Per
sette anni terrorizzarono Bologna e la Romagna con le loro azioni criminali: 24 morti, 114
feriti...
Alla fine furono arrestati, per il coraggio di due colleghi poliziotti. La
prossima impresa dei fratelli Savi sarà uscire dal carcere. Grazie ai benefici
di legge.
È un lunedì in cui dal cielo piove
sabbia, quando, nelle televisioni italiane, appare il volto in lacrime di Anna,
19 anni, kosovara, madre di due bambini rom morti in una roulotte incendiata.
Poi la telecamera allarga e alle sue spalle appare il campo nomadi: le
baracche, i rottami, le figure che ci vagano in mezzo. Immagini già viste. Alla
lettera: era il 10 dicembre del 1990, l’ora le 19 e 40, quando nello stesso
accampamento alla periferia di Bologna arrivò una Uno bianca dalla quale
scesero i due fratelli Fabio e Roberto Savi, aprendo il fuoco e ferendo nove
persone, sette slavi e due italiani. Tra loro: Lirije Lukaci, 45 anni, madre di
una bambina di 9 anni che le telecamere ripresero in lacrime accanto alla donna
e alla sua mano mozzata dai colpi del fucile AR 70 che i Savi amavano provare
su bersagli umani. Quella figlia in lacrime di una sera di dieci anni fa e
quella madre in lacrime del lunedì in cui pioveva sabbia sono la stessa
persona.
Il cerchio ancora non si chiude, ma al suo interno iscrive una maledizione:
quella di una storia, dove (boia chi invoca i capricci del destino) tutti i
ruoli, dall’inizio alla fine, vengono rovesciati. I poliziotti fanno i banditi,
gli innocenti pagano e chi si batte contro i primi e a difesa dei secondi viene
mandato a «dirigere il traffico». In spiaggia. Che cosa è successo, «nel
periodo in cui non siamo stati collegati», tra l’arresto dei banditi-poliziotti
autori di 103 azioni criminose e le fiamme che hanno avvolto due bambini in una
roulotte? Come ha colpito la «maledizione della Uno bianca»? E perché? È stato
puro caso o, invece, il caso è puro e cerca di segnalarci, a modo suo,
l’immoralità di quanto gli uomini hanno fatto, anche dopo che noi abbiamo
distolto lo sguardo, e la necessità di porvi rimedio perché l’assurdo abbia
fine, gli innocenti smettano di pagare e il mondo capovolto ritorni al suo
posto?
L’auto quasi usciva di strada. Cominciamo da una tragedia
soltanto sfiorata: uno sbandamento in autostrada. Sulla vettura viaggiavano tre
persone. Alla guida il sovrintendente Pietro Costanza, 44 anni, originario di
Lampedusa. Al suo fianco, l’ispettore capo Luciano Baglioni, quattro anni in
meno, umbro. Dietro, il magistrato Daniele Paci. La radio trasmetteva il
notiziario. In apertura: la vicenda, tormentone nell’Italia del 2000, di un
detenuto che aveva approfittato dell’anticipata scarcerazione per commettere un
nuovo delitto.
«Ma quelli», disse sorridente Costanza guardando nel retrovisore, «... quelli
non c’è pericolo che ce li troviamo in giro, eh?».
Paci non ricambiò il sorriso. Prese il cellulare, lo
programmò alla funzione «calcolatrice» e digitò in silenzio, mentre Baglioni
aspettava, a ogni istante più perplesso.
«In realtà», concluse il magistrato, «se tengono una buona
condotta, potrebbero essere ammessi ai primi benefici di legge... nel 2004».
Costanza si girò di scatto, le mani ancora sul volante, l'auto in picchiata
verso il guardrail. Baglioni e Paci urlarono, Costanza si riprese e rimise
l'auto in carreggiata. Imprecò.
"Di'... stavi scherzando?".
Paci non rispose.
Non stava scherzando.
Ha rischiato di provocare l'ennesimo dramma, anello della catena maledetta, ma
non mentiva.
Su quell'auto viaggiavano i tre (poco noti) protagonisti della cattura dei
banditi-poliziotti. I giornali ne parlarono brevemente, preferendo continuare a
evocare fantasmi di complotto. Ebbero luce solo nelle pagine del libro
(Baglioni e Costanza, edizioni La Mandragora) scritto da un autore televisivo,
Marco Melega, con (una tantum) illuminata prefazione di Antonio Di Pietro, che
sinistramente concludeva: "A loro, una delle ultime raccomandazioni
lasciatemi da mia madre: fai il tuo dovere e pagane le conseguenze".
