L’islam e la società
Negli anni immediatamente successivi alla morte di Maometto si raccolsero la
parole di Allah annunciate dal Profeta nel Corano. Il Corano non è soltanto
un libro religioso, ma comprende norme politiche e civili, precetti morali,
poiché si interessa della costruzione della minah, la comunità
dei credenti, e del suo apparato giuridico. Infatti contiene anche norme riguardanti
il diritto di famiglia: fissa il numero legale di mogli a quattro, ammette il
ripudio della moglie, enuncia regole alimentari come l'obbligo di astinenza
dagli alcolici e dalle carni suine. Maometto non ha fondato solo una fede, ma
si è proposto come organizzatore di uno Stato: l’islam ammetteva
la proprietà privata, la pratica del commercio, il lavoro salariato;
tuttavia condannava il prestito ad usura e i guadagni eccessivi.
Tamerlano (1336-1405), che si proclamava discendente di Gengis Khan, fu il
grande sovrano turco che si lanciò nella realizzazione del disegno di
un vasto impero turco-islamico. Nell’immagine, una miniatura persiana
del sec. XVII raffigurante Tamerlano che concede un'udienza.
I Saraceni
Nel IX secolo la travolgente espansione araba aveva esaurito il suo slancio
verso l'Europa (la Sicilia fu conquistata molto lentamente tra l'827 e il 902),
ma alimentò l'azione di bande di pirati saraceni che per la scarsità
del commercio marittimo sbarcarono per razziare le coste.
I pirati musulmani miravano al saccheggio dei metalli preziosi e alla razzia
di persone da schiavizzare. Per lungo tempo isolarono le Baleari, la Corsica
e la Sardegna e nell'846 giunsero a saccheggiare Roma.
A volte i Saraceni occupavano stabilmente un porto per servirsene da base di
appoggio per ulteriori spedizioni: Bari dall'847 fu in mano saracena ed anche
Taranto lo rimase a lungo.
I sovrani europei si impegnarono ripetutamente per porre fine al pericolo saraceno,
ma solo nell'XI secolo Bisanzio riuscì a sconfiggere definitivamente
i pirati, battendoli in due battaglie navali con l'aiuto di Pisa e Venezia.
"Saraceni" era il nome generico che nel Medioevo i cristiani davano
agli arabi che invadevano le coste mediterranee della Spagna e della Sicilia,
nel corso della loro grande espansione. Nell’immagine: la cosiddetta Porta
Saracena di Segni (Lazio). IGDA/S. Tannini
Il Corano (Al Quran), il libro sacro dell’Islam, non è opera di
Maometto ma è parola diretta di Allah, rivelata al Profeta attraverso
l’arcangelo Gabriele. Il Corano si compone di 114 sure (capitoli) contenenti
norme religiose, culturali, giuridiche, morali e politiche. Nell’immagine,
una miniatura araba del secolo XII-XIII su una pagina del Corano (Il Cairo,
Museo di Arte Islamica).
Andalusìa
Generalità
Regione storico-amministrativa e comunità autonoma (87.599 km2; 7.236.459
ab. secondo una stima del 1998; capoluogo Siviglia) della Spagna, la più
meridionale del Paese, nonché la più estesa e la più popolata.
Suddivisa nelle province di Almería, Cádice, Cordova, Granada,
Huelva, Jaén, Málaga e Siviglia, si estende in direzione N-S dalla
Sierra Morena allo stretto di Gibilterra, limitata a W dal Portogallo, a E dalla
Murcia, e si affaccia all'Atlantico a SW e al Mediterraneo a S . Il territorio,
essenzialmente montuoso, comprende tre regioni naturali morfologicamente ben
distinte: a N la Sierra Morena, complesso di rilievi che divide l'Andalusia
dalla Meseta e culmina nella Sierra Madrona (1323 m); al centro la depressione
del Guadalquivir (o Betica), vasta pianura formata dalle alluvioni del fiume
che solca il territorio da NE a SW, dove si apre a ventaglio verso la costa
atlantica in una regione paludosa (detta delle Marismas, ca. 4000 km2); a S
la Cordigliera Betica, costituita da catene parallele, alte in media 2000 m,
ma che nella Sierra Nevada raggiungono la massima elevazione di tutta la Penisola
Iberica (Cerro de Mulhacén, 3478 m). Tale cordigliera, che a N digrada
verso il bacino del Guadalquivir, scende, a S, bruscamente al mare, lasciando
solo un esiguo spazio alla pianura litoranea. Il clima è di tipo mediterraneo,
mite d'inverno e con elevate temperature estive (mitigate però dall'altitudine);
le precipitazioni sono prevalentemente invernali, copiose sui versanti montuosi,
dove toccano anche i 2000 mm annui, assumendo sulle più alte vette carattere
nevoso, mentre diminuiscono a 500-600 mm nella valle del Guadalquivir e a 200
mm nelle aree litoranee mediterranee, già climaticamente assimilabili
alla vicina Africa. La rete idrografica tributa quasi interamente al Guadalquivir
(fiumi Guadalbullon, Guadiana Menor, Genil); tra i pochi fiumi che scendono
direttamente al mare, dal corso assai breve, sono l'Almanzora, l'Almería
e il Guadalfeo. La popolazione si concentra in grossi borghi sparsi e in poche
città (tra le maggiori sono, oltre ai capoluoghi delle omonime province,
Jerez de la Frontera e La Línea de la Concepción); caratteristici
sono i villaggi di cuevas, grotte scavate nella roccia. In spagnolo, Andalucía.
Economia
L'Andalusia vive sulla tradizione di un'antichissima civiltà agraria,
sviluppatasi con gli Arabi che introdussero le colture degli agrumi, del riso,
del mandorlo e della canna da zucchero, l'allevamento del baco da seta e nuovi
sistemi di irrigazione. La zona più fertile è la pianura centrale
intorno a Cordova, coltivata a cereali (frumento), ortaggi e agrumi. Sulle colline
meridionali prevalgono i vigneti e gli oliveti; sulla costa mediterranea, per
l'irregolarità e la scarsità delle precipitazioni, l'orzo e i
fichi; nelle zone montane predomina un'economia di tipo silvo-pastorale. Particolarmente
importante è la pesca (l'Andalusia fornisce ca. un quarto del prodotto
nazionale); porti principali sono Cadice, Huelva e Algeciras. Intensa è
l'attività mineraria: piriti e manganese sono estratti nella provincia
di Huelva, piombo in quelle di Jaén, Almería e Cordova, minerali
di ferro in quelle di Granada, Siviglia e Almería; uranio è stato
rinvenuto nella zona di Andujar (Jaén), dove sorge un impianto per la
lavorazione del minerale, proveniente anche da altri giacimenti spagnoli; sfruttate
infine le cave di marmo. Le industrie sono concentrate nelle maggiori città;
alle tradizionali attività alimentari, enologiche e tessili si sono aggiunte
industrie legate allo sfruttamento delle risorse minerarie (complessi metallurgici,
cantieri navali e aeronautici) oltre a raffinerie di petrolio. Occupa un posto
sempre più rilevante nell'economia andalusa il turismo, che interessa
sia le numerose e ben attrezzate stazioni balneari, specie sulla Costa del Sol
attorno a Málaga, sia le molte città dell'interno in cui, come
a Granada e a Cordova, si conservano incomparabili testimonianze dell'arte araba
che, unitamente alle pittoresche manifestazioni di un folclore assai ricco,
danno all'Andalusia caratteri di assoluta originalità.
Storia
Abitata in antico da varie tribù iberiche (Strabone nomina i Turdetani,
i Turduli e i Bastetani o Bastuli), sede del Regno di Tarsis o Tartesso, citato
anche nella Bibbia, e di varie colonie costiere fenicie, greche e cartaginesi,
di grande importanza commerciale e strategica, fra cui Málaga e Cadice,
l'Andalusia fu conquistata dai Romani dopo la vittoria di Bécula (208
a. C.) e presto organizzata in provincia col nome di Betica (dal fiume Betis,
oggi Guadalquivir). Patria di Seneca, Lucano, Traiano, Adriano, la pax romana
le garantì un lungo periodo di splendore economico e culturale. Occupata
poi per breve tempo dai Vandali, che le lasciarono il nome (Vandalusia) e dai
Visigoti, passò dal 711 agli Arabi, sotto i quali fiorì di nuovo
largamente. Unificata sotto i califfi di Cordova, si frazionò poi (sec.
XI) in diversi piccoli regni, che dal sec. XIII in poi furono gradualmente conquistati
dai Castigliani. Dopo la caduta del Regno di Granada (1492), la regione seguì
le sorti del Regno di Castiglia e della Spagna, conservando però una
peculiare fisionomia composita.
Arte
Le manifestazioni artistiche della regione, per i suoi rapporti con l'Oriente
arabo e poi con la cultura italiana e per le sue relazioni commerciali con le
colonie d'America, presentano un'evoluzione indipendente nell'ambito dell'arte
spagnola. Nei sec. VI-II a. C. le popolazioni dell'Andalusia e della Spagna
sud-orientale elaborarono quell'arte “iberica” (animali in calcare,
figurine votive in bronzo) che fu una sintesi degli elementi locali, già
presenti in epoca preistorica, e l'arte “arcaica” dei colonizzatori
greci. Scarsa è la documentazione dell'epoca romana. Sotto i Visigoti
l'architettura dell'Andalusia seguì gli schemi paleocristiani dell'Africa
settentrionale, che contengono già elementi orientali. Con la conquista
araba Cordova divenne il maggior centro della cultura ispano-moresca. All'epoca
del califfato omayyade (sec. VIII-XI) vennero costruite la Grande Moschea di
Cordova (780-987) e la splendida città, residenza della corte, di Madinat
az-Zahra (iniziata nel 936, venne distrutta nel 1011). Si svilupparono le industrie
artigiane del cuoio lavorato e colorato (Cordova) e delle armi ageminate (Siviglia).
L'oreficeria, i bronzi, le ceramiche, gli avori islamici avevano in Andalusia
i loro maggiori centri di Spagna. Della severa arte degli Almohadi, fra gli
altri esempi minori rimangono a Siviglia la Giralda e la Torre del Oro (sec.
