Estratto dal libro "Il misterioso intermediario" di Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca


Capitolo sedicesimo - Il Signore di Gladio


Markevic, il serpente che cambia continuamente pelle, l'attore che può recitare più ruoli, sembra, dunque, l'arbitro più adatto per dirigere la complessa partita internazionale, aperta dal sequestro del presidente democristiano. Una partita almeno a cinque, per ora: angloamericani, sovietici, israeliani, Vaticano e Brigate rosse. Accanto a lui, si è intravista anche l'ombra di Hubert Howard. Ma in che ruolo ha agito?
Per capirlo, bisogna prima vedere qual è stata la partita. Quali dinamiche, cioè, ha scatenato il caso Moro.
Una ricostruzione del 1985 ne aveva dato una lettura molto verosimile. L'aveva tentata, in uno strano libro, I giorni del diluvio, un autore che era ricorso all'anonimato e a una chiave fantapolitica per mascherare nomi e notizie, apprese da un punto di osservazione evidentemente privilegiato. E, infatti, si seppe poi che a scriverlo era stato Franco Mazzola, sottosegretario alla Difesa durante il caso Moro e, nel 1981, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti. La tesi del libro è che a organizzare il sequestro fosse stato il Kgb, che controllava il cervello politico delle Br. Ai sovietici, la politica morotea di apertura ai comunisti sembrava comportare come conseguenza il definitivo distacco del Pci da Mosca. E, d'altra parte, l'ingresso dei comunisti nel governo italiano pareva anche agli Usa un rischio da evitare. Pur avendo, dunque, intercettato il piano attraverso loro infiltrati nelle Br, i servizi americani lasciarono fare.
Ad avallare ulteriormente questa tesi, interviene a quasi vent'anni di distanza Ferdinando Imposimato, il giudice che per primo indagò sul sequestro Moro e che, come si è visto, era giunto a un passo da Palazzo Caetani. Nonostante gli abbiano ucciso il fratello per intimidirlo, Imposimato ha continuato a ricercare le prove di occulte regie, dell'Ovest e dell'Est nella strategia delle Brigate rosse. Setacciando archivi e lavorando anche sulle carte Mitrokhin, il magistrato ha acquisito notizie che consentono di definire il ruolo di uno strano allievo di Moro all'Università di Roma, Fëdor Sergeij Sokolov, come ha raccontato in un'intervista. Gli assistenti del professore, già subito dopo il rapimento, sospettandolo come basista, lo avevano segnalato al sottosegretario agli Interni, Nicola Lettieri. Sokolov, però, era già volato a Mosca, dove intanto si era recato anche il brigatista Alessio Casimirri, che aveva partecipato all'agguato di via Fani. Il falso studente, che tra l'altro abitava poco lontano da Palazzo Caetani, era in realtà un ufficiale della quinta divisione del Kgb, specializzata in operazioni con omicidi, attentati e sequestri. Oltre ad avere fornito assistenza ai brigatisti, era stato lo stratega di un piano di disinformazione, denominato Shporà (sperone), mirante a dirottare tutte le responsabilità sulla Cia.
Nella loro condiscendenza alla spregiudicata operazione dei servizi nemici, però, gli Usa probabilmente non avevano messo nel conto la possibilità che, sottoposto a interrogatorio, Moro potesse parlare. Per la mentalità americana, infatti, era inconcepibile che un leader della sua statura, più volte ministro e presidente del Consiglio e per di piú tra i fondatori di Gladio, la rete clandestina in funzione anticomunista, si mettesse a rivelare segreti di Stato a dei terroristi che agivano per il Kgb.
E, invece, Moro parlò. E non rivelò solo il malgoverno della Dc, ma anche molti retroscena della strategia della tensione, come il coinvolgimento dei servizi segreti occidentali nella strage di Piazza Fontana e nelle altre trame nere. E soprattutto svelò ai suoi carcerieri i punti nevralgici del sistema difensivo atlantico. I servizi americani, probabilmente, si resero conto ancora di più della gravità del loro errore, quando scoprirono che l'ostaggio aveva attivato un canale di comunicazione tra le Br e l'esterno. Attraverso persone di fiducia, l'onorevole aveva fatto prelevare dal suo studio alcuni dossier riservati. E, cosa ancora più grave, da una delle due supercasseforti del Sismi, quella installata nello studio del ministro della Difesa (l'altra è nascosta a Londra) era scomparso un documento che conteneva le informazioni piú sensibili sulla rete Nato Stay-behind (di cui faceva parte anche Gladio). La convinzione che quelle carte esplosive fossero finite in mani sovietiche mandò in gran fibrillazione le cancellerie occidentali, tanto che i responsabili della sicurezza atlantica si affrettarono a cambiare i piani di difesa. Ma, neutralizzati in qualche modo i rischi sul piano strategico, restava l'incubo delle conseguenze sul piano politico. Se i terroristi o i sovietici avessero deciso di utilizzare le informazioni sulla corruzione del sistema italiano e sulle complicità internazionali nello stragismo neofascista, avrebbero provocato un cataclisma con effetti a catena sull'intero scacchiere europeo.
Un rischio di destabilizzazione che evidentemente neppure a Mosca avevano valutato con la debita attenzione, visto che da quel momento in poi anche in campo sovietico ci si cominciò a chiedere se non fosse stato un errore la sponsorizzazione del sequestro Moro. Qualcuno temeva, infatti, un effetto boomerang: un collasso dell'Italia, ganglio vitale dei patti di Yalta, avrebbe avuto imprevedibili ripercussioni anche ad Est.
La situazione aveva finito per complicarsi perché erano in troppi a cercare una via d'uscita, ma spesso in modo autonomo e confuso. C'era, inoltre, il rischio che dei governi tentassero di comprare dalle Br quei segreti per utilizzarli poi a proprio vantaggio. La paura che la situazione sfuggisse di mano era, inoltre, aggravata dalla minaccia di azioni incontrollabili da parte delle Br.
In quelle condizioni non poteva esserci altra possibilità che cercare una soluzione governata. La natura del problema e le sue implicazioni, però, escludevano che questo tentativo potesse essere compiuto nelle sedi politiche istituzionali, attraverso un pubblico dibattito; e neppure tra gli Stati, attraverso i tradizionali e più appartati canali diplomatici. Nessun paese, infatti, avrebbe potuto ammettere di essere implicato in un così grave reato di terrorismo. E nessun governo avrebbe potuto legittimare la lotta armata, accettando di dialogare con le Br, sulla testa, oltretutto, dell'Italia.
