Immagine di un incontro

 

A differenza del solito, l’uomo seduto al mio fianco non è "il Cacca" o "il Pilone" che mi raccontano delle loro prodezze agonistiche o delle loro conquiste sentimentali. A differenza del solito, il locale che mi contiene non è pregno di fumo e saturo di suoni vaganti da non capirne la provenienza. A differenza del solito davanti a me non c’è la solita pinta di Guinnes e il posacenere colmo di tizzoni maleodoranti. A differenza del solito.

A differenza del solito seduto accanto a me c’è un prete. Un prete? Un prete accanto a me non si era mai visto. Eppure accanto a me c’è un prete con tanto di collettino bianco e voce impostata da prete: Don Mario.

Il locale poi, è casa sua. Casa di un prete. Credo che alcune persone non ci abbiano mai pensato, ma anche i preti hanno una casa, una casa con tutte le cose che abbiamo tutti: televisione, divano, telefono, cucina con fuochi a gas, tavolo, libri, liquori. Don Mario ha anche un computer.

Don Mario non è l’unico che mi siede accanto. Ci sono altre persone, sono ragazzi che hanno facce che ho già visto, sono facce da Vimodrone. Sono facce che se le vedi in un posto che non è Vimodrone, non le riconosci. Diventano facce note, solo nei posti dove sempre le hai viste. Tutte quelle facce messe in successione, in quel luogo, con quel prete, diventano facce di amici, facce di fratelli, facce da parenti, facce da Natale alla messa di mezzanotte, facce da ultimo dell’anno a casa di amici. Ti senti a tuo agio, rilassato. A casa. Casa di un prete.

Guardando bene sono in coppia, sono tutti sposati, sembrano addirittura innamorati. Se non fosse che sono a casa di un prete, direi che fingono. Alcuni di loro emanano un’energia diversa, hanno una luce strana sul volto, forse è quella stessa luce che li fa sembrare facce da Vimodrone, non lo so. Certo è che sono diversi, una diversità che ti ammalia, ti cattura e ti assoggetta a loro. Non puoi fare a meno di chiederti quale faccia abbia tu, faccia da Vimodrone? Probabilmente si!

Dopo che le hai viste una volta quelle facce da Vimodrone le devi assolutamente rivedere una seconda volta, poi una terza, una quarta. Allora lo fai una volta al mese, e lo fai a casa di un prete, perché pensi che solo in quel luogo riesci a vedere quella luce strana che ti mette a tuo agio. Così non è, perché provi a rivederle in altri luoghi, e scopri che quella luce alcune di quelle facce ce l’hanno sempre.

La volta al mese che "casa di un prete" ci accoglie, è tutte le volte la prima volta. Tutte le volte è diverso, tutte le volte è riscoprire e riscoprirsi: entri in quella casa con televisione, divano, telefono, cucina con fuochi a gas, tavolo, libri, liquori, con un bagaglio di ansie e insicurezze tipiche di questo cavolo di pianura di questa terra senza misura che confonde la notte e il giorno, la partenza con il ritorno (De Gregori).

Da principio, come per suggellare un antico e consolidato rituale padano parla il padrone di "casa di un prete": Don Mario. Scherza Don Mario. Dà pugni sulla spalla Don Mario. Ride Don Mario. Dà baci Don Mario. Ostenta felicità Don Mario. Non perde tempo Don Mario. Introduce Don Mario. Ci legge sempre qualcosa che non si capisce subito, credo che le scriva apposta per non farcele capire subito, legge una sintesi di una sintesi, scritta per sintetizzare. Legge Don Mario. Spiega Don Mario. Interroga Don Mario, e sempre, o non si risponde, o si risponde sbagliando, ma non importa. Importata solo esserci in quell’imbarazzo che non è imbarazzo, è appartenenza, ruolo, è avere consapevolezza di esserci per testimoniare la tua stessa presenza, che sembra l’unica cosa importante per tutti. Essere. Esserci anche senza nulla dire. Esserci anche senza nulla pensare. Lì in quel momento in quel luogo con quelle persone, finché un giorno che manco mi ricordo che giorno, sono riuscito finalmente ad ESSERE, e per un attimo che sarà durato tre secondi ho visto, e finalmente ammesso chi sono: Un uomo maledettamente impaurito che solo insieme ad altri uomini maledettamente impauriti, può trovare il coraggio per abbozzare una risposta alla propria DOMANDA. A differenza del solito.

Grazie Federico, Federica, Morena, Gianluca, Gianni, Simona, Franco, Viviana, Massimo, Simona, mia moglie Laura, Don Mario, e chiunque altro si aggiungerà alla lista.

 

 

 

 

 

Appuntamento al buio

 

Il 20 Giugno sarà un giorno di sole! Anche se pioverà, sarà lo stesso un giorno di sole. Il 20 Giugno ho un appuntamento al quale non posso mancare. Devo incontrare una persona che non conosco, per la quale già lo so, sarei pronto a rinunciare alla mia pinta di Guinnes e ai racconti del "Cacca e del "Pilone". Il 20 Giugno quando finalmente farò la conoscenza di Jacopo, questo è il suo nome, so già che rimarrò senza parole… Salivazione azzerata. Sguardo spiritato. Articolazioni instabili. Vertigini, nausea, emicrania, costipazione, febbre, debolezza, demenza, terrore, stupore, amore. Vedere Jacopo, sarà come vedere Gesù, sarà un’esperienza trascendentale. Verrò sbalzato in realtà virtuale dove le immagini i suoni, le sensazioni tattili, olfattive e gustative, saranno un tutt’uno. Un "mega" sesto senso che sarà la sommatoria degli altri cinque. Un godimento indicibile! Il 20 Giugno non so ancora a che ora, finalmente i miei occhi potranno incrociare quelli di Jacopo, per scoprirne il colore, la profondità, l’espressione.