XII). Nel sec. XIII l'Andalusia araba comprendeva solo il Regno di Granada,
dove si sviluppò, fino alla fine del sec. XV, l'arte dei Nasridi, particolarmente
ricca di decorazioni su strutture architettoniche semplici che si articolano
armoniosamente con l'ambiente. La massima espressione del preziosismo e della
raffinatezza di questo periodo, che si esplica anche nell'artigianato, rimane
l'Alhambra di Granada. Contemporaneamente nell'Andalusia già cristiana
si venne elaborando lo stile mudejar (cioè l'assunzione dell'arte musulmana
da parte dei committenti cristiani) che perdurò fino al sec. XVI. I maggiori
esempi si trovano a Cordova (cappella di S. Fernando nella Grande Moschea, 1258)
e Siviglia (Alcázar, 1364-78). Sempre a Siviglia ebbe notevole sviluppo,
dal sec. XV, l'artigianato dei tessuti (broccati). Il gotico, che penetrò
tardi nella regione, si manifestò nel suo aspetto “fiammeggiante”
(cattedrale di Siviglia, 1401-1506), mentre in pittura le forti influenze del
naturalismo fiammingo, comuni a tutta la Spagna, si avvertono nelle scuole di
Cordova (Pedro de Córdoba) e di Siviglia (Juan Núñez, Juan
Sánchez de Castro). L'influenza fiamminga continuerà nel Rinascimento,
unendosi al raffaellismo nell'opera del pittore Pedro de Campaña. Dopo
il 1492, con la conquista di Granada e la scoperta dell'America la regione divenne
il centro del commercio spagnolo e la nuova ricchezza trovò espressione
in un grande sviluppo artistico e culturale. Nell'ambito del Rinascimento, che
si rifà ai modelli italiani, si inseriscono le personalità di
Diego de Siloé, architetto e scultore (cattedrale di Granada, coro di
San Jerónimo di Granada), di Pedro Machuca, architetto e pittore ormai
manierista (palazzo di Carlo V a Granada) e Andrés de Vandelvira (1509-1575),
che furono gli iniziatori di attivissime scuole. Intorno alla metà del
sec. XVII si costituirono a Siviglia delle scuole di scultura che arrivarono
alle loro realizzazioni più alte nell'età barocca, esprimendosi
in un misurato classicismo (Juan Martìnez Montañés) o in
un accentuato patetismo controriformistico. In pittura si accentuarono le tendenze
naturalistiche. Il barocco andaluso tradusse in un gusto per l'abbondanza decorativa
la lezione del tardo manierismo italiano e sviluppò come forma originale
per le sue chiese la facciata-retablo. In questo periodo (sec. XVII-XVIII) operarono
in Andalusia alcuni fra i più grandi artisti spagnoli: Alonso Cano, architetto,
pittore e scultore (facciata principale della cattedrale di Granada, le Immacolate),
caposcuola non solo nella regione (suoi allievi furono Pedro de Mena, la famiglia
dei Mora) ma anche a Madrid; lo scultore Pedro Roldán, massimo esponente
del berninismo, corrente che fu particolarmente rigogliosa in Andalusia; l'architetto
Leonardo de Figueroa (collegiata di San Telmo a Siviglia). Se Juan de Valdés
Leal rappresentò l'apice della scuola pittorica sivigliana e Antonio
del Castillo y Saavedra quella di Cordova, le grandi personalità di Francisco
de Zurbarán, Diego Velázquez e B. Esteban Murillo, pur formandosi
all'interno della tradizione sivigliana, giunsero a esperienze di risonanza
europea, ma solo dall'arte di Murillo si sviluppò una scuola regionale.
Con la metà del sec. XVIII l'arte andalusa non si distingue dallo sviluppo
dell'arte spagnola in generale.
Àrabi
Definizione
Nome che viene dato a un insieme di popolazioni che hanno in comune il tipo
fisico e la lingua (l'arabo), stanziate dall'Africa sett. all'Arabia, alla Siria,
all'Iraq. Pur avendo una comune matrice culturale dovuta alla grande forza unificatrice
della religione islamica, gli Arabi hanno oggi costumi diversi da gruppo a gruppo,
in quanto hanno risentito dell'influsso delle genti con le quali sono venuti
a contatto nel corso dei secoli (Latini, Greci, Bizantini, Berberi, Persiani,
Turchi, ecc.). Vi è sempre stata una netta differenza tra gli Arabi sedentari
(hadar, cittadini, e fellahin, contadini) e nomadi (badawio !arab): i secondi
hanno conservato più puri i caratteri culturali originari (Beduini),
anche se oggi viene praticata una sorta di seminomadismo locale solo da alcuni
gruppi stanziati nel deserto algerino-tunisino, nel Sudan, nella Giordania e
nell'Arabia. I contadini hanno acquisito, soprattutto nelle città, costumi
e modi di vita che in parte riecheggiano archetipi asiatici e in parte forme
tipicamente europee. Nei villaggi prevale un modo di vita patriarcale; molto
forte è l'influsso della morale islamica e spesso la posizione della
donna è ancora arcaica, condizionata dalle leggi musulmane, anche se
sono scomparse l'antica poliginia e la schiavitù domestica. I villaggi
sono raggruppati, spesso, intorno a una moschea e sono costituiti dalle tipiche
case a pianta quadrangolare, con tetto piatto, fatte di blocchi di pietra non
squadrati; tra i nomadi si usa ancora la tenda poligonale.
Storia: l'Impero arabo
Il nome Arabi, comparso verso il sec. IX a. C., significava nomadi e si riferiva
a popoli della Penisola Arabica, di lingua semitica, emigrati da tempo verso
la Mesopotamia o il corridoio siro-palestinese e ormai avvezzi alla vita sedentaria.
Già gli Ebrei distinguevano all'inizio del I millennio a. C. gli Arabi
nomadi del nord e del centro da quelli più civili e spesso sedentari
dell'Arabia sud-occid. dove si erano sviluppati floridi regni. Alcuni secoli
più tardi in questo ambiente paganeggiante, idolatra e materialista si
impose Maometto (sec. VII), il fondatore della religione e del movimento islamico.
Fu quindi compito dei primi califfi (successori) ristabilire l'unità
araba, già conseguita dal Profeta, soffocando la ribellione di alcune
tribù beduine; col secondo califfo !Omar ibn al-Khattab incomincia infatti
la creazione di un grande impero. In poco più di un decennio (634-46)
gli Arabi estesero il loro dominio dall'attuale Libia all'altopiano iranico,
sbaragliando Bizantini e Persiani. La nuova amministrazione, ordinata e non
eccessivamente vessatoria, apparve ai popoli sottomessi quasi sempre preferibile
all'antica. Le conquiste, continuate con i califfi !Osman e !Ali ibn Abi Talib,
sotto il quale più vive si riaccesero le discordie, portarono gli Arabi
sino ai confini dell'India, alla Tunisia e alla Nubia. Con gli Omayyadi, sotto
il cui califfato (661-750) l'area islamica si estese ancora verso l'Asia centr.,
lungo tutta l'Africa sett. e sino alla Spagna, l'aspetto religioso impallidì
e s'impose la concezione, ben più terrena, di un assolutismo solidamente
organizzato. Fu questo il vero impero arabo: infatti, benché la capitale
fosse a Damasco, l'elemento arabo predominava nel governo, negli eserciti, nell'amministrazione
. Col tempo però le popolazioni islamizzate, spesso più colte,
minacciarono quella supremazia degli Arabi che, vera base della prima espansione
islamica, ebbe termine con l'avvento degli Abbasidi, quando la capitale passò
da Damasco a Baghdad; la cultura divenne allora arabo-islamica, l'unità
raggiunta dai califfi omayyadi si spezzò in breve e l'Impero musulmano
si ridusse a un mosaico di Stati spesso in lotta fra loro. A partire dalla prima
metà del sec. IX i valori culturali tipicamente arabi si fusero con civiltà
diverse, a volte remote, con le quali, attraverso la conquista, gli Arabi erano
venuti a diretto contatto. È questo il caso della Sicilia, conquistata
e tenuta per due secoli dagli Aghlabiti, o il caso della Spagna, occupata nel
sec. VIII dagli Omayyadi, dove la presenza araba (fino al 1492) diede vita a
una cultura particolarmente feconda e originale, elemento base nella formazione
della nuova Europa. Verso la fine del Medioevo il mondo arabo era già
in grave crisi. Sin dal tempo dei Selgiuchidi (sec. XI) l'iniziativa militare
e politica era passata dagli Arabi ai Turchi: essi soltanto avevano seriamente
ostacolato i progressi dei crociati. Curdo di nascita era il Saladino, che alla
fine del sec. XII riunì, in un impero ancora formalmente arabo, Egitto,
Siria, Mesopotamia e Yemen; ma nel sec. XIII anche questo impero doveva finire
sotto il regime dei pretoriani turchi, i Mamelucchi, cui seguirono, nei primi
decenni del sec. XVI, gli Ottomani che conquistarono le terre arabe dell'Asia.
Dapprima la Siria (1516) e l'Higiaz, in seguito l'Iraq (1534) e lo Yemen entrarono
a far parte dell'immenso Impero ottomano. Soltanto le aree meno appetibili del
Deserto Arabico rimasero ai Beduini. Anche negli ultimi decenni del Seicento,
quando l'Impero ottomano entrò in crisi, gli Arabi non tentarono di trarre
profitto dalla situazione. In quei secoli di decadenza l'unico moto veramente
arabo fu il sorgere della Wahhabiyya: fenomeno religioso nelle sue origini,
legata al desiderio di una riforma dell'Islam che gli restituisse la primitiva
purezza, divenne la molla per una ripresa dell'espansione beduina e autenticamente
araba. Tra i sec. XVIII e XIX il movimento wahhabita, sotto la guida degli Ibn
Sa!ud, emiri del Neged, estese la sua influenza all'Higiaz e minacciò
la Siria e l'Iraq, finché nel 1818 fu sconfitto da Muhammad !Ali e costretto
a riparare nei deserti dell'Arabia. Perduta, per così dire, l'occasione
wahhabita, la rinascita araba avvenne sotto un altro segno, quello della penetrazione
culturale, politica ed economica dell'Occidente. Particolarmente ricettiva fu
a questo proposito l'area sirolibanese, dove alcune Chiese cristiane autocefale
erano state attratte nell'orbita di Roma durante i sec. XVII e XVIII. L'intensificarsi
dei contatti con l'Europa permise, a partire dagli anni intorno al 1840, un
profondo rinnovamento culturale, cui non fu estranea l'occupazione della Siria,
nel corso del decennio precedente, da parte di un Egitto che, su impulso di
Muhammad !Ali, conduceva un vigoroso esperimento di modernizzazione e promuoveva
una politica favorevole agli Arabi. Fin verso la fine dell'Ottocento il risveglio
arabo si limitò prevalentemente al campo culturale e si rivolse all'esaltazione
della grande tradizione letteraria e alla riscoperta del glorioso passato e
solo dopo il 1870 le preoccupazioni politiche e religiose vennero in primo piano;
in quel periodo l'élite culturale quasi esclusivamente cristiana che
aveva promosso il primo risorgimento arabo dovette cedere il passo a un movimento
nazionalista che, quasi sempre in una difficile simbiosi con il riformismo islamico,
si era esteso agli ambienti musulmani. In questo clima nacquero un movimento
d'opinione e alcune società segrete che ritennero di poter vedere concretate
le loro speranze dalle vicende della guerra 1914-18. Quest'ultima costituì
un'importante svolta della storia araba: la fine della dominazione turca, al
cui crollo aveva contribuito anche la rivolta araba guidata dallo sceriffo della
Mecca Husayn ibn !Ali, parve coincidere con la creazione di un regno arabo di
Siria sotto il secondogenito di Husayn, Faysal.