Era, allora, indispensabile trovare un luogo estremamente discreto e protetto, dove agissero trasversalmente solo interessi e logiche sovranazionali. E dove a condurre il gioco fossero persone altrettanto discrete e quasi invisibili, nel senso, cioè, di una loro assoluta insospettabilità in quella funzione.
Da quel momento l'affare Moro entrò in un'altra dimensione, fu come inghiottito in una dolina carsica e seguì un suo percorso sotterraneo, tanto nascosto da essere negato perfino dai brigatisti, che pure avevano dichiarato a grandi lettere: "nessuna trattativa segreta, niente deve essere nascosto al popolo".
Ecco: seguendo appunto questo fiume occulto, si arriverà all'ultimo grande mistero della prigionia e della morte del presidente democristiano e si entrerà in un territorio ancora piú oscuro di quello in cui operano i servizi di informazione. Una dimensione esoterica, blindata, assolutamente inaccessibile ai profani.
E, ripercorrendo la vita di Markevic, si è visto quanto fossero intrisi di esoterismo gli ambienti che ha attraversato e i personaggi che ha frequentato.
Anche nella vicenda del sequestro Moro ci sono alcuni episodi venati di esoterismo che appaiono ora sconcertanti ora grotteschi, ma che forse possono acquistare un senso se riletti in questo nuovo contesto. Uno, in particolare, potrebbe addirittura consentire di individuare il momento in cui il caso Moro sprofondò in quella dolina.
Era il 2 aprile. In pieno allarme internazionale per le rivelazioni del presidente democristiano, in Italia pareva che non si potesse far altro che affidarsi a fluidi paranormali. E così, mentre attorno a Roma un sensitivo, chiamato dal governo, cercava Moro con tecniche da rabdomante, una risposta arrivò dall'Appennino emiliano. Qui, in una casa di villeggiatura, un pacioso gruppo di amici, dopo aver mangiato, insieme alle rispettive famiglie, con la dovizia e la prelibatezza di quelle zone, non sapeva cosa fare: il tempo si era guastato e avevano dovuto rinunciare alla prevista passeggiata. Cosí, tra le chiacchiere delle mogli e il chiasso dei bambini, avevano deciso di fare una seduta spiritica. Avevano messo un piattino da caffè al centro di un grande foglio, ai cui bordi erano state scritte le lettere dell'alfabeto, vi avevano puntato tutti un dito sopra e avevano cominciato a porgli domande sull'onorevole Moro e sulla sua sorte.
La cosa strana è che quegli amici erano quasi tutti serissimi docenti universitari e che fra loro c'erano un futuro presidente del Consiglio, Romano Prodi, e un futuro ministro, Alberto Clò.
Il piattino aveva cominciato a correre con grande decisione da una all'altra delle lettere e aveva composto un nome: G-R-A-D-O-L-I.
Davanti alla Commissione stragi, il professor Clò, l'anfitrione di quell'incontro, sostenne in seguito che quel piatto si muoveva da solo. Un senatore gli fece osservare che l'affermazione contraddiceva ai principî della dinamica, ma l'illuminato economista ribadì la sua convinzione: nessuno dei presenti spingeva quel piattino.
Cinismo a parte, è possibile che in un frangente così tragico dei luminari scherzassero con un piattino attorno alla vita di Moro? E se facevano sul serio, pensavano davvero che gli spiriti (sia pure autorevoli) di Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira, evocati in quella seduta, potessero rivelare il luogo in cui Moro era tenuto prigioniero?
Secondo Leonardo Sciascia, che fu membro della Commissione d'inchiesta sul caso Moro, la spiegazione piú ragionevole è che si sia utilizzato quel fantasioso espediente per inviare un messaggio alle forze dell'ordine su un probabile luogo di detenzione del presidente democristiano, senza essere costretti a rivelarne la fonte (un qualche militante dell'Autonomia bolognese, magari parente di uno di quei professori). Tanto è vero che sedici giorni dopo la seduta spiritica, proprio in via Gradoli, a Roma, venne effettivamente scoperta la base del capo brigatista Mario Moretti. L'interpretazione di Sciascia appare plausibile, ma non del tutto convincente.
Se lo scopo fosse stato veramente quello di fare arrivare un'informazione coprendone la fonte, non sarebbe stato piú semplice ricorrere a una lettera o a una telefonata anonime? Non si sarebbe potuto far correre una voce attivando il passaparola degli amici di amici?
Viene da chiedersi, allora, se sia possibile leggere in qualche altro modo quel messaggio. Lo si potrebbe, per esempio, prendere alla lettera, per quello che è: un messaggio esoterico, appunto, cioè in codice. La seduta spiritica avrebbe segnalato, allora, a chi era in grado di capirlo, che quell'indicazione poteva essere decifrata solo da chi, interno o esterno al gruppo, fosse iniziato a quel particolare linguaggio cifrato. Se il codice fosse stato, per esempio, quello rosacrociano, le lettere indicate dal piattino avrebbero potuto non formare il nome del paesino sul lago di Bolsena, ma essere lette come GRADO-LI (grado 51). Si sarebbe rinviato, cioè, a un livello ancora più occulto del trentatreesimo, il gradino più alto della gerarchia massonica conosciuta. Quale poteva essere questo misterioso Grado LI? Un rarissimo testo pubblicato in Francia intorno al 1870 da Ély Star (pseudonimo di un seguace di Péladan e di Flammarion), Les Mystères de l'horoscope, svela che nel Cercle de la Rose+Croix il Grado LI corrisponde al Maître du Glaive, il Signore del Gladio. E l'autore precisa che non si parla di épée, ma di glaive: non spada, cioè, ma proprio gladio.
E l'ipotesi può acquistare una sua perturbante suggestione se si pensa appunto alla rete segreta Gladio e alla circostanza che al n. 68 di via Gradoli abita il pittore Ivan Mosca della loggia Monte di Sion, gran maestro, con il nome esoterico Hermetico, dell'Ordine dei Cavalieri Massoni eletti Cohen dell'Universo, confraternita in rapporto di fratellanza con i Rosacroce.
Letto così e riferito alla situazione internazionale, quel messaggio poteva essere interpretato in due modi: o come una richiesta di intervento rivolta al fantomatico Signore di quella organizzazione; oppure come l'annuncio che il Grado LI stava per muoversi.
