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INTRODUZIONE AL TERRORISMO 

Per affrontare un discorso sulla repressione del terrorismo è necessario prendere le mosse da una trattazione degli aspetti salienti del fenomeno, al fine di sbozzare gli elementi necessari ad una sua migliore comprensione. L’operazione è di estrema importanza dal punto di vista della politica criminale, in quanto solo attraverso una conoscenza precisa delle caratteristiche del fenomeno terrorista si può procedere ad una repressione che sia, al tempo stesso, efficace e rispettosa dei principi fondamentali dello stato di diritto.

In questa introduzione si percorrerà dunque questa via, da tre punti di vista via via più specifici: dopo un approccio generale al terrorismo (A), si procederà dunque ad un’analisi scientifica del fenomeno (B) per concludere con un confronto fra le due realtà, quella francese e quella italiana (C), che permetteranno di valutare più compiutamente le ragioni dell’opportunità di uno studio comparatistico del diritto transalpino.

 

 

A. Terrorismo e terrorismi.

Questa sezione è consacrata ad un approccio generale al tema del terrorismo, o, per meglio dire delle molteplici forme che il terrorismo ha assunto, specialmente negli ultimi trent’anni. Il discorso sarà articolato in tre paragrafi, che prenderanno in considerazione dapprima la genesi storica e lo sviluppo del fenomeno (1), quindi l’attualità del problema (2) ed infine le forme in cui si manifesta (3).

1. Origini storiche del termine e del fenomeno[1]

Il termine ‘terrorismo’ nasce in Francia all’indomani della Rivoluzione; per la prima volta nel 1794 in un supplemento del dizionario dell’Académie Française il lemma compare come neologismo per indicare une fenomeno e un periodo storico preciso, ossia quello della “Terreur”, il regime instaurato da Robespierre e Saint Just tra il giugno del 1793 e il luglio del 1794. Malgrado l’evidente riferimento alla radice latina “terror”, la parola definisce in origine un’esperienza politica marcatamente francese, che appare quasi come una estrema degenerazione dell’idea stessa della Rivoluzione, dovuta ad un regime di governo eccezionale e transitorio volto alla fisica eliminazione di ogni fattore di opposizione, reale o presunta, all’instaurazione di un nuovo ordine economico, politico e sociale. Il terrorismo è dunque, innanzitutto, il “governo attraverso il terrore” che, ben lungi dal fondarsi su azioni eversive, trova le sue basi e la sua legittimazione nella legge, nei tribunali repubblicani e nella maggioranza parlamentare; una prima e terribile manifestazione del fenomeno si ha con la Loi 17 séptembre 1793, detta “Legge dei sospetti” che permetteva la costituzione di comitati di sorveglianza incaricati di controllare le opinioni dei cittadini e di segnalare tutti coloro che, esprimendo critiche al governo rivoluzionario, ponevano, in modo più o meno mediato, intralci o freni alla causa della Rivoluzione.  Tant’è che i primi ad essere definiti terroristi altro non sono che i “conventionnels”, ossia i componenti della Convention Nationale, inviati in provincia con la precisa missione di reprimere le residue frange monarchiche o federaliste. Un incarico svolto sempre con zelante osservanza delle direttive di Parigi, che causeranno decine di migliaia di vittime “di Stato”, fino alla presa di coscienza da parte degli stessi rivoluzionari della degenerazione del sistema, con la conseguente caduta  di quel regime e dei suoi artefici il 9 termidoro. Per qualche tempo dunque “terrorista” è sinonimo di “repubblicano” e, almeno fino al trionfo della  “terreur blanche” di destra, il terrorista è il giacobino, il sostenitore della sinistra parlamentare.

Un carattere interessante emerge, dunque, immediatamente, ossia il fatto che, contrariamente all’accezione in cui il termine ricorre oggi con più frequenza, nella sua fase genetica il terrorismo si manifesti come espressione dello Stato e non dell’anti-Stato: siamo di fronte dunque ad un terrorismo di Stato e non a quel terrorismo di opposizione che si affermerà poi, nel corso del XIX secolo.  Una faccia di quel Giano bifronte che è il terrorismo destinata a tornare all’ordine del giorno nel XX secolo con il fiorire e l’affermarsi dei regimi totalitari fascisti, nazisti e comunisti.

Ma se il ‘terrorismo’ come termine non nasce che all’indomani della Rivoluzione Francese, ben più risalente è il concetto che significa, tanto da affondare le sue radici nell’antichità.

Se circoscriviamo il significato a quello di terrorismo di Stato, l’Antica Grecia ci offre non pochi esempi di governo attraverso il terrore, sia in relazione ai regimi tirannici[2], sia in relazione al regime spartano, fondato sulla Gran Rhètra di Licurgo, che prevedeva annualmente la dichiarazione di guerra agli iloti[3], oltre che istituzioni quali la kripteia[4] che consolidavano a Sparta una forma di governo in parte difesa con il terrore pubblico. Roma, poi, non ne restò immune a partire da Silla, passando per le numerose rivolte degli schiavi, fino alla diffusione dell’istituto delle liste di proscrizione di cui la dittatura sillana aveva dimostrato l’efficacia.

Al contrario, se estendiamo il concetto anche al “terrorismo di opposizione”, ossia a quel tipo di terrorismo che per le più svariate ragioni[5] lotta contro un ordine costituito, gli esempi si moltiplicano. Nel I secolo d.C. in Giudea si costituisce una società segreta che lotta contro la dominazione romana e in particolare contro l’amministrazione tributaria dell’Impero: sono i sicari che, attraverso omicidi, rapimenti e incendi, colpiscono in forma mediata i romani, attaccando i propri compatrioti ebrei collaborazionisti.  Nel XII secolo in Siria la setta islamica degli Assassini[6] del “Veglio della Montagna” Hassan Ibn Sabbath, come ricorda anche Marco Polo,  pratica il crimine politico in nome dell’ismailismo riformato; la modalità d’azione è quasi sempre la stessa: gli adepti incaricati di assassinare un personaggio politico avverso si infiltravano segretamente nel suo entourage e lo colpivano con un pugnale sovente avvelenato[7].

Un sostegno “teorico” alle azioni di terrorismo d’opposizione si affaccia in epoca moderna, a partire dal XVI secolo, con l’affermazione di dottrine politiche che apologizzano il tirannicidio[8] e che trovarono illustrazione pratica con gli assassini di Enrico III[9] nel 1589 e di Enrico IV[10] nel 1610.

Numerosissime poi le manifestazioni del fenomeno nel corso dell’ottocento. In Italia proliferano le società segrete e si moltiplicano le azioni patriottiche volte all’unificazione e alla liberazione dalla dominazione asburgica. In Russia fra il 1878 e il 1881 opera il movimento nichilista Norodnya Volya, cui si addebitano gli omicidi del governatore generale di S. Pietroburgo, del capo della polizia e dello Zar Alessandro II. Un’ondata di terrorismo travolge la Francia fra il 1892 e il 1894 con numerosi attentati incendiari, esplosioni e omicidi eccellenti, primo fra tutti quello del Presidente della Repubblica Sadi Carnot: la reazione decisa dello Stato è attuata anche con le “leggi scellerate” che danno competenza ai tribunali militari per il giudizio dei crimini politici, in particolare reprimendo l’associazione e la propaganda anarchica. Qualche anno dopo, fra il 1911 e il 1912, è la celebre “banda Bonnot” che si segnala per un considerevole numero di attentati e assassini a scopo di furto o rapina: anche in questo caso la motivazione politica sottostante era di tipo anarchico, malgrado la banda versasse per la causa politica solo il 10% dei proventi delle azioni criminali; i suoi componenti, fra cui Ravachol, Vaillant, Caserio e Emile Henry, furono ben presto arrestati, giudicati e condannati alla pena capitale.

Un discorso del tutto isolato occorre poi fare per il terrorismo contemporaneo, un insieme eterogeneo di fenomeni diversi per origini e finalità, accomunati da un’identica modalità di espressione che vede nella violenza simbolica e indiscriminata, diretta ad intimidire e a terrorizzare l’opinione pubblica un metodo di autoaffermazione.

Le ragioni dell’opportunità di un’analisi separata del terrorismo contemporaneo sono molteplici. Innanzitutto è il contesto storico peculiare del secondo dopoguerra che offre un terreno fertile allo sviluppo di movimenti terroristi di diversa ispirazione: lo sgretolamento degli imperi coloniali, le guerre nel Sud Est asiatico, la creazione dello Stato di Israele, l’opposizione fra il blocco americano e quello sovietico non sono che alcune delle cause della proliferazione di movimenti eversivi in tutto il mondo.