Storia: la fine del sogno panarabo
La logica dell'imperialismo occidentale, che già nel corso dell'Ottocento
aveva investito le terre arabe (la Gran Bretagna aveva conquistato Aden nel
1839 e si era assicurata il dominio del Golfo Persico, mentre la Francia era
penetrata nel Levante, dove aveva ottenuto per i cristiani del Monte Libano
una certa autonomia), spezzò queste speranze. Le due maggiori potenze
europee si spartirono, sotto la copertura di mandati della Società delle
Nazioni, i territori perduti dai Turchi al di fuori della Penisola Arabica.
Libano e Siria toccarono alla Francia, Iraq e Palestina alla Gran Bretagna.
Se quest'ultima riuscì a trovare un modus vivendi con i nazionalisti
arabi (almeno per l'Iraq, il quale ottenne nel 1930 un'indipendenza formale,
mentre per la Palestina, destinata a essere sede di un focolaio nazionale ebraico,
non fu possibile raggiungere un accordo), al contrario la Francia fallì
nei suoi tentativi. Soltanto la Penisola Arabica, teatro delle imprese di Ibn
Sa!ud I culminate nella creazione dell'Arabia Saudita (1932), riuscì
a sottrarsi in una certa misura al dominio imperialista. La II guerra mondiale
pose in crisi, al di là dei suoi esiti immediati favorevoli agli Anglo-Francesi,
l'assetto voluto dai colonialisti. Siria e Libano ottennero la piena indipendenza
(1943). Si profilò anche, in parte in reazione al divide et impera imperialista,
un moto panarabo che portò nel 1945 alla nascita della Lega Araba. Ma
la Lega non era affatto in grado di offrire gli strumenti per superare le aspre
rivalità che dividevano il mondo arabo. La nascita di Israele nel 1948,
favorita dalla scarsa solidarietà interaraba, affrettò lo slittamento
della direzione politica degli Stati arabi dalle mani delle oligarchie dominanti,
feudali o borghesi che fossero, in quelle della piccola borghesia, spesso rappresentata,
o appoggiata, dalla classe militare. La rivoluzione egiziana apparve, specialmente
all'indomani di Suez, il coronamento di questa tendenza: la fede nei miglioramenti
che poteva assicurare un'ideologia panaraba progressista ebbe una rapida diffusione.
Ma le vicende dell'unione della Siria con l'Egitto (1958-61) e della rivoluzione
irachena (1958) gettarono acqua sul fuoco degli entusiasmi. Nel 1963 il fallimento
del tentativo di dar vita a una federazione a tre fra l'Egitto, la Siria e l'Iraq
(in questi due ultimi Paesi s'erano impadroniti del potere i baasisti, seguaci
di un'ideologia diversa per matrice ma non lontana da quella nasseriana) chiuse
il capitolo dei sogni panarabi. Nel frattempo il colpo di Stato repubblicano
che aveva avuto luogo nello Yemen aveva dato nuova esca ai contrasti fra i Paesi
conservatori, che agitavano la bandiera panislamica, e quelli progressisti.
D'altro canto le peripezie della guerra civile yemenita, cui venne posto fine
soltanto nel 1970, impedirono la creazione del fronte unitario che alcuni Paesi
arabi avrebbero voluto opporre a Israele. E così, quando nel 1967 lo
Stato ebraico lanciò la sua guerra-lampo contro la Rep. Araba Unita (RAU),
la Giordania e la Siria, la vittoria israeliana fu facilitata dai dissidi che
minavano la comunità araba. I ripetuti fallimenti dei tentativi di dare
una risposta comune ed efficace alla presenza israeliana su vasti territori
arabi alimentarono da un lato il fenomeno della resistenza palestinese (sotto
la guida dell'OLP) e dall'altro favorirono una limitata intesa tra i Paesi progressisti
più direttamente interessati al conflitto con lo Stato ebraico. Gli avvenimenti
successivi alla guerra arabo-israeliana del 1973, pur nella loro apparente contraddittorietà,
diedero un'ulteriore prova del fatto che, al di là della diversità
ideologica, il mondo arabo rimaneva sostanzialmente unito nella difesa del popolo
palestinese. Nel 1974 la conferenza di Rabat riconobbe all'Organizzazione per
la Liberazione della Palestina (OLP) il titolo di unico rappresentante degli
interessi palestinesi avallando, con ciò, il suo operato anche a livello
internazionale. Il fronte della solidarietà araba venne però messo
ben presto in crisi dall'acuirsi del dissidio tra Libia ed Egitto e dallo scoppio
della guerra civile in Libano con il coinvolgimento della Siria, il cui intervento
(1976) fu tardivamente approvato dalla Lega Araba. Ma il fatto esplosivo che
minacciò per un momento di destabilizzare tutto il mondo arabo fu il
gesto dell'egiziano as-Sadat, che sul finire del 1977 si recò a Gerusalemme
per rivolgere alla Knesset (Assemblea nazionale) israeliana parole di pace.
Il fatto venne interpretato come un tentativo di disimpegno dell'Egitto nei
confronti dei Palestinesi. Si creò subito un “fronte del rifiuto”
(1978) nel quale si strinsero i Paesi progressisti, mentre anche quelli più
moderati (p. es. l'Arabia Saudita) si posero in posizione critica. Il piano
di as-Sadat, tenacemente appoggiato dal governo USA, si concretò in una
“cornice” di accordi sottoscritti a Camp David fra il presidente
egiziano, l'israeliano Begin e J. Carter e sfociò nel trattato di pace
israelo-egiziano di Washington (26 marzo 1979). Negli anni Ottanta la lunga
guerra di posizione fra Iran, che pure non può essere annoverato tra
i Paesi arabi in senso stretto, e Iraq era motivo di spaccatura fra gli Stati
arabi (con Libia, Siria e Yemen del Sud a favore degli Iraniani), portando in
particolare alla costituzione, da parte dei Paesi petroliferi del Golfo (di
orientamento moderato), di un Consiglio di Cooperazione volto a garantire la
difesa dei comuni interessi commerciali: costato più di un milione di
morti oltre alle notevoli risorse economiche e durato ca. otto anni, il conflitto
aveva termine nell'agosto 1988 con una tregua a cui seguivano negoziati fra
le parti con la mediazione dell'ONU. Ma il presidente iracheno Saddam Husayn
non rinunciava al suo progetto di porsi alla guida della “nazione araba”
e innescava una crisi di vaste proporzioni invadendo e annettendo il Kuwait
(agosto 1990). L’immediata richiesta di aiuto da parte dell’Arabia
Saudita, che si vedeva direttamente minacciata anche sul piano militare, veniva
raccolta dagli Stati Uniti preoccupati delle ripercussioni economiche legate
alla produzione e distribuzione del petrolio; più in generale, però,
l’azione di Saddam Husayn incontrava l’opposizione di gran parte
della comunità internazionale, anche per il mancato rispetto dei più
elementari principi del diritto internazionale che l’invasione del Kuwait
rappresentava. Il conflitto minava anche la solidarietà tra i Paesi arabi,
alcuni dei quali (Arabia Saudita, Egitto, Siria) erano decisi a impedire il
progetto egemonico di Saddam Husayn, cui invece plaudivano nazioni più
storicamente ostili al mondo occidentale. Giocava un ruolo, in questa divisione,
anche la spinta fondamentalista che iniziava a montare e che trovava interlocutori
proprio tra le masse insoddisfatte di quelle realtà nelle quali il processo
di modernizzazione non aveva dato frutti tangibili alle popolazioni. L’ipotesi
su cui sembrava aver puntato Saddam Husayn, di una riunificazione araba contro
l’Occidente e la stessa dinastia saudita, si infrangeva, però,
con l’intervento dell’Egitto e della Siria accanto alle truppe internazionali
che sotto il comando statunitense, e alla fine di un lungo braccio di ferro,
portavano l’attacco direttamente sul territorio iracheno (guerra del Golfo,17
gennaio-28 febbraio 1991).
Storia: la questione palestinese
Le nuove alleanze formatesi nel mondo arabo in funzione anti Saddam aprivano
nuove prospettive anche per la soluzione dell’annosa questione palestinese.
Dal 1987, grazie all’Intifada (la rivolta delle pietre), la comunità
internazionale aveva ripreso a interessarsi del problema dei territori occupati
da Israele in seguito alla guerra del 1967. Le immagini dei giovani palestinesi
che affrontavano l’esercito israeliano – e delle brutali repressioni
che subivano – avevano fatto il giro del mondo suscitando una vasta solidarietà
a favore dei rivoltosi. L'OLP e il suo leader ‘Arafat avevano maturato
posizioni nuove che si concretizzavano nel 1988 con l’accettazione delle
risoluzioni dell’ONU relative al diritto all’esistenza dello Stato
di Israele e, quindi, nel riconoscimento reciproco tra Israele e OLP, sancito
nello storico incontro di Washington tra ‘Arafat ee il premier israeliano
Y. Rabin (settembre 1993). Il riconoscimento ma anche il nuovo quadro geopolitico
mondiale e i nuovi rapporti di forza regionale favorivano l'avvio del processo
di pacificazione dei rapporti tra Israeliani e Palestinesi e, grazie alla mediazione
degli USA, si giungeva all'apertura di una conferenza di pace (Madrid, ottobre
1991). Un processo lungo e tormentoso che si sviluppava con alterne vicende
e caratterizzato dall’esplodere di sempre nuove ondate terroristiche alimentate,
nell’uno e nell’altro campo, dalle componenti più oltranziste
sul piano politico e religioso. Ma era soprattutto dopo la nomina in Israele
di Ariel Sharon alla guida del governo che i rapporti tra i due Paesi conoscevano
una crisi gravissima: da una parte gli attentati dei kamikaze palestinesi contro
gli Israeliani, dall'altra la reazione dell'esercito di Israele, che attaccava
e occupava i centri posti sotto l'amministrazione dell'Autorità Nazionale
Palestinese tenendo sotto assedio lo stesso ‘Arafat, sembravano eliminare
ogni possibilità di dialogo che neppure una proposta di pace dell'Arabia
Saudita (2002), appoggiata praticamente da tutta la comunità internazionale,
riusciva ad avviare. Più in generale il mondo arabo si affacciava al
terzo millennio evidenziando una serie di squilibri economici, sociali e politici
che nemmeno le potenzialità connesse allo sfruttamento del petrolio potevano,
di per sé, risolvere. In queste contraddizioni si inserivano le attività
di gruppi fondamentalisti che predicavano un ritorno ai caratteri originari
dell’Islam e una completa sottomissione della società e della politica
alla shari‘ah. Radicati negli strati più poveri della popolazione,
questi gruppi rappresentavano un potente fattore di destabilizzazione dei regimi
laici, o tendenzialmente tali, di alcuni Paesi arabi. Un fenomeno che assumeva
caratteristiche vistose in Algeria, percorsa da una violenza che causava decine
di migliaia di vittime, che destava molte preoccupazioni anche in Egitto e iniziava
a riguardare la stessa Libia.