Questa lettura, del resto, potrebbe essere ulteriormente confermata anche da certe frequentazioni di alcuni dei partecipanti a quella seduta. È noto, ad esempio, quanto il professor Prodi sia vicino, per formazione e rapporti, ad ambienti finanziari angloamericani, in particolare alla London School of Economics. Il prestigioso istituto di formazione finanziaria era nato nell'alveo di un'altra organizzazione, la Fabian Society, insieme alla Round Table.
Alla stessa area di influenza, può essere riportato anche un gruppo assai vicino a Prodi, quello del Mulino. L'associazione bolognese di cultura, infatti, nel 1965 era stata tra i fondatori, con il centro studi Nord-Sud e la Fondazione Olivetti, dell'Istituto affari internazionali (Iai), promosso da Altiero Spinelli come filiazione italiana del Royal Institute of International Affaires. L'idea del Riia, come si è visto, era nata a Parigi nel 1919, durante la Conferenza della Pace, quando il colonnello House, plenipotenziario del presidente Wilson, aveva riunito all'Hotel Majestic un gruppo di delegati dei paesi anglofoni, suoi confratelli della Round Table. Tra di loro, con ogni probabilità, oltre a Bernhard Berenson, gran protettore di Markevic, c'era anche Lord Esme Howard, padre di Hubert, il dominus rector di quel palazzo attorno al quale ruotano tutti gli enigmi del caso Moro.
Era Hubert Howard, il Grado-LI, fonte o destinatario del messaggio del piattino? Era lui, il Signore del Gladio indicato con la seduta spiritica? Già Pecorelli, del resto, aveva intravisto ombre di gladiatori attorno a Palazzo Caetani. E forse non è un caso che tra i più intimi amici di Howard, uno dei pochissimi ammessi a pescar trote nel fiume di Ninfa fosse proprio Enrico Mattei, con Taviani e Moro responsabile di Gladio.
Comunque, proprio a ridosso di quell'episodio, Hubert Howard ebbe un contatto con il governo italiano.
Non si sa se sia stato chiamato o se sia stato lui a proporsi, magari per comunicare che da quel momento la cosa era in mano a poteri piú forti e che non erano gradite interferenze. In qualunque modo siano andati i fatti, è molto probabile che sia stato appunto quell'incontro a segnare l'entrata in azione di Howard e delle due istanze che egli rappresentava. Istanze che lo legavano entrambe a Igor´ Markevi(tm) molto più strettamente di quanto non facesse un matrimonio con due cugine. È probabile, infatti, che l'immagine di Howard come principe consorte di Lelia Caetani celasse altri due livelli di operatività.Per comprendere il primo, basta ricordare che Igor lo conobbe in veste di ufficiale del Pwb quando instaurò con i servizi angloamericani la trattativa per "Firenze città aperta".Dopo la guerra, il Pwb apparentemente si sciolse; in realtà si trasformò. La biografia ufficiale di Howard dice che, una volta congedato, lavorò in Germania e poi venne a Roma a vivere con il fratello diplomatico. Ma se, invece, non avesse mai smesso di lavorare per il nuovo Pwb? Se quegli spostamenti fossero stati delle missioni? Se, insomma, il vero compito di Howard a Roma fosse stato quello di tramite fra la Gladio italiana e la rete Stay-behind e insieme l'Authority di quel sistema di protezione?
Questo ruolo si saldava, forse, all'altro livello che si potrebbe ricostruire frugando nelle zone ancora oscure e ignote della biografia di Hubert. Andrebbe meglio indagato, per esempio, il lungo rapporto che lo legò a Kermit, il figlio del presidente americano Theodor Roosevelt. Kermit, che svolse un'intensa attività di intelligence nella Cia, era anche uno dei piú convinti sostenitori della sinarchia, cioè dell'idea di un Governo Mondiale, prefigurato nell'ultimo Ottocento da uomini come Saint-Yves d'Alveydre, Ruskin, Rhodes, Rothschild e cioè da finanzieri, sociologi e massoni. Istanze illuministe e perfino socialiste venivano, cosí, coperte da un linguaggio iniziatico e oscuro che portava a filiazioni aberranti come la satanica Golden Dawn o la Thule che fu il terreno di incubazione del nazismo. Di questo pensiero si trovò una sistematica esposizione in un documento segreto venuto alla luce nel 1935: si intitolava Pacte Synarchique ed enunciava i principî e la strategia per diffondere, in tappe successive, l'Ordine Nuovo in tutto il mondo. La gradualità come elemento decisivo per il compimento di un progetto cosí ambizioso e globale era stata messa a punto dalla Fabian Society, che prese il nome proprio da Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore e puntò molto sulla formazione: The London School of Economics fu una sua creazione e divenne modello per molte università, tra le quali Harvard. La pianificazione dell'unità planetaria prevedeva nelle sue varie tappe il superamento dell'idea stessa di stato nazionale, la ricomposizione in unità di tutte le opposizioni ideologiche, la riconciliazione della Chiesa non solo con le altre religioni, ma anche con la Massoneria, in vista di una sola fede universale, la cui anima era l'esoterismo.
Come emblema di questa Unione Spirituale delle Nazioni, Kermit Roosevelt progettò un tempio a Washington per "i cittadini del mondo allo scopo di sviluppare l'intelligenza universale al posto delle sue limitazioni nazionaliste". Tutta la concezione simbolica del Monumento era ispirata alla magia nera dell'antico Egitto.
Hubert Howard aveva seguito Kermit in molte imprese e, come si è visto, nel 1940 si era anche arruolato in una squadra di volontari sotto il suo comando per combattere i sovietici in Finlandia. La gradualità del progetto sinarchico si avvaleva anche delle tecniche di induzione di stati di coscienza e di persuasione occulta delle masse. E non è un caso che tutta la carriera militare di Hubert si sia compiuta all'interno del Psychological Warfare Branch.