Un secondo fondamentale carattere del terrorismo contemporaneo, che lo differenzia dalle forme tradizionali, è la volontà di colpire – o, per meglio dire, di impressionare – l’opinione pubblica utilizzando la violenza eversiva come un’arma psicologica; è questo un carattere “nuovo” in relazione alla diffusione mediatica dell’evento criminoso, una “spettacolarizzazione” che il soggetto agente ricerca e calcola per amplificare al massimo l’effetto destabilizzante dell’azione, attraverso una più vasta pressione psicologica sulla società.. Come nota acutamente Badie[11] il terrorismo ha, fra gli altri, anche l’obiettivo di “accelerare la sostituzione del governo dell’opinione pubblica a quello del cittadino”: in questo senso la diffusione e la ancor più la libertà dei media sono fattori essenziali.

In terzo luogo il terrorismo contemporaneo è un terrorismo di opposizione che passa per la negazione della democrazia. Il terrorista cerca di affermare o di promuovere i propri interessi, le proprie ambizioni attraverso la violenza, la minaccia e l’intimidazione, anziché servirsi dei mezzi espressivi offerti da un regime democratico. L’atto eversivo dunque si pone fuori dalla legalità con l’obiettivo di minare la struttura democratica dello stato; questo non perché l’azione, per quanto grave, sia realmente idonea a compromettere la democrazia in quanto tale, ma piuttosto perché lo stato reagisce con misure che assai spesso compromettono le istituzioni democratiche, svuotandole di senso: legislazione d’emergenza, concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo a detrimento del potere giudiziario, limitazione dei diritti della difesa, creazione di giurisdizioni speciali non sono che alcune delle misure di reazione adottate dagli stati per rispondere efficacemente al problema. Senza contare che spesso la necessità di reagire contro una minaccia terrorista stravolge la necessaria dialettica politica, creando un consenso acritico all’azione dell’esecutivo e, per converso, portando a bollare come “lassisti” se non come “filoterroristi” gli oppositori della linea dura, addebitando loro, quali capri espiatori, gli eventuali insuccessi dello Stato[12]: il tutto secondo uno schema che diverge sensibilmente dal modello ideale democratico.

Queste poche notazioni sul tema del terrorismo contemporaneo danno, allo stesso tempo, la misura di quale sia la pericolosità insita in questo tipo di crimine; ciò non solo per via dell’allarme sociale che suscita nel momento in cui si esprime, ma ancor più per la finalità di destabilizzazione dello Stato che si prefigge più o meno direttamente. Oltre a ciò, la frequenza e la violenza con cui i movimenti terroristi hanno cercato affermazione in un passato recente e tutt’ora la cercano, ben giustifica il fatto che il termine sia oggi utilizzato in un’accezione totalmente diversa rispetto alla sua originale.

In questa accezione, dunque, e a questo tipo di terrorismo ci riferiremo d’ora in poi, tentando di ricostruirne più specificamente i contorni, per procedere poi, su questa base imprescindibile, ad un’analisi approfondita delle risposte dello Stato in materia di repressione.

 

2. L’attualità del problema

Dagli anni sessanta ad oggi il fenomeno terrorismo ha assunto dimensioni a dir poco preoccupanti in ogni parte del mondo. Per comprendere la portata del fenomeno mi pare opportuno riportare alcuni dati forniti dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti[13], in relazione all’andamento del terrorismo negli ultimi anni, sintetizzati nel seguente grafico:

Tali dati si riferiscono al quinquennio 1994 – 1999 e riportano il numero di attentati  di matrice terrorista verificatisi nei diversi anni (indicati da colori diversi secondo la legenda) nelle differenti aree geografiche del mondo.

Da tale statistica possono trarsi alcune osservazioni. Innanzitutto, il fenomeno in esame non ha un andamento costante nel tempo, ma è soggetto ad escursioni, a “picchi”, che possono in qualche caso essere anche molto marcati, come nel caso dell’anno 1995 nell’Europa Occidentale. Ciò significa che in linea generale la strategia terrorista non si manifesta in modo continuativo, ma è soggetta ad ondate su cui influiscono certamente sia la situazione sociale, politica ed economica, ma anche la reazione degli Stati interessati direttamente dal fenomeno che assai spesso costringono i gruppi terroristi a mantenersi in uno stato di relativa latenza. In proposito si noti il brusco calo di azioni terroriste in Europa dopo il biennio 1995/96. Parimente interessante la curva discendente del Medio Oriente in corrispondenza del processo di pace nel conflitto israelo – palestinese, destinata probabilmente a modificarsi in controtendenza per l’anno 2000 a causa dell’interruzione di detto processo.

Non deve poi trarre in inganno il dato relativo al Nord America, dove si registrano appena quindici attentati in cinque anni: non bisogna infatti scordare che la statistica non tiene conto degli obiettivi statuali dell’azione terrorista, bensì esclusivamente del luogo in cui essa si è verificata.. Può ben darsi dunque che uno Stato sia oggetto di un attentato in un altro Stato, attraverso l’attacco di obiettivi simbolici: l’attentato dell’ottobre 2000 contro il cacciatorpediniere americano Cole, di stanza ad Aden, attribuito agli integralisti di Osama Bin Laden, ad esempio, aveva un univoco significato di attacco agli Stati Uniti, benché verificatosi in territorio yemenita.

Queste poche notazioni ci pongono dunque di fronte ad un fenomeno estrema attualità, che interessa in modo particolarmente cruento l’Europa, la quale ha assistito, nel quinquennio di riferimento, a ben 754 attentati di matrice terrorista. Le ragioni sono molteplici: in primo luogo in Europa operano, ed hanno operato in passato, numerose formazioni, sia inserite nel quadro del terrorismo internazionale, sia, al contrario, specifiche dell’area geografica In secondo luogo, il fatto di essere un crocevia fra Est ed Ovest ha indubbiamente contribuito, in particolare negli anni della Guerra Fredda allo sviluppo di estremismi di opposta tendenza che assai spesso si sono espressi con metodi eversivi. In terzo luogo gli Stati Europei hanno coltivato fino alla seconda guerra mondiale una politica imperialista che, nel momento dello smantellamento delle colonie ha in qualche caso avuto degli strascichi terroristi. In ultimo non si deve sottacere che uno dei fattori, non certo causativi, ma sicuramente agevolativi del terrorismo è rappresentato dalla cultura democratica e garantista dei paesi dell’area (in particolar modo nei confronti dell’estradizione per reati “politici”), oltre che dal processo di unificazione, passato attraverso il riconoscimento della libertà di circolazione nell’Unione.

L’Europa, per queste ragioni, rappresenta un osservatorio privilegiato tanto per le manifestazioni quanto per la repressione del terrorismo, giacché, a cominciare dalla seconda metà del novecento, ha conosciuto pressoché tutte le tipologie di terrorismo, da quello separatista a quello politico-estremista, fino al terrorismo internazionale.

Da ultimo è legittimo porsi la domanda su quale sia oggi lo stato del terrorismo, ossia se si tratti di un fenomeno in espansione oppure viva una fase di quiescenza. Nel seguente grafico si può osservare l’andamento statistico del terrorismo internazionale nell’ultimo ventennio a livello aggregato:

Si può notare immediatamente come la linea di tendenza sia orientata verso una diminuzione del numero degli attentati negli anni più recenti, in particolare rispetto alla metà degli anni ottanta. Tuttavia il fatto che in media nell’ultimo ventennio si siano verificati più di 462 azioni terroriste l’anno, ci porta a riflettere sulla rilevanza del fenomeno che, per quanto numericamente possa apparire poco consistente, porta in sé una potente carica di allarme sociale e talora, specie in alcune aree geografiche come l’Africa, il Sud America e il Sud Est Asiatico, pone in profonda crisi i fondamenti dello Stato, rallentando, attraverso ripetuti focolai di violenza, ogni processo di democratizzazione.

Altro fattore importante da valutare è il fatto che in qualche caso il terrorismo goda di appoggi, di vere e proprie sponsorizzazioni, da parte di alcuni Stati; il che comporta evidenti problemi dal punto di vista della repressione dei responsabili nella misura in cui il caso singolo diventa un affare di diritto internazionale.

Del resto non si deve sottovalutare il fattore tecnologico che ha aperto nuove prospettive anche nel settore in questione, creando addirittura nuove forme di “attentati”. Un esempio clamoroso è quello del cd. terrorismo informatico o cyber-terrorismo, una forma di eversione che negli ultimi anni ha cominciato a svilupparsi con azioni che hanno avuto una certa risonanza mediatica: nel ’97 ad esempio la rete informatica del Pentagono ha subito più di seicento attacchi, nonostante non sia collegata ad alcuna altra rete pubblica, né alla rete di internet. Un nuovo pericolo, dunque che si caratterizza per due considerazioni; la prima è che questo tipo di terrorismo colpisce in modo più duro gli Stati più sviluppati dal punto di vista tecnologico: tanto più uno Stato è tecnologicamente avanzato, tanto più il terrorismo informatico è potenzialmente distruttivo. La seconda notazione è che i “mezzi” richiesti per porre in essere azioni di questo tipo sono alla portata di chiunque a bassi costi. Inoltre i potenziali obiettivi sono numerosissimi, dai sistemi informatici pubblici (non esclusi quelli militari) a quelli privati, come ad esempio le banche: in alcuni casi la linea di demarcazione tra fenomeni di hackerismo e azioni più propriamente eversive può essere estremamente sottile.