Non sto nella pelle! vorrei anticipare l’appuntamento, ma so che non è possibile. Al limite si potrà anticipare di qualche giorno, un mese al massimo, non di più. Cercherò di gustarmi l’attesa, che dicono essere migliore dell’incontro stesso. Mi preparerò all’incontro come un pugile professionista alla conquista del titolo mondiale, mi allenerò, allenerò, allenerò. Penserò alle parole da usare, all’espressione da adottare, all’odore da emanare, al vestito da indossare. E bello come il sole di quella giornata, salirò a bordo della mia Punto bianca con il ruotino rosso, e mi dirigerò all’appuntamento con mente sgombra di timori, ma pregna d’aspettative: porterò anche mia moglie Laura, qualcosa mi dice che potrà essere utile. Strano a dirsi l’appuntamento è stato fissato in un ospedale: Jacopo è persona assai eccentrica! Poiché ci sarà anche Laura, gli demanderò l’incarico di abbracciarlo per prima, e di stringerlo a se come se fosse figlio suo. Io mi accontenterò di assistere al suo arrivo e di ripulirlo dal lungo e faticoso viaggio che lo porterà nella nostra dimensione. Già perché dimenticavo: Jacopo il 20 Giugno comincerà a vivere come persona … ed io comincerò a vivere come padre.

 

 

 

 

 

Una sera di primavera

 

Il cassetto degli spartiti era aperto, il terzo di sei cominciando dall'alto... o dal basso.. Io ero chino davanti ad esso cercando chissà quali note di chissà quale motivo. Fuori della finestra dell'appartamento era primavera, una di quelle sere primaverili come mille n'avevo già vissuto, come diecimila n'avevo ancora da vivere. Ero felice quella sera, perché prima di quella sera ero sempre felice. Una felicità inconsapevole, la felicità di chi ha vissuto solo situazioni propizie, rimuovendo quelle avverse perché troppo diverse, troppo distanti dalla propria presunzione d'unicità. Sebbene già adulto, la vita mi sfuggiva nel suo scandirsi impietoso di sofferenza e gioia, morte e nascita. Esistevo io, e tutt'intorno il resto.

Credo fu mentre esternavo una mia imprecazione per lo smarrimento di chissà quali note di chissà quale motivo, che accadde tutto. Una mazza da baseball scagliata con inaudita violenza, mi sfracellò il cranio con un colpo secco all'occipitale. Morii. Almeno così credetti, perché la realtà cominciò a scivolarmi via, smisi di percepire la materia. Divenni aeriforme. Sentivo solo voci ovattate provenienti dal mondo dei vivi. Una in particolare destò il mio interesse d'anima in trasposizione. Quella di mio padre. "La mamma ha un tumore... non c'è più niente da fare", diceva. Se non fosse stato perché ero morto, avrei creduto fosse vero. Infatti vero non era! Come poteva esserlo?! Come poteva esistere che fatti così cruenti normalmente destinati ad altri potessero accadere a me?! A me che credevo che la sofferenza fosse uno slogan televisivo inventato per vincere la monotonia di un mondo perfetto. No! Sentenziai, non poteva essere vero. Ero senz'ombra di dubbio morto, e ciò che avevo udito era un residuo di paura recondita, che nel trapasso doveva essere spurgata per presentarmi lindo nel mondo dei morti.

Capì ahimè di non essere per nulla morto, quando la voce di mio padre perse l'evanescenza originaria, ripresentandosi alle mie orecchie drammaticamente rinvigorita di termini tecnici: colon, metastasi, chemioterapia, risonanza magnetica, biopsia. Da li in poi tutte le certezze che faticosamente mi ero costruito in trent'anni di vita, si sgretolarono come grattacieli di cartapesta. Una singola frase mi aveva svuotato di contenuti, compresi la mia debolezza, la mia precarietà. Ero tutto da riscrivere, da riprogrammare, il mio sistema operativo non comunicava più con l'hardware.

Stavo ancora chino davanti al cassetto aperto come cinque minuti prima. Cinque minuti in cui l'illusione puerile dell'invincibilità si era estinta per mano di una realtà feroce e violenta che "sapeva" di castigo. Ciò che stava capitando alla mia famiglia odorava di punizione celeste, di espiazione, di maxi sentenza. Quella notte andai a dormire macchiato dall'onta di appartenere "a quelli cui è capitato".

Due mesi più tardi mia madre morì in un alito impercettibile di respiro. Morì in un momento durato niente, sotto i miei occhi impreparati. In quell'idea di fiato, in quel frammento di spazio, tutta la mia vita insieme a lei, cominciata dentro di lei. E poi sguardi, carezze, baci, schiaffi, amore, menzogne, lamentele, tutto un malloppo ingombrante d'eventi che non si sarebbero più ripresentati... fanculo!

Tempo fa ho riaperto il terzo cassetto di sei cominciando dall'alto... o dal basso... cercavo le note di un motivo che ricordo benissimo, quello che rievoca l'amore inestinguibile per mia madre.