Calabresi non era nella stanza quando Pinelli volò dalla finestra
Il 17 maggio del 1972, intorno alle 9.15, il
commissario della Polizia Luigi Calabresi - addetto all'Ufficio Politico della
questura di Milano - veniva assassinato con due colpi di revolver esplosigli
alle spalle da un giovane mentre era per aprire la sua vettura Fiat 500,
parcheggiata vicino allo spartitraffico della via Cherubini, all'altezza del
civico n. 6, contrassegnante l'edificio ove egli abitava. (Dalla sentenza delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione, 21 ottobre 1992). Mario Calabresi, che
aveva due anni quando gli uccisero il padre e ricorda soltanto che un giorno se
lo tirò a cavalcioni sulle spalle per mostrargli la sfilata degli Alpini, oggi
dice che "no, non è vero, il terrorismo non cominciò quel giorno in via
Cherubini. Era cominciato tre anni prima, in piazza Fontana...".
Non si può ricordare Luigi
Calabresi senza rammentare la bomba della Banca Nazionale dell'Agricoltura e
non si può pensare a quella strage (12 dicembre 1969, furono 16 i morti e 88 i
feriti) dimenticando Pino Pinelli, "il ferroviere",
"l'anarchico" che tre giorni dopo volò dal balcone del quarto piano
della Questura di Milano. Ancora. Chiunque può convenire che è difficile
raccontare la morte di Luigi Calabresi lasciando in un canto Adriano Sofri,
condannato come mandante di quell'omicidio e orgogliosamente determinato a
fottersi in un carcere, pur di affermare la sua estraneità, e l'estraneità di
Lotta Continua, a quella morte.
Sono trent'anni, e ancora è dubbio che si possa ricordare la vita e la morte di
Luigi Calabresi nella serenità di non provocare nuove vampe d'odio o di
avvelenato fiele. L'assassinio del commissario è ancora oggi un nodo che
stringe i fili di altre storie in richiami e passioni che non hanno trovato una
ragione condivisa per comunicare. In questo nodo che incuba il risentimento
come una muffa si tocca con mano soprattutto il destino che divora gli
innocenti. Era innocente Luigi Calabresi quando lo colpirono alle spalle, il 17
maggio di trent'anni fa. Era innocente Pino Pinelli quando volò dal balcone
della Questura di Milano, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre del 1969. E'
innocente per molti Adriano Sofri, anche lui morto, in fondo, come Calabresi e
Pinelli: "morto", voglio dire, anche se soltanto nel corpo perché una
sentenza inappellabile lo ha fatto prigioniero fino alla decrepitezza tra le
mura del carcere di Pisa. Calabresi. Pinelli. Sofri. Tre esistenze che si
incrociano nel viluppo di una storia italiana che non riesce a trovare la
strada verso una verità accettata e soffoca quasi per vendetta, impotenza o
malafede i protagonisti che con la loro vita (o morte) ne hanno sfidato le
contraddizioni e i silenzi.
Luigi Calabresi non era nel suo ufficio al quarto piano della Questura di
Milano quando Pino Pinelli volò giù di sotto nel cortile. Il mito, nella storia
dell'Italia unita, sa essere anche "elemento artificialmente manipolato
del discorso pubblico" (Ernesto Galli della Loggia). Nel catalogo italiano
dei miti senza fondamento e fatti riscontrabili, un capitolo merita il
coinvolgimento di Luigi Calabresi nella "defenestrazione"
dell'anarchico. Lui, il commissario, andò a prelevarlo al circolo di via
Scaldasole. Calabresi nella "850" blu della polizia, Pinelli a
cavallo del motorino "Benelli", raggiungono la Questura. Erano uomini
del commissario, i Panessa, i Caracurta, i Mainardi, i Mucilli che
interrogarono illegalmente per tre giorni il ferroviere. Quella notte, doveva
essere dunque lui, il commissario, a dirigere le torture, a organizzare il
"suicidio". Era Luigi Calabresi l'assassino. Luigi Calabresi non era
"uno sbirro", se si pensa allo sbirro come a un cagnesco questurino
tentato dal gioco sporco. Trentatré anni quando morì, sposato con due bambini,
romano, figlio di una famiglia medio-borghese, liceo classico al San Leone
Magno, laurea in giurisprudenza con una tesi sulla mafia, molta passione per il
cinema e il teatro, qualche ambizione letteraria, Calabresi teneva a sembrare
diverso dal cliché scuro e storto del poliziotto di quegli anni. Giampaolo Pansa,
che lo conobbe e lo incontrò quaranta giorni prima dell'assassinio, ricorda
"l'aria cordiale e alla mano: legge molto e cerca di capire le idee e gli
uomini della sinistra extraparlamentare" che diventano "il suo
lavoro". Uno degli uomini che incontra è un anarchico sui 40 anni, capo
smistamento allo scalo Garibaldi, Pino Pinelli.
