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NUOVA DISCIPLINA IN MERITO ALL’ “IMPUTATO-TESTIMONE”

 

La questione relativa all’ammissibilità e ai limiti della testimonianza dell’imputato in processo connesso o per reato collegato si gioca sull’interpretazione dell’articolo 197 bis, introdotto dalla nuova normativa (L. 63/2001); la disposizione infatti prende in esame due casi specifici nei commi 1 e 2:

·         Comma 1: l’imputato in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12 o di un reato collegato la cui prova (di esistenza o di circostanza) influisca sulla prova (di esistenza o della circostanza) del reato per cui si procede (art.371 comma 2 lettera b)). Può essere sempre sentito quando nei suoi confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’art 444 cpp.

·         Comma 2: l’imputato in procedimento connesso ex articolo 12 comma 1 lettera c) o di reato collegato ex art 371 comma 2 lettera b), può essere sentito come testimone “inoltre” nel caso in cui, malgrado non sia ancora intervenuta sentenza definitiva, siano comunque adempiute le formalità di cui all’articolo 64 comma 3 lettera c).

Il significato di tali disposizioni non è molto intuitivo e si fatica a trovare fra le righe la ratio a cui sono ispirate. Apparentemente il dettato normativo sembra suggerire che una volta intervenuta sentenza definitiva, l’imputato può ricoprire l’ufficio di testimone in ogni caso nel procedimento connesso o collegato da necessità probatorie, laddove, in mancanza di sentenza definitiva, tale testimonianza può essere assunta solo se siano state rispettate le formalità dell’articolo 64 comma 3 lettera c) e comunque in un novero di casi più limitato - solo lettera c) dell’articolo 12.1 -. 

In realtà, una lettura delle disposizioni in esame coordinata con altri articoli modificati dalla legge 63/01 rende la questione assai più problematica.

La prima disposizione da prendere in esame è l’articolo 64 cpp che prevede al comma 3-bis l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese contro terzi nel corso dell’interrogatorio laddove ci sia inosservanza dell’avvertimento previsto dal comma 3 lettera c). 

L’importanza dell’avvertimento in questione è sottolineata dalla sedes materiae in cui la disposizione è collocata, ossia l’articolo 64 che fissa le “Regole generali per l’interrogatorio”: qui si misura buona parte della portata innovativa della legge che se da una parte ha voluto disegnare un sistema in cui sia più estesa la possibilità di sentire testimoni anziché persone che possono volontariamente sottrarsi all’esame, dall’altra ha altresì voluto fissare un sistema di garanzie per riequilibrare la posizione di detti soggetti. 

Il coimputato può dunque essere chiamato come testimone, ma solo a patto che sappia, fin dall’inizio che le dichiarazioni rese in interrogatorio sono utilizzabili contro di lui, che ha la facoltà di non rispondere e che se rende dichiarazioni a carico di altri assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone, salve le incompatibilità dell’articolo 197 e le garanzie dell’articolo 197-bis (assistenza da parte di difensore; non obbligo di deporre su fatti in relazione ai quali aveva negato la propria responsabilità o non aveva reso dichiarazioni; inutilizzabilità delle dichiarazioni contro chi le ha rese nel procedimento a quo). In definitiva colui che rende dichiarazioni a carico di terzi deve sapere immediatamente che verrà chiamato a testimoniare sui fatti che riferisce, che, ciò che ne discende, dovrà prestare giuramento e che si esporrà, in caso di testimonianza falsa o reticente, alle conseguenze penali del caso.

A colui che intende rendere dichiarazioni si richiede dunque una sorta di “consenso informato” a divenire poi testimone nella fase dibattimentale, al punto che, se l’informativa difetta, dispone il comma 3 bis: “la persona interrogata non potrà assumere, in ordine ai fatti, l’ufficio di testimone”. 

Il meccanismo opera in modo evidente, anche in virtù del richiamo, in relazione all’ipotesi prevista dall’articolo 197 bis comma 2, al punto che consente al “coimputato” (nei limiti dei casi previsti) di rendere testimonianza malgrado non sia ancora intervenuta sentenza definitiva nei suoi confronti; il problema è stabilire se tale preventivo avvertimento abbia un ruolo anche in relazione all’altra ipotesi in cui la posizione del dichiarante sia ormai “inattaccabile” essendo intervenuta sentenza definitiva.