Incaricati dal produttore Valsecchi di scrivere una sceneggiatura sulla vicenda
("Per non dimenticare" come si diceva un tempo, quando esisteva il
cinema di denuncia), con Melega siamo andati a Rimini per scoprire "come
si pagano le conseguenze per aver fatto il proprio dovere".
Poliziotti da spiaggia. Baglioni e Costanza ci ricevettero a
casa del primo. Si sedettero accanto, le mani su un tavolo che poteva fare da
testimonial a un lucidamobili tanto nitidamente ne rifletteva i volti. Sulla
sua superficie tintinnavano due braccialetti quasi identici: catena dorata e
bandierine per le segnalazioni in mare. Erano colleghi e amici da anni. Si
definivano "poliziotti da spiaggia". Erano capitati a proteggere
l'ordine in una zona dove anche i criminali, di solito, venivano tutt'alpiù in
vacanza. Fino all'arrivo della Uno bianca. Entrati nell'indagine per caso, ci
erano rimasti per tenacia, per una crescente ossessione e per la voglia di
vendicare un loro collega e maestro (Antonio Mosca) ucciso dai criminali senza
volto sotto un cavalcavia dell'A14 una notte di ottobre del 1987.
Erano arrivati alla verità per deduzioni, intuizioni e per quella fatalità che
sovrintende ogni indagine fortunata. Increduli e spaventati, ancora oggi,
quando rievocano quel giorno, alla questura di Bologna, quando si presentarono
a chiedere il fascicolo di "un certo Savi Roberto" (di cui nulla immaginavano)
e, in rapida sequenza,
una poliziotta disse: "Ma questo è uguale all'identikit dell'assassino
dell'armeria!",
poi un altro agente, avvicinandosi: "Ma va là, questo è un collega: lavora
di sopra... alla centrale operativa".
Così, due poliziotti da spiaggia arrivarono ai poliziotti da rapina, ma nessuno
(soprattutto quelli che, forse, già sapevano) volle credere loro. Tranne un
giudice di Rimini, Daniele Paci, che mandò avanti l'inchiesta, finchè, in
quella stessa questura di Bologna, le manette si chiusero intorno ai polsi di
Roberto Savi.
E dopo, Baglioni e Costanza?"Dopo, cosa?".Non so, scatti di carriera,
cose così...
"Hanno detto che se volevamo una promozione dovevamo fare ricorso, però ci
hanno dato un encomio... solenne".Che è sempre meglio di un calcio nel
sedere. Quanto allo sfruttamento delle capacità rivelate..."Il primo
incarico successivo alla Uno bianca è stato nella lotta all'abusivismo da
spiaggia".Tradotto: controlli ai vu cumpra'.Ci scherzano.
"Ci siamo sempre definiti poliziotti da spiaggia, ridendo: va' che lo
siamo diventati".
L'hanno presa così: amano il lavoro che fanno, il giorno da leoni l'hanno
vissuto, se è un mondo di pecore, amen. Quanto al magistrato, Daniele Paci,
sono rimasti amici. Lui, però, si è fatto trasferire a Pesaro, dove svolge le
funzioni di giudice per le indagini preliminari e non ha bisogno di prendere le
inchieste con le molle per non scottarsi. Baglioni e Costanza lo chiamano al
telefono. È allegro e nasconde l'amarezza. Anche lui ha fatto il suo dovere e
poi è passato alla cassa per le conseguenze. Senza rimpianti. Ha nuove
passioni: sci estremo (si è infortunato una spalla, maledetta Uno bianca),
immersione subacquea e, soprattutto, degustazione di vini. Quando viene a cena
da Baglioni, ha sempre con sé una bottiglia per ciascuna portata e, alla fine,
brindano al fatto di essere scampati. Non soltanto ai Savi, è da presumere. Non
fanno polemiche: il capitolo è chiuso e la vita va avanti, almeno fino al 2004,
quando un nuovo giro di ruota potrebbe capovolgere il senso delle cose e
concedere i benefici di legge a chi, della legge, ha vissuto nel disprezzo pur
portandone le insegne.
UNA FURIA IN GABBIA. Ma che ne è stato dei fratelli Savi, dopo la cattura? Chi li ha visti
esclude che su di loro si sia affacciata l'ombra del pentimento.
