Avanza la crisi della Fiat e del capitalismo

Salvare la Fiat capitalista e il lavoro salariato-sfruttato o lottare per la nostra liberazione dalle catene del capitale?

Auto invendute e bilanci in rosso

Per effetto della crisi economica generale e per la crescente concorrenza internazionale, la Fiat si trova -- secondo la logica capitalistica del profitto -- in una grave situazione industriale e finanziaria. Nel mercato nazionale le vendite Fiat sono calate negli anni ’90 dal 47% al 34%. Nel 2001 il passivo della Fiat è stato di circa 800 milioni di euro; il deficit supera i 35 miliardi. Fatto 100 il patrimonio, il passivo si rapporta oggi a ben 267. I debiti presso Unicredito, Sanpaolo-Imi e Deutsche Bank sfiorano i 35 mld di euro; di questi, circa 13 mld sono a breve scadenza. La divisione auto, valutata 12 mld di euro nel marzo 2000, ha bruciato in due anni 2.500 mld. Oggi può valere poco più di 7 mld di euro dopo la cessione di Ferrari (34%), di Teksid Alluminio e Magneti Marelli. Sono in rosso, per centinaia di milioni di dollari, le attività Fiat nell’America Latina, Turchia e Polonia.

La concentrazione dei produttori di auto, da 40 società negli anni settanta a 14 nel 2001, va avanti; si prevede nel 2010 un massimo di sette produttori in feroce concorrenza, poiché nell’industria automobilistica i grandi capitali investiti danno rendimenti meno interessanti che in altri settori, come per esempio nelle telecomunicazioni, dove il saggio di profitto è per il momento più elevato. La stessa Fiat ha acquistato la Toro Assicurazioni, in vista dell’ampliarsi del mercato pensionistico privato, e la Montedison nella prospettiva di un futuro aumento dei consumi di elettricità.

Con una sovraproduzione del 20-30% (sono 300.000 le auto invendute), per i lavoratori Fiat le conseguenze sono durissime: chiusura di 18 stabilimenti (forse “solo due in Italia”, Termine Imerese ed Arese…), taglio di oltre 8000 posti di lavoro, con operai cinquantenni in prepensionamento (altro che lavorare fino a 70 anni!), cassa integrazione e lavoratori interinali rispediti a casa. Sono inoltre coinvolti nella crisi 15/20 mila operai degli indotti. Negli stabilimenti all’estero gli esuberi sarebbero più di 6.000. Il resto a seguire nei prossimi anni.

La verità è che anche quando il mercato “tira”, gli aumenti di produttività, i ritmi intensificati e le tecnologie riducono progressivamente il “bisogno capitalistico” di viva forza-lavoro. Nel 2001 i lavoratori dell’intero gruppo Fiat sono scesi da 221.000 a 199.000; negli ultimi 15 anni sono scomparsi 90.000 posti di lavoro. Nelle sole fabbriche di auto in cinque anni i lavoratori sono diminuiti del 24%. Una costante emorragia di posti lavoro, una catena di licenziamenti e di Cassa integrazione (costringendo al suicidio decine di proletari disperati), con il costo del personale sceso a livelli sempre più bassi, fino ad incidere sul fatturato per non più del 14%. In compenso, l’ex amministratore delegato, Cantarella (indicato come il principale responsabile dei tracolli aziendali), riceve dopo sei anni di attività una liquidazione di 19,3 milioni di euro.

Ora si mormora di una integrazione con gli impianti General Motors in Europa e del “salvataggio” di quattro impianti (Melfi, Pomigliano d’Arco, Termoli e Cassino) trasformando il resto in …archeologia industriale. (G. Turani su Repubblica) facendo finta di ignorare che la GM in un decennio ha letteralmente dimezzato l’organico (da circa 770.000 a 365.000), se vogliamo più della stessa Fiat, che da 303.000 è scesa a 198.000. Riuscendo, Fiat e GM, a triplicare il rapporto tra fatturato e dipendenti, unico modo “per avere un futuro di sviluppo”…

Al capezzale del malato

Nel modo di produzione capitalistico e nella società in cui siamo costretti a vivere, il “che fare” è diventata la domanda d’obbligo. A porsela sono la classe borghese e i suoi tirapiedi, da destra a “sinistra”.