Nel 1978, Howard appariva solo come un gentiluomo di campagna, dedito al riordino e all'amministrazione dell'ingente patrimonio della moglie Lelia (morta l'anno prima), con la quale da molto tempo si era ritirato nel feudo di Sermoneta. Qui i due avevano dedicato tutte le loro cure allo splendido giardino di Ninfa, fatto nascere da Marguerite Chapin tra le rovine di una città morta, che Gregorovius definí "la Pompei del Medioevo". I ruderi, secondo molte voci, ospitavano spesso sedute spiritiche e questo contribuiva ad aumentare la suggestione di quel luogo remoto e protetto. In quest'oasi, Hubert Howard è vissuto appartato, ma niente affatto isolato. Tra i numerosi visitatori del giardino e tra le personalità in vario modo legate all'ambiente filoamericano di Palazzo Caetani, accanto a teste coronate, ad ambasciatori di vari paesi, a presidenti come Sandro Pertini e Giuseppe Saragat, troviamo Giulio Andreotti; il parlamentare socialista Paolo Battino Vittorelli; il repubblicano Francesco Compagna della rivista "Nord-Sud"; Umberto Colombo, dirigente Montedison; Aurelio Peccei, uomo molto legato a Gianni Agnelli; l'avvocato Giuliano Vassalli, legale della famiglia Moro; il segretario generale del ministero degli Esteri Franco Malfatti di Montetretto; il giornalista e parlamentare Luigi Barzini.... Basterebbe raggruppare questi nomi, al di là dell'appartenenza di partito, per capire quali fossero gli ambienti (anzi, l'ambiente) con i quali Howard continuava a intrattenere rapporti. Molti di loro erano dello Iai, altri della Trilateral, delle Conferenze Bilderberg, l'Istituto Atlantico, il Club di Roma (fondato e presieduto dallo stesso Peccei).
Tutte sigle che in vario modo discendono dal mondialismo della Fabian Society, attraverso la Round Table e il Royal Institute of International Affaires e costituiscono in Italia una sorta di Partito trasversale angloamericano.
Ecco, allora: dopo che si era avuta la certezza che le rivelazioni di Moro toccavano punti vitali per la sicurezza del Patto Atlantico, questo schieramento angloamericano si era mosso e aveva attivato il Signore di Gladio. Che si ricordò di un'altra situazione difficile, nella Firenze occupata dai tedeschi, e di un giovane artista che lo aveva aiutato a uscirne, Igor´ Markevi(tm).
Hubert e Igor´, dunque, di nuovo insieme, come 34 anni prima, a trattare ancora una volta sulla sorte di un ostaggio eccellente: durante la guerra, i tesori di Firenze in mano ai nazisti; nella primavera del 1978, Moro in mano ai brigatisti rossi.
I loro percorsi di vita si sovrapponevano in qualche tratto, ma nell'insieme apparivano piuttosto complementari. E questa reciproca integrazione non pretendeva di risolversi in amicizia: bastava che fosse di reciproco interesse. Nonostante la lunga storia comune, infatti, fra i due non si può dire che ci fosse cordialità; solo una formale cortesia come quella che possono manifestare i pretendenti a qualche titolo dinastico. L'ultimo principe di Bassiano e duca di Sermoneta era stato Roffredo e con la sua scomparsa nel 1961 (essendo morto anche suo figlio Camillo) la linea maschile si era estinta. Per i diritti acquisiti con il matrimonio, si poteva dire che gli ultimi Caetani erano loro due, Howard e Markevi(tm). Igor´ e Topazia, però, si erano separati (benché non ancora divorziati) e Howard, comunque, aveva sposato la figlia di un fratello maggiore: era lui, dunque, il dominus. La ruggine che c'era tra loro poteva anche avere ragioni ideologiche. I due ultimi Caetani erano due stranieri: uno dell'Ovest, l'altro dell'Est. Hubert sapeva che dopo la trattativa per Firenze, Igor´ aveva mantenuto rapporti con ambienti americani e inglesi; che era intimo amico di Moshe Feldenkrais, il guaritore di Ben Gurion; che aveva intrecciato in Svizzera le relazioni più cosmopolite; e che aveva eccellenti rapporti con il governo francese, da cui negli anni Sessanta aveva ricevuto la più alta onorificenza, la Legion d'Onore. Ma Hubert conosceva soprattutto i suoi legami viscerali con la Grande Madre Russia, confermati anche dalle dichiarazioni filosovietiche al momento di assumere l'incarico a Santa Cecilia.
Di Igor´, inoltre, Hubert apprezzava l'abilissimo direttore d'orchestra e la sua idea di una prospettiva sonora che armonizzasse in gerarchia le contrastanti sezioni strumentali: una capacità professionale da lui portata a vero virtuosismo, anche perché in quel modo sublimava la sua profonda pulsione a conciliare ogni contrasto.
Soprattutto, però, Hubert sapeva quali fossero i fini del misterioso Priorato di Sion, di cui Jean Cocteau, intimo amico e sodale di Igor´, era stato nautonier. Ordine dalla fisionomia sfuggente e mutevole, durante la guerra era stato contattato anche dai servizi inglesi per organizzare la Resistenza in Francia. De Gaulle se n'era servito per la sua ascesa al potere. E gli americani avevano fatto proprie due idee fondamentali del Priorato: agire nel campo della psicologia di massa e realizzare il grande disegno di una federazione di Stati europei.
Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln, gli storici che hanno studiato questo ordine, ce lo descrivono come immerso da qualche tempo in una "sfera piuttosto tenebrosa", dove politica, Massoneria, Cavalieri di Malta, Cia, Vaticano, alta finanza "si incontrano, si uniscono temporaneamente per uno scopo o per l'altro, poi riprendono la propria strada".
Anche tutti questi fili del Priorato di Sion, negli anni Settanta, finivano con l'intrecciarsi dentro e attorno a Palazzo Caetani, in una ragnatela di discrete relazioni e di contatti insospettabili fra persone e istituzioni. E in più, è probabile, come si è detto, che con questa occulta frateria si identificassero molti altri ordini cavallereschi che, con nomi diversi, si rifacevano alla stessa origine, miravano agli stessi fini e adottavano la stessa mitologia e lo stesso linguaggio simbolico: Ordine di San Giovanni, Compagnia del Santo Sacramento.... Tra queste compagnie iniziatiche c'erano anche i Cavalieri del Santo Sepolcro di Gerusalemme, che annoverava tra i suoi adepti, secondo quanto riporta uno dei consulenti della Commissione stragi, Gianni Cipriani, nel libro I mandanti, molti rampolli delle famiglie aristocratiche romane, quali Sforza-Ruspoli, Boncompagni-Ludovisi e Torlonia, Antonio Fazio, futuro governatore della Banca d'Italia, e il presidente del Consiglio all'epoca del sequestro Moro, Giulio Andreotti, uno degli ospiti eccellenti, ammessi da Hubert Howard a frequentare l'oasi di Ninfa
Stando a quanto scrive nel suo Complotti vecchi e nuovi Maurizio Blondet, editorialista del quotidiano cattolico "Avvenire", Andreotti faceva parte anche di una fondazione culturale chiamata Inter Action Council of World Leaders, insieme al tedesco Helmut Schmidt e al francese Valéry Giscard d'Estaing. Questa associazione, da cui tra l'altro sarebbe nato anche il Club di Roma di Peccei, propugnava "la frantumazione degli Stati nazionali in più piccole entità regionali e autonome". Anche se apparentemente in contrasto, quest'idea finiva con l'allinearsi al progetto globalizzatore della sinarchia. La strategia fabiana, infatti, procedeva per conquiste successive e lo smantellamento della concezione monolitica dello Stato poteva utilizzare anche questa via. L'Inter Action Council si ispirava a uno dei principali teorici del federalismo europeo, lo svizzero Denis de Rougemont, amico di Igor Markevic, che ne condivise sempre le convizioni. Nei suoi scritti, infatti, il Maestro ha espresso più volte il suo sogno di un'Europa unita che non annullasse, ma si arricchisse, invece, delle multiformi particolarità culturali delle piccole patrie regionali.
