Lo strano caso del Sen Andreotti

 

La Corte d'Assise d'appello di Perugia ha condannato Giulio Andreotti a 24 anni per omicidio. Come mandante dell'assassinio del giornalista Mino Pecorelli. Critiche scomposte, a destra e a sinistra. Ma in un Paese (davvero) normale, i giocatori di poker non si siedono al tavolo verde con un baro: e non aspettano una sentenza. Da noi, invece, i giustizialisti (quelli veri) non escludono dalla politica gli indegni, prima vogliono la sentenza: se è di assoluzione, attaccano i magistrati; se è di condanna, non ci credono, e attaccano i magistrati...

 

 

Le reazioni della destra di governo ce le aspettavamo: Berlusconi e i suoi devono difendere Andreotti per difendere se stessi; devono far finta di non credere che Giulio possa avere commesso reati perché fa loro comodo che non si creda che essi stessi possano avere commesso reati; colgono l'occasione (anche questa!) per attaccare la magistratura a causa di vecchie storie di ieri perché questo serve a mettere la museruola ai giudici per le inchieste di oggi.

Urlano: la giustizia è impazzita, riformiamola. La sentenza Andreotti è una scusa, naturalmente: dividere le carriere, togliere autonomia al magistrato d'accusa, rendere gerarchici gli uffici del pubblico ministero... Tutto ciò non c'entra nulla con la condanna di Perugia, decisa da una Corte d'assise d'appello, in cui la maggioranza dei componenti (sei su otto) sono non magistrati, ma cittadini estratti a sorte!

Ripetono: chi è stato votato dagli elettori non può essere processato. In pratica, vogliono l'impunità per i potenti. La restaurazione medioevale al diritto dei Principi legibus suluti. Presto tornerà l'immunità parlamentare.

Più difficile comprendere le reazioni di tanti a sinistra. Davvero non credono che Andreotti possa avere usato spregiudicatamente tutti i mezzi del potere, legali e illegali? Forse qualcuno lo crede davvero, per candore, ignoranza dei fatti, ingenuità. Pochi hanno letto la sua sentenza di assoluzione in primo grado a Palermo, che – pur assolvendo – elenca le menzogne di Andreotti e disegna un quadro terribile di compromissioni tra gli andreottiani di Palermo e Cosa nostra.

 

Altri credono che la politica, anzi, la storia italiana non possa essere processata e condannata. Certificare che Andreotti è un omicida e un amico dei mafiosi significa accettare di aver vissuto in un Paese in cui la politica e la storia sono state fatte con l'omicidio e la mafia. Inaccettabile. Incredibile. Non può essere. Dunque si lasci in pace il vecchio padre della patria e le cattive coscienze di tanti politici che hanno guardato ma non hanno visto. Assolviamo. E con il divo Giulio assolviamo tante coscienze, di destra e di sinistra e di centro. Quelli che vengono dalla Dc, anche la Dc delle persone per bene, la Dc dei Castagnetti. Quelli che vengono dal Pci, che per anni hanno chiuso uno o due occhi e dato sponda ad Andreotti, in cambio di una politica estera aperta all'Est e ai Paesi arabi.

Il dibattito dopo la sentenza, il coro quasi unanime dei commenti partono tutti da un presupposto: che Andreotti sia innocente. Da qui nasce lo scandalo. Si esclude che Andreotti possa essere colpevole. Eppure anche le sentenze d'assoluzione ribadiscono che la politica italiana (e gli andreottiani in primo luogo) ha avuto contatti con la mafia. Eppure la ricostruzione dell'omicidio Pecorelli con Andreotti come mandante non è così fuori dalla terribile stioria italiana...

A pochi viene in mente che comunque i meccanismi della giustizia sono – devono essere – diversi dai riti e dagli accordi della politica. L'accusa raccoglie le prove, la difesa le contesta, i giudici condannano o assolvono. Con tre gradi di giudizio, che rendono un po' farraginoso e qualche volta contraddittorio, in Italia, il percorso della giustizia.

Ma il problema è la storia, la nostra storia italiana. Guardiamo i fatti. Stragi terribili e trame oscure, depistaggi e doppi giochi, ricatti e dossier, colpi di stato e logge segrete, fiumi di tangenti, mafie potentissime, i più grandi banchieri privati morti in circostranze drammatiche, i più grandi imprenditori coinvolti in ruberie e affari con la mafia, terroristi rossi lasciati fare, servitori dello Stato lasciati soli, giudici e prefetti e poliziotti e giornalisti uccisi come cani. Esiste un altro Paese dell'Occidente con una storia come la nostra? La politica, da noi, si intreccia con la questione criminale. L'omicidio, da noi, è stato uno strumento politico.