Attorno al capezzale dell’ultimo italico pilastro industriale (in un panorama di smantellamenti e ristrutturazioni, sia private che statali) non circolano che vaghe ipotesi fondate su giganteschi investimenti in ricerca e “nuovi sviluppi”, creatività nel design, produzione di alta qualità e competitività, planetarie commercializzazioni, ecc. Anche i più …“antagonisti” guardano alla gracilità del nostro capitalismo, al suo destino di sistema industriale di secondo rango, privo di progettazioni e strategie nei processi che contano, quelli cioè ad alto valore aggiunto (là dove il capitale trae plusvalore, per intenderci). E mentre il capitale cala legnate sui proletari, sindacati e partiti della cosiddetta “sinistra”, quella borghese, piangono sul “declino di una grande azienda capitalistica, asse strategico del paese”.

L’obiettivo è quello di far accettare i “necessari sacrifici” ai proletari, in cambio delle solite e sempre rinnegate “buone intenzioni” dei capitalisti, del governo, e dello Stato. Di chi, cioè, finge di fare gli interessi del “popolo”, ma in realtà serve quelli dell’economia nazionale (il capitalismo), della società (borghese), della Nazione, della Patria, eccetera.

Il fetore di un simile “che fare?” rischia di appesantire piuttosto che alleviare l’inquinamento generale. Sia quello ideologico e sia quello materiale, quest’ultimo proveniente da un settore industriale sul quale si regge ancora un’enorme produzione di plusvalore e un mercato alimentato dal “consumo” di centinaia di milioni di esseri umani inscatolati come sardine in città ingolfate di auto; massacrati a decine di migliaia in paurosi incidenti, ossessionati e soffocati in ingorghi e code da incubo. Sono 700 milioni le auto circolanti nel mondo, con una previsione di oltre un miliardo nel 2020; 200 milioni nella sola Europa; oltre 36 milioni in Italia con una densità di più di 100 auto per km stradale!

Nel mondo del salario e del profitto

L’imperativo della produzione capitalistica, il suo unico scopo, è il profitto, ottenibile soltanto con lo sfruttamento della forza-lavoro nei processi industriali. E’ qui che si produce il plusvalore a cui attingono, a piene mani, imprenditori, banchieri, finanzieri e commercianti. Per ottenerlo, il capitalismo si concentra e si centralizza, movendo masse enormi di capitali che, con l’impiego della scienza e della tecnologia più avanzata, hanno come fine quello di produrre merci per venderle sul mercato, per scambiarle con denaro (chi non ne ha, s’arrangi!). Maggiore è il plusvalore estorto, più si può far crescere una costante accumulazione di capitali per i colossali investimenti che consentano di esasperare al massimo la produttività del lavoro e di diminuirne il costo, affinché nelle tasche del capitalista vada sempre un “equo e giusto” profitto. Il costo del lavoro salariato si diminuisce pagandolo sempre meno, direttamente o indirettamente, e riducendo il numero dei lavoratori, sostituendoli con mezzi meccanici e una adeguata organizzazione del lavoro (mansioni, carichi e ritmi di lavoro, orari, flessibilità, ecc.).

La concorrenza impone queste “scelte” con le drammatiche conseguenze che ne derivano per il proletariato. Le sirene del riformismo tentano di incantarci con le chiacchiere sulla politica dei redditi, controlli pubblici, cogestioni, ecc. Ma in realtà non esistono altre vie d’uscita da questo stato di cose, che anzi deve per forza di cose peggiorare, all’infuori di una radicale trasformazione del modo di produzione e del modo di distribuzione oggi dominante in tutto il mondo. Come è accaduto con il passaggio dal modo di produzione feudale a quello capitalistico, se non vogliamo precipitare nella barbarie della lotta di tutti contro tutti, è necessario aprire le porte al comunismo, a un nuovo modo di produrre e distribuire che non risponda alle necessità del profitto e dell’accumulazione capitalistica, ma solo ai bisogni reali dell’umanità. Non esistono, i fatti lo dimostrano, altre vie d’uscita dall’avanzante imbarbarimento sociale, dal peggiorare della crisi, dalla minaccia di guerre e distruzioni.

Fingendo di non capire le cause della crisi in cui si dibatte il capitalismo, si invocano “proposte concrete, credibili e comprensibili” che siano compatibili con la conservazione del capitalismo. Si vorrebbe una economia capitalistica più giusta, più equa, più “democratica”: tutto quel che si può illusoriamente pensare, meno che la sua distruzione e il suo superamento come modo di produrre e distribuire che ha storicamente esaurito ogni suo sviluppo se non a danno delle masse proletarie e, ormai, dell’intera umanità.

