ha occhi spiritati, un naso adunco e nervoso, una voce incredibile che  rievoca un po' Cathy Berberian nella sua possanza e dismisura. Si chiama Monica Giovinazzi, un albatros inquieto e indipendente. Tiene corsi con laboratori e stages spesso in  sinergia con dipartimenti universitari. Si offre ad un gruppo di allievi privilegiati che la adorano. Li addestra a leggere in un testo le curve melodiche, i picchi e le atonìe. Li rafforza nel respiro, li affina ad usare le corde vocali con competenza di fonologa e di ginnasta della phonè. Li timbra, alla lettera,a vibrare in incanti tonali, in fonie affacciate anche su altre   etnie. Insomma, studia e insegna ricerca e comunicazione. Prepara eventi che chiama pezzi di artigianato, maniacali nel perfezionismo. Ogni tanto si inerpica da sola per performances eccentriche, di cui cura la partitura, a scavalco tra recitazione, canto e danza. Tra i titoli più recenti,  Un corpo geometrico - la donna a pezzi nella pubblicità; Karusell - bambini nella giostra di desideri adulti; Medea's sauce - una donna borderline di 50 anni; Rischio di fogna urbana - topi in convivenza coatta nella metropoli meteca. Quel che la caratterizza è l'arte della sottrazione, la forbice metaforica con cui taglia il superfluo. E' molto magra, appunto. Si muove coll'eleganza e la sontuosa leggerezza di una zingara regale. L'evento scenico per lei è pretesto e occasione per indagare la realtà monitorando gli argomenti in testi scarnificati e ritmati, adeguando fisicità e sonorità, travasati in tessuti plurilinguistici. Ha dimestichezza con lessici vari, infatti, specie l'area tedesca, frequentata  assieme ad Antonio, il marito con cui mette al mondo ogni tanto figli, allievo a suo tempo del germanista Paolo Chiarini. Indifferente alla visibilità e alla concorrenza da mercato, non sgomita inseguendo carriere e accessi nel bazar promozionale. Ma ha carisma da vendere, e il fatto che il nostro palcoscenico  la conosca poco depone male sui gusti e sui valori in auge in quest'ultimo.
Io ho avuto la fortuna di incrociarla due anni fa, durante un mio laboratorio di drammaturgia a Sant'Arcangelo. L'ho scorta all'improvviso, mentre emetteva rantoli e squittii, colla voce che le si schiudeva, le scivolava fuori con una grazia disarmante. L'aria intorno pareva elettrica, e la luce raddoppiata. Le ho proposto allora la mia Medea, uno dei monologhi antichi rivissuti nel quotidiano d'oggi,  emblemi dell'assedio telematico e del disagio contemporaneo.  Archetipo fecondo, Medea, capace di attraversare reiterate traduzioni drammaturgiche, musicali, pittoriche, da Niccolini  a  Cherubini, da Grillparzer a Legouvé, da Alvaro ad Anouilh, da Delacroix a Moreau.
Con me Medea diviene una lettrice di tarocchi in una tv privata, una bulgara cipigliosa e aggressiva, in difficoltà col nostro idioma, inciampando di continuo in un veneto mal assimilato, timorosa d'essere lasciata dal compagno Giasone, convocato a una rete Mediaset a esportare il programma senza di lei. Una Medea fiera della propria audience, una Vanna Marchi esotica e buffonesca, intenta a divinare su tradimenti d'amore e bisogno di lavoro con  malcapitati e ingenui clienti. Chiromante da strapazzo, dunque, misto di analista e di prete, richiesta dal  pubblico personale, cui riversa "l'energia prodigiosa" del suo cervello, storpiando vocabolari e formule magiche. Una delle tante, che si incontrano nei canali minori. Un monologo molto scritto, il mio, l'anno scorso al debutto scenico nel festival estivo di Radicondoli, dove una ieratica e spigliata Emanuela Villagrossi discettava tra carte e video che ne doppiavano l'immagine.