In definitiva, dunque ci troviamo di fronte ad un fenomeno che pur essendo numericamente in diminuzione, tende in qualche caso raggiunge livelli di specializzazione o di organizzazione tali da far riflettere sull’idoneità dei mezzi approntati a livello statuale e internazionale per reprimerla in modo efficace. Si completa così l’evoluzione da un terrorismo di tipo tradizionale (fino alla metà del XX secolo) al terrorismo contemporaneo, con una differenza fra i due fenomeni che non è semplicemente di grado, ma di natura. Per dirla con Gayraud[14] “l’amatoriale ha lasciato spazio al professionale”.

 

3. Fenomenologia del terrorismo [15]

In numerose occasioni si è accennato al fatto che il terrorismo sia un fenomeno polimorfo, tanto dal punto di vista degli obiettivi che si prefigge chi si avvale di una tale strategia di lotta, quanto dal punto di vista delle azioni criminose che vengono poste in essere. Una tipizzazione degli uni e delle altre è dunque utile per comprendere in quale direzione si debba muovere l’azione statuale, sia preventiva che repressiva, per adattarsi meglio alle singole specificità. Si procederà, dunque, a tale analisi prendendo in considerazione l’esperienza europea degli ultimi cinquant’anni e distinguendo le forme (a) dalle manifestazioni criminose (b) del terrorismo contemporaneo.

 

a)     Le forme del terrorismo.

Le espressioni del terrorismo nel nostro continente possono essere raggruppate in tre grandi famiglie con caratteristiche omogenee: in primo luogo si analizzerà il terrorismo a vocazione nazionalista e indipendentista, quindi il terrorismo estremista rivoluzionario e in ultimo il terrorismo intenzionale.

·        Terrorismo nazionalista e indipendentista. E’ un terrorismo che si caratterizza per essere piuttosto radicato nella realtà socio culturale in cui si sviluppa. Nella maggior parte dei casi nasce in seno a minoranze etniche che subiscano o abbiano subito una dominazione, una persecuzione o una repressione da parte di uno Stato centrale. Elemento essenziale è il sostegno popolare di cui molto spesso gode, almeno a livello di obiettivi di fondo, che quasi sempre si richiamano all’indipendenza più che all’autonomia del territorio in cui è stanziata la minoranza. Gli esempi sono innumerevoli: in Francia la Bretagna, i Paesi Baschi, la Corsica, oltre che i D.O.M. – T.O.M (soprattutto Nuova Caledonia, Guadalupa e Martinica) hanno visto svilupparsi movimenti terroristi; in Gran Bretagna prosegue l’azione dell’IRA per l’indipendenza dell’Ulster; in Spagna l’ETA continua a rivendicare con sempre maggior violenza la causa indipendentista basca[16].

·        Terrorismo estremista. Questo tipo di terrorismo conosce due varianti una “rossa” e una “nera”. Analogo l’obiettivo ossia distruggere lo stato democratico, ma con diverse prospettive: la costruzione di una società comunista al posto di un sistema definito “autoritario” per la versione di sinistra, la costruzione di uno stato autoritario di ispirazione fascista per la versione di destra. Entrambe le varianti scontano un debole radicamento sociale, e una visione fortemente utopica della società. Per quanto riguarda l’eversione di sinistra si possono ricordare le Brigate Rosse e Prima Linea in Italia, la Rote Armee Fraktion (in particolare il gruppo Baader Meinhof) in Germania, Action Directe e Gauche Prolétarienne in Francia, le Cellules Comunistes Combattentes in Belgio: tutti questi gruppi, attivi fra la fine degli anni sessanta e i primi anni ottanta[17], si inserirono in un clima di tensione internazionale ed interna nel tentativo di sovvertire il quadro politico e sociale attraverso la rivoluzione. Di tutt’altro segno, ma non meno violenta fu l’azione dell’eversione di estrema destra: l’O.A.S. nella Francia gaullista, Ordine Nuovo e Ordine Nero in Italia, numerosi gruppi neonazisti in Germania ne sono le manifestazioni più eclatanti.

·        Terrorismo internazionale. L’idea di un’“Internazionale Terrorista” diretta negli anni passati dal governo sovietico e volta contro le democrazie occidentali appare oggi troppo semplicistica per essere accolta in pieno; di vero c’è che alcuni noti terroristi hanno goduto di potenti appoggi che ne hanno a lungo agevolato la latitanza e gli spostamenti. In realtà il terrorismo cd. internazionale è formato da movimenti che, non trovando riconoscimento né risultati nel proprio territorio, scelgono di colpire le democrazie occidentali sia per ottenere una legittimazione politica a loro all’interno dei propri Stati, sia per contrastare quegli Stati che in vario modo appoggiano le forze a loro antagoniste. Le istanze da cui muovono questi gruppi, concentrati per lo più nella regione del Medio Oriente, sono in realtà piuttosto simili a quelle del terrorismo indipendentista o nazionalista e assumono solo di riflesso una valenza religiosa integralista. A questa categoria appartengono i gruppi estremisti nel conflitto israelo-palestinese, come Abou Nidal, i gruppi filoiraniani responsabili degli attentati del 1986 in Francia, nonché il terrorismo integralista algerino del G.I.A e del F.I.S. responsabili, sempre in Francia di una serie di attentati alla metà degli anni ’90.

 

b)    Le manifestazioni del terrorismo.

Una volta isolate alcune categorie di terroristi è importante analizzare come concretamente agiscano, ossia attraverso quali azioni si manifestino concretamente per perseguire i propri obiettivi. In proposito si impone una distinzione fra infrazioni contro i beni e contro le persone.

·        Infrazioni contro i beni. Fra le modalità espressive dell’azione dei terroristi, le infrazioni contro i beni sono senz’altro le più numerose e prendono assai sovente la forma di incendi o di distruzioni attraverso l’impiego di esplosivo. Nel primo caso ci troviamo di fronte ad attacchi verso beni o luoghi tanto privati quanto pubblici, che, laddove non ne vengano isolati i moventi propri di un’azione terrorista, possono anche confondersi con la criminalità comune: azioni di questo tipo sono assai numerose per esempio in Corsica, dove non sempre è facile distinguere fra la vendetta privata e la lotta indipendentista. L’attentato all’esplosivo contro beni patrimoniali è invece considerato il simbolo per eccellenza del terrorismo, per quanto occorra tenerlo nettamente distinto dai casi di attentato diretto contro la persona o contro un’insieme di persone: anche qui gli obiettivi possono essere pubblici o privati e vengono scelti come simboli di ciò contro cui si lotta. Un ulteriore infrazione contro i beni è poi costituita dagli attacchi ai sistemi informatici, tanto più gravi quando non si limitino al semplice accesso illecito, ma ne alterino i contenuti o il funzionamento.

·        Infrazioni contro le persone. I reati commessi in danno di persone possono raggrupparsi in due grandi famiglie. Innanzitutto i reati contro l’integrità fisica delle persone che assumono connotati assai diversi fra loro, dalle lesioni volontarie[18] agli omicidi delle persone ritenute “colpevoli”[19], fino alle stragi[20].  La seconda famiglia è invece costituita dai reati contro la libertà delle persone, tanto nelle forme del sequestro di persona, quanto nelle forme più elaborate del dirottamento di aeromobili[21]. Tutti i reati contro le persone in generale sono sintomo di un’esasperazione della lotta che passa attraverso maggior spettacolarizzazione delle azioni, con effetti potenzialmente molto destabilizzanti.

 

B. Per un approccio scientifico al terrorismo.

 

Ai fini di un approccio scientifico al fenomeno, è necessaria tutta una serie di puntualizzazioni, volte a precisarne i contorni e ad evidenziare le problematiche di natura sociologica, politica e criminologica relative all’argomento. Questa analisi tocca in particolare due punti specifici: da una parte, il rapporto fra il terrorismo e il concetto di “reato politico”, dall’altra la tripartizione criminologica del fenomeno volta ad individuare le interrelazioni fra il “terrore”, il “terrorista” e il “terrorismo”.

 

 

1. Problemi sociologici e politici.

Mi pare doveroso in questa sede prendere in considerazione tutta una serie di problematiche che, pur non essendo strettamente connesse con la repressione del terrorismo, ne costituiscono in una certa maniera l’antecedente logico. Questo poiché non si può parlare della disciplina penale, né se ne può programmare una efficace, se preliminarmente non si è inquadrato il contesto in cui il fenomeno si inserisce.