Religione
Fondamento della religione degli Arabi preislamici delle regioni sett. era la
credenza in un dio supremo, Allah. Sommerso da altre figure divine maschili
e dallo sviluppo preso dai vari pantheon locali, Allah vive lontano nel suo
empireo, racchiuso in un'oziosa perfezione. La sua idea risponde all'esigenza
degli Arabi di unificare le particelle del divino numen sparse in mille altre
denominazioni in una figurazione divina assoluta, libera da troppi antropomorfismi
e con un notevole grado di spiritualità. I nomadi lo veneravano con una
parte delle offerte, distinta da quella per gli altri dei, e lo invocavano nei
giuramenti. In processo di tempo però il concetto di Allah non sfuggì
a sovrastrutture antropomorfiche, quali, p. es., quella di essere padre di al-Lat,
di al-!Uzza e di Manah. Queste anzi figurano in primo piano tra le divinità
femminili: al-Lat (o Ilat o Allat) aveva il suo culto in un santuario presso
Ta'if; al-!Uzza aveva il suo santuario in Lakhla, ma il suo culto era diffuso
fra i Quraish della Mecca, i Nabatei, a Petra e in molte altre tribù
beduine; Manah (o Manat) era la divinità del destino e della morte. Altre
divinità minori erano: Ruda, forse un'ipostasi di Venere; Hubal (o Hobal),
l'idolo più venerato della Mecca: aveva forma d'uomo e si trovava nella
Ka!ba (la citazione della Sura 106 del Corano farebbe pensare a un'antropomorfizzazione
di Allah); Wadd (o Uadd), il dio-luna dei Minei, ma venerato anche presso i
Lihyaniti; Rahim, dio personale, qualificato come al-Rahman (Misericordioso).
Nelle regioni merid. dell'Arabia il panorama religioso appare estremamente frammentario,
secondo i vari insediamenti agricoli o le trasmigrazioni dei nomadi. Fondamento
della religione è una commistione fra culti nomado-pastorali con motivi
astrali e culti propri alle culture agricole. Le divinità erano rappresentate
con tratti antropomorfici molto accentuati richiamanti la figura del re o del
signore, del padrone o del padre. Il pantheon del sud aveva in comune molte
divinità con quello del nord. Particolari invece a queste regioni erano:
il dio-luna, che si chiamava Ilumqud(u) o Sin presso i Sabei e aveva un grande
tempio a Marib o Wadd presso i Minei, e Amm presso i Qatabaniti; Shams (o Shamsun),
la dea-sole, denominata Aylat (l'altera); Athtar, il pianeta Venere, venerata
in tutta l'Arabia merid. come dea che mandava la pioggia e l'abbondanza. A queste
principali si aggiungevano numerose divinità tutelari di singole persone,
di tribù, di località, di città, ecc. ? Al nord i luoghi
di culto (Haram, interdetto) erano protetti da un'interdizione che attribuiva
loro carattere di sacralità. Il culto si esprimeva in corse attorno al
betilo e in sacrifici di animali, a cui seguivano il pasto comune e il versamento
del sangue ai piedi della pietra. Grande importanza avevano già i viaggi
ai luoghi sacri. Il culto era esercitato dal capo del gruppo, non avendo il
nomadismo favorito la formazione di un sacerdozio stabile. Nel sud, con l'abbandono
del nomadismo, i templi sostituirono le oasi come spazi cultuali. Esisteva una
classe sacerdotale con mansioni ben precise e associazioni di devoti, maschi
e femmine, votati a particolari divinità; una terza organizzazione amministrava
i beni del tempio. Fra le varie festività si ricorda l'Halfan, alla quale
si presenziava solo dopo aver osservato minuziose regole di purità legale;
i pellegrinaggi erano pure regolati da norme di penitenza e di purità;
numerose le offerte. Diffusa era pure la pratica della magia per mezzo di amuleti
e di statuine. ? Le relazioni intercorrenti tra religioni arabe preislamiche
e i caratteri arcaici delle altre religioni semitiche, come pure i vari contributi
da esse apportati all'elaborazione di Maometto rendono interessante lo sforzo
di evidenziare gli aspetti fondamentali della vita religiosa preislamica. In
tal senso si sottolinea il carattere astrale di questa religione, proprio ai
popoli nomadi nel deserto, che in particolare hanno bisogno della pioggia e
della luce lunare, nelle notti durante la trasmigrazione. Alla Luna si aggiunge
il pianeta Venere, stella di riferimento nelle notti illuni. Completa la triade
divina il Sole, il quale però ha solo una funzione secondaria, perché
il suo calore diurno è sentito come ostile, rendendo difficile il cammino
e inaridendo le fonti. Prevalgono quindi la Luna e Venere che, permettendo l'attività
vitale durante la notte, sono considerate una diade benevola. A quest'analisi
non fa seguito da parte degli studiosi l'altro capitolo non meno importante
sulla civiltà agricola che si è sostituita al nomadismo e che
rimane, per larga parte, ancora tutta da ricercare.
Pensiero filosofico
L'Impero arabo incorporò, nel suo espandersi a tutto l'Oriente classico,
territori appartenenti all'Impero persiano e una parte cospicua dell'Impero
bizantino. Diverse tradizioni giunsero così in contatto fra loro e trovarono
nell'Islam un terreno d'incontro. Il califfato di Harun ar-Rasid (786-809) vide
l'inizio di un intenso sviluppo della civiltà islamica, che da queste
diverse tradizioni trasse alimento. Da un lato, come reazione alla precettistica
coranica, presto volta dalla commistione di autorità politica e religiosa
propria dell'impero dei califfi a un formalismo arido, e come opposizione al
dogmatismo dei teologi, sorse una corrente mistica, il sufismo (da sûf,
il saio portato da questi religiosi musulmani), che predicava l'unione dell'uomo
con Dio e il conseguente abbandono dell'amore di sé. Per questi mistici
la conoscenza di Dio, che è adesione all'impulso suscitato dalla sua
bellezza, è superamento di ogni conoscenza intellettuale in una gnosi
che è fondamentalmente amore e possesso. Abbandono e fiducia in Dio sono
l'effetto di questo ascendere a una conoscenza superiore a quella umana, che
ritrova in Dio l'anima del mondo, non il primo degli esseri ma colui che contiene
in sé tutto il mondo come suo fenomeno, sua apparenza. Già in
questo indirizzo, vivo soprattutto nella Persia islamizzata, l'influenza del
neoplatonismo, spesso nelle sue forme più prossime al cristianesimo,
è assai percepibile. Ma accanto a questa mistica si sviluppa un pensiero
più propriamente filosofico, che attinge anch'esso alla tradizione neoplatonica
e si riferisce attraverso essa a un Aristotele reinterpretato, cosa resa agevole
dalla presenza, tra gli elementi determinanti dello stesso neoplatonismo, dei
tentativi di armonizzazione di Platone e Aristotele. Aristotele è il
filosofo delle cose terrene, Platone di quelle celesti: già l'anonimo
autore della Teologia pseudoaristotelica fa dire ad Aristotele che coronamento
della sua filosofia è lo studio del procedere degli esseri da Dio, la
cui luce si espande attraverso l'Intelligenza, l'Anima e la Natura, a tutto
il reale. Altra fonte del pensiero arabo, e parimenti determinante per il suo
indirizzo neoplatonico, fu il Libro delle cause, in realtà una traduzione
degli Elementi di teologia di Proclo. In questo quadro la dottrina delle anime
motrici dei cieli, di origine aristotelica, interviene a completare il quadro
cosmologico in cui si muoveranno filosofi come al-Farabi e Avicenna. A questi
elementi greci si aggiungono poi eredità dell'antica religione persiana
della luce: sia l'irradiarsi della bellezza divina nella concezione dei sufi,
sia la concezione dell'azione di Dio come luce che si diffonde e, a poco a poco,
allontanandosi dal suo centro, si oscura, risentono dell'influsso persiano.
Si oppone invece a questo insieme di pensieri, tutti contribuenti a una visione
del mondo come emanazione di Dio, una reazione degli elementi più propriamente
islamici, volta a contrastare la concezione necessitaristica ed emanatistica
di origine neoplatonica. Questi teologi, soprattutto attraverso la figura di
al-Ash'ari (873-936), affermarono la discontinuità e l'atomismo come
caratteri del reale: il reale è diviso in un'infinità di elementi
separati tra cui non è possibile alcun rapporto diretto; solo l'azione
creatrice continua di Dio, la sua continua presenza (opposta alla lontananza
del Dio neoplatonico, la cui azione giunge al mondo attraverso molteplici mediazioni)
consentono alle creature di sussistere. Tale visione si riallaccia per molti
versi alle teorie dei Mutakallimun, i “disputanti”, teologi musulmani
spesso eretici che in vario modo, sin dal sec. VII, rappresentarono una corrente
in larga parte estranea al pensiero greco. Ma ben maggiore importanza rispetto
a queste tendenze religiose ha per il pensiero arabo la tradizione aristotelica.
Essa, come si è detto, ha una forte impronta neoplatonica, ma conserva
più diretti riferimenti ad Aristotele, destinati a riemergere in forma
meno contaminata nella fase più matura della filosofia araba con Averroè.
L'Aristotele storico giunge agli Arabi dapprima attraverso le traduzioni siriache,
compiute prima della conquista dell'Asia anteriore da parte dell'Islam. A partire
dal 750, alla corte degli Abbasidi inizia un'intensa attività di versione
di testi classici in arabo, mediante la quale, accanto alle opere neoplatoniche
come il Libro delle cause, si diffondono anche le opere autentiche di Aristotele.
Gli Arabi possono così entrare in possesso di quasi tutto il corpus aristotelico
(salvo gli scritti politici), di molti commentari antichi ad Aristotele, oltre
che delle opere di Galeno e Plotino, del Timeo, della Repubblica e delle Leggi
di Platone. L'importanza storica di tali traduzioni fu grandissima, perché
attraverso esse l'Occidente iniziò la conoscenza diretta di Aristotele
e del pensiero classico.
Pensiero scientifico
Tra i sec. VIII e XI si sviluppò nei Paesi del Vicino Oriente, Africa
sett. e Spagna un movimento culturale, noto come “rinascimento arabo”
che, assimilando il patrimonio scientifico delle antiche civiltà, trasmise
al mondo occidentale le basi sulle quali sarebbe stata poi impostata gran parte
della scienza moderna. Pur essendo i grandi studiosi che contribuirono a creare
la scienza araba diversi per provenienza etnica e cultura, è senza dubbio
valida la loro collocazione in un unico quadro per le numerose componenti comuni
del loro pensiero, quale innanzitutto la lingua, usata anche da ebrei e cristiani,
da cui derivò una precisa terminologia scientifica in seguito trasmessa
ai popoli europei; notevole fu anche l'estensione degli interessi, tanto nella
scienza pura quanto in quella applicata, che permise alla civiltà araba
di realizzare importanti progressi pressoché in ogni campo della tecnica,
introdotti via via nei Paesi conquistati. L'origine di questo movimento scientifico
si può collocare verso la metà del sec. VIII con l'avvento della
dinastia degli Abbasidi, i cui califfi incoraggiarono l'interesse verso la scienza,
e con il ritrovamento delle opere scientifiche dell'antichità classica
nei Paesi in cui si insediarono. Fonti certe della scienza araba furono prima
di tutto i testi greci, passati in ambiente arabo attraverso traduzioni in siriaco
e in persiano a opera soprattutto di comunità nestoriane e monofisite.