Raccontano che al primo incontro dopo gli arresti si guardarono in silenzio,
per qualche secondo, poi si abbracciarono festanti e, interrogati, rievocarono
i loro delitti, rivivendoli con la passione e il trasparente rimpianto con il
quale due quarantenni rievocano le partite di calcio della gioventù.
"E quella volta al campo nomadi? Te la ricordi? Te c'avevi il revolver,
l'essepì tre cinque sette... io il fucile, l'aerre settanta... e abbiamo
cominciato a sparare e quelli scappavano come matti...".E giù a ridere.
Come matti, ma davvero.
"E quando coso, lì... come si chiamava quello... sì quello che non
centrava un bersaglio da mezzo metro... quando gli hai detto o spari tu a loro
o sparo io a te... ed è diventato tutto bianco, poi, oh, però, dopo... a
momenti ci prendeva anche lui...".E altre risate.
Che se poi Fabio Savi, detenuto nel carcere di Sollicciano, a Firenze, dimostra
di sapersi contenere, il fratello Roberto, in cella nel carcere militare di
Forte Boccea, non risparmia atteggiamenti che confermano almeno due cose.
Primo: il capo della banda era, indiscutibilmente, lui. Secondo: ha visto molti
film americani di ambiente penitenziario. Radio Carcere racconta che, come
Hannibal the Cannibal nel Silenzio degli innocenti, ha aggredito un agente di
custodia che aveva infilato la testa nella sua cella.
"Che cosa rischio se uccido un secondino?", si è informato.
Aggiungono che, come i protagonisti di Fuga da Alcatraz o Le ali della libertà,
aveva cominciato una paziente opera di riavvicinamento alla libertà. Staccata
una delle molle del letto, ne aveva fatto uno strumento da scavo e aveva
pazientemente cominciato a raschiare il muro, mettendosi poi il materiale ricavato
nelle tasche e disperdendolo nell'ora d'aria, per non lasciare tracce. Lo ha
smascherato una telecamera piazzata in un angolo del cortile.
Quando entravano nelle banche le distruggevano, le telecamere, e si portavano
via la cassetta.
L'unica volta in cui non lo fecero, sul nastro rimase impressa la faccia di
Fabio Savi. Baglioni e Costanza ne ricavarono una foto che misero nel
portafoglio, alla cornice dello specchio nel bagno, sul cruscotto della Y 10
verde con cui si aggiravano, finché, nel bar di un paesino romagnolo chiamato
Torriana, lo incontrarono, da lui risalirono al fratello e ora eccolo lì,
Roberto Savi, a passeggiare in un cortile privato, ricavato apposta per lui in
modo da impedirgli altri stratagemmi e controllarlo più attentamente.
Quello che non ha imparato dai film americani, gli viene dal suo istinto
maligno. La scena più inquietante la racconta un funzionario di polizia che
andò a incontrarlo per avere informazioni in merito all'inchiesta. Nel
parlatorio, sotto lo sguardo attento di una guardia carceraria, i due stavano
conversando, quando, all'improvviso, Roberto Savi mostrò all'altro, coprendolo
alla vista della guardia, un biglietto. Poi, velocissimo, se lo mangiò. La
guardia fu costretta a fare rapporto, parlando di una comunicazione misteriosa.
Il biglietto, assicura l'agente, era assolutamente bianco. Un modo per
intorbidare le acque, inguaiare qualcun altro, seminare nuove ombre in una
vicenda già abbastanza oscura.
Quando lo arrestarono, nella centrale operativa della questura dove lavorava,
disse: "Se avessi voluto, avrei potuto farvi fuori tutti. Non l'ho fatto
perché siete amici e colleghi".
L'ha ripetuto spesso, nei successivi interrogatori. Lo vive come il rimpianto
della vita.
È una specie di "sindrome Casaroli", leggendario bandito bolognese
(le cui gesta sono tramandate dalla fiction cinematografica). È il desiderio di
avere un'altra occasione (2004 o più tardi, purché esista) per chiudere i conti
soprattutto con se stesso e morire con un'arma in pugno, dopo uno scontro
epico, da western metropolitano: raffiche nell'aria, sangue sull'asfalto e una
figura solitaria, the last man standing, che vacilla, spara un ultimo colpo e
cade, finalmente appagato, sconfitto e trionfante. Uno talmente cattivo da
costringere i poliziotti a giustiziarlo, come l'omicida seriale di Seven.