I reati che vengono definiti “di terrorismo” sono infatti accomunati da un’opposizione violenta allo Stato e dalla caratterizzazione dell’autore, della sua lotta e della sua ideologia proprio in quella opposizione. Lo Stato è la vittima, mediata o immediata dell’atto di terrorismo che vuol metterne in crisi la definizione classica di “detentore del monopolio della coercizione legittima”. In questo senso il terrore, la paura indistinta e diffusa nel corpo sociale che il terrorista intende generare è funzionale a rendere evanescente la distinzione fra governanti e governati, sottolineando l’impotenza dei primi di fronte alle esigenze dei secondi; tale situazione è a sua volta gravida di conseguenze volute dal terrorista: in primo luogo comporta una diminuzione della fiducia nello Stato che si accompagna su una diminuzione dell’obbedienza civile su cui si fonda; in secondo luogo, come già segnalato in precedenza, comporta una sostituzione del governo dei cittadini con il governo dell’opinione pubblica, manipolando in un certo senso le congiunture politiche[22]. Ciò che conta in fondo non è neppure il risultato di una tale incidenza sulla politica: poco importa se l’“opinione pubblica” si mostrerà solidale con la classe dirigente o se al contrario ne determinerà la sostituzione. Ciò che l’azione eversiva si propone è di mettere in crisi il sistema nel suo complesso ed a propria discrezione.

Da queste considerazioni sociologiche, dunque, appare una finalità eminentemente politica dell’azione terrorista in quanto tale, ravvisabile nell’alterazione degli equilibri politici in atto; naturalmente questa finalità non sarà esclusiva e fine a se stessa, bensì funzionale agli obiettivi politici  specifici dell’autore, di volta in volta l’indipendenza, l’affermazione di una classe sociale, di un regime politico ecc. E’ dunque lecito chiedersi se i reati di terrorismo possano essere considerati reati politici e, in caso di risposta affermativa, come vadano trattati.

La soluzione di tale questione è importante sotto numerosi punti di vista, in quanto la figura del delinquente politico, come risulta dalle legislazioni in vigore in molti paesi, è figlia del romanticismo ottocentesco, in cui non è raro che quelli che dagli uni sono etichettati come terroristi, vengano esaltati dagli altri come patrioti. Questa figura di “delinquente idealista” è traghettata nel nuovo secolo dal Lombroso che individua come caratteri del delinquente “una gran bellezza fisica, un’elevazione morale, un’onestà esagerata”. L’idea dominante è che colui che si macchia di reati politici sia in primo luogo qualcuno da proteggere nei confronti dello Stato contro cui ha agito che vuole perseguirlo e, in secondo luogo, che sia un individuo dalla trascurabile pericolosità sociale. Tracce di questo indirizzo si riscontrano nelle numerose convenzioni internazionali (per lo più bilaterali) sull’estradizione, nonché nel Codice Penale italiano e nella Loi 10 mars 1927 sull’estradizione nell’ordinamento francese, che riproducono il sostanziale divieto di consegnare delinquenti politici ed ammettono limitatissime deroghe, sulla falsariga della cd. “clause Belge”[23]. E’ chiaro che una tale concezione del reato politico e del suo autore sia messa in crisi dallo sviluppo del terrorismo contemporaneo, sia per quanto riguarda i motivi e la gravità delle azioni, sia per quanto riguarda le considerazioni sulla non pericolosità dei soggetti che se ne rendono responsabili. Il fatto che ad essere colpiti siano per lo più Stati “democratici” o “di diritto”, fa cadere anche un’altra tradizionale obiezione all’estradizione di questo tipo di delinquenti, ossia quella di un rischio di trattamento discriminatorio o di persecuzione politica. Riprendendo la tecnica delle eccezioni alla regola della non estradizione, si procede dunque alla definizione di una disciplina specifica per il terrorismo, tanto che, nelle convenzioni internazionali sull’argomento, ed in particolare nella Convenzione Europea per la Repressione del Terrorismo (CERT) del 1977 si enumera in primo luogo, tutta una serie di reati che non possono essere considerati come politici e, immediatamente dopo, un’altra lista di reati che possono non essere considerati come politici. Recita infatti l’art. 1 della convenzione: “Pour les besoins de l'extradition entre Etats contractants, aucune des infractions mentionnées ci-après ne sera considérée comme une infraction politique, comme une infraction connexe à une infraction politique ou comme une infraction inspirée par des mobiles politiques.”

Il significato delle prescrizioni della Convenzione va ricostruito in base all’obiettivo che si prefigge, ossia consentire l’estradizione dei terroristi: è chiaro che questa non si propone di fare de albo nigrum, spoliticizzando, attraverso le ratifiche, i reati di terrorismo nelle legislazioni nazionali. Più propriamente, e più opportunamente, impedisce che, ai fini dell’estradizione, gli stati cui è formulata richiesta di consegna del soggetto eccepiscano la commissione di un reato politico al fine di rigettarla.

Nell’ambito della dottrina francese tuttavia si sono sollevati più volte dubbi sulla natura “politica” dei reati di terrorismo, anche per la mancanza di una definizione precisa di “reato politico” all’interno dell’ordinamento; spesso, tralasciando di considerare i moventi dell’azione per concentrarsi invece sul “fatto” si opta per una definizione oggettiva di reato politico, ossia una definizione che ha riguardo per l’interesse leso dal reato: il fatto è che da questa premessa di principio non si traggono poi le dovute conseguenze. In particolare, una tradizione dottrinale che affonda le sue radici nelle “lois scélérates” (Loi 28 juillet 1894), tende a considerare insussistente il reato politico ogni qualvolta il fatto assuma una certa gravità. Nell’“arrêt Gorguloff” del 1932[24], la Cour de Cassation stabilì un importante principio interpretativo secondo cui l’assassinio, per sua natura e indipendentemente dal movente politico, debba essere considerato come un reato comune. Nel secondo dopoguerra, dottrina e giurisprudenza sia aprono in modo ambiguo al criterio “soggettivo” [25]: quando si tratta di discutere la concessione dell’estradizione a norma dell’art. 5 Loi 10 mars 1927, tale criterio è ampiamente usato senza che si pongano particolari problemi; se invece si procede per un reato all’interno dell’ordinamento francese, il criterio adottato per stabilire se sia esso politico è rigorosamente quello oggettivo[26]. Il risultato è che ancora alla fine degli anni ottanta, molti autori fra cui Bouloc[27], considerano i reati di terrorismo come infrazioni di diritto comune, nei confronti dei quali, tuttavia, si adottano misure legislative “eccezionali”: posizione comprensibile, ma che tende a svilire la categoria del reato politico, come nota Mayer[28], e che, se spinta ad estreme conseguenze, porta, a mio avviso, ad una visione limitata del fatto e ad una determinazione della pena (“personalizzazione della pena” secondo la terminologia del nuovo Codice Penale) che non corrisponde all’effettiva personalità criminale dell’autore. E’ dunque da segnalare con favore la tendenza della Cassation a riavvicinare le due diverse interpretazioni, sfumandole fino a ricostruire un criterio unitario che si avvicina molto al cd. criterio misto.

Diversi i termini della questione nell’ambito del diritto italiano, dove, giusta la definizione di “delitto politico” contenuta nell’art. 8 c.p., è da ritenersi tale il delitto che offenda un interesse politico dello Stato o un diritto politico del cittadino (definizione oggettiva del comma 3), ovvero il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici (definizione soggettiva del comma 4).

In conclusione, ritengo che i reati di terrorismo siano e restino reati politici, in quanto rispondenti alle definizioni che le varie legislazioni nazionali danno di tale categoria di delitti, intesa in senso formale o sostanziale. Ciò non toglie che, in determinati casi, in virtù della loro “gravità”, siano sottratti alla disciplina tipica di questi ultimi ed assoggettati ad un regime proprio. Optare per una diversa soluzione, considerandoli reati di comune criminalità, significa disconoscerne un aspetto essenziale, che ne determina una maggiore pericolosità e una maggiore offensività; cadere nell’eccesso opposto, attraverso una legislazione eccezionale ad hoc, tuttavia, non comporta meno rischi per la tenuta dei principi generali dell’ordinamento che rappresentano pur sempre dei punti di riferimento necessari per uno Stato che si proclama “di diritto”. Come ribadisce anche Richard: “Combattere il terrorismo allo stesso titolo di un qualsiasi reato di diritto comune significa disconoscerne la  reale natura e rischiare di lasciar indebolire a lungo termine l’autorità dello Stato. Combattere il terrorismo nel quadro di una legislazione d’eccezione che esorbita dal diritto comune, significa rischiare, a lungo andare, di indebolire intrinsecamente il livello quantitativo e qualitativo di costruzione del processo democratico”[29]

 

2. La prospettiva criminologica: il terrore, il terrorista, il terrorismo[30].

Nell’ambito di una ricostruzione scientifica del fenomeno, importante premessa per il successivo studio settoriale dello stesso, mi sembra opportuno prendere in considerazione gli aspetti criminologici del terrorismo distinguendo tre livelli di analisi, ossia il crimine, il criminale, la criminalità: in questo caso specifico il “terrore” (a), il “terrorista” (b) e il “terrorismo”(c).

a)     Il terrore.