In questo senso non si capisce se la norma del primo comma abbia un valore “transitorio” (benché implicito) ed immediatamente efficace, oppure abbia un valore “assoluto” ma solo una volta andata a regime: non è chiaro insomma se la possibilità di sentire “sempre come testimone” il soggetto ormai giudicato vada a regolare solo quella fase in cui (come nel caso di specie) l’avvertimento non è stato formulato perché non previsto dalla previgente legge, disponendo una indiscriminata possibilità di testimonianza, oppure se abbia un senso solo una volta che la normativa sia entrata a regime e quindi ciascun soggetto sia stato avvisato a norma dell’art 64 comma 3 lettera c).

Nella prima ipotesi il legislatore avrebbe preso di mira solo un numero finito di casi pendenti: infatti, dato che, nel caso in cui si sia ancora in fase di indagini preliminari, il PM ha l’onere di risentire chi ha reso dichiarazioni sulla responsabilità dei terzi perché tali dichiarazioni non siano inutiliter datae sul punto specifico, la norma in esame sarebbe applicabile solo in quei casi in cui, malgrado la mancanza di avvisi, il coimputato fosse già stato giudicato con sentenza irrevocabile e intendesse rendere dichiarazioni nel processo a carico di terzi. 

Il che, se pare per la verità assai aderente alla lettera dell’articolo 197 bis, è assai discutibile sotto una pluralità di profili. Innanzitutto, dal punto di vista dell’imputato-dichiarante si profila un “aggravamento” della propria posizione che in ipotesi può violare il principio del “favor rei”. Si pensi ad esempio all’imputato che rende dichiarazioni nel proprio processo in modo da alleggerire la propria posizione a discapito di quella altrui: nel previgente sistema anche dopo la sentenza irrevocabile, egli non poteva essere sentito come testimone in relazione ai coimputati e, di conseguenza, non sottostava alla relativa disciplina in caso di testimonianza falsa o reticente. 

Con la nuova norma, se questa fosse l’interpretazione, egli sarebbe di fatto costretto a testimoniare (nei limiti dell’articolo 197 bis), ma senza aver avuto la possibilità, ora concessa a chi rende dichiarazioni sui terzi, di conoscere precisamente a quali conseguenze poteva esporsi; in definitiva l’attuale testimone non è stato messo in condizione di valutare i pro e i contro delle dichiarazioni a carico di altri e, in questo senso, si può assumere violato il suo diritto di difesa

Del resto, ritenere possibile una tale interpretazione, significa altresì introdurre una disparità di trattamento fra fattispecie del tutto analoghe (imputato-testimone nella fase delle i.p. e imputato testimone nel dibattimento) palesemente lesiva del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.

A tali eccezioni non potrebbe neppure controreplicarsi con il principio, più volte richiamato anche dalla Corte Costituzionale della “non dispersione della prova”, atteso che nel sistema previgente alcuna prova poteva legittimamente formarsi in relazione a una testimonianza resa da chi la legge espressamente qualificava come incompatibile.

La seconda ipotesi interpretativa consentirebbe una lettura più conforme al dettato costituzionale, benché stridente con la lettera dell’art.197bis. 

Ritenere, infatti, che la norma si applichi solo quando la disciplina sia andata a regime (e quindi quando tutti abbiano ricevuto l’avviso di cui all’articolo 64 cpp) rende incomprensibile l’utilizzo del termine “inoltre” da parte del legislatore quando dispone, nei casi del comma 2, la possibilità di ricoprire l’ufficio di testimone anche in mancanza di sentenza definitiva.

A quanto detto va aggiunta una notazione riguardante l’articolo 210 cpp che disciplina (ormai) la posizione di coloro che, imputati in un procedimento connesso a norma dell’articolo 12 comma 1 lettera a) (=concorrenti nel reato e assimilati) non possono ricoprire l’ufficio di testimone, nonché i coimputati ex art 12 lettera c) o gli imputati di reato collegato ai sensi del 371 comma 2 lettera b) i quali tuttavia non abbiano reso in precedenza dichiarazioni concernenti la responsabilità dell’imputato; dispone l’articolo in questione che detti soggetti possono avvalersi della facoltà di non rispondere e solo nel caso in cui non se ne avvalgano (e comunque previo l’avvertimento dell’art. 64 cpp lettera c)) divengono a tutti gli effetti “testimoni”. 