Accanto a queste, gli Arabi poterono presto disporre anche di traduzioni di
opere scientifiche provenienti dall'India, sembra tramite scienziati di origine
iranica. Famosi a questo proposito i Siddhanta, testi astronomici datati intorno
al sec. V e tradotti in arabo nel 775. Ma fu solo durante il califfato di al-Ma'mun,
con la creazione (832) a Baghdad di una vera scuola di traduttori (trasformatasi
poi in università a cui venne affiancato un osservatorio astronomico)
che il pensiero scientifico arabo assunse le sue precise caratteristiche di
conservatore delle opere dell'epoca classica greca, per consegnarle, spesso
rinnovate con contributi originali o mediati dalla scienza indiana, persiana
e forse cinese, al mondo occidentale del basso Medioevo. Nel campo della matematica,
l'influenza dell'India si rivela soprattutto nell'adozione del sistema numerico
posizionale, introdotto poi in Occidente e ancor oggi in uso. Più che
la terminologia e il simbolismo numerici, peculiari del pensiero matematico
indiano sono l'istituzione del valore posizionale delle cifre e l'uso dello
zero che consentirono una semplificazione e un'agevolazione dei calcoli. Di
origine indù, piuttosto che greca, fu anche l'interesse ad approfondire
lo studio dell'algebra: gli Arabi elaborarono infatti la teoria delle equazioni
di secondo grado e diedero alcuni facili esempi di soluzioni per equazioni di
terzo grado. Per quanto riguarda la trigonometria, se è probabile che
gli Arabi siano debitori agli Indiani della nozione di seno, tuttavia furono
essi a valorizzarla sostituendo al sistema greco delle corde quello fondato
sulle funzioni di seno, coseno e tangente. Tra gli scienziati di maggior rilievo
sono da ricordare al-Khuwarizmi (sec. IX) e !Umar Hayyam, più noto come
!Omar Khayyam (m. ca. 1123), che posero le basi del calcolo algebrico, mentre
soprattutto ad Abu l-Wafa' (939-998 ca.) e Ibn Yunus (974-1009) si debbono la
sistemazione della trigonometria e le prime tavole delle funzioni circolari.
Nell'astronomia e astrologia gli Arabi profusero numerose energie senza peraltro
conseguire risultati di grande originalità, sempre legati alla concezione
tolemaica. Tuttavia, grazie agli importanti strumenti scientifici, come l'astrolabio,
da essi inventati o perfezionati e con il ricorso ai loro nuovi metodi di calcolo,
poterono compiere osservazioni continuative rettificando alcuni dati precedenti.
Notevoli gli studi di al-Battani (858-929) sulla precessione degli equinozi
e di Abu l-Wafa' sulle variazioni lunari; celebri le tavole astronomiche di
Ibn Yunus e az-Zarqali (1029-1087 ca.) e il libro delle stelle fisse di !Abd
ar-Rahman as-Sufi (903-986), che ha permesso utili raffronti anche in epoca
moderna. Nell'alchimia (il termine stesso è di origine araba) spetta
agli Arabi il merito di aver indirizzato le ricerche verso metodi più
razionali, con prevalente interesse pratico. A Geber (sec. IX-X) si devono sia
alcune impostazioni teoriche molto vicine alla chimica moderna, sia indicazioni
per la preparazione di acidi e sali usati nell'industria tessile e metallurgica,
mentre gli studi di Rhazes (860-925 ca.) ebbero importanti riflessi soprattutto
in farmacologia. La medicina, nella quale gli Arabi si riallacciavano alla via
tracciata dalla scienza greca, ebbe i suoi maggiori esponenti in Abulcasis (936-1013)
e Avicenna (980-1037). Del primo si ricordano gli studi di chirurgia, del secondo,
noto anche come filosofo, il Canone di medicina ispirato a Ippocrate e studiato
ancora nel Cinquecento. Un altro campo nel quale gli scienziati arabi ottennero
risultati di rilievo fu quello della fisica sperimentale grazie agli studi di
ottica condotti da Alhazen (965-1039) e alle ricerche per la determinazione
dei pesi specifici condotte da al-Biruni (973-1048), di cui è soprattutto
nota una monumentale opera geografica sull'India. Altro campo nel quale gli
Arabi acquisirono notevoli meriti è quello della geografia, da essi coltivata
non solo in modo descrittivo ma anche come scienza metrica con la stesura di
mappe e carte geografiche. Viaggiatori e geografi come Ibn Hawqal, al-Mas!udi,
al-Idrisi e più tardi Ibn Battuta precisarono ed estesero le conoscenze
relative sia ai Paesi affacciantisi sull'Oceano Indiano sia all'Africa occidentale
e sahariana. Infine, vanno menzionati gli studi di scienze naturali, in particolare
di mineralogia, esposti nelle numerose opere enciclopediche compilate in quel
periodo, destinate a diffondere la scienza in tutto il mondo arabo.
Letteratura: l'età preislamica
I primi esempi di produzione letteraria araba risalgono al sec. VI e sono rappresentati
prevalentemente da composizioni poetiche. Area di diffusione della letteratura
preislamica è l'Arabia centrale e settentrionale. La poesia della Gahiliyyah,
cioè della barbarie o del paganesimo, come sarà chiamata dalle
future generazioni musulmane l'età preislamica, ha elevato la lingua
araba a dignità letteraria. Fin dalle prime attestazioni la poesia appare
artisticamente matura e fa presupporre un'evoluzione di cui non si hanno testimonianze.
La metrica è perfettamente sviluppata quantitativamente in una serie
di schemi a base dei quali è l'elementare ritmo giambico del ragaz evolutosi
da un più arcaico ritmo sag! (prosa cadenzata e ritmata), che si è
forse originato dalla cantilena del cammelliere. Questa poesia è stata
tramandata oralmente e solo due secoli dopo è stata fissata per iscritto;
ciò ha causato non poche interpolazioni e falsificazioni. La tematica
di tale antica poesia beduina tocca i motivi fondamentali dell'animo umano:
l'amore, la morte, la natura, l'uomo e il suo posto nell'universo. Caratteristiche
dei primitivi cantori beduini sono il vanto di sé o della tribù
(fahr); l'encomio (madih); la satira dell'avversario (higa') e il motivo sentenzioso.
Gli affetti familiari, i vincoli tribali, consacrati specialmente nelle elegie
(rita'), dove la sensibilità individuale traspare sotto la stilizzazione,
sono espressi con vivacità. L'elemento descrittivo (wasf) è però
la caratteristica più peculiare di tutta la poesia pagana. Prima personalità
storica è Imru' al-Qays (sec. VI), autore di una delle sette odi dorate
(mu!allaqat) secondo la raccolta poetica di Hammad'd ar-Rawiya (sec. VIII).
Tarafa è il secondo poeta dell'antologia ed è l'autore della più
classica descrizione della cammella, motivo che sarà poi ripetuto in
maniera perfino stucchevole da una pleiade di poeti. !Antara ibn Shaddad, !Omar
ibn Rabi!a, Zuhayr ibn Abi Sulma sono altri tre campioni, o stalloni (fuhul)
secondo l'immagine araba, di questa fase arcaica della poesia. Tra gli altri
cantori beduini emerge il gruppo dei poeti sa!lik (pl. di suluk, miserabile
ladrone), banditi dalle rispettive tribù e datisi alla razzia e alla
rapina. Essi si vantano della propria abiezione sociale e di infrangere il galateo
e il codice cavalleresco beduini. !Urwa ibn al-Ward, vissuto in epoca di poco
anteriore al sorgere dell'Islam, ha lasciato il ritratto di questi “maledetti”.
Ta'abbata Sharran e Sanfara, appartenenti alla stessa banda di predoni, impersonano
meglio di altri la figura del suluk. Sanfara forse è autore di quella
che la critica moderna considera la più bella poesia araba rimastaci:
la cosiddetta Lamiyyat al-!Arab (Carme degli Arabi in rima lam). Accanto ai
poeti beduini vanno ricordati i poeti di corte dei Gassanidi e dei Lakhmidi:
an-Nabiga ad-Dubyani, Maymun ibn Qays e il cristiano !Adi ibn Zayd, nei quali
i contatti con ambienti culturali più evoluti temperano l'asprezza propria
degli uomini del deserto. Spirito singolare fu Umayya ibn Abi s-Salt, uno di
quegli animi religiosi (hanif) né cristiani né ebrei che vagheggiavano
una fede monoteista. Chiude degnamente la rassegna la malinconica poetessa al-Khansa',
una delle voci più ispirate della poesia araba di tutti i tempi. L'antica
prosa pagana è più intuita che documentata: la difficoltà
della trasmissione orale di materiale non vincolato da schemi ritmici ne ha
impedito la conservazione. Il primo vero monumento prosastico arabo è
il Corano, fondamentale non solo come codice religioso e fonte del diritto islamico,
ma anche come opera letteraria.
Letteratura: l'età di Maometto e degli Omayyadi
La letteratura araba di questo periodo si può considerare “nazionale”,
cioè prodotta quasi esclusivamente da Arabi, anche se l'avvento dell'Islam
costituì una svolta decisiva nello sviluppo della cultura araba, che
si venne a inserire nel complesso culturale del Vicino Oriente. Nella poesia,
pertanto, la predicazione di Maometto non portò a una frattura tra le
concezioni dei poeti anteriori e quelli immediatamente posteriori, i cui temi
e schemi rimasero in complesso quelli dell'età pagana. Il Profeta venne
fatto oggetto di encomio, ma la struttura della qasida rimase sostanzialmente
immutata; solo sul finire di questo periodo si ebbe un'originale fioritura della
lirica d'amore e del canto bacchico, premessa della nuova poesia. Maometto ebbe
tre cantori ufficiali: gli higiazeni e musulmani Ka!b ibn Malik, !Abd Allah
ibn Rawahahe e Hassan ibn Tabit. Ma il più bel carme in lode di Maometto
si deve a un pagano, Ka!b ibn Zuhayr, che lo recitò in presenza del Profeta
ricevendone il mantello (burda), donde è detto appunto Qasida della burda.
Poeti guerrieri, ma non epici poiché l'epica è estranea alla poesia
araba, furono !Amr ibn Ma!dikarib, Abu Mihgan e Abu Dhuayb, che espressero l'esperienza
diretta delle battaglie per la conquista della Siria bizantina, dell'Egitto,
della Persia sassanide e dell'Iraq in quadretti realistici, spesso colmi di
saporosa comicità. Originale cantore del vino fu il califfo Walid II
(743-744), sovrano sconsiderato e crudele ma artista geniale, mentre tradizionalisti
furono il cristiano al-Akhtal (640-710), fedele alla dinastia musulmana e vigoroso
autore di versi bacchici, Garir ibn !Atiyyah (m. 732 ca.), dolce nell'elegia
e volgare nell'invettiva, e l'avventuriero al-Farazdaq. Innovatori furono, invece,
i cantori d'amore: soprattutto Gamil, che cantò la bella Buthaynah, considerato
il vero martire d'amore dalla tradizione araba, con Kutayyir e Nusayb, di sangue
negro. Se in questi poeti beduini l'amore è condizione di vita, nel cittadino
!Omar ibn Abi Rabia (m. 720) lo spirito ironico e galante lo rende una piacevole
avventura. Anche la prosa dell'epoca di Maometto e dei suoi primi successori
conservò le forme già note della prosa preislamica e come questa
è stata soggetta a rielaborazioni posteriori. Si tratta di massime, esortazioni,
narrazioni, brani oratori, fra i quali non mancano quelli attribuiti allo stesso
Maometto e ai primi califfi, privi di quegli eccessivi accorgimenti stilistici
che renderanno la prosa posteriore a volte stucchevole. La feconda storiografia
islamica ebbe in questo momento la sua origine sotto forma di hadit (breve racconto
canonico), per lo più sulla vita del Profeta e dei suoi primi compagni.