Oggi l’utopia del comunismo è all’ordine del giorno col suo programma di trasformazione della attuale società divisa in classi, sfruttati e sfruttatori, in una nuova società di uomini e donne finalmente liberi ed eguali, che con sempre meno ore di un lavoro diviso fra tutti sono in grado di produrre in abbondanza ciò che può servire a soddisfare i loro bisogni reali. L’enorme sviluppo raggiunto in questi ultimi decenni dalle forze produttive lo consente e, addirittura, lo reclama!

Il nostro futuro contro il loro presente

Non è solo la Fiat senza un futuro. La crisi sta investendo la Piaggio con ondate di cassa integrazione (i 12mila dipendenti del 1987 si sono ridotti oggi a 3500, mentre l’indotto locale si sta azzerando); la Pirelli (chiusura di sei impianti e tagli degli organici per 2400 unità); la Magneti Marelli, la Marzotto, la Cirio. Il capitale e la classe borghese non stanno commettendo “scelte sbagliate” che i sindacati e i partiti falsamente di sinistra possano correggere, bensì subiscono gli effetti della irrazionalità e delle profonde contraddizioni che si agitano nell’economia e nella società e che si vanno aggravando di giorno in giorno.

Una politica di pretesa difesa dei lavoratori, fondata sulla ricerca di compatibilità con la conservazione del capitalismo e sperando di correggerlo dai suoi “errori” e dai suoi “eccessi”, ci sta sottomettendo passivi e disarmati ai “bisogni” del capitale.

Da questo circolo chiuso i proletari possono uscire soltanto cominciando a prendere il toro per le corna, in piena indipendenza e autonomia di classe, guidati dal loro partito, dalla loro organizzazione politica la cui ricostruzione si fa di giorno in giorno sempre più necessaria ed urgente. Non partiamo da zero; di fronte a noi non vi sono soltanto le macerie di una controrivoluzione -- quella dello stalinismo e del capitalismo di Stato spacciato per “socialismo in un solo paese” -- che ha tradito e infangato il vero comunismo.

La sinistra comunista internazionalista non si è piegata e non ha ceduto; si pone come punto di riferimento per la ripresa politica e organizzativa della lotta di classe e la definitiva costruzione del partito proletario internazionale.

Contro le illusioni paralizzanti di un miglioramento del regime capitalista, bisogna cominciare a raccogliere le forze per la completa emancipazione del proletariato di tutto il mondo, di tutte le razze e religioni, e per la definitiva soppressione di tutto ciò che incatena uomini e donne allo sfruttamento del capitale e all’oppressione del potere borghese. I tempi stringono, in vista della ripresa della lotta su basi di difesa intransigente delle posizioni di classe e degli interessi del proletariato, non solo immediati ma futuri.

Affrontiamo il capitalismo a viso aperto, coscienti della sua inarrestabile crisi e forti di quel programma comunista che solo potrà liberarci dalle catene dello sfruttamento e della avanzante miseria e degradazione che la società borghese ci impone.

Le illusioni dei riformisti, servi stupidi del capitale

E’ evidente che le prospettive storiche di superamento del capitalismo, agitate da pochi rivoluzionari, non aggregano immediatamente le masse operaie, sulle quali incombono disoccupazione, miseria e fame. Su questa evidenza si sono sempre basati i riformisti di ogni epoca per trovare, nell’ambito delle compatibilità capitaliste, le soluzioni meno traumatiche possibili: meglio la cassa integrazione che il licenziamento, meglio il licenziamento di 10 invece che di 100, ecc. Ma il fatto è che oggi gli spazi delle mediazioni si sono praticamente chiusi. Nonostante quel che ci viene raccontato, la crisi è in Fiat non perché i suoi dirigenti sono fessi, ma perché è in crisi l’intero settore mondiale dell’auto e i processi di accumulazione capitalista. Il riformismo, che fino a ieri poteva strappare qualcosa al potere borghese, oggi riesce solo a rendersi ridicolo, anche se purtroppo le sue bugie hanno ancora qualche presa sulla classe.

   E’ lunga la lista dei riformisti, impegnati al sostegno del capitalismo, del lavoro salariato e del profitto. Comprende tutti quelli che, di promessa in promessa, hanno portato il proletariato nelle drammatiche condizioni in cui si trova, offuscandogli ogni seria prospettiva d’emancipazione economica e sociale. Tutti quelli che hanno consegnato i lavoratori al più bestiale sfruttamento e nelle più drammatiche condizioni di lavoro e di vita, fino ad accettare e giustificare il lavoro temporaneo, flessibile, usa e getta; il salario ridotto e precario; le pensioni decurtate o fai da te; scuola, sanità e assistenza sociale ridotte ai minimi termini.