Tale norma si coordina del resto con un principio affermato già nell’articolo 197 bis, secondo cui, anche nei casi in cui il dichiarante può “sempre” essere sentito come testimone, egli non può comunque essere obbligato a deporre sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio la sentenza di condanna se nel procedimento de quo aveva negato la propria responsabilità o si era rifiutato di rispondere. Sembra ragionevole ritenere che detto rifiuto, non ostando a tale interpretazione il dettato normativo, si estenda a tutti i fatti su cui è stata pronunciata sentenza, non solo quelli che investano la responsabilità del detto dichiarante, ma, in ipotesi, anche quelli che investono la responsabilità di terzi.

Ciò che appare evidente dalla lettura delle norme riformulate, è che il legislatore abbia (con una certa confusione) istituito la figura dell’imputato-testimone come un ibrido fra le previgenti discipline della testimonianza e dell’esame dei coimputati, eliminando l’incompatibilità prevista dal precedente articolo 197, ma ammettendo la possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere su determinati punti. Si delinea così chiaramente la possibilità che un soggetto sia obbligato a rivestire l’ufficio di testimone, ma non debba poi necessariamente rispondere in dibattimento su determinati punti e ciò, naturalmente, senza che debba, per ciò, sopportare conseguenze penali.

Un caso di non perfetta collimazione fra l’ufficio di testimone e i relativi obblighi può forse riscontrarsi anche in relazione alla norma di cui all’articolo 197bis comma 1, in relazione alla disposizione dell’articolo 64 cpp comma 3 e 3 bis. A norma del comma 3 lettera c) dell’articolo 64 infatti “(l’interrogato) se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà in ordine a tali fatti, l’ufficio del testimone”; il comma 3 bis si premura di aggiungere: “In mancanza dell’avvertimento di cui al comma 3, lettera c), le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata su fatti che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti e la persona interrogata non potrà assumere, in ordine a detti fatti, l’ufficio di testimone.

E’ pur vero, dunque che il soggetto già giudicato con sentenza irrevocabile, può sempre essere sentito come testimone, ma la norma in questione non specifica su cosa può rendere testimonianza e su cosa no; in particolar modo, laddove debba essere sentito come testimone a carico di terzi, la sua deposizione sarà validamente acquisita solo nel caso in cui previamente gli sia stato formulato l’avviso di cui all’articolo 64 comma 3 lettera c).

Per tutti i casi in cui l’avviso non sia stato formulato, dovrebbe darsi una sola soluzione: il soggetto viene chiamato a testimoniare, ma non sulla responsabilità di altri, limitando la testimonianza ai solo fatti che descrivano la propria posizione, senza in nessun caso intaccare quella altrui, ovvero circostanze di luogo o di tempo oggettivamente determinabili.

Nel caso in cui venga comunque resa testimonianza sui “fatti che concernono la responsabilità di altri”, dovrebbe scattare la disposizione di cui al comma 3 bis, ossia l’inutilizzabilità delle stesse nei confronti dei soggetti contro cui sono rese. Il comma 3bis infatti non esclude in toto la possibilità che il soggetto sia chiamato a testimoniare, ma vuole solamente impedire che renda testimonianza sulla responsabilità altrui se non sono state rispettate le formalità dell’articolo 64 comma 3 lettera c).

In definitiva mi pare che la soluzione prospettata possa validamente ritenersi conforme alla lettera della legge, in quanto non intacca la disposizione del primo comma dell’articolo 197 bis, ma anzi, limitandola entro il confine che le risulta dall’articolo 64 cpp, rispetta altresì la disposizione in esame e la mette al riparo da eccezioni di incostituzionalità, dall’altra conserva nel contempo un significato pieno e un’efficacia anche al secondo comma dell’articolo 197 bis.

 

Dr. Alberto Michelis

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Aggiornato a martedì 28 maggio 2002