Di una lunga serie di hadit era costituita la Storia generale degli Arabi di
Ibn Ishaq (m. 768), di cui è rimasta solo la parte riguardante la vita
del Profeta nella posteriore redazione di Ibn Hisam (sec. IX). Saggi di questa
antica prosa si possono ancora ricavare dallo storico at-Tabari (m. 923) che
nei suoi annali trascrisse alla lettera molti brani di Abu Mikhnaf (m. 773).
Letteratura: il periodo abbaside
Allo Stato nazionale, nel quale gli Arabi rappresentavano, per diritto di conquista,
l'elemento dominante, si sostituì una comunità cementata dalla
religione e trascendente i limiti etnici e nazionali, della quale le popolazioni
dei Paesi conquistati, ormai convertite all'Islam, erano divenute con pieno
diritto membri. Ma appunto perché fondata sull'Islam, la nuova comunità
non poteva rinnegare la cultura che di esso era stata la culla e la lingua che
della rivelazione era stata lo strumento. Sia pure fra contrasti e a prezzo
di compromessi, la cultura araba fornì la base di coesione alle culture
dei popoli islamizzati, in primo luogo alla greca, alla siriaca e all'iranica
(e, attraverso questa, anche all'indiana), permettendone una sintesi dalla quale
sorse la cultura arabo-islamica. I cinque secoli (750-1258) di dominio degli
Abbasidi videro la cultura arabo-islamica giungere al suo massimo splendore
(nella seconda metà del sec. IX e nel X) per poi declinare, esaurito
lo slancio creativo. Il periodo abbaside si identificò nello sforzo maggiore
di rinnovamento del canto e delle forme poetiche, già in embrione in
quello precedente. Sul finire del sec. VIII fiorì in Iraq la “moderna
scuola” che contribuì a liberare la poesia dall'artificiosità
strutturale della qasida beduina, sostituendola con brevi componimenti autonomi.
Corifeo di questo nuovo indirizzo fu l'iranico Abu Nuwas, un libertino geniale
della corte di Harun ar-Rasid, che cantò in prevalenza l'amore efebico.
Degni di menzione sono: l'ascetico Abu l-!Atahiya, i poeti d'amore Muslim ibn
al-Walid (m. 803) e !Abbas ibn al-Ahnaf (m. 810). Nel sec. IX emersero il pessimista
Ibn ar-Rumi (m. 896), di origine greca, che nei suoi versi diede un documentato
e realistico quadro della società in cui visse; il raffinato Ibn al-Mu!tazz
(861-908), principe abbaside e per un giorno califfo; Abu Tammam (m. 845), al-Buhturi
(821-897), al-Mutanabbi, il siriano Abu l-!Ala al-Ma!arri, che chiude la lunga
serie dei geni creativi della Siria. In Spagna e in Sicilia la poesia subì
le influenze di quella orientale, pur avendo caratteristiche particolari per
il diverso ambiente in cui si sviluppò. La poesia arabo-andalusa di Spagna
ci è giunta per lo più in citazioni antologiche che la rendono
maggiormente preziosa. Ricordiamo gli esuli Ibn al-Andalusi (m. 972), Ibn Darrag;
il cordovano Ibn !Abd Rabbihi (m. 939), Ibn Hazm, teologo e sommo giurista oltre
che poeta, Ibn Zaydun, il maggiore dei poeti neoclassici, il romantico al-Mu!tamid
(1048-1095) e il malinconico Ibn al-Labbanah (m. 1113). Accanto a questa poesia,
che ripete nei metri quella orientale, a partire dal sec. X si affermò
in Spagna una nuova poesia strofica, dapprima in lingua letteraria, muwassahat,
non sconosciuta anche in Oriente, poi in volgare, zagal, della quale il più
illustre rappresentante fu Ibn Quzman. Tale forma segnò l'evoluzione
dalla poesia quantitativa verso quella accentuativa e presenta un marcato parallelismo
con l'evoluzione della poesia romanza. La Sicilia musulmana ebbe alcuni poeti
di un certo rilievo, come Ibn Hamdis di Siracusa, esule in Spagna, e !Abd ar-Rahman,
trapanese. Anche la prosa araba raggiunse in questo periodo la piena maturità;
accanto alla prosa scientifica, puro veicolo di contenuti che ebbe i suoi massimi
esponenti in al-Biruni, il più grande scienziato del Medioevo musulmano,
e nel teologo e giurista al-Ghazzali, fiorì quella di adab o di varia
umanità, che è prosa d'arte in senso stretto, dove il contenuto
diviene mero pretesto per esibizioni stilistiche. Nella pleiade dei prosatori
d'adab primeggiarono l'iranico Ibn al-Muqaffa!, che con le sue traduzioni di
opere pahleviche e indiane fece conoscere agli Arabi le letterature orientali;
il brillante e versatile al-Giahiz, il profondo at-Tawhidi e at-Tanukhi. La
prevalente produzione prosastica di questo periodo ci è giunta in antologie
di filologi e di grammatici: il Kitab al-Kamil (Libro perfetto) di al-Mubarrad
(m. 899) e ancor più il Kitab al-Aghani (Libro delle Canzoni) del grande
Abu l-Farag al-Isfahani ne sono esempi eloquenti. Puri artisti della parola
furono invece Ibn Nubata (m. 984), al-Hamadani (m. 1008) e al-Hariri: mentre
il primo eccelse nell'eloquenza, gli ultimi due portarono alla massima perfezione
la maqama, breve racconto contenente una scenetta o episodio in origine realistico,
narrato in raffinata prosa rimata. Anche la storiografia raggiunse in epoca
abbaside la piena maturità; tuttavia la mancanza di sensibilità
storico-critica vietò agli Arabi di superare lo stadio della mera compilazione
e anche il massimo annalista, at-Tabari, non fece che cucire pazientemente l'opera
d'altri, rinunciando a ogni spirito critico.
Letteratura: la decadenza
Il periodo compreso fra il sec. XIV e il XIX segnò per l'arabismo una
crisi profonda. La riconquista cristiana della Spagna e l'esautorazione dell'elemento
arabo in Oriente da parte dei Turchi Ottomani privarono l'arabismo delle sue
forze vitali; la lingua araba venne relegata a lingua liturgica e accademica,
e l'arabismo come forza culturale e politica non si riprenderà che nella
seconda metà del sec. XX. In poesia dominò la tendenza neoclassica;
vennero imitati i vecchi poemi e alla mancanza di ispirazione si continuò
a supplire con la ricercatezza della forma. Il nome più noto di questi
secoli infecondi è quello di Safi ad-Din al-Hilli (m. 1349), un poeta
aulico che nessuno più legge. La cultura divenne mera erudizione (an-Nuwayri,
al-Qalqasandi, as-Suyuti); la prosa d'adab si fece sempre più antologica,
ma come commento grammaticale e filologico a materiali precedenti; venne coltivata
la geografia, che ebbe in Ibn Battuta una delle figure più singolari
del tardo Medioevo islamico. Sempre nel campo della prosa letteraria è
interessante il tentativo, l'unico del genere, del medico egiziano Ibn Daniyal
di trasporre in forma letteraria i canovacci del popolare teatro delle ombre.
Fra gli storici si incontra la personalità di maggior rilievo e originalità
della letteratura araba di quest'epoca: il tunisino Ibn Khaldun, il solo di
tutta la storiografia arabo-musulmana che abbia inquadrato la storia in una
visione teorica. Mentre la poesia e la prosa colta si impoverivano sempre più,
in questo periodo fiorì rigogliosa la narrativa popolare, che ebbe il
suo culmine verso la fine del sec. XV nell'opera più universalmente nota
di tutta la letteratura araba: le Mille e una notte.
Letteratura: l'età della rinascita
Sino dalla seconda metà del sec. XIX i contatti con l'Occidente contribuirono
grandemente alla rinascita della cultura araba, il cui processo di rigenerazione
ebbe inizio con l'assorbimento e l'imitazione della cultura occidentale ma si
risolvette in attività originale, non distaccata però del tutto
dalla tradizione. Alcune vere e proprie dinastie di letterati, come i libanesi
Bustani e gli Yazigi, di cultura quasi sempre bilingue, contribuirono grandemente
a diffondere la cultura occidentale. Nasif al-Yazigi (1800-1871), purista ed
elegante scrittore, dette tre figli alle lettere; Butrus al-Bustani (1819-1883),
lessicografo e politico, fondò la prima rivista in lingua araba, al-Ginan
(I giardini) e la prima scuola nazionale laica. Suo figlio Salim tentò
di condurre a termine l'enciclopedia di tipo moderno da lui iniziata. Sulayman
al-Bustani (1856-1925), di un altro ramo della famiglia, tra le altre opere
annovera la traduzione integrale in versi dell'Iliade (1904). Accanto a questi
benemeriti la fine del sec. XIX vide sorgere una fitta schiera di pubblicisti,
per lo più esuli politici siriani trapiantatisi in Egitto e poi nelle
Americhe, tra cui Adib Ishaq (1856-1885), Nagid al-Haddad (1867-1899), Wali
ad-Din Yegen (1873-1921), i quali dall'esilio contribuirono alla formazione
di quel giornalismo siro-egiziano che ha avuto il suo massimo esponente in Gurgi
Zaydan (1861-1914), celebre autore di romanzi storici. Agli inizi del Novecento
la scuola siro-americana, formata da coloro che non avevano voluto soggiacere
al giogo ottomano e che ebbe nei libanesi Amin ar-Rihani (1876-1940), Gubran
Khalil Gubran (1883-1931), Nasib !Arida (1887-1946) i suoi primi e più
significativi rappresentanti, abbandonò gli schemi della poesia tradizionale
per più libere composizioni strofiche, facendo del dolore e delle meraviglie
del mondo e del rimpianto della patria lontana motivo di canto. Vi appartennero,
di una generazione più giovani, i libanesi Iliya Abu Madi (1889-1957)
e Mikha'il Nu!ayma (1889-1986), poi fervidamente operoso in patria. In Egitto
la moderna poesia è rimasta più fedele alla tradizione con Ahmad
Shawqi (1868-1932), Khalil Mutran (n. 1949) e Hafiz Ibrahim (1871-1932). Contemporaneo
a questa generazione è il tunisino Abu l-Qasim ash-Shabbi (1911-1934),
la più singolare voce della letteratura dell'Occidente arabo. La figura
più moderna della poesia egiziana contemporanea rimane quella di Abu
Shadi (1892-1955), il quale fece della sua rivista Apollo una vera palestra
di rinnovamento e di ricerca letteraria. In posizione autonoma rimasero i cosiddetti
indipendenti, tra cui Ahmad Rami (1892-1981) e !Ali Mahmud Taha (1902-1949).