Nella primavera del 1978, dunque, non poteva che essere convocata lì, a Palazzo Caetani e dintorni, la riunione sinarchica per risolvere i problemi aperti dal sequestro Moro. E anche in quell'occasione, accordo non era connubio stabile, ma solo reciproco interesse. La chiave, ancora una volta, è in un passo di René Guénon, che sembra prendere le distanze dalla politica, ma solo per rifondarla a un altro, piú profondo livello: "L'esoterismo autentico deve porsi al di là delle opposizioni che si affermano nei movimenti esteriori che agitano il mondo profano, e, se tali movimenti sono a volta suscitati o diretti in modo invisibile da potenti organizzazioni iniziatiche, si può dire che queste ultime li governano senza mescolarvisi, cosí da esercitare in egual modo la loro influenza su ciascuna delle parti avverse".
Su questo piano sovranazionale, Hubert Howard e Igor Markevic avrebbero governato l'intricata matassa di interessi e di posizioni che si aggrovigliavano nel caso Moro. In un'ipotetica divisione dei ruoli, è possibile che Igor´ agisse sul campo, per così dire, tornando a fare la spoletta tra le parti, magari anche con il cervello politico delle Br, e Howard tenesse il controllo nella cabina di regia di Palazzo Caetani.
La posta in gioco del negoziato era duplice: da una parte la salvezza del presidente democristiano, dall'altra il recupero dei dossier, dei verbali degli interrogatori, delle bobine con le registrazioni.
Quale strategia abbiano eventualmente concertato Howard e Markevi(tm) lo si può ipotizzare leggendo tra le righe di quello che accadde in quei cinquantacinque giorni.
La situazione italiana era ufficialmente caratterizzata dalla posizione di fermezza assunta dal governo e dai due maggiori partiti, Dc e Pci. Si riteneva che accettare o anche solo discutere una qualunque richiesta delle Br, implicasse il riconoscimento dello status di belligeranti al partito armato.
Paolo VI aveva mostrato di comprendere le ragioni politiche di questa intransigenza del governo italiano e si era impegnato a tentare, in sua vece, ogni possibilità di dialogo: aveva offerto un riscatto ai rapitori, proponendo il campo neutro del Vaticano come luogo della liberazione; aveva chiesto ai cappellani delle carceri di parlare con i brigatisti detenuti; aveva tenuto costanti contatti con i familiari di Moro e con il loro legale, il socialista Giuliano Vassalli.
E in questo gioco, a un certo punto, si era inserito il Psi, allettato forse dal credito politico che avrebbe potuto lucrare dopo la liberazione dell'onorevole.
In realtà, l'intransigenza morale e giuridica dietro la quale il governo si trincerava potrebbe essere solo la copertura di un'impotenza politica.
Se davvero è scattata una strategia sinarchica, la sua attuazione richiedeva piena libertà e l'intero controllo della situazione. Si era impedita, dunque, ogni iniziativa autonoma al governo, circondandolo con cordoni sanitari. Probabilmente era proprio questo lo scopo dei misteriosi comitati di crisi che si riunivano al Viminale durante i cinquantacinque giorni del sequestro. Apparentemente la loro funzione era quella di monitorare la situazione, fornire pareri tecnici ed elaborare piani operativi. Servivano, invece, a mettere sotto tutela lo stesso ministro degli Interni. In quei comitati, del resto, l'unico vero esperto nel settore della sicurezza era l'inviato americano Steve Pieczenik. Gli altri erano senza dubbio illustri personalità, alcuni con ampie relazioni internazionali, ma quasi tutti (almeno ufficialmente) con competenze poco rispondenti alle necessità del momento. Tanto che il loro ruolo potrebbe anche essere stato - come pare a Pellegrino - quello di "sorvegliare e riferire altrove". Dove? Difficile dirlo. Di sicuro molti membri di quei Comitati in un modo o nell'altro portavano a Palazzo Caetani.
Legato a quell'ambiente filoamericano, per citare un esempio, era il professor Vincenzo Cappelletti, direttore dell'Enciclopedia Italiana, la cui sede, tra l'altro, occupa un lato dell'insula di Palazzo Caetani. Di quei comitati faceva parte anche l'esperto di strategie internazionali Stefano Silvestri, direttore dell'Iai, l'istituto che abbiamo visto collegato anche ai professori della seduta spiritica (Silvestri e Prodi, tra l'altro, erano entrambi alla Conferenza Bilderberg di Aquisgrana, nell'aprile del 1980, due anni dopo la morte di Moro.
Attuata questa sorta di commissariamento del governo italiano, si doveva specularmente ripetere un'analoga manovra sul fronte brigatista. Anche qui andava imbrigliata ogni iniziativa autonoma e tacitato ogni contraddittorio.
E in questo contesto, forse oggi è possibile decifrare due oscuri episodi, strettamente legati fra di loro, avvenuti quasi contestualmente il 18 aprile 1978, 16 giorni dopo la seduta spiritica del professor Prodi. La scoperta del covo di via Gradoli, base romana di Moretti, a causa di un provvidenziale allagamento provocato da una doccia lasciata aperta. E la diffusione di un falso comunicato delle Br, in cui si dava l'annuncio che il cadavere di Moro si trovava in fondo al lago della Duchessa, sui monti del Reatino.
A lasciare aperta la doccia, potrebbe essere stato lo stesso Moretti. E usando la logica capovolta, che spiega molti episodi di queste trame occulte, se ne può comprendere anche il perché. Il capo brigatista si era impossessato della gestione del sequestro, esautorando di fatto i suoi compagni. Forse voleva che ai militanti giungesse il messaggio che a Roma non c'era più nessun nascondiglio sicuro, visto che era stata scoperta perfino la base del capo; e che, di conseguenza, bisognava affrettarsi a portare Moro fuori città.