L'ispettore Baglioni ricorda spesso gli occhi di Roberto Savi che lo guardano
fissi, la sua voce tranquilla che
ripete una cantilena: "Non sono ancora stato cattivo... non sono ancora
stato cattivo...".
IL DEMONE ORIGINARIO. Che cosa lo ha reso così? Lui e Fabio, per non
trascurare Alberto, il terzo fratello, a lungo ritenuto "il buono" e
poi scoperto complice. Se lo sono domandati in molti. La risposta,
probabilmente, l'ha data una donna, l'ex moglie di Fabio Savi: colpa del padre.
Al cancello della sua abitazione, a Villa Verrucchio, era appeso un cartello
con il seguente avvertimento: "Attenti al cane a al suo padrone!".
Più al secondo che al primo, in verità, poiché solo il padrone usciva imbracciando
il fucile e anche il cane, in sua presenza, appariva poco tranquillo.
Nel suo libro, Melega racconta che "Fabio riferiva alle sue donne i
racconti ricorrenti del padre, di quando faceva parte di squadre punitive che
andavano in giro a rasare le persone per poi incidere sulla loro testa una
croce con la pece e la cera. E il caso ha voluto che, molti anni dopo, anche il
figlio Roberto abbia rasato un tossico nel corso di un interrogatorio".
Savi padre era "un tipo turbolento che non riusciva a mantenere a lungo un
mestiere, che metteva i figli in collegio quando non era in grado di
mantenerli, che cambiava spesso abitazione", che amava le armi, odiava
zingari, ebrei e neri. Che, nel tinello di famiglia, guardando al telegiornale
le immagini trasmesse dal luogo dove erano stati uccisi gli africani Ndiaye
Malik e Babou Cheikh (autori i suoi figli, a colpi di pistola Beretta; la notte
era quella, afosa, del 18 agosto 1991, l'ora le due in punto), esclamò:
"Così si fa", non si sa se, anche, con orgoglio paterno, perché aveva
capito tutto.I suoi figli rapinavano e uccidevano a bordo della Uno bianca.
Lui, che pure ne possedeva una, un mattino ci è salito sopra con il suo
inseparabile fucile e ha chiuso i conti con se stesso, il suo passato e la sua
discendenza. Era già stato abbastanza cattivo per farla finita, probabilmente.
Una croce di cera e pece; se dovuta, una prece: amen.
DONNE INFELICITÀ. Al funerale di Savi padre non erano presenti le donne
della famiglia. Strani personaggi, in verità. Mogli, ex mogli, capaci di
convivere con il sospetto. Una, la (poi ex) moglie di Roberto Savi, capace di
dire a Eva Mikula, giovane fidanzata rumena di Fabio, parlando dell'amante del
proprio marito: "Della negra non ci possiamo fidare... dobbiamo fare
attenzione". La "negra", di nome Stella, era una ragazza
africana, schiava del racket della prostituzione e riscattata da Roberto Savi
pagando i suoi protettori con i soldi delle rapine. Di qui (oltreché
dall'insegnamento paterno) il suo odio verso le persone di colore e l'esecuzione
sommaria di due di loro a San Mauro. Passata dalla prigione del racket a quella
di un appartamentino affittato per lei dall'amante padrone, Stella scomparve
nel nulla subito dopo la cattura del suo uomo. C'è chi sostiene che la sua
fine, ignota, sia tutt'altro che lieta.
La fine è nota, invece, per Eva Mikula, forse la sola a essersi risollevata
dagli effetti della maledizione. Dopo l'arresto della banda divenne una star.
Ebbe momenti di fama, scanditi da un tassametro inesorabile. Ogni volta che appariva,
l'audience si impennava, che al suo fianco ci fosse Enzo Biagi dopo il Tg1 o la
Parietti in seconda serata. E lei, prima ancora di aprire bocca, riscuoteva il
compenso. Non si gestì, però, nel modo migliore, e il prezzo di mercato di una
sua intervista calò rapidamente. Rifiutò una prima generosa offerta per un
libro di memorie e si ridusse ad accettarne una molto più bassa. Si diceva che
stesse sotto i riflettori per proteggersi, temendo vendette di chi, ancora
ignoto, stava dietro la Uno bianca. Il tempo dimostrò che non esistevano
dietrologie e che Eva Mikula, semplicemente, amava la ribalta e i suoi
compensi. Ancor più, lo dimostrò Schicchi Riccardo, professione scopritore.
Erano, come spesso in Italia, tempi di complotti e golpe all'amatriciana.