Il tempo passa, i piani credibili per uscire dalla crisi si sgretolano

La preoccupazione dominante dei riformisti è quella di un’incessante produzione di plusvalore per assicurare al capitale la possibilità di una sua costante valorizzazione attraverso il profitto. Quando la crisi del capitalismo avanza, la borghesia le prova tutte: dal liberismo salta allo statalismo e manda avanti i riformisti a tirare il carro della “partecipazione pubblica in funzione anticrisi”. Gli economisti borghesi (come il defunto Keynes) diventano soci onorari delle “nuove sinistre” (Rifondazione in testa) che pretendono di stimolare i consumi in un mercato saturo di merci e con “compratori” sempre più impoveriti; un mercato che crolla se non convince i proletari ad acquistare, a rate, almeno un auto a testa, telefonini, computer e video giochi, ecc.

E’ evidente la contraddizione esistente -- da un lato -- fra la necessità capitalistica di produrre merci in continuazione per realizzare profitti e per valorizzare colossali quantità di un capitale altrimenti agonizzante, e -- dall’altro lato -- l’impossibilità di vendere le merci prodotte, non solo perché gran parte di esse non servono ai reali bisogni di miliardi di uomini e donne, ma perché non sono comunque “consumabili” secondo le dominanti regole dello scambio denaro-merce.

La crisi Fiat e le chiacchiere che l’accompagnano sono esemplari. Tutti non fanno che lamentare “politiche industriali sbagliate” e recriminare quote di mercato perse. La Fiom chiede agli azionisti Fiat di “salvaguardare per l’Italia la produzione di auto. Siamo di fronte ad un problema nazionale che richiede un’appropriata politica industriale e un adeguato piano finanziario”. Rimprovera i governi borghesi per non aver saputo “accrescere le capacità di autofinanziamento e di penetrazione dei mercati più lontani”, e li invita ad “attrezzare il Paese di un serio piano di politica industriale a sostegno delle nostre imprese”….

Dal cilindro degli apprendisti maghi, qualcuno anche in giacca e cravatta …”comunista”, escono coniglietti di stoffa: “Rilancio dei prodotti italiani, auto compresa, sui mercati nazionali e internazionali; creazione di nuovi modelli di auto, competitivi a costo medio-basso, di massa” (Diliberto, La Rinascita, 1/11). “La nuova società Fiat-auto (ipotizzata dagli “studiosi” della Cgil) opererà in un regime di mercato, cioè deve produrre utili” (Liberazione, 6/11). Se non si producono UTILI, il capitale non investe; il PROFITTO è l’imperativo che tutti venerano e impongono contro tutto e contro tutti!

I riformisti scoprono che “le auto si continueranno a produrre, con o senza Fiat”; quindi si limitano a disapprovare le “distorsioni del modello privatistico che occupa spazi ed inquina in modo insostenibile” e promettono comunque di “garantire il lavoro” (salariato e sfruttato) ai proletari e il profitto ai borghesi…

Epifani, segretario della Cgil, chiede “scelte giuste in un mercato sempre più competitivo” e consiglia alla dirigenza Fiat di “fare modelli nei segmenti alti; fare ammiraglie di qualità e non puntare solo sulle piccole auto. Noi vogliamo un’industria italiana forte”. Una industria che “rilanci la fascia alta del mercato” per la clientela borghese -- proseguono quelli di Rifondazione -- sollecitando pubblico e privato ad “investire per fare della Fiat-auto uno dei gruppi in campo nella competizione mondiale”. Poco importa come si svolga questa “gara”, quali siano i costi pagati e da pagare (in termini di sfruttamento e peggioramento delle condizioni di vita presenti e futuri) per gli operai italiani, tedeschi, francesi, americani, brasiliani, polacchi, ecc.

Nell’attesa di “innovazioni tecnologiche” del prodotto merce-auto da “discutere seriamente” con la dirigenza Fiat, la Fiom chiede di “valorizzare il lavoro con una mobilità sostenibile: cassa integrazione a rotazione, riduzione dell’orario di lavoro (e del salario, s’intende), contratti di solidarietà”. Tutti si riempiono la bocca di “processi di rilancio della Fiat che rendano meno drammatici (?) i contorni della CIG”. Si finge di dire “No alla Cassa integrazione”, soltanto per aggiungere “Sì ai contratti di solidarietà, Sì alla rotazione e al part-time”. Mal comune, mezzo gaudio, questa è la filosofia dei riformisti, con la scusa che così “si tengono legati i lavoratori alla produzione,non espellendoli dal ciclo produttivo”, organizzato e dominato dal capitale!