O tutto ciò è parto di menti malate. E allora non esistono piazza Fontana, i depistaggi, la P2, Sindona, Calvi, Tangentopoli, Gardini, Dell'Utri e Berlusconi, le Br, la banda della Magliana, Moro, Dalla Chiesa... Oppure tutto ciò esiste, e deve avere una spiegazione. Qualche agente deviato? Qualche criminale solitario? Difficile spiegare una complessa storia di intrecci tra politica, finanza, criminalità ed eversione con qualche isolato deviante. Agli storici il compito di cogliere il nesso tra visibile e invisibile in questo povero Paese. Ai magistrati si lasci almeno la libertà di scrivere qualche pagina di verità giudiziaria, che non sarà la verità storica, ma non può essere neppure da quella troppo dissimile.

 

E ai cittadini? Ormai non hanno più la libertà di sapere. Le élite politiche, quasi al completo, si sono ormai saldate nel pensiero unico del minimalismo storico (secondo cui in Italia le cose non possono essere andate così male...). Il monopolio dell'informazione è compatto e impedisce di far conoscere le voci fuori dal coro. è stato azzerato il livello del giudizio politico, etico, civile, che nei Paesi davvero normali di solito espelle i mascalzoni, o anche solo chi non se lo merita, prima che si muovano i giudici. I giocatori di poker non si siedono al tavolo verde con un baro. Sanno che non canviene. A meno che al tavolo non siano tutti bari, e qualche pollo.

Ad Andreotti in un Paese civile le persone per bene avrebbero da tempo (prima che arrivassero le indagini giudiziarie!) tolto il saluto. è provato che ha avuto rapporti con uomini della mafia. è provato che avuto un ruolo in tanti scandali italiani (Italcasse in primo luogo: tanto da essere ricattato da Pecorelli). Ciò che si sa di certo sul suo conto (come su quello di Dell'Utri, di Previti, di tanti altri politici italiani) può non essere sufficiente per una condanna penale, ma è più che sufficiente per una condanna civile, moralme, politica.

Invece Andreotti (come Dell'Utri, come Previti, come tanti altri) è ricercato, onorato, rispettato, beatificato. Da noi, i "giustizialisti", quelli veri, prima di intervenire con sanzioni morali e politiche vogliono le sentenze giudiziarie. Poi, se sono d'assoluzione, danno addosso ai giudici. E se sono di condanna non ci credono, e danno addosso ai giudici. Curioso Paese, questo, visto dalla luna...

NON CI POSSO CREDERE. Sentite con le vostre orecchie che cosa dice Piero Fassino (a confronto con un gigante del pensiero Occidentale, Carlo Giovanardi) sulla riforma della giustizia necessaria – non si capisce perché – dopo la sentenza Andreotti (scaricate il file audio, by Radio24).

Prima assolto. Poi condannato. Ma ecco che cosa dicono veramente, al di là dell'ultima parolina (assolto, condannato) le sentenze di Palermo e Perugia su Andreotti, politico al di sotto di ogni sospetto. Le bugie, le tangenti, le collusioni con i mafiosi...
Di Peter Gomez

Provate a immaginarvi con la pagella in mano di vostro figlio. Leggete i voti e scoprite che ha meritato solo 3 e 4, seguiti però dall'annuncio: "Promosso". Ecco, se si paragonassero a una pagella le motivazioni delle sentenze di primo grado che tre anni fa a Palermo e a Perugia assolsero Giulio Andreotti dalle accuse di mafia e omicidio, si potrebbe benissimo partire da qui: dallo stupore, o dal mancato stupore. Mentre oggi tutta la politica grida alla riforma della giustizia e si sdegna per la condanna in appello dell'ex presidente del Consiglio come mandante dell'assassinio del giornalista Mino Pecorelli, nessuno allora battè ciglio leggendo le motivazioni dei giudici di primo grado. Eppure da quelle 5 mila 500 pagine, scritte da magistrati considerati da politici e commentatori "bravi e preparati", emerge un ritratto umano che stride con quello di uno statista irreprensibile.

Già nel 2000 le toghe e i giudici popolari che avevano assolto il sette volte presidente del Consiglio avevano considerato provate molte delle accuse mosse dalle procure di Palermo e Perugia. Andreotti infatti, stando alle assoluzioni che, secondo il futuro presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, gli avevano "restituito l'onore politico", frequentava mafiosi. Nel 1985, ad esempio,
come testimoniato da un commissario di polizia, parlò per dieci minuti a tu per tu con il giovane boss Andrea Mangiaracina (vivandiere di Totò Riina) in una saletta d'albergo loro riservata; tra il '76 e il '77 non ebbe problemi a incontrare a New York il banchiere Michele Sindona (all'epoca latitante), finanziatore occulto della Dc e indicato nei rapporti inviati al ministero degli Esteri dal nostro ambasciatore in Usa come "in stretto contatto con ambienti di natura mafiosa". Nello stesso periodo il leader Dc si vedeva con il capo della P2 Licio Gelli (risulta da una lettera) il quale gli faceva regali e gli dava disposizioni per salvare dalla bancarotta, oltre a Sindona, il numero uno del Banco Ambrosiano Roberto Calvi.