L’intimidazione e il terrore sono considerati come due elementi essenziali quando si tratta di terrorismo: con essi si intende esercitare una violenza che è certamente psicologica, ma che, come nota Levasseur[31], può avere risvolti anche fisici e fisiologici. La forza dell’ intimidazione e del terrore, che accomuna tutte le manifestazioni del terrorismo, risiede per l’appunto nella sua attitudine a creare delle psicosi, individuali o collettive attraverso l’aggressione a simboli condivisi, in una chiave di rottura nei rapporti fra gruppi e fra individui. Una delle interpretazioni più feconde dell’impiego dello strumento “terrore” nelle relazioni sociali è quella secondo cui questo appare come una patologia della comunicazione, come una forma altamente degradata di linguaggio. Quando la parola non ha più il potere di convincere, di sedurre, e neppure di intrattenere il dialogo, possono subentrare delle forme di comunicazione deteriorate che fanno leva su sentimenti come la paura, il timore, ma anche la pietà, la compassione: il ricorso ad una violenza simbolica che genera terrore all’interno di una collettività è un modo di comunicare sfruttando la sensibilità degli individui che la compongono. Il meccanismo è assai evidente nella cd. “triangolazione del linguaggio” nel caso della presa di ostaggi: alla mancanza di un canale di comunicazione diretta fra sequestratori e lo Stato che si intende far cedere su certe richieste, si sopperisce instaurando un dialogo attraverso un terzo che tenga le relazioni fra gli uni e l’altro, attraverso una negoziazione che può concludersi con un accordo diretto fra le parti e dunque con un ripristino della comunicazione diretta. In questa degradazione comunicativa c’è una tendenza ad esasperare la funzione simbolica del linguaggio: la violenza viene esercitata contro un simbolo visibile dello stato o della politica dello stato. Con il dirottamento di un aereo si simbolizza l’impossessamento di una parte del territorio di uno Stato, con l’attentato contro un Ambasciata, contro militari o forze di polizia, o ancora contro magistrati si attacca il potere dello Stato nel suo cuore pulsante, con l’agguato ad un giornalista si colpisce la comunicazione dello stato, la sua espressione mediatica e così via. Ma non solo gli obiettivi costituiscono simboli: anche i mezzi con cui vengono realizzate le azioni terroriste hanno, almeno a livello inconscio, una forte carica simbolica e si riallacciano agli elementi fondamentali della natura: il fuoco, la “misteriosa” potenza della polvere da sparo, l’acqua[32] e, infine, l’atomo.

b)    Il terrorista.

L’analisi del terrorista, come autore dell’atto di terrorismo, è forse una delle parti più delicate e controverse nella ricostruzione criminologica del fenomeno. In primo luogo perché in genere nella lotta contro il terrorismo si colpiscono sovente più delle “comparse” che dei “protagonisti”[33]; le ragioni sono diverse: talora gli attentatori perdono la vita o preferiscono il suicidio all’arresto, oppure riescono a rifugiarsi nella clandestinità, in qualche caso giovandosi di protezioni più o meno occulte. In secondo luogo perché possono darsi numerose interpretazioni psicologiche al comportamento del terrorista, senza che necessariamente una escluda le altre. In genere si è osservato come l’atto del terrorista sia una forma di reazione appresa e interiorizzata: in un ambiente tendenzialmente chiuso e dominato da una precisa ideologia, alle frustrazioni avvertite all’esterno si reagisce con lo sviluppo di una sottocultura violenta il cui obiettivo è legittimare il passaggio all’azione. In certi tipi di terrorismo, assumono un ruolo molto importante e le frustrazioni subite da una “minoranza etnica” da parte della “maggioranza dominante” che contribuiscono ad accrescere l’aggressività di determinati individui.

Altre interessanti osservazioni possono essere svolte in due sensi. Innanzitutto circa l’importanza dell’elemento femminile e del ruolo che questo esercita nell’ambito terrorista; alcuni autori ritengono addirittura che in Germania le donne costituissero quasi il 50% dei partecipanti a movimenti terroristi. In secondo luogo non è da sottacere l’importanza rivestita dalla vittima (in quanto vittima simbolica) nell’analisi della personalità del terrorista. A tal proposito occorre distinguere fra vittime individuali e collettive. Nel primo caso, il valore simbolico della vittima individuale è particolarmente forte quando si tratta delle cd. vittime “colpevoli”, ossia di quelle vittime considerate “responsabili” dai terroristi attraverso il “giudizio” di un “tribunale popolare” con il quale si pretende di condannare tutto il potere che l’individuo rappresenta. Ma anche in presenza di vittime cd. “innocenti” non viene meno il valore simbolico dell’atto: l’innocenza, la casualità della vittima rappresenta, infatti, un forte strumento di pressione nei confronti delle autorità tenute ad assicurarne la protezione. Per le vittime collettive, il discorso di complica, in quanto generalmente si riscontrano questi tipi di vittime nei casi di terrorismo di Stato: è comunque interessante notare come in questo caso sia frequente l’instaurazione di un ambiguo rapporto fra vittima e autore, che in qualche caso assume i contorni della cd. “Sindrome di Stoccolma”.

c)     Il terrorismo.

La spiegazione del terrorismo come fenomeno criminale va rintracciata nei meccanismi sociali suscettibili di generare patologie della comunicazione, evitando tuttavia le tesi riduttivistiche o monofattoriali: in particolare in società differenziate come quelle occidentali, l’apparizione di nuove “contro-culture” suscita talora fraintendimenti sull’interpretazione dei valori, che si riflettono in modo più o meno marcato sulla produzione delle norme o sull’interpretazione delle stesse, in definitiva sulla “comunicazione”, che può dunque manifestarsi in forma patologica. Non solo, in qualche caso la risposta dello Stato al terrorismo rischia di aggravare tali degenerazioni, attraverso il binomio del maggior rigore e delle minori garanzie, che giovano più ai terroristi che non ai cittadini che si intendono proteggere: i primi infatti ottengono così una sorta di legittimazione della propria rivolta, mentre i secondi tendono a banalizzare le procedure eccezionali, a prestarvi un’acritica quiescenza dovuta alla presunta eccezionalità del momento.

 

C. Le ragioni di uno studio comparatistico.

 

A conclusione di questa introduzione mi pare opportuno spendere qualche parola sullo studio del modello francese di repressione del terrorismo. Due mi paiono in particolare i pregi della nuova disciplina contenuta nel Code Pénal entrato in vigore nel 1994. In primo luogo essa è frutto di un’esperienza in materia acquisita, in modo anche tragico, nell’arco di quarant’anni di storia della Quinta Repubblica che probabilmente non ha pari in Europa: dagli anni sessanta ad oggi, infatti, la Francia si è trovata a fronteggiare tutte le varie forme di terrorismo contemporaneo. In secondo luogo, in sede di codificazione, il legislatore francese ha voluto costruire una disciplina unitaria per i reati di terrorismo non dettata da esigenze contingenti: la normativa attualmente in vigore non è frutto di una legislazione di emergenza e ha fatto tesoro dei dibattiti svolti a livello nazionale e internazionale sull’argomento.

 

1. Francia e Italia, due paesi toccati in modo differente.

Il terrorismo negli ultimi decenni ha interessato pressoché tutti i paesi europei e non solo in modi diversi, come si è accennato poco sopra parlando delle forme e delle manifestazioni del fenomeno. Restringendo l’analisi ai due paesi che più ci interessano, Italia e Francia, si notano tuttavia alcune importanti differenze.

L’Italia è stata teatro, infatti, di numerosi reati legati ad uno specifico tipo di terrorismo, quello estremista di destra e di sinistra; le altre manifestazioni del terrorismo hanno avuto invece un ruolo minore. E’ il caso ad esempio del terrorismo indipendentista che trova espressione quasi esclusivamente in relazione alla questione sud-tirolese e senza mai raggiungere la violenza che questo tipo di terrorismo ha avuto in altri Paesi, come in Spagna (Paesi Baschi) e in Francia (Corsica e Paesi Baschi). Quanto al terrorismo internazionale, poi, il nostro Paese ha rappresentato, negli anni, una comoda base logistica, più che un teatro di battaglia: le ragioni sono molteplici e riguardano sia la posizione geografica dell’Italia, sia la politica estera nazionale, da sempre aperta al dialogo con il Medio Oriente; una situazione che è tuttavia in fase di evoluzione, come testimoniano alcuni recenti fatti di cronaca tra i quali lo sventato attento all’ambasciata statunitense a Roma.

Al contrario, il terrorismo estremista sia “rosso” che “nero” ha costituito per lungo tempo una seria minaccia per lo Stato italiano.