Per ultima, la “proposta forte”…

Tocca a Rifondazione avanzare la “proposta forte”: “Nazionalizzare la Fiat, rilanciare il trasporto pubblico ma anche privato; produrre auto in modo più serio e con più giuste strategie di mercato”. La “scelta realistica”, rispolvera le vecchie barzellette della “programmazione” basata, dopo i fallimenti storici di quella statale o privata, su una “economia mista” gestita dai …soggetti istituzionali. Sarebbe questa l’ultima spiaggia per “vincolare la Fiat alle esigenze dei lavoratori e della contrattazione aziendale, prendendo in considerazione la creazione di un Polo europeo dell’auto”. Basterebbe seguire l’esempio di Renault e di Volkswagen, “fortemente competitive sui mercati mondiali e rafforzate dalla partecipazione pubblica”. Ma non basta: “In Italia la nascita dell’Iri negli anni ‘30 (eia eia, alalà!) ha portato alla creazione di grandi imprese a partecipazione statale, la cui crisi e la cui cancellazione è stata solo una scelta politica”. (Liberazione, 9/10) “Socialmente ed economicamente” la scelta di Mussolini era giusta…

Anche il segretario generale della Fiom elogia “i capitalisti più preparati e lungimiranti, i grandi gruppi industriali che in Europa propongono condizioni retributive più elevate (?), applicano le 35 ore, dimostrano di aver meglio affrontato la crisi di settore” (La Rinascita, 13/9). Ma signori, andate ad ascoltare i lavoratori della Renault e della Wolkswagen, e ne sentirete delle belle! Infine, la ciliegina sulla torta spetta a quelli che, assieme ai più sciocchi servi del capitale nazionale, chiedono che “l’Italia si faccia promotrice di una politica più aggressiva e competitiva dell’Unione Europea rispetto agli Usa” (Fiom, 31/5).

Dunque, lo Stato borghese interviene direttamente nelle scelte industriali con la presenza di capitale pubblico, estorto come sempre ai proletari, per gli interessi della classe borghese. L’importante è “stare a galla”, qualunque sia la …“partnership”!

Si ammette che la maggior parte dei settori produttivi da cui il capitale estorce plusvalore siano “maturi”, ma si continua a illudere i proletari (i quali, se non vendono la loro forza lavoro ai capitalisti, sono costretti alla fame) affinché ripongano tutte le loro speranze sugli “sviluppi ’ di quegli stessi settori. Che altro si potrebbe fare, domandano smarriti politici e sindacalisti (Fiom e Ggil in testa), preoccupati del “futuro sociale ed economico del Paese” e sostenitori di “un’Italia industrialmente forte, capace di dare più reddito, diritti e condizioni di lavoro con una ricapitalizzazione della Fiat”….

Un futuro di “libertà e felicità”

Il Manifesto (quotidiano che si spaccia per “comunista”) arriva a disegnare una gioiosa prospettiva che ripagherebbe un presente di lacrime e sudori: “L’auto può rendere più liberi e felici” -- recitava un editoriale del 20/6. “E’ un volano dello sviluppo e crea occupazione (sic!). Sarebbe criminale lasciare morire un secolo di lavoro, un conglomerato di cultura, di saperi, di professionalità e progettualità”. Difendiamo perciò l’azienda di Agnelli, i suoi prodotti e bilanci di entrate e uscite. Mai più in rosso, giurano questi “antagonisti”, magari producendo “auto in affitto, come una Topolino del 2000”, in aggiunta ai milioni di auto parcheggiate o in circolazione che naturalmente “possono restare” per le medie e lunghe percorrenze. Anche perché -- precisa l’editoriale, evidentemente in competizione con i concessionari Fiat -- “l’auto privata fa parte dell’altro mondo possibile per cui ci battiamo: l’auto per ogni nucleo familiare”. Magari a suon di cambiali.

Ancora sul Manifesto del 6/11, questi riformatori-conservatori ci raccontano che “la civiltà industriale (cioè il capitalismo) richiede che l’industria dell’auto resti un elemento costitutivo del nostro panorama economico”, a cui ci dovremmo adeguare. “Il futuro del settore dipende dalla realizzazione di una forte integrazione internazionale con altri soggetti finanziari e imprenditoriali”. Un approdo inevitabile per chi è cresciuto all’ombra di quel “capitalismo di Stato” da Stalin spacciato, fra gli applausi, per …comunismo.