Ma non basta. Per far fronte alle accuse, il senatore a vita ha poi raccontato (com'era suo diritto di imputato)
almeno 32 bugie durante il processo di Palermo e una dozzina in quello di Perugia. A cominciare da quelle sull'amicizia (negata) con i cugini Salvo, i due multimiliardari uomini d'onore di Salemi grandi elettori della sua corrente, per arrivare a una menzogna resa sotto giuramento il 12 novembre 1986 nel corso del primo maxiprocesso alla mafia. Quel giorno Andreotti, ascoltato come testimone, non esitò a definire "passi decisamente fantastici" alcuni brani del diario del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso a Palermo dalla mafia nel 1982. Secondo i giudici il perché di tanta disinvoltura risulta in maniera "inequivocabile" dalla lettura di quel manoscritto. Dalla Chiesa infatti "esternò anche all'imputato (Andreotti) l'intenzione di condurre la propria azione di contrasto alla mafia senza assicurare nessun trattamento di favore alla parte dell'elettorato che faceva riferimento alla corrente andreottiana in Sicilia". E lo mise nero su bianco. Andreotti nega e sostiene che Dalla Chiesa mentiva nel suo diario. Per i giudici che lo hanno assolto, l'episodio del colloquio col generale dimostra invece come Andreotti "non manifestò nessuna significativa reazione volta a prendere le distanze da soggetti collusi con Cosa Nostra".

Del resto proprio Andreotti nel 1977
aveva finanziato l'ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, e la sua corrente con due assegni da 20 milioni l'uno (ritrovati), emessi dall'amico imprenditore Gaetano Caltagirone. Quasi un episodio di Tangentopoli ante litteram che fa il paio con una vicenda analoga, considerata dai giudici di Perugia uno dei possibili moventi dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli. Secondo loro, Andreotti negli anni Settanta aveva fatto arrivare alla Sir di Nino Rovelli finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto non solo dal ministero per gli Interventi straordinari per il Mezzogiorno (da lui diretto), ma anche dall'istituto di credito Italcasse, poi fallito. In cambio aveva ricevuto da Rovelli cospicue tangenti pagate tramite assegni circolari intestati a nomi di fantasia. I titoli di credito erano poi finiti in mano a esponenti della banda della Magliana, a boss mafiosi legati al coimputato di Andreotti Tano Badalamenti, e al patron del Cantagiro Ezio Radaelli. Pecorelli, prima della sua morte, stava per pubblicare sulla sua rivista Op le fotocopie delle matrici degli assegni in un servizio dal titolo Gli assegni del presidente. Non fece in tempo.

L'impresario musicale Radaelli, che aveva ricevuto quegli assegni direttamente dalle mani di Andreotti, per 15 anni non disse niente. Interrogato per la prima volta nel 1980 tenne fuori il leader Dc e in cambio ricevette gratis per due anni un appartamento concesso da Rovelli. Poi, nel '93, il colpo di scena. Radaelli racconta tutto alla Dia (Direzione investigativa antimafia), ma il giorno prima di essere sentito anche dai magistrati
riceve la visita del segretario particolare di Andreotti, Carlo Zaccaria. Il quale tenta di nuovo di farlo tacere, ma viene scoperto. Secondo i giudici di primo grado la storia degli assegni se pubblicata nel '79 avrebbe nuociuto molto al presidente del Consiglio. Anche perché la rivista di Pecorelli non aveva per lui un occhio di riguardo. Proprio Op aveva rivelato come Andreotti disponendo, da ministro della Difesa, "intercettazioni telefoniche e ambientali illegali" nei confronti di avversari della Dc avesse "autorizzato lo spionaggio politico".

Per questo, nel timore che la vicenda degli assegni venisse a galla, Pecorelli era stato invitato a cena da un collaboratore di Rovelli. A quella cena aveva partecipato anche il pm di Roma Claudio Vitalone, legatissimo ad Andreotti. E durante l'incontro, scrivono i giudici, Vitalone tentò di dissuadere Pecorelli dal pubblicare lo scoop. È
in questo quadro (certificato dalla vecchia sentenza di assoluzione) fatto di tangenti, pressioni e depistaggi, che matura l'omicidio del giornalista. In primo grado la corte d'Assise ritenne che le accuse mosse contro il leader Dc dal pentito Tommaso Buscetta fossero senza riscontro. In appello qualcosa cambia, ed esplodono le polemiche.

Tratto dall’Espresso del Dicembre 2002

 

 

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