E quale poteva essere, invece, il messaggio nascosto nel falso comunicato, visto che le forze dell'ordine, accorse al lago della Duchessa, lo trovarono coperto da uno spesso strato di ghiaccio formatosi parecchi mesi prima?
C'era un riferimento a un lago, come farebbe pensare il testo del comunicato. Ci si riferiva forse al lago di Bracciano dominato dal castello del principe Odescalchi e di sua moglie, duchessa Amelia Lante della Rovere? Come si è potuto dedurre dalle analisi dei periti sui suoi indumenti, il presidente democristiano sarebbe stato portato proprio sul lago di Bracciano, forse a Trevignano, dove la coppia Di Nola-De Cosa aveva un'abitazione. Il comunicato, allora, sarebbe anche potuto servire a indicare quella direttiva.
Il trasferimento di Moro dalla base romana (forse in via Montalcini, come hanno sempre detto le Br, forse altrove) sul lago di Bracciano, potrebbe coincidere, come aveva lasciato intendere Craxi, con un passaggio di mano dell'ostaggio: dai brigatisti autori del sequestro sarebbe stato consegnato a un altro gruppo di terroristi, anomalo rispetto al primo perché sospettato dal maggiore Giraudo di essere legato piuttosto al Mossad che al Kgb.
Il doppio evento del 18 aprile, dunque, dimostrerebbe che la situazione si era sbloccata e che si era arrivati a un accordo sia sull'ostaggio sia sui documenti. E pareva che anche Cosssiga ne avesse avuto sentore, tant'è che si stava già ponendo il problema di come neutralizzare eventuali dichiarazioni o atteggiamenti compromettenti di Moro, una volta liberato: stava, infatti, elaborando un piano per metterlo in quarantena, chiamato in codice Victor.
Markevic e Howard, i due probabili mediatori, sarebbero poi passati a gestire il rilascio del prigioniero e, contemporaneamente, la consegna dei documenti, sincronizzando le tappe delle due operazioni. Moro, dunque, era stato probabilmente portato a Palo Laziale e da lì al Ghetto, dove sarebbe stato nascosto in un deposito di tessuti: forse in quello di piazza Paganica.
È probabile che, come le singole stazioni, anche gli spostamenti siano avvenuti all'interno di zone protette: da Roma al lago di Bracciano, per esempio, ci sono vaste distese di territorio vaticano, in cui sono installate antenne radiotelevisive. E anche tra il lago e la costa in direzione di Palo, ci sono i latifondi di antichi casati nobiliari legati al Vaticano. Ci si può anche concedere la suggestione di un viaggio su un qualche mezzo fluviale risalendo il Tevere da Focene fino all'Isola Tiberina: luogo simbolicamente diviso tra l'Ospedale Israelitico e il cattolico Fatebenefratelli e, comunque, a due passi da Palazzo Caetani.
La mattina del 9 aprile, con ogni probabilità, l'ostaggio avrebbe dovuto passare di nuovo di mano, ma per l'ultima volta. Moro, infatti, era sereno e aspettava fiducioso la fine di quell'incubo. Nell'ultima lettera parlava della sua prigionia come di una terribile esperienza ormai conclusa; riconosceva che solo alla generosità delle Br doveva "per grazia, la salvezza della vita e la restituzione della libertà"; constatava di essere ormai in "completa incompatibilità con il partito della Dc". E si preparava a riabbracciare i suoi cari, pulito e sbarbato.
Quale doveva essere l'ultima tappa di questa via crucis?
Il piano per la salvezza dell'ostaggio sembra ripetere un modello già sperimentato, che parrebbe nascosto proprio nella storia di due personaggi, che ebbero un ruolo nell'ultima fase di questa vicenda: Giuliano Vassalli e Franco Malfatti di Montetretto, entrambi legati a Bettino Craxi. Vassalli, amico personale di Aldo Moro e avvocato della famiglia, aveva da lungo tempo anche rapporti con il Vaticano. Di Malfatti, a quell'epoca segretario generale del ministero degli Esteri, l'ex ambasciatore Sergio Romano traccia un ritratto molto crudo nel suo libro Memorie di un conservatore. Lo definisce, infatti, "uno dei piú singolari e misteriosi personaggi della diplomazia italiana" e gli attribuisce l'"inclinazione insopprimibile per l'intelligence, la massoneria, le società segrete". Secondo Romano, il segretario della Farnesina coltivava con spregiudicatezza le amicizie piú eterogenee e spesso "inafferrabili": frequentava Gianni Agnelli, per esempio, ma anche il colonnello Renzo Rocca, il reclutatore di gladiatori.
Vassalli e Malfatti erano entrambi nel giro di Howard, ma il loro rapporto con Palazzo Caetani era molto più antico e risaliva al tempo della guerra. Nell'ultimo conflitto, infatti, erano tutti e due in contatto con Raimondo Craveri. E lavoravano con Peter Tompkins, che aveva la sua base segreta proprio in quell'edificio: Malfatti come capo di un piccolo apparato d'intelligence, da lui creato, e Vassalli come capo partigiano, incaricato di organizzare la liberazione dal carcere nazista di prigionieri politici, tra i quali due futuri presidenti della Repubblica, Giuseppe Saragat e Sandro Pertini. Giuliano e Franco sono, infatti, i principali protagonisti di Una spia a Roma di Tompkins.In quel libro di memorie, tra l'altro, è raccontato un episodio del 1943, che può fornire qualche suggestione a questa ricostruzione: "Cervo mi fece salire i gradini che portavano alla terrazza; da qui, per un corridoio tortuoso, mi condusse in una piccola camera da letto ove, spostato un comodino, apparvero i contorni di un pannello segreto largo circa quaranta centimetri e alto atrettanto. Lo aprì e si cacciò dentro carponi... Varcato il pannello mi trovai in una piccola camera da letto dove tutte le porte erano state murate e coperte di carta da parati e l'unica finestra era celata da pesanti tendaggi... Quella stanza così ben nascosta all'ultimo piano di Palazzo Antici-Mattei doveva servire come rifugio temporaneo per i prigionieri liberati dalle carceri tedesche in attesa di poterli instradare verso la salvezza". Vassalli, arrestato anche lui dai nazisti e condannato alla fucilazione, fu salvato solo grazie all'intervento di Pio XII. È significativo che Moro in ben due lettere dalla prigionia, una alla moglie, una a Paolo VI, avesse ricordato due volte quell'episodio, come a suggerire di utilizzare le stesse modalità per la propria salvezza. Anche il padrino di Tompkins era ministro britannico presso Sua Santità, e lo zio di Malfatti era rappresentante presso la Santa Sede dei Cavalieri di Malta. Di lui e delle sue larghe amicizie nella nobiltà romana si serviva il nipote per il piccolo servizio di informazioni, collegato al Partito socialista, da lui costituito dopo l'8 settembre 1943.