Il terrorismo eversivo di destra fa la sua comparsa nel 1969 quando numerosi gruppi di ispirazione fascista tentano di destabilizzare lo Stato attraverso il moltiplicarsi di attentati che ne mettano in evidenza l’impotenza e l’incapacità di difendere la popolazione: l’obiettivo è di creare una psicosi dell’insicurezza nella popolazione, perché questa si distacchi dallo Stato. Il primo attentato di questa strategia del terrore è quello avvenuto il 12 dicembre 1969 contro la Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, che causa 16 morti e 88 feriti. Nel corso degli anni settanta, gruppi come “Avanguardia Nazionale”, “Ordine nuovo” e “Ordine Nero” sono all’origine di azioni particolarmente sanguinose contro treni e stazioni: l’attentato di Gioia Tauro nel ’70, di Brescia nel ’74, l’esplosione del treno “Italicus” sempre nel ’74, la bomba alla Stazione di Bologna dell’’80 e l’attentato di S. Benedetto Val di Sambro del Natale 1984. Tutte queste azioni puntano ad un obiettivo preciso: fare in modo che nessun mezzo di trasporto sia sicuro, ristabilendo un terrore generalizzato attraverso la paralisi dei trasporti. Alla metà degli anni ottanta questa ondata terrorista di destra si attenua e alcuni dei responsabili vengono catturati e condannati. Ad oggi, il periodo di questo tipo di eversione può considerarsi concluso nelle sue forme più eclatanti: restano, tuttavia, alcuni fatti, anche recenti, che destano preoccupazioni per una possibile riorganizzazione di gruppi di destra non meno pericolosi.

Diverso, anche se cronologicamente contemporaneo, lo sviluppo dell’eversione di sinistra e del gruppo più attivo all’interno di questa, le Brigate Rosse. Nate nel 1970, agli esordi le BR non sono che un aggregato di culture operaie e studentesche unite nel tentativo di organizzare una vera lotta antigerarchica, in opposizione alla linea dei sindacati, incapaci di organizzare una vera lotta di classe: il movimento punta a sopprimere il sistema economico capitalista e la sua logica imperialista. La prima fase di questa lotta contro il sistema non ha risvolti sanguinosi: le azioni terroriste sono dirette contro beni simbolo, oppure al sequestro di personaggi simbolo (quadri, industriali, magistrati) finalizzato alla loro sottomissione ad un “processo”; l’arresto dei personaggi di spicco dell’organizzazione pone fine alla prima fase del movimento e ne apre una nuova con la seconda generazione di brigatisti. L’azione si radicalizza e cambia la strategia: il nuovo obiettivo è la disgregazione dello Stato attraverso un attacco incessante alle istituzioni e un inquadramento delle masse popolari. Le Brigate Rosse compiono in questo periodo una serie di azioni di sangue ai danni di magistrati, poliziotti, giornalisti ed esponenti politici: l’arresto del leader del movimento, Renato Curcio nel 1976 non ferma la strategia delle BR che anzi prosegue sotto la guida di Mario Moretti e trova il suo culmine nel 1978 con il sequestro e l’assassinio del presidente del consiglio Aldo Moro. A questo punto le istituzioni democratiche, sostenute dalla mobilizzazione generale di sindacati, partiti e della stessa società civile, reagiscono in modo deciso: fallisce innanzitutto la sensibilizzazione delle masse da parte dei brigatisti, che anzi si trovano isolati ed assistono alla defezione di quanti avevano all’inizio manifestato simpatie per la vocazione rivoluzionaria e anticapitalista del movimento. L’arresto di Moretti nell’’81 e Senzani nell’’82 decapitano il movimento che cessa di giocare un ruolo di primo piano nella politica italiana. Un problema irrisolto resta quello dell’eredità delle BR: negli ultimi quindici anni alcune sporadiche manifestazioni terroriste si sono in qualche modo richiamate a quell’esperienza, in particolare riguardo all’omicidio D’Antona, riproponendone sigle ed idee.

Diversi contenuti e diverse manifestazioni ha avuto, invece, il terrorismo in Francia.

In comune con l’esperienza italiana c’è senz’altro il terrorismo estremista, su cui tuttavia occorrono alcune precisazioni. In primo luogo, si può notare uno scarso radicamento del terrorismo eversivo di destra: dopo la pace di Evian del 1962 che pone fine alla Guerra d’Algeria, cessa l’attività della principale formazione terrorista di destra, l’O.A.S. (Organisation Armée Sécrète), organizzazione paramilitare contraria all’indipendenza algerina diretta dai generali Salan e Jouhaud e da Soustelle. Da allora l’eversione di destra non ha  più creato un movimenti clandestini con precisi obiettivi politici; si sono registrati, negli scorsi anni, alcuni attentati da parte di gruppi razzisti ai danni di organizzazioni di sinistra, immigrati o ebrei, ma si tratta di fatti che esulano dalla sfera del terrorismo in quanto sporadici e non integrati in alcuna strategia politica di fondo. Ben diverso lo spessore dell’eversione di sinistra, che si manifesta con il movimento Action Directe in ritardo rispetto agli omologhi italiani (BR) e tedeschi (R.F.A.). Nata nel ‘68 come da una rottura nell’ambito dell’estrema sinistra, Action Directe accede alla lotta armata solo nel 1979. dal 1981 si assiste ad una “professionalizzazione” all’interno del movimento che si orienta verso una lotta internazionale contro l’imperialismo prima e contro il sionismo poi, fino a raggiungere posizioni antisemite. Legata a movimenti come Prima Linea e alle Cellules Comunistes Combattentes del Belgio, l’organizzazione compie numerosi attentati all’esplosivo nell’Ile de France, assassinii politici e rapine di autofinanziamento, le “espropriazioni proletarie”: i dirigenti del movimento vengono arrestati nel 1987 e condannati all’ergastolo. Questo arresto pone fine al terrorismo di estrema sinistra in Francia: decapitata Action Directe, l’esiguo numero di attentati, in continuo decremento è stato per lo più rivendicato da gruppuscoli sconosciuti.

Ciò che però differenzia l’esperienza francese in materia di terrorismo rispetto a quella italiana è la presenza e l’importanza delle altre manifestazioni del fenomeno, a cominciare dal terrorismo nazionalista e indipendentista.

I movimenti indipendentisti in Francia sono numerosi e in qualche caso affondano le loro origini nel XIX secolo: il loro sviluppo contemporaneo si verifica però, in particolare, a partire dagli anni ’60 e talora fonde idee antiche e rivendicazioni moderne. E’ il caso del separatismo bretone che si manifesta nel dopoguerra con la crisi della produzione agricola tradizionale e che assume toni anticapitalisti molto marcati; dagli anni ’70 il movimento assume connotazioni culturali, rivendicando l’autonomia della regione, la salvaguardia della cultura bretone e il bilinguismo. Accanto a queste rivendicazioni pacifiche esistono tuttavia delle espressioni di lotta violenta smantellate, in un primo momento, nel 1969 e risorte dalle loro ceneri due anni più tardi per lottare contro lo Stato Francese e contro gli “agenti dell’imperialismo in Bretagna”. Alcuni dei numerosissimi attentati all’esplosivo ebbero una grande risonanza, come quello al Castello di Versailles: decapitato una seconda volta nel 1979 con l’arresto e la condanna di 60 dei suoi membri, il movimento risorge timidamente nel 1983 a seguito dell’amnistia loro concessa da Mitterand, ma il pronto arresto dei responsabili ne segna la definitiva sconfitta nel 1984. Simili sviluppi ha avuto anche il separatismo basco che comincia la propria attività nel ’79 e punta alla riunificazione di un Paese Basco (francese e spagnolo) indipendente e socialista. Dal 1980 una frangia del movimento, Iparretarrak, assume carattere terrorista; la reazione dello Stato è decisa e coordinata con quella spagnola: i numerosi arresti hanno comportato una sensibile diminuzione degli attentati, anche se il movimento non viene completamente smantellato.

Un discorso a parte merita poi il caso della Corsica: ancora alla metà degli anni ’90, il 50% degli attentati registrati ogni anno in Francia era commesso nell’isola. Qui la lotta indipendentista e antifrancese è condotta dal ’75 dal F.N.L.C. che, malgrado i numerosi arresti, ha continuato nel tempo la sua attività, benché con una progressiva rinuncia alla violenza fino al 1990 quando con una nuova ondata di attentati emergono due nuovi gruppi clandestini: “Resistenza” e “A Droga Basta”. Questa ripresa della lotta armata è spiegabile in parte anche con le divergenze sorte all’interno del F.N.L.C., che hanno portato ad uno scontro di fazioni opposte ed ad un progressivo avvicinamento dei gruppi indipendentisti alla criminalità mafiosa. Gli ultimi anni sono stati caratterizzati però anche da una riapertura del dialogo fra lo Stato e i movimenti autonomisti dell’isola, che hanno raggiunto un importante risultato nel giugno 2000, con la predisposizione di riforme volte a concedere una sorta di statuto speciale per la Corsica, sull’esempio italiano della Sardegna.