Nel Libano, epigona della scuola siro-americana, fiorisce in questi anni la
poesia simbolista, fortemente influenzata dalla letteratura francese, che ha
in Yusuf Ghusub (1893-1971), Sa!idid !Aql (n. 1913) e Salah Labaki (1906-1955)
i suoi migliori rappresentanti. In Iraq hanno raggiunto fama europea nei primi
decenni del sec. XX az-Zahawi (1863-1936), ar-Rusafi (1875-1945), an-Nagafi
(1897-1977), di tendenza neoclassica. Ma proprio in Iraq, che è stato
a lungo in seconda linea nella rinascita letteraria neoaraba, è sorta
negli anni Cinquanta del sec. XX la più moderna poesia araba contemporanea,
che ha rotto definitivamente gli schemi della metrica quantitativa e che ha
nella poetessa Nazik al-Mala!ikah (1923-1995) la teorica della poesia libera,
e in Badr Sakir as-Sayyab (1927-1964) il suo massimo rappresentante, nel quale
è notevole l'influenza della lirica inglese, specialmente di Thomas Stearns
Eliot. Degni eredi di questi poeti sono il siriano Muhammad al-Magut (n. 1934),
l’iracheno Sa‘di Yusuf (n. 1934), il marocchino Muhammad Bannis
(n. 1948), l’egiziano Ahmad ‘Abd al-Mu‘ti Higazi (n. 1935).
Ricca di vigoroso impegno politico è la poesia palestinese della Resistenza,
che ha in Mahmud Darwis (n. 1942), Samih al-Qasim (n. 1939) e Tawfiq Zayyad
(n. 1932) i suoi più validi cantori. Nella produzione degli ultimi decenni
del Novecento un posto di primo piano spetta ad alcune poetesse e scrittrici,
dalla già citata Nazik al-Mala!ikah, alla palestinese Fadwà Tuqan
(n. 1927), alle libanesi Colette Khuri (n. 1934) e Layla Ba!labakki (n. 1938),
ad altre che stanno a confermare come la donna araba, benché ancora lontana
dall'avere conquistato il posto che le spetta in campo sociale e politico, abbia
conseguito notevoli successi in campo letterario. La prosa e la saggistica sin
dall'inizio del sec. XX hanno avuto maggiore sviluppo in Egitto che in Siria
con al-Manfaluti (1876-1924), al-Mazini (1890-1949), e Maryam Ziyadah (Mayy)
(1895-1941), la quale compose un Inno alle fontane di Roma. Veri maestri della
narrativa egiziana contemporanea sono i fratelli Taymur, Muhammad (1892-1921)
e Mahmud (1894-1973) !Abbas Mahmud al-!Aqqad (1889-1964) e il celebre Taha Husayn
(1889-1973), ai quali si va accostando la generazione affermatasi nell'ultimo
dopoguerra, da cui sono emersi Yusuf as-Siba !i (1917-1978), il più ribelle
ai rigidi canoni linguistici della prosa araba, !Abd ar-Rahman ash-Sharqawi
(1921-1987) e Yusuf Idris (n. 1927), interpreti della vita dei contadini egiziani,
e soprattutto Nagib Mahfuz (n. 1912), premio Nobel 1988, autore di romanzi di
grande respiro per lo più ambientati al Cairo. La recente storia politica
del Vicino Oriente alimenta il resto della produzione letteraria della regione.
Attraverso le opere di libanesi e di siriani si può tracciare l'evoluzione
della guerra civile libanese che ha prodotto una narrativa femminile degna della
massima attenzione, da Emily Nasrallah (n. 1931), a Ghada as-Samman (n. 1942),
a Hanan ash-Shaykh (n. 1945). Ma è soprattutto l'insoluta questione palestinese
a influenzare poeti di tutto il mondo arabo, dal siriano Nizar Qabbani (1923-1998)
al siro-libanese Adonis (n. 1930), all'iracheno !Abd al-Wahhab al-Bayyati (1926-1999),
al marocchino Abdellatif Laabi (!Abd al-Latif La!abi) (n. 1942). Un posto a
parte merita la letteratura palestinese oggi tradotta in molte lingue occidentali:
tra gli autori della diaspora spiccano i nomi di Ghassan Kanafani (1936-1972)
e Gabra Ibrahim Gabra (1920-1994), tra i residenti nello Stato israeliano, Emil
Habibi (1922-1996), autore del celebre al-Mutasha' il, e, tra quelli dei Territori
Occupati, Sahar Khalifah (n. 1941). La sempre maggiore attenzione a temi locali,
come per esempio nelle opere dell'iracheno Fu'ad at-Tekerli (n. 1927), dell'egiziano
Magid Tubia (n. 1938), del siriano Zakariyya Tamir (n. 1931) rende sempre più
inadeguato parlare di letteratura araba in senso unitario, perché ogni
Paese tende a una propria produzione ben differenziata dalle altre, malgrado
il persistere di alcuni filoni e tematiche comuni. Di carattere più universale
sono le opere del siriano Hanna Mina (n. 1924) di ambiente marinaro, del giordano-saudita
!Abd ar-Rahman Munif (n. 1933) e dell'egiziano Gamal al-Gitani (n. 1945), autore
di un celebre romanzo storico, az-Zayni Barakat, ambientato nell'Egitto mamelucco.
La prestigiosa rivista libanese al-Adab, fondata nel 1953 da Suhayl Idris (n.
1923), può essere considerata il portavoce delle tendenze letterarie
di tutto il mondo arabo. Negli ultimi decenni del Novecento, il romanzo arabo
si afferma come il genere più seguito, che si distingue per una modernità
perseguita in due diverse direzioni, ma conciliabili: la prima sperimenta un
nuovo linguaggio e nuove tecniche narrative, la seconda ripercorre, modernizzandole,
le forme narrative classiche. Tra gli autori più importanti si ricordano:
Edwar al-Harrat (n. 1926), Baha’ Tahir (n. 1935), Muhammad al-Busati (n.
1937), San ‘Allah Ibrahim (n. 1937) in Egitto; al-Tayyib Salih (n. 1929)
in Sudan; Halim Barakat (n. 1933) e Ilyas al-Huri (n. 1948) in Libano; Ahlam
Mustaganmi (n. 1953) e Wasini al-A‘rag (n. 1954) in Algeria, Muhammad
Barradah (n. 1938) in Marocco, ‘Izz al-Din al-Madani (n. 1938) e ‘Umar
Ben Salim (n. 1932) in Tunisia. Anche la narrativa mauritana, comunque, comincia
a essere conosciuta nell’ambito del panorama letterario arabo: tra gli
scrittori più interessanti spicca Musa Wuld Ibnu (n. 1956).
Teatro
Il teatro come genere letterario e come arte scenica è sconosciuto al
mondo arabo antico e medievale, anche se qualche germe ne è ravvisabile
nelle pantomime e nel teatro delle ombre: si è già ricordato il
tentativo fallito di Ibn Daniyal (m. 1310) di dare a quest'ultimo forma letteraria.
L'influenza del melodramma italiano e della commedia francese ha grandemente
contribuito, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, alla nascita
di un teatro arabo in Egitto, Siria e Libano. Nel 1847, a Beirut, Marun an-Naqqash
(1817-1855) diede la prima rappresentazione pubblica de L'avaro, suo adattamento
dall'omonima commedia di Molière. Di lì a poco anche in Egitto
si ebbero i primi tentativi: Ya!qub Rufa'il Sanu! (m. 1912) portò sulle
scene alcuni suoi canovacci, in un dialetto misto di francesismi e italianismi,
coi quali tentò abilmente la satira sociale e politica. Il dramma storico,
prima forma di teatro arabo colto, deve al poligrafo libanese Khalil al-Yazigi
(m. 1889), al siriano Farah Antun (m. 1922) e ancor più al poeta egiziano
Ahmad Shawqi (1868-1932) la sua affermazione. Shawqi predilesse, con poche eccezioni,
la tragedia in versi; esordì col dramma !Ali bey il Grande, dedicato
al capo della rivolta antiottomana del 1769, cui seguì nel 1893 La caduta
di Cleopatra, totalmente riscritta nel 1932. Delle ulteriori numerose opere
segnaliamo: !Antara, La signora Hoda e La principessa andalusa. Contemporaneo
di Shawqi, il poeta egiziano Abu Shadi tentò anch'egli, ma con minor
successo, la tragedia in versi, in seguito ripresa da !Aziz Abaza. Di commedie
a sfondo sociale e accentuatamente realistiche fu autore il maggiore dei Taymur,
Muhammad, cui la morte prematura non permise di dare la piena misura delle sue
capacità di uomo di teatro. Di Muhammad Taymur ci restano quattro commedie
in dialetto cairino: L'uccello in gabbia, !Abd as-Sattar Efendi (tradotta in
italiano), L'abisso, il suo capolavoro, e Il dieci di quadri, che rappresentano
uno dei momenti fondamentali del teatro arabo e costituiscono il momento di
rottura con lo pseudoclassicismo di Shawqi. Se con Muhammad Taymur inizia la
moderna commedia a salda struttura, ormai disancorata dalla farsa e dai canovacci
da recitarsi a soggetto, con al-Hakim Tawfiq (1898-1987), egiziano anch'egli,
il teatro arabo raggiunge la piena maturità. Autore di vasto successo
internazionale (una decina di sue opere sono state tradotte anche in italiano),
al-Hakim Tawfiq, la cui tematica risente degli influssi di Giraudoux, di Maeterlinck
e di Pirandello, rivela originalità creativa, sia nei drammi simbolisti
(tra cui La gente della caverna, il suo capolavoro, che si ispira alla leggenda
dei Dormienti di Efeso, Pigmalione, Shahrazad), sia nelle commedie psicologiche
e di ambiente e nelle satire del costume politico, come L'albero del potere.