Forse, a Palazzo Caetani, c'era una stanza segreta che avrebbe dovuto accogliere anche Moro, ormai "instradato verso la salvezza".
Da lì, sarebbero finalmente venuti a prelevarlo con un'automobile a cortine chiuse e targa diplomatica, magari dei Cavalieri di Malta, e sarebbero corsi a portare a Paolo VI l'"uomo buono e giusto", l'agnello che per questa volta non sarebbe stato sacrificato.
E, invece, Moro fu fatto entrare nel bagagliaio di un'altra vettura: la Renault rossa.
Qualcuno aveva tradito i patti.
Una voce era uscita dal coro.

Per gentile concessione dell'editore Einaudi

 

la recensione pubblicata il 29 gennaio 2003 su "La Repubblica"

 

29 gennaio 2003 - "La Repubblica"
la carriera di igor markevic
la favola del grande vecchio
Come legare un celebre direttore d' orchestra al caso Moro in un' inchiesta tutt' altro che rigorosa
Il banchiere umanista Raffaele Mattioli sarebbe stato introdotto ai culti di oscuri profeti
L' atmosfera è quella che di solito si ritrova nei romanzi moderni che parlano del Graal
Era stato un protetto di Sergej Diaghilev il genialissimo creatore dei Balletti Russi
STEFANO MALATESTA
Tra gli innumerevoli garbugli dell' affare Moro, una vicenda di cui non sapremo mai la verità completa, come su quasi tutti i passaggi decisivi della nostra storia recente, ha sempre spiccato per eccentricità, irriducibile fantasia dei vari coautori, tocco cosmopolita e totale anomalia dei principali protagonisti rispetto allo standard basso-ministeriale di tutto il resto, brigatisti rossi compresi (con l' esclusione dell' uomo politico democristiano) la storia di Igor Markevic, il musicista e direttore d' orchestra di origine russa, additato all' inizio dell' estate 1999 (a babbo morto, come dicono in Toscana, essendo defunto da 16 anni) come probabile "Grande Vecchio" e regista occulto del rapimento nell' ipotesi più spavalda o come anfitrione degli uomini che avevano compiuto il sequestro nell' ipotesi più cauta. Per la verità la vicenda, avallata dalle dichiarazioni di un signore con carica istituzionale, Giovanni Pellegrino, allora presidente della Commissione stragi, che a domanda rispose: "Trattasi di cosa seria", condivisa da Ferdinando Imposimato, un magistrato con l' ossessione dei complotti, dei servizi e delle trame di tutti i generi (un' ossessione non completamente campata in aria, ma portata a estreme conseguenze) durò una o due settimane e poi scomparve nel buco nero dove sono finite tutte le altre ipotesi, alle quali nessuno ha saputo o potuto dare una risposta certa. Ma per quel poco che rimase sulle pagine dei quotidiani e dei settimanali, per i giornalisti e cronisti fu come una festa. Dovendo riparlare ancora una volta dell' affare Moro, con quei brigatisti dalle espressioni un po' così, che non si sapeva mai se c' erano o ci facevano, con quelle autarchiche polemiche su che cosa dovesse fare lo Stato, fingendo che uno Stato ci fosse, cosa augurarsi di meglio di questo eccezionale gagà e dandy, che portava nei resoconti dei velinari montecitoriani gli echi di un mondo affascinante conosciuto solo nei libri. Partito come giovane musicista prodigio, Markevic era stato sessanta e più anni prima l' ultimo amante e protegé di Sergej Diaghilev, l' incommensurabile, genialissimo, crudelissimo creatore dei Balletti Russi, diventando poi un poliglotta di casa a Montecarlo come a Mosca, al Covent Garden come a Santa Cecilia, che andava a cena al "21" a New York con Lenny Bernstein, che si diceva fosse amicissimo di niente di meno che Bernhard Berenson, il saggio (e affarista) dei Tatti, su per Settignano, che aveva sposato in prime nozze la figlia di Nijnskij, il più grande ballerino del secolo e in seconde una Caetani, che a Roma viveva non in una casa ma sempre all' Excelsior e che in tempi lontani aveva convissuto con Cocteau, parlava dei Noailles o di Picasso come di suoi intimi, eccetera, eccetera. Fosse veramente lui il Grande Vecchio, fatto altamente improbabile, perché non è mai esistito quest' uomo dai poteri indicibili, se non nelle fantasie di chi aveva letto troppi libri su Hasan-i Sabat e sulla setta islamica chiamata degli "Assassini" arroccata in secoli lontani ad Alamut, nelle montagne del nord della Persia, in fondo aveva poca importanza. Era la manna che veniva da un mondo internazionale e come tale fu accolta dai giornali, riempiendo le prime pagine... Ricordo anche lo stupore e l' indignazione dei parenti e di quasi tutti i personaggi del mondo musicale, concordi nel definire i sospetti sul Markevic con un termine romanesco, di non grande finezza, ma efficace: "Una bufala". Era tuttavia prevedibile che la storia venisse trasformata in un libro, anche perché il fatto che Markevic fosse morto da molti anni era rassicurante e avrebbe funzionato da rete di sicurezza, stesa sotto gli autori in veste di volteggiatori, nel caso che il triplice salto mortale, con avvitamento a destra, non fosse riuscito. Non era prevedibile, invece, che venisse pubblicato da Einaudi, in una collana come gli Struzzi, che ha in catalogo nomi di amatissimi, famosi scrittori, un libro come Il misterioso intermediario - Igor Markevic e il caso Moro (pagg. 264, euro 14) di Giovanni Fasanella, giornalista di Panorama e Giuseppe Rocca, docente di storia dello spettacolo all' Accademia Nazionale d' Arte Drammatica. In Italia siamo abbastanza abituati a inchieste che dovrebbero essere rigorosissime per la delicatezza dei temi trattati e dove invece gli autori si esercitano al tiro del cappello, sperando d' imbroccare il piolo. Ma qui siamo a un' analisi della realtà, che partendo da alcuni (pochi) dati di fatto, da legittime opinioni personali fatte passare per verità acclarate, si trasforma rapidamente in una visione così deformante, da far pensare a una sorta di slittamento onirico, per arrivare a conclusioni che stanno solo nei sogni. Uno degli aspetti più sconcertanti di questo libro è il suo essere immerso in un' atmosfera che di solito si ritrova nei romanzi moderni che trattano temi medievali, come il Santo Graal e dintorni, per