Parallelamente a Eva Mikula venne alla ribalta un'altra donna "informata
sui fatti", tale Di Rosa Donatella, ribattezzata Lady Golpe, anche lei
propensa, nei momenti del piacere, a occuparsi di "servizi segreti".
Furono vicende e percorsi analoghi: l'ultima rivelazione fu quella del proprio
corpo, davanti a platee maschili insoddisfatte perché ora potevano vedere i
misteri d'Italia, ma che, stuzzicate nella loro ansia di approfondimento,
avrebbero voluto addentrarvisi. Fu, anche quella, una breve parentesi. Come
Lady Golpe, neppure Eva Mikula era portata per l'arte: semplicemente, come
molti, subiva la sindrome della ribalta.
L'Italia è piena di protagonisti di una stagione di cronaca, terribile o fatua,
che non riescono a tornare nell'anonimato e magari finiscono, pur di evitarlo,
per fidanzarsi tra loro (dopo essersi conosciuti, si presume, alle riunioni
dell'associazione "meglio morti che anonimi"), come Cesare Casella
(rapito in Calabria e per la cui liberazione la madre si incatenò) e Raffaella
Zardo (aspirante valletta, teste d'accusa contro i "meroloni" dello
spettacolo).
chi tocca i fili muore. Eva si è ripresa in extremis. Dopo un fidanzamento
riminese e una stagione da barista è approdata a Roma, compagna di un
benestante operatore del settore delle carni (che non è Schicchi). La
maledizione l'ha lasciata al suo giovane avvocato dei tempi d'oro, Paolo
Masini, quello che, per occuparsi del personaggio, si era ritrovato, per forza
di cose, più manager che legale. Lo ha colpito una malattia grave e improvvisa,
costringendolo a una lunga degenza e ostacolandone la promettente attività.
E la maledizione non finisce lì. Chi tocca i fili muore, chi tocca la Uno
bianca si fa del male, comunque.
Poiché la storia si distende a cavallo degli anni Novanta e tira in ballo ogni
pista (terrorismo, mafia, servizi segreti) e ogni settore di indagine
(magistratura d'assalto, corpi speciali e poliziotti da spiaggia), inevitabile
che si intrecciasse con i protagonisti delle inchieste più calde di quegli anni
e che i destini finissero rispecchiati, forse contagiati irrimediabilmente da
quei momenti di comune percorso. Prendiamo il giudice Antonio Di Pietro, per
esempio.
Ci "salì" anche lui, sulla Uno bianca. Ne scese quasi subito, ma era
ormai segnato.
Come scrive nella prefazione al libro di Melega: "Per conto della
commissione parlamentare stragi ho redatto a suo tempo una relazione in cui,
dopo aver analizzato i documenti e le carte processuali, espressi motivate
riserve sull'operato investigativo di chi per anni si era occupato della
materia: errori nelle piste percorse, sovrapposizioni di indagini e di organi
preposti, mancanza di coordinamento e assenza di raccordo dei vari indizi pure
esistenti a iosa per poter individuare prima il bandolo della matassa".
Conclude amaramente Di Pietro: "Accomunati dal solito destino. Già, perché
quel che è successo a me nell'inchiesta Mani Pulite è capitato al collega Paci
per aver voluto a tutti i costi "fare" l'inchiesta sulla Uno bianca:
è finito sotto processo disciplinare".
Poi, va da sé, Paci ha scoperto il Brunello, Di Pietro ha fondato l'Asinello.
E, dipende certamente dai punti di vista, ma forse continuare a fare, con
distacco, il giudice a Pesaro è un modo per schierarsi più forte che andare in
carrozza al Senato.Quanto all'altro giudice dell'inchiesta, quello di Bologna,
Spinosa, solito girare con due auto blu (manco fosse Scalfaro) e otto uomini di
scorta, è rimasto nella procura, occupandosi però di indagini minori, tra cui
un delicato caso di magia nera.
E ULTIMO VENNE ULTIMO. Ma poiché quella della Uno bianca è la storia che
ha raccolto a bordo tutti gli spicchi dell'Italia anni Novanta, tutti i suoi
miti e i suoi mali, era pressoché inevitabile che accadesse anche quello che
segue. E cioè che un giorno, del fantomatico pool che mai cavò un ragno dal
buco, fosse chiamato a far parte, in rappresentanza dei carabinieri, un
personaggio "fuori dal cast": un capitano che portava abiti casual,
un lungo codino, un tascapane, e citava spesso le massime di saggezza degli
indiani Apache. Il suo nome di battaglia era Ultimo. Di lì a poco, il 15
gennaio del 1993, avrebbe messo le manette ai polsi del boss dei boss: Totò
Riina. Curiosamente, anche lui "pagò le conseguenze per aver fatto il suo
dovere".