Ricostruire l’organizzazione politica del proletariato

Dobbiamo liberarci dai fumi delle ideologie borghesi, uscire dalle logiche e dalle visioni che pretendono di convincerci che questo mondo, con qualche correzione e miglioramento, possa diventare non solo -- come in effetti è -- il mondo dei potenti e dei ricchi, ma forse anche un mondo per noi proletari, salariati, oppressi e sfruttati. E saremmo i più fortunati, se ci confrontiamo con quanti sprofondano nella miseria e nella sofferenza, costretti addirittura a morir di fame e di sete.

Nulla possiamo aspettarci né dai partiti della “sinistra” borghese né dai sindacati. Se vogliamo cominciare seriamente a difenderci dagli attacchi del capitale, dobbiamo contare soltanto sulle nostre capacità di autorganizzazione, fabbrica per fabbrica, quartiere per quartiere. Unità e solidarietà fra i proletari, innanzitutto.

Ma la crisi del capitalismo impone ai comunisti internazionalisti una base di intervento tra i proletari che non può -- se vuole eliminare pericolose confusioni e frustrazioni -- esaurirsi nel pur importante sostegno alle lotte in corso e a quelle che verranno. Il nostro compito di comunisti è quello non solo di incitare alla indispensabile lotta di difesa, ma nello stesso tempo indicare il limite, il vero e proprio punto di non ritorno che sta di fronte al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse proletarie.

Siamo presenti nelle lotte operaie, ma non reggiamo la coda né ai sindacati ufficiali né a quelli che aspirano a diventare tali. Siamo con i lavoratori (“garantiti”, precari o disoccupati, italiani o immigrati) contro i licenziamenti, per riduzioni degli orari di lavoro o per aumenti di salario. Non però per aiutarli a “contrattare” quello che gli viene tolto (o per ricostruire ipotetici “sindacati di classe”), ma per fargli comprendere ciò che sta realmente accadendo contro noi tutti e a reagire adeguatamente

Il caso Fiat è in tal senso esemplare. Non è -- come si racconta in giro -- la crisi di un modello industriale o di un sistema industriale integrato e caratteristico del capitalismo italiano. Non è la crisi di un particolare modello assistito che non reggerebbe la competizione internazionale perché non ha fatto gli sforzi tecnologici necessari, o perche non sforna prodotti di altà qualità con un superiore contenuto tecnico-produttivo. Non è una crisi derivante dallo sviluppo parassitario del “nostro” capitalismo, imputabile alla decadenza insita nella struttura costitutiva del capitalismo e del padronato italiano. La sinistra parlamentare e i vari sindacati e concorrenziali sindacatini, i riformisti più o meno radicaleggianti, no-global e quant’altro, quotidianamente ci martellano con queste falsificazioni della realtà.

Qualunque piano industriale di risanamento e di ristrutturazione, privato o statale, di destra o di sinistra, non può che essere a danno e a spese dei proletari. Sia di quelli che lavorano supersfruttati o vengono licenziati perché non servono più, sia di quelli costretti comunque a “consumare” il magro salario e a indebitarsi anche i pantaloni. Si restringono sempre più i margini per tentativi di contenimento degli effetti disastrosi provocati da questo assurdo modo di produrre e distribuire.

Lo scontro decisivo fra capitale e lavoro sta ormai per essere posto all’ordine del giorno della storia.

La nostra autonomia organizzativa, sul piano sociale e politico, è quindi condizionata dalla elementare presa di coscienza del fossato che il capitale sta costruendo a difesa della sua conservazione, attaccando il proletariato dentro e fuori le aziende, imponendo la competitività e la redditività aziendale come unico metro di misura di una propria sopravvivenza, pur sempre a rischio. Gli attacchi del capitale non possono che aumentare di giorno in giorno; il proletariato deve innanzitutto difendersi con la lotta, senza inseguire impossibili compromessi o illusorie riconquiste di …purgatori perduti; ma deve difendersi preparandosi al contrattacco, ripresentando il programma della propria emancipazione definitiva dalle catene del capitalismo che lo stanno soffocando.

Lottiamo solidali contro i licenziamenti e contro tutti gli attacchi del capitale! Ricostruiamo l’organizzazione politica del proletariato per il comunismo!

Gli internazionalisti di Battaglia comunista 15/11/2002


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