un pubblico di lettori abituato a dosi massicce di esoterismo caricaturale, in cui i personaggi famosi citati - sono un' infinità e la maggior parte è citata a cavolo, per dare l' impressione che nulla sfugge agli autori e che siamo al massimo livello - non agiscono come individui, ma come membri o componenti di gruppi, sette, cabale, massonerie, circoli iniziatici, come cavalieri di tavole rotonde e quadrate, di formazioni paramilitari, associazioni verticali o trasversali. Per fare subito qualche esempio, Raffaele Mattioli, il notissimo banchiere-umanista, presidente della Comit, sarebbe stato introdotto da Toeplizt, il fondatore della stessa banca, ai culti di Sabbatai Zevi e di Jakob Frank, "oscuri profeti di un messianismo crudele, imperniato intorno a figure femminili". Grace Kelly sarebbe stata affiliata all' Ordine Sovrano del Tempio Solare al quale avrebbe regalato somme di denaro incredibili e via demenziando. A parte la veridicità di queste presunte rivelazioni, francamente non sono riuscito a capire cosa c' entrino con il rapimento di Moro. Il misterioso intermediario, con tutte le sue interpretazioni misteriosofiche e cabalistiche, è un libro che sarebbe piaciuto moltissimo a Madame Blavatsky (Elena Petrova), l' ineffabile ciarlatana della fine dell' Ottocento che diceva di aver ricevuto il dono della saggezza da una confraternita di Maestri da qualche parte sull' Himalaya (probabilmente la stessa area di Shangri-Là) o a Georgei Gurdjieff, il guru che era riuscito a incantare la Mansfield e parecchi altri (e infatti l' uomo che insegnava a costruire l' anima viene chiamato in causa come uno dei suoi insegnanti prediletti). Ma all' affare Moro vero e proprio i due autori arrivano solo verso la fine, dopo oltre centocinquanta pagine di biografia markeviciana, in cui viene ricostruita la vita del musicista, un tipo poco simpatico e duro, intellettualmente molto dotato, che con gli anni abbandonerà la composizione per dedicarsi quasi esclusivamente alla direzione. La ricostruzione segue un metodo narrativo che potrebbe chiamarsi "a ognuno il suo" nel senso che ogni personaggio incontrato da Markevic ha diritto almeno a una ventina di righe, cosicché si va avanti con la biografia maggiore che in realtà trascina dietro di sé decine di altre, tutte peraltro ben note. Poi, di colpo, arriva la tesi sul rapimento, nemmeno tanto originale, perché segue molto da vicino un' altra e precedente analisi, scritta da un anonimo che tutti all' epoca avevano individuato senza grandi difficoltà: Franco Mazzola, sottosegretario alla Difesa. Secondo Mazzola ad organizzare il sequestro dell' uomo politico democristiano sarebbe stato il Kgb, che controllava strettamente il vertice politico delle Brigate rosse, per evitare il distacco definitivo del Pci dall' Unione Sovietica. Gli americani sapevano, ma avevano lasciato fare, perché anche a loro tutti questi comunisti in libera uscita davano un certo fastidio. Ma quando Moro aveva cominciato a parlare e soprattutto a raccontare i segreti interni della Nato - gli americani si erano allarmati e avevano messo in piedi alla svelta un' operazione o una soluzione che nel libro viene definita "governata". Ed ecco apparire "out of the blue" Markevic, che in quegli anni viveva a Roma e frequentava palazzo Caetani, in via delle Botteghe Oscure (dove venne ritrovato il corpo di Moro), avendo sposato una cugina della proprietaria del palazzo, descritto come un covo di interessi anglo-americani, in coppia con Hubert Howard, il marito della proprietaria, un signore mitissimo, conosciuto da tutti per la sua passione per il giardinaggio e qui visto come uno spione di prima e definito con un soprannome minaccioso come "Il signore del gladio", con il compito di portare in salvo il leader democristiano, trattando lui direttamente con i brigatisti la liberazione. Quindi il suo ruolo sarebbe stato non più quello apocalittico di grande vecchio, ma di mediatore per conto Usa. Come ho detto all' inizio, credo che non sapremo mai come andarono effettivamente le cose e se i servizi delle massime potenze mondiali, che senza alcun dubbio misero più del naso nell' affare (altrimenti che ci stavano a fare?) abbiano effettivamente eterodiretto i brigatisti, che si sono rivelate non proprio delle aquile. Vorrei solo far notare che se gli americani avevano effettivamente paura delle rivelazioni di Moro, dal loro punto di vista sarebbe stato preferibile un Moro morto che un Moro vivo. Inoltre, come possono confermare tutti i più stretti amici di Markevic, già qualche anno prima del rapimento il musicista soffriva di malattie che non gli permettevano di prendersi cura di se stesso, per usare un eufemismo, figurarsi di organizzare i contatti con le Brigate rosse, di preparare nascondigli per l' uomo politico dentro o nelle vicinanze di palazzo Caetani e altre incombenze del genere. Ma questi errori concettuali e fattuali sono poca cosa rispetto all' esilarante affresco esoterico del libro, di cui vorrei dare un esempio, in particolare del nuovo metodo cabalistico di condurre le indagini di Fasanella e Rocca, servendosi del codice rosacrociano, applicato alla parola "Gradoli", evocata durante una scherzosa seduta spiritica tra professori universitari, tra i quali c' era Romano Prodi, che era anche il nome della via del rifugio delle Br: "Le lettere indicate dal piattino potevano essere lette come Grado-Li, grado 51. Si sarebbe rinviato, così, ad un livello ancora più occulto del trentatreesimo, il gradino più alto della loggia massonica conosciuta. Quale poteva essere questo misterioso Grado-Li? Un rarissimo testo pubblicato in Francia intorno al 1870 da Ely Star, pseudonimo di un seguace di Péladan e di Flammarion, intitolato Les misteres de l' Horoscope, svela che nel Cercle de la Rose Croix il grado LI corrisponde al Maître di Glaive, il Signore del Gladio. E l' autore precisa che non si parlava di épée ma di glaive: non spada, ma proprio "gladio"".

 

 

Vedi la  scheda su gladio

 

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