Un’ulteriore manifestazione del terrorismo indipendentista ha poi investito i rapporti fra la Francia Metropolitana e le colonie, i D.O.M – T.O.M. (Départements d’Outre Mer e Territoires d’Outre Mer) dagli anni ’80 in poi. In particolare, si segnalano il caso della Nuova Caledonia nel 1984, in cui frequenti furono gli attentati del movimento F.L.N.K.S. che puntava ad una redistribuzione delle terre e all’indipendenza dell’arcipelago e della Guadeloupe in cui si registrano di frequente episodi di violenza causati da movimenti indipendentisti vicini al mondo sindacale.

Da ultimo la Francia è stata interessata a più riprese dal terrorismo internazionale in relazione a tre conflitti che hanno interessato e ancora interessano il medio Oriente.

Una prima ondata si ha negli anni fra il ’74 e l’’82 ed è frutto dell’ “esportazione” del conflitto arabo israeliano in Europa: due sono gli obiettivi principali, la Francia e l’Austria. La Francia è, infatti, da tempo, implicata direttamente negli affari mediorientali, attraverso l’impegno profuso in Libano; in questa fase diventa teatro di attacchi violenti da parte del gruppo Abou Nidal e del terrorista Carlos, che hanno come obiettivo la comunità ebraica: nel ’74 una granata è lanciata contro il drugstore Publicis-Saint-Germain, nell’’82 esplode una bomba sul treno Parigi-Tolosa, e, a meno di un mese di distanza, un’altra bomba causa un morto e sessanta feriti in rue Mabeuf, a Parigi, davanti alla sede del giornale “El Watan al Arabi”, attentato per il quale viene condannato Carlos, arrestato a Khartoum nel 1994. Dall’’88 il rifiuto della lotta armata da parte dell’O.L.P. ha fatto nascere alcuni gruppi estremisti come Hamas e Djihad che proseguono la lotta armata: lotta che peraltro ha notevolmente smorzato i propri toni all’indomani della pace siglata da Rabin e Arafat il 13 settembre 1993, malgrado la crisi in atto dal settembre 2000 rischi di accendere nuove ondate di violenza anche fuori dal territorio palestinese.

L’importante ruolo giocato dalla Francia nel medio oriente, sia nel conflitto arabo israeliano, sia nel sostegno al regime di Bagdad durante il conflitto con l’Iran, sia infine la politica di sostegno al regime maronita durante la crisi del Libano, spiega le cause dell’ondata terrorista che ha investito il paese nel 1986, attraverso sanguinosi attacchi ai simboli stessi della Francia, nel cuore della capitale: gli attentati consumati all’Hotel de Ville, sugli Champs Elysées, nel grandi magazzini di Tati in rue de Rennes, di Gibert Jeune, della FNAC, al T.G.V. e quelli fortunatamente sventati alla Tour Eiffel e alla stazione del R.E.R. di Opera-Aubert fanno parte di una strategia terrorista controllata dall’Iran attraverso le organizzazioni Fouad Ali Saleh e Hezbollah. Quella dell’’86 è stata certamente l’ondata terrorista più violenta che abbia mai colpito la Francia e malgrado non sia riuscita nell’intento di sgretolare le istituzioni francesi ha messo in evidenza la debolezza del sistema legislativo interno in materia di terrorismo, contribuendo alla sua riformulazione e alla creazione di una specifica legislazione antiterrorista.

Infine, la terza manifestazione del terrorismo internazionale in Francia si sviluppa fra il ’93 e il ’96 e riflette all’estero la crisi interna algerina fra lo stato e le organizzazioni militanti islamiche del F.I.S e del G.I.A., in un crescendo di violenze: dapprima numerosi omicidi di algerini immigrati in Francia, poi, a seguito di una vasta operazione di polizia che cerca di smantellare questi gruppi sul territorio francese, il G.I.A. dapprima sequestra i passeggeri di un Airbus dell’Air France ad Algeri (1994) poi conduce una lotta sempre più serrata contro lo stato francese a partire dal 1995, con una campagna la cui intensità è paragonabile a quella del 1986. Le cause di tanta violenza si ritrovano nel sostegno non solo politico che il governo di Parigi continua ad offrire all’Algeria: nel giro di qualche anno tuttavia lo Stato riesce a sedare queste espressioni di violenza, sulle basi della legislazione messa a punto nell’’86 opportunamente messa a punto nel corso del 1996.

Quanto detto fino ad ora sull’esperienza francese in materia di terrorismo giustifica dunque un’analisi del sistema repressivo che è stato predisposto in risposta alle specifiche esigenze della lotta di un fenomeno tanto “proteiforme”.

 

2. Legislazione d’emergenza come dato di fatto.

Se si analizza la legislazione repressiva che molti Stati hanno posto in essere contro il terrorismo si nota innanzitutto come questa sia relativamente recente e spesso dovuta ad una reazione “a caldo” rispetto alle manifestazioni più violente del fenomeno. E’ chiaro che già da tempo esistessero in tutte le legislazioni delle norme atte a proteggere il bene giuridico “stato” da un certo numero e da un certo tipo di aggressioni: basta scorrere il Codice Rocco per rendersi conto di quali siano le principali preoccupazioni del legislatore del ’30 in materia di repressione di attentati alla personalità internazionale ed interna dello Stato. A partire dagli anni settanta tuttavia ci si rende conto che il sistema di repressione tradizionale è insufficiente di fronte alla recrudescenza del terrorismo, in forme e dimensioni mai viste prima: occorre legiferare rapidamente, introducendo nuove norme incriminatrici o nuove regole di procedura che forniscano tutti gli elementi di cui gli organi incaricati della repressione sono sforniti. L’esempio più emblematico sia ha, per quanto riguarda la legislazione italiana, con l’art. 289 bis C.P. “Sequestro di persona a scopo di terrorismo o eversione” introdotto con DL. n°59 del 21 marzo 1978, a cinque giorni dal sequestro di Aldo Moro.

I risultati spesso sono discutibili, anche laddove raggiungano l’obiettivo: una legislazione d’emergenza, talora “emozionale”, rischia di concedere troppo alle esigenze contingenti, senza preoccuparsi di un corretto inquadramento nei principi del sistema. Il che, del resto, è parte del disegno stesso dei terroristi i quali, in tal modo, mettono in crisi le istituzioni, minandone indirettamente i principi e sfruttando il ruolo di “vittime” della reazione dello Stato, secondo in meccanismi cui si accennava supra parlando del terrorismo in prospettiva criminologica (B, 2, lettera c)).

Prendendo le mosse da questa constatazione, si vedrà, in seguito, come la legislazione francese non solo sia stata, in più occasioni, sottoposta al controllo del Conseil Constitutionnel per vagliarne la rispondenza ai principi fondamentali della Costituzione della quinta repubblica, ma, nella formulazione del Codice Penale del 1994, appaia come una normazione “a mente fredda”, non dettata da dalla necessità di reagire ad un’ondata terrorista significativa. Il titolo dedicato al terrorismo, anzi, si propone di sistematizzare il quadro della legislazione così come risultava formulato dopo la riforma del 1986, questa sì, voluta in risposta all’offensiva del terrorismo mediorientale di ispirazione filoiraniana contro lo Stato francese. Una delle ragioni dell’interesse per la normativa antiterrorista francese si ritrova dunque in questo elemento, che la differenzia dalla maggior parte delle legislazioni vigenti in Europa[34]: le modifiche del 1996, pur venute in un clima di emergenza, non sono, infatti, tali da compromettere il quadro disegnato nel codice, costituendone al contrario un logico completamento.

 

 



[1] Per questo paragrafo cfr. in particolare Gayraud « Définir le terrorisme: est-ce possible, est-ce souhaitable? » in Revue de criminologie et police technique n.41 del 1988, pag. 185 – 201 e Renard  « Les infraction de terrorisme contemporain au régard du droit pénal » Tesi, Università di Parigi I, 1996.

[2] Sarebbe un errore ritenere che sussista una coincidenza fra la tirannide e un regime fondato sul terrore di Stato, anche perché l’esperienza di ogni polis fa storia a sé. Certo è che si hanno numerosi esempi di regime tirannico improntato su una durissima repressione delle opposizioni, in particolare fra i tiranni di “seconda generazione”, ossia fra coloro che non ottengono la tirannia conquistandola con l’appoggio del popolo, ma la ricevono per successione. Con il fenomeno della successione al tiranno, infatti, difetta una legittimazione “popolare” in capo al successore, che necessita di affermare il proprio potere con la forza, laddove il prestigio non soccorre. E’ questo, per citare un esempio, il caso del tiranno Periandro di Corinto, succeduto al padre Cypselo, che per garantire il proprio regime incoraggia lo spionaggio e la delazione in città, giungendo a vietare di stazionare sull’agorà o di riunirsi, pena l’incorrere in un sospetto di cospirazione. Altro esempio classico è quello del regime dei Trenta Tiranni ad Atene alla fine della Guerra del Peloponneso, ma ben altri se ne potrebbero riportare anche considerando che il termine “tyrannos” prima dell’affermazione dei regimi tirannici, non aveva la connotazione negativa che acquisirà in seguito.