"Calabresi impara a conoscerlo bene - scrive Pansa in
una memorabile cronaca del 18 maggio 1972 - lo vede nei cortei e qualche volta
in questura, dove lo convoca. Il mestiere è mestiere, ma i rapporti sono tali
che, per Natale, Calabresi regala al Pinelli un libro, Mille milioni di uomini,
di Enrico Emanuelli. Il ferroviere sembra orgoglioso di quel regalo, lo mostra
a tutti, racconta da chi proviene e, così si dice, pare che lo ricambi,
mandando a Calabresi una copia del suo libro preferito, quello da cui sarà
tratta la frase poi incisa sulla sua tomba: l'Antologia di Spoon River".Il
12 dicembre 1969, con le bombe alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, una
generazione perse la sua innocenza, è stato scritto. Accadde di più. "Morì
un pezzo significativo della Prima Repubblica: una parte consistente
dell'apparato statale passò consapevolmente nell'illegalità. Si pose come
potere criminale continuando a occupare istituzioni vitali ed essendone
tollerato" (Marco Revelli). Anche Luigi Calabresi non è convinto dalle
apparenze, da quelle tracce che conducevano dalle bombe al mondo della
sinistra. "Gigi - ha scritto la moglie, Gemma Capra - si convinse che la
matrice degli attentati non fosse da ricercarsi esclusivamente nella sinistra
eversiva. Egli prese a dubitare sempre più fortemente finché un giorno, non
molto tempo prima di essere assassinato, mi disse: "Gemma, ricordalo:
menti di destra, manovali di sinistra". Aveva capito che chi tirava i fili
era gente molto più su, gente seduta dietro la scrivania: gli strateghi della
tensione, appunto". (Mio marito, il commissario Calabresi, Edizioni
Paoline, 1990) Nella generazione tradita dallo Stato, nell'anno in cui comincia
quella lunga "notte della Repubblica" che conterà 2712 attentati
terroristici, 351 morti, 768 feriti, migliaia di giovani processati e
condannati negli anni '70 e '80 per partecipazione a banda armata, anche Luigi
Calabresi diventa vittima di quel tradimento. Egli è icona e incarnazione della
violenza dello Stato per chi, nella sinistra, sceglie il modello
politico-ideologico strutturato intorno all'antitesi fascismo/antifascismo e
capro espiatorio e agnello sacrificale di uno Stato che, per allontanare da se
stesso l'accusa di stragismo e di tradimento, scarica su un suo limpido
servitore ogni responsabilità per la morte di Pino Pinelli.
Per due anni, Luigi Calabresi fu un uomo più solo di una
casa sgomberata. I muri della città gli gridavano annunci di morte e
"assassino" e "wanted" e accanto a lui non accorreva
nessuno. "Da due anni sto sotto questa tempesta - raccontò prima di morire
a Giampaolo Pansa - e lei non può immaginare cosa ho passato e cosa sto
passando. Se non fossi cristiano, se non credessi in Dio non so come potrei
resistere...". Si disse e si scrisse che fosse un uomo della Cia. Si disse
che fosse stato il gorilla del generale Edwin A. Walker. Si disse che
frequentava i salotti del Sifar-Sid, che fosse uomo dei generali Aloja e De
Lorenzo. Lotta Continua era in prima fila in questo assalto, ma non fu soltanto
Lotta Continua ad aggredire il commissario. Quarantaquattro redazioni di
riviste politiche e culturali, comprese alcune cattoliche, sottoscrissero
"a nome di 500 mila abbonati" un documento di solidarietà a Lotta
Continua. Vi si leggeva: "Sulla base delle informazioni rese pubbliche dalla
stampa è lecito ritenere che Pinelli non si è suicidato". "Non posso
più fare un passo - confidava Luigi Calabresi -. E' bastato che mi vedessero
uscire dall'obitorio per sostenere che avevo cominciato a trafficare intorno al
cadavere di Feltrinelli con i candelotti di dinamite. Ma che Paese è mai
diventato questo?".
Decise di difendersi, da solo. Avrebbe preferito che lo
facesse lo Stato. Da Roma, dal Viminale arrivavano soltanto pressioni perché
querelasse. Come se quell'accusa dovesse bruciare soltanto nella sua carne e
non nella credibilità dell'istituzione che egli serviva. "Quando Gigi mi
annunciò che avrebbe querelato Lotta Continua la mia reazione fu netta:
"Non lo devi fare"", ricorda la moglie Gemma. "In questura
vogliono che io quereli, mi daranno un buon avvocato", rispose. "Ma
chi è che lo vuole, il questore?", chiese la moglie. "No, proprio il
ministero".
C'è un'immagine di quel processo. Ferma il volto di Luigi Calabresi al palazzo
di giustizia al termine di un'udienza. Il commissario ha gli occhi smarriti,
guarda un punto lontano nel vuoto. Nel corridoio c'è una folla in tumulto che
gli grida "assassino", che gli sputa addosso. Nello sguardo del
commissario c'è la sua solitudine. Intorno fisicamente non ha nessuno. Anche i
due uomini della scorta sembra che si tengano lontano qualche metro da lui.