L'Arma che aveva servito e tuttora serve con fervore si complimentò e sciolse
il suo gruppo.
Ultimo è diventato un eroe per quella che lui chiama la "sbirraglia",
militi e agenti da un milione e otto al mese, e un poster boy da staccare dal
muro per i suoi superiori. Ha avuto più dalla fiction che dalla realtà ed è
curioso che, ora, lo stesso destino tocchi a Baglioni e Costanza. I quali,
peraltro, non sembrano preoccuparsi troppo di quel che accadrà: quello che li
impegna di più è sempre l'indagine che hanno in corso, che nel mirino ci siano
poliziotti deviati o ambulanti truffatori.
Adesso si dedicano alla lotta all'evasione fiscale e ogni giorno portano a casa
risultati a nove zeri.
Ai banditi-colleghi della Uno bianca pensano raramente e quello che ricordano
meglio è il terzo fratello, Alberto Savi, che lavorava nel loro stesso
commissariato e, perfino, li "aiutò" in una indagine, incaricato di
ricostruire i tempi di una rapina compiuta con la sua stessa automobile. Anche
lui, adesso è in carcere, e condivide la profonda depressione che ha
attanagliato il collega da Bologna, Pietro Gugliotta.
Del commando sull'utilitaria uno solo (quello che non sapeva sparare bene) è a
piede libero. Vive sulle colline romagnole e si dedica a tempo pieno al gioco
del tennis. Il suo nome, a questo punto, va dimenticato, come è stata
dimenticata gran parte della vicenda e del marciume che aveva svelato.Si fece,
all'epoca, lo scontato paragone delle mele guaste nel cesto sano.
Si evitò di considerare a lungo come mai il perfetto identikit di Roberto Savi,
appeso sulla parete di un corridoio che lui percorreva più volte al giorno, non
fu, ufficialmente, mai notato. Si trascurò di fare, nella questura di Bologna,
il "mea culpa" che perfino i pontefici si concedono e il repulisti che
la questione invocava. Si sollevò l'italico polverone che evocava servizi
deviati, connessioni con la malavita o il terrorismo dell'Est, ombre di golpe.
E si perse di vista quello che era sotto gli occhi di tutti.
Sono passati dieci anni dall'agguato dei fratelli Savi al campo nomadi. Nel
lunedì in cui piove sabbia dal cielo i giornali aprono con le vicende del
"pappagolpe", proclama da bar di un colonnello dell'Arma. Fantasmi da
operetta ballano sulle prime pagine. Un miliardario in crociera elettorale si
dichiara vittima del regime. Pagine a pagamento evocano "il piano
Solo". Dentro, in breve, si racconta di una perquisizione compiuta, in
punta di piedi, dai carabinieri nella questura di Bologna. Esito: 16 agenti
incriminati per abuso d'ufficio e altri reati. Arrotondavano facendo i
buttafuori nei locali, esibendo il tesserino. Erano in combutta, una squadra
affiatata, che ha cominciato col doppio lavoro menando le mani e nessuno sa
dove sarebbe andata a finire. Da dove veniva, però, tutti lo sapevano di
sicuro: dal cesto di mele mai controllato.
i consigli delle mamme. Sono passati dieci anni fra i due pianti di Anna, con
tutto quel che è successo, con tutto quel che è cambiato, niente è cambiato
abbastanza. L'ultima immagine che porto via da casa dell'ispettore Baglioni è
questa: la sua bambina seduta sul divano riavvolge la videocassetta e
ricomincia a guardare, per l'ennesima volta, il filmato delle nozze dei suoi
genitori. Affascinata li osserva danzare sotto le volte del ristorante, vede
Costanza, in un angolo, lanciare l'applauso e poi unirsi alle danze con la
mamma della sposa. Sorride felice: guarda i suoi genitori come attori di un
film. Poi sua madre viene a prenderla e, con dolcezza, la porta via. Nel
corridoio le sussurra una raccomandazione.
Come insegnano le mamme sagge, che i figli diventino giudici, poliziotti,
insegnanti o altro: "Preparati a fare il tuo dovere e a pagarne le
conseguenze".
Gabriele Romagnoli
Da:Diario.it
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