[3] Annualmente gli efori dichiaravano la guerra degli omoioi, ossia dei cittadini spartani di pieni diritti, contro gli iloti, gli schiavi pubblici di Sparta che potevano essere liberamente uccisi in combattimento.

[4] La Kripteia era la polizia segreta composta dai migliori soldati spartani con funzioni diversificate che andavano dal controllo della vita privata e della moralità dei cittadini, alle ispezioni dirette a reprimere la detenzione, illegale a Sparta, di oro e argento oppure le attività artigianali da parte degli omoioi, alla vigilanza notturna con licenza di assassinare gli iloti che non avessero rispettato il coprifuoco.

[5] Per una tipizzazione dei vari fenomeni di terrorismo d’opposizione contemporaneo si veda infra, Cap. I A.3

[6] Il nome della setta deriva probabilmente dal fatto che secondo la tradizione, compissero le loro azioni sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, principalmente hascisc: in arabo, infatti, haššāšî significa “bevitore di hascisc”. Meno credibile la tesi che rimanda l’etimologia del nome ad Hassan, loro capo militare e religioso.

[7] L’azione individuale era destinata a concludersi con il sacrificio dell’adepto, che costituiva, nell’ottica mistico religiosa della setta, garanzia di ascesa al Paradiso per quest’ultimo.

[8] In realtà, già nel Medioevo, Giovanni da Salisbury (1115 ca. – 1180) giustificava ed esigeva il tirannicidio nei confronti dei governanti empi, corrotti o usurpatori, partendo da riflessioni bibliche e religiose. In epoca rinascimentale Lorenzino de’ Medici (1514 – 1548) nel suo scritto sull’Apologia lo considera estremo e doveroso atto d’amore verso la libertà. Con le guerre di religione numerosi pensatori, definiti in seguito “monarcomachi”, ne tenteranno una giustificazione teorica, introducendo nei loro scritti alcuni concetti quali la sovranità popolare e il contratto sociale: fra i protestanti si ricordano Teodoro di Beza, Francesco Hotman, Eusebio Filadelfo Cosmopolita, Giovanni Althusius; fra i cattolici Giovanni de Mariana e Francisco Suarez, gesuiti spagnoli, nonché il cardinale Roberto Bellarmino.

[9] Enrico III di Valois, re di Francia e di  Polonia, ucciso dal Clément, un fanatico domenicano dopo aver assediato Parigi, occupata dai cattolici nel quadro delle guerre di religione in Francia.

[10] Enrico IV di Borbone, re di Francia, autore dell’editto di Nantes sulla libertà di coscienza degli ugonotti (1598). Fu ucciso dal Ravaillac, un fanatico cattolico.

[11] Badie Bertrand, Terrorisme et Etat, in Etudes  Polémologiques 1989 Institut français de Polémologie, Paris pagg. 7-19.

[12] Badie, op. cit.

[13] I dati riportati possono essere consultati via internet sul sito http://www.state.gov/www/global/terrorism/ del U.S. Departement of State.

[14] Gayraud  « Définir le terrorisme: est-ce possible, est-ce souhaitable? » in Revue de criminologie et police technique n.41 del 1988, pag. 185 – 201

[15]  Per questo paragrafo in particolare Renard « Les infraction de terrorisme contemporain au régard du droit pénal » Tesi, Università di Parigi I, 1996, e Gozzi  « Le terrorisme:essai d’une étude juridique » Tesi, Toulouse, 1997

[16] A questi esempi, citati per la loro maggiore rilevanza, potrebbero aggiungersene altri di minor entità come il terrorismo sud-molucchese contro i Paesi Bassi o gli attentati indipendentisti nel Sud Tirolo.

[17] In alcuni Paesi in realtà il terrorismo di estrema sinistra è tornato a farsi sentire ancora di recente: in Italia è il caso dell’omicidio D’Antona rivendicato dalle Brigate Rosse

[18] Si pensi ai tanti “gambizzati” dalle Brigate Rosse.

[19] Colpevoli ovviamente dal punto di vista degli obiettivi dei terroristi: si pensi ad esempio alla “condanna a morte” di Aldo Moro, e, più in generale, a tutti gli omicidi cd. “eccellenti” di capi di stato e di governo.

[20] Piazza Fontana e l’attentato al treno Italicus in Italia, l’attentato in Avenue des Champs Elysées nel 1986 e alla stazione di St. Michel nel ’95 in Francia, gli attentati dell’IRA nei pubs londinesi.

[21] In particolare nota Renard che il dirottamento di un aereo può assumere differenti significati:

L’aereo come mezzo di ricatto: è il caso più frequente in cui l’aereo dirottato e la vita dei passeggeri sono merce di scambio fra lo Stato e i terroristi che chiedono di volta in volta la liberazione di compagni imprigionati o il pagamento di un riscatto (es. il dirottamento del Boeing della Lufthansa da parte della RAF nel ’77 o dell’Airbus di Air France nel ’95)

L’aereo come mezzo di affermazione: il dirottamento è sfruttato per far conoscere al mondo la causa dei terroristi; nasce così ad esempio il terrorismo internazionale, quando nel 1968 un commando palestinese dirotta un aereo della El Al.

L’aereo come mezzo di trasporto: aspetto complementare ai due precedenti, l’aereo viene sovente dirottato verso aeroporti di paesi “amici” dove i dirottatori non debbano rischiare l’arresto una volta rilasciati gli ostaggi.

 

 

 

[22] Questo particolare effetto si nota soprattutto in corrispondenza delle scadenze elettorali, o dell’insediamento di un nuovo governo (es. Parigi 1986).

[23] La clausola belga, trae il suo nome da questo articolo inserito dal parlamento belga con la Loi 22 mars 1856 nella regolamentazione del’estradizione :« Ne sera pas réputé délit politique, ni fait connexe à semblable délit, l’attentat contre la personne du chef d’un gouvernement étranger ou contre les membres de sa famille, lorsque cet attenta constitue le fait soit de meurtre, soit d’assassinat, soit d’empoisonnement ». La Loi 22 mars 1856 è approvata all’indomani di un caso diplomatico che aveva visto il Belgio negare alla Francia l’estradizione di due anarchici che, nel 1855, avevano programmato un attentato ad un treno che trasportava Napoleone III.

[24] Crim.20 août 1932, D.P. 1932.I.121

[25] Cfr. sul punto Mantovani “Diritto penale - Parte Generale” terza edizione, CEDAM, Padova, 1996, pag.926

[26] Sui criteri interpretativi della Cassation e sulla loro evoluzione cfr. Lemouland “Les critères jurisprudentiels de l’infraction politique” in Revue de science criminelle et de droit pénal comparé 1988, pagg. 16-32.

[27] Cfr. Bernard Bouloc, « Le terrorisme », in Problèmes actuels de science criminelle II, 1989.

[28] Cfr. Danièle Mayer, « L’infraction politique », in Revue internationale de criminologie et police technique,  1984, pagg. 480-496.

[29] « Combattre le terrorisme au même titre que n’importe quel crime de droit commun, c’est méconnaître la nature réelle du terrorisme et risquer de laisser affaiblir à terme l’autorité de l’Etat. Combattre le terrorisme dans le cadre d’une loi d’exception, exorbitant du droit commun, c’est risquer à terme d’affaiblir intrinsèquement le niveau quantitatif et qualitatif de mise en œuvre du processus démocratique » Philippe Richard, « Droit de l’extradition et terrorisme. Risques d’une pratique incertaine : du droit vers le non droit ? » in  Annuaire Français de Droit International 1988, pag. 652.

[30] Per questo paragrafo ci si riferisce in particolare ad una serie di articoli di Ottenhof apparsi in Revue de Science Criminelle et Droit Pénal Comparé del 1988 sotto il titolo “Lignes directrices pour une approche criminologique du terrorisme” (pagg. 371-374; 594-596; 848-850)

[31] Levasseur, « Les aspects répressifs du terrorisme international », Pedone, 1978, pag. 63

[32] Il riferimento è in particolare ai terroristi molucchesi che minacciavano le dighe olandesi.

[33] In un’articolo dal titolo “Quelques caractéristiques socio-biographiques des terroristes et de leurs auxiliaires” apparsa in « Revue internationale de criminologie et police technique » del 1982 (pag. 271), Blath e Hobe notavano che in Germania, su un campione di 206 persone condannate per reati di terrorismo, solamente un quarto aveva materialmente commesso attentati: per il resto si trattava di simpatizzanti o complici le cui condotte non raggiungevano lo stadio dell’azione violenta.

[34] Anche il Regno Unito ha recentemente rivisitato tutta la disciplina del terrorismo con il Terrorism Act 2000.

 

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