Gemma Calabresi così ricorda quei giorni: "Non meno di mille giovani della
sinistra extraparlamentare gremivano il palazzo di giustizia portando
appiccicati agli eskimo autoadesivi con le scritte giudici fascisti complici
dell'assassino Calabresi". Il giorno del suo interrogatorio forse fu il
più terribile della breve vita di Luigi Calabresi. Ecco una cronaca, una delle
tante: "Ha una voce bassa ed educata, ma si guarda bene dal girare
l'occhio all'intorno, perché se lo fa e si imbatte nel pubblico, da dietro lo
steccato l'ira scoppia e parte l'ingiuria... Per oggi Calabresi ha finito di
deporre, ma non lo lasciano uscire e resta fermo, con la mascella che gli
vibra, di fronte alla Corte in mezzo a due carabinieri. Molti del pubblico
scandiscono il loro slogan rivolto al commissario che sta in piedi di tre
quarti: "Assassino! Assassino!", gli gridano, chi gli lancia contro
dei giornali, chi qualche monetina, il presidente scampanella furioso, la
seduta è sciolta, un usciere apre frattanto la porta al pubblico, ma Calabresi
lo fanno aspettare. E resta lì, solo in aula, con la sua scorta, finché fuori
cala il silenzio".
Ricorda Enrico Deaglio: "Andavamo in centinaia al
Palazzo di Giustizia. E' vero, la nostra fu una campagna violentissima.
Calabresi ne divenne l'oggetto per fare verità sulla morte di Pinelli. Volevamo
un processo, volevamo provocarlo per cercare le responsabilità di chi
defenestrò l'anarchico. Il processo ci fu. Anche se fu interrotto per legittima
suspicione...".
Luigi Calabresi era come rassegnato. Annotò di nascosto su
un foglio di giornale che lo pedinavano. "3.11.71. Mi pedinano. Due
giovani. Rilevato targa mia vettura". Possedeva una piccola pistola
automatica, una Beretta 6,35, ma la teneva nascosta sotto le camicie, in un
cassetto del comò a casa. Un giorno, Gemma, che non la vede più lì, gli chiede:
"Dov'è finita la pistola?". Gli rispose che l'aveva in ufficio.
"Perché non la tieni indosso come i tuoi colleghi?", gli domandò.
"No, non la porto perché non avranno mai il coraggio di spararmi
guardandomi negli occhi. Se mai decidessero di spararmi lo faranno alle spalle.
E allora, avere una pistola non mi servirebbe a niente". Gli spararono
alle spalle. "Quella mattina, Gigi si era svegliato prima del solito. Si
era messo a leggere alcune pagine di Krusciov ricorda, il libro sul quale, la
sera precedente, s'era addomentato. Era un divoratore di libri e giornali. Alle
8 si alzò per prepararmi il caffè, come al solito. Intanto, s'erano svegliati
anche i bambini e dovetti a mia volta alzarmi per la colazione. Gigi mi aiutò,
come sempre. Era di ottimo umore, scherzò a lungo con Mario giocando con lui.
Poi si vestì. Fece colazione e andò in bagno a pettinarsi. Avere i capelli
sempre a posto, era una sua piccola mania...". Adriano Sofri ha scritto
che "la campagna contro Calabresi è stata un'infamia". Ma, ripete
anche che "è un'infamia ritenerlo il mandante dell'omicidio".
Leonardo Marino ha raccontato che quattro giorni prima dell'assassinio - era il
13 di maggio - incontrò Sofri a Pisa. Lotta Continua era riunita lì per
commemorare la morte dell'anarchico Franco Serantini. Alla fine del comizio di
Sofri - proseguono le sentenze - Marino lo avvicina e, dopo una breve sosta in
un bar, si appartano per un breve colloquio. Nel corso del dialogo, Sofri gli
conferma la decisione dell'attentato. Il racconto di Marino è pieno di buchi e
contraddizioni, ma è stato sufficiente per la condanna di Ovidio Bompressi,
Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri anche se, soltanto a tempo scaduto,
l'avvocato di Marino, Gianfranco Maris, ha confidato che forse Marino potrebbe
aver equivocato le parole o i gesti di Adriano Sofri. In un sol punto le
esistenze di Calabresi, Pinelli e Sofri possono concordare: nel fallimento della
giustizia. Luigi Calabresi chiedeva in Tribunale la difesa della sua
onorabilità. Non la ebbe. Il giudice che doveva pronunciarsi anticipò le sue
convinzioni in privato e il processo si spense nella legittima suspicione.
Licia Pinelli chiedeva a un tribunale come il marito fosse morto. Ne ha
ricavato soltanto una sentenza che spiega il "malore attivo"
dell'anarchico Pinelli. Soluzione degna di una commedia buffa, non di una
sentenza, tantomeno della verità. Adriano Sofri è in carcere a Pisa. Ci resterà
fino al 2019. È, alla fine di questi tragici trent'anni, il solo destino che,
invocando per se stesso ancora giustizia, chiede anche una verità per Luigi
Calabresi.
GIUSEPPE D'AVANZO
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