Monica procede in tutt'altro modo. Gli spettatori  avanzano nel suo sacello, reggendo in mano una candela accesa, consegnata loro da severi guardiani all'ingresso, assieme al biglietto. Invitati poi ad avvicinarsi in un secondo spazio, a posare a terra la candela,  si trovano davanti ad un altare, circondato dalle piccole faci, e in alto perimetrata da rose fresche pendenti, entro un limen cimiteriale, appare lei, icona enorme issata sopra un rialzo. Monica sta  immobile, elevata a statua barocca. Abituata a volteggiare col suo corpo elastico e smanioso di guizzi e balzi, stavolta si mostra raggelata e ingombrata da un'immenso chimono dorato, bardato da ricami e da ex voto appesi su riquadri sopra la stoffa. Un patchwork da presepe spagnolo, che la appesantisce, che la rende Madonna bizantina e raggiante Evita Peròn. In quel momento si capisce meglio  il lenzuolo sanguinante che annuncia lo spettacolo fuori, davanti all'ingresso del teatrino, per le valenze luttuose e sacrificali. Sulla fronte, tiene un giocattolo fosforescente che frigge ogni tanto ronzando una suoneria carillon, da playgame infantile. E in questa posa statuaria, ogni tanto sposta le braccia a fendere l'aria, a girarsi con piccoli scatti,  lanciando poche battute dal vivo, ansanti leitmotives, sul ritardo di Giasone, sul  suo cellulare spento, e sillabando melopee e giochi virtuosistici sull'omen amato e maledetto. Il tutto spalmato tra gargarismi altezzosi e sprezzanti, guaiti e vocalizzi, crescendo sincopati da macchina fonematica autonoma, che prega e inveisce, mescolando pointes da soprano ottocentesco, accenni di arie liriche con singulti e spezzature rauche. Intanto, in un angolo della saletta il mio testo registrato colla sua voce su moduli prosaici esce, come un radiodramma disturbato o male sintonizzato.  La serie delle consulenze secondo il mio copione  viene così snocciolata a mo' di litania distratta e meccanica, alternandosi e sovrapponendosi colla ieratica presenza viva. Il veneto che fungeva nel mio play da connettivo tra brandelli di altri dizionari trova nel tedesco il suo naturale sostituto. Monica  annaspa per un'ora che vola via rapida e maliosa, spezzandosi  tra la fonte sonora in play back, ovvero la lettura per telefono e in diretta dei destini decifrati grazie ai tarocchi, e il monumento di sé numinoso, nel senso etimologico di gesto al risparmio ed essenziale, una Santa Teresa in estasi doppiata da manierismi alla Klimt. Divisa, in una parola, come i modelli orientali del Bunraku, tra corpo che canta e parola registrata che racconta, questa Medea libera una quidditas misteriosa e ridicolosa, grande metafora della maga imbottigliata nel piccolo schermo, qui assurto allo splendore di altare. Perché, dietro l'apparente enigmaticità onirica della posa, sta la fulminante allusione al sacro ripiegato nella cornice televisiva, dove la donna giganteggia  in  Olimpi politeisti e provvisori.
E nel frattempo, dal sottotesto, rispunta di nuovo  l'antica diversità della magalda euripidea, datata oltre 2430 anni fa,  la figlia del Sole, capace di immolare i figli per dispetto, rinunciando alla reintegrazione nella normalità. E la simulazione di occultismo da luna park, da Sik Sik artefice mago di quartiere, riacquista tutto il suo côté fantastico, nell'ambivalenza coniata da Todorov tra strano e meraviglioso. La reggia di Corinto trasformata da me nell'infernale piccolo schermo che decide governi e regola vita e morte dei sudditi-spettatori, ridiviene auratico pharmakos finale, mentre la Medea di  Monica si accascia e si spegne dopo aver divelto la selva delle rose. Il telecomando ha interrotto, in fondo, la bella performance.



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