Suoi contemporanei sono il saggista, di origine libanese, Bishr Faris (1907-1963),
Mahmud Taymur e l'originale !Ali Ahmad Bakatir che, con Il chiodo di Giuha e
Il nuovo Shylock, ha puntato su un'interpretazione allusiva di situazioni di
politica internazionale concernenti il mondo arabo. Per l'Iraq segnaliamo Sulayman
Faydi al-Mawsili, già attivo intorno al 1920, !Abd Allah Ibrahim, autore
di Io sono il soldato, una delle prime radiocommedie arabe, Salim Batti, la
poetessa !Atikah Wahbi al-Khazragi e !Abd as-Sattar al-Qurguli, iniziatore del
teatro didattico in versi. Nel Libano il poeta Sa!id !Aql ha riscosso vivo successo
con le commedie simboliste La figlia di Jeft e Cadmo, il mitico inventore dell'alfabeto;
Sa!id Taqi ad-Din è autore di una commedia ironica: Se non fosse per
l'avvocato. Tra gli altri autori si segnalano: Khalil Hindawi, Rashad Dargawt
e Mikha'il Nu!ayma. In Arabia Saudita, Paese rimasto alla retroguardia della
letteratura moderna, si è distinto Husayn Sarrag, diplomatico e poeta,
cui si deve una commedia ambientata nella Cordova del sec. XI, intitolata La
passione amorosa di Wallada. Una svolta a tutta la produzione teatrale è
impressa dal drammaturgo siriano Sa!ad Allah Wannus (1941-1997), autore di opere
a carattere politico (masrah al-tasyis, vale a dire teatro di “politicizzazione”)
come L'avventura della testa del mamelucco Gabir (1970) e Il re è il
re (1977-79). Nel 1970 scrive un saggio molto importante per tutto il teatro
arabo, Bayanat li-masrah !arabi gadid (Manifesti per un teatro arabo nuovo),
in cui ribadisce lo stretto legame tra teatro e politica. Particolarmente interessante
è anche il teatro palestinese, rappresentato da Ghassan Kanafani (1936-1972),
Mu!in Bsisu (1927-1984), Tawfiq Fayyad (n. 1939). Nel Maghreb il teatro, importato
dall'Egitto, risente in seguito dell'influenza francese. Nel 1908 nasce a Tunisi
la prima compagnia teatrale, an-Nagma. Spicca poi il nome di Mahmud al-Mas!adi
(n. 1911) autore della celebre pièce as-Sudd (La diga, 1940). Più
recentemente vanno ricordati i drammaturghi Muhammad Idris, Tawfiq Gabali e
Raga' Farhat, promotori del nuovo teatro tunisino. In Algeria emerge il teatro
di espressione francese grazie al grande scrittore e drammaturgo Kateb Yacine
(1929-1989), autore della trilogia Le cercle des représailles, 1959.
Alla fine del sec. XX le tendenze più moderne del teatro arabo sono quelle
che recuperano le forme di spettacolo tradizionali, dal teatro d’ombre
(masrah hayal al-zill) al teatro di piazza, dalla figura del narratore (al-hakawati)
al teatro di burattini. Tra i drammaturghi e registi le cui messe in scena si
ispirano agli spettacoli tradizionali spicca il marocchino al-Tayyib al-Siddiqi
(n. 1938) i cui lavori si basano sulle ricerche condotte dal drammaturgo su
testi classici e sulle storie narrate dai magdubin, i cantastorie nordafricani:
tra le sue rappresentazioni si segnala al-Fil wa al-sarawil (L’elefante
e i pantaloni, 1996), che ha riattualizzato il teatro di piazza. Invece l’egiziano
Hassan al-Garatli, con la compagnia al-Warsah (Il laboratorio), mette in scena
a partire dal 1997 lavori ispirati alle gesta degli eroi di un popolare ciclo
epico-romanzesco, con il contributo sul palco di vecchi maestri del teatro d’ombre.
Altri autori lavorano al recupero del teatro tradizionale: dalla compagnia del
Centre National de la Marionette di Tunisi, al Masrah al-gawwal wa Hayal al-zill
(Teatro itinerante e teatro d’ombre) di Damasco, alla troupe palestinese
Ashiyya Puppet Theatre Group diretta da Ya‘qub Abu ‘Arafah. Il teatro
arabo deve tanto anche a drammaturghi come il tunisino ‘Izz al-Din al-Madani
(n. 1938), e a registi come il libanese Roger ‘Assaf (n. 1941) che, a
partire dal 1999, ha rilanciato le attività del teatro di Beirut.
Arte
Con il termine di “arte araba” si indica spesso l'arte più
propriamente detta islamica, in quanto fu l'espressione di popolazioni etnicamente
non solo arabe che costituirono quel mondo politico, religioso e culturale che
prese nome appunto di “Islam”. Tratteremo qui perciò solo
l'arte preislamica. Le culture artistiche di questo periodo, che presentano
analogie con l'arte egizia, persiana, mesopotamica ed ellenica, vanno generalmente
ripartite per aree geografiche: nord-occidentale, sud-occidentale e orientale.
Per la parte orientale i documenti sono talmente scarsi da impedire, per il
momento, un'indagine appropriata. Nell'Arabia nordoccidentale si sono conservati
numerosi esempi di architettura nabateo-romana: l'opera migliore è il
tempio di Ramm dedicato alla dea al-Lat, del sec. II d. C., rivestito in stucco
colorato. Dalle necropoli dell'antica Midian (oggi el-Bed) e di Hegra (1 a.
C.-75 d. C.) sono documentati due tipi di tomba, che presentano sempre una facciata
tipo casa ellenistica architravata, differendo nell'ornamentazione, che a Hegra
contiene spesso dei merli a scala affrontati. Dall'esame dei vari elementi architettonici
risulta una fusione di forme egizie e mesopotamiche con quelle greche. Dell'Arabia
sudoccidentale le fonti antiche ci parlano come di un Paese ricchissimo, con
edifici decorati in oro, argento e avorio cesellati e traforati. Dell'alto livello
artistico del Regno di Saba e dei suoi confinanti si ha testimonianza solo dai
bronzi e dalle sculture e soprattutto dalle realizzazioni dell'architettura
e dell'ingegneria idraulica, per quanto molto materiale sia ancora da esplorare
e notevoli siano le lacune. Gli edifici vengono costruiti con blocchi e colonne
monolitiche, impiegando anche travi di legno e spesso tegole essiccate. Per
ottenere una leggera inclinazione del muro si usava arretrare le pietre sovrapposte
o smussarle. Gli edifici venivano rivestiti con intonaco, stucco dipinto, lastre
di pietra. I motivi ornamentali sulle pareti, o sui pavimenti in stucco, comprendevano
per lo più palmette stilizzate, tralci di vite e virgulti. Numerosi sono
i tipi di colonne e capitelli, che si evolvono dal pilastro monolitico fino
a giungere alla colonna ottagonale con capitelli a plinti sovrapposti. I templi
sono generalmente a pianta rettangolare, con esempi originali a pianta quadrata
(Gaybum), rettangolare absidata (Sirwah, sec. VIII a. C.) o ellittica come a
Ma'rib, la capitale del Regno di Saba, nel tempio di Almaqah (si sono supposte
relazioni con gli edifici circolari abissini, babilonesi e siriaci). Delle opere
di scultura notevole è una serie di statuette di antenati rinvenute nel
Sultanato di Lahey, che raffigurano probabilmente i monarchi del Regno di Awsan
(sec. VI-V a. C.). Per quanto poco numerosi siano i prodotti dell'oreficeria
rinvenuti, tuttavia sono sufficienti a documentarci sull'alto livello raggiunto
in questo campo.
Musica
Poco si conosce della musica araba prima di Maometto. Il Profeta nutriva un'austera
avversione per la musica, ma ciò non impedì che a partire almeno
dal sec. VII si formasse presso gli Arabi una raffinata civiltà musicale,
erede in parte di quella greca e non priva di influssi su quella europea. Della
sua storia conosciamo solo gli aspetti teorici: ci sono infatti pervenuti i
più importanti trattati dal sec. IX al XV (ricordiamo tra gli autori
più significativi: al-Kindi e al-Sarakhsi del sec. IX; al-Farabi del
X, Avicenna dell'XI, Safiad-Din del XIII, !Abdal-Qadir del XV). La teoria musicale
araba si ricollega esplicitamente a quella greca e usa anch'essa come elemento
base il tetracordo. Fissate le note estreme del tetracordo, si può dividere
lo spazio intermedio in toni, semitoni, quarti di tono comprendenti le più
sottili sfumature. Il carattere speculativo e matematico dei trattati arabi
porta a costruire una serie estremamente ampia e complessa di possibili suddivisioni,
che non dovevano avere completa rispondenza nella pratica musicale. Di questa
resta un'immagine nell'attuale vita musicale, che rispecchia probabilmente tradizioni
molto antiche. Come per altre musiche orientali è essenziale la presenza
di nuclei melodico-ritmici di origine antica, chiamati maqam e corrispondenti
ai raga indiani o al nomos greco. Un maqam è l'elemento base di una composizione
non solo dal punto di vista melodico e ritmico (come potrebbe essere inteso
in senso occidentale), ma soprattutto perché ne condiziona il carattere
e lo stile. Notevoli sono la varietà e la complessità ritmiche.
L'influenza della musica araba sulla musica europea del Medioevo, secondo più
recenti studi, sarebbe da ridimensionare; significativa è invece la diffusione
nel nostro continente di alcuni strumenti musicali arabi: il liuto derivò
forma e nome dal liuto arabo chiamato al-!ud (un'altra forma di liuto più
grande era il tunbur, a 2 o 3 corde doppie). Altri strumenti tipici, tuttora
in uso, sono quelli ad arco della famiglia dei kamanga, nonché vari strumenti
a fiato (come il nay) e a percussione.
Folclore
Cuore del mondo folcloristico arabo, fra i più vivaci che esistano, è
l'Arabia Saudita. Spesso, più che di folclore (cioè di residuo
di tradizioni popolari) si deve parlare di cultura ancora viva e operante al
livello più attuale. È ovvio che nel mondo dei nomadi persistano
tutte le forme di vita, usi e costumi, condizionati dall'ambiente geografico
e dalle esigenze degli spostamenti continui: tende, suppellettili, abbigliamento,
prassi connesse col ciclo della vita. Nei piccoli centri cittadini continua
la tradizione edilizia araba, caratteristica per poggioli e grate accuratamente
intagliati in legno, per la ripartizione di ambienti destinati alle donne (harem)
e agli uomini (maglis). Nelle città si notano infine ritorni anche recenti
a costumi tradizionali, in funzione della ripresa dell'arabismo. In genere scarsi
gli apporti europei, se non nell'ambito delle aree più alterate dall'industria.
Generalmente scarseggiano a ogni livello di evoluzione culturale i divertimenti,
vietati dalla religione. Permangono i tradizionali divertimenti consentiti,
come il gioco degli scacchi, esercizi di destrezza con cavalli, armi e caccia.
Si è tuttavia diffuso anche fra gli Arabi il gioco del calcio. Tenacissima
la persistenza delle grandi feste religiose (Ramadan; pellegrinaggio alla Mecca;
nascita di Maometto; morte di Husayn, cugino del Profeta). Quanto ai costumi,
solo nelle città si nota l'aggiunta di fogge europee a fogge tradizionali.
Ovunque si vedono la abayah (mantello beduino), il thob (tunica maschile), i
veli sui volti delle donne. Caste e tribù si differenziano ancora in
base all'abbigliamento. Molto usato ancora il cosmetico detto kohl (antimonio)
per il trucco degli occhi. La gastronomia è ancora in gran parte originaria,
povera, specie quella beduina; di fama ormai internazionale è il piatto
arabo più raffinato ed elaborato, detto cuscus (stufato di pollo e agnello
con varie verdure e semola di grano saraceno). L'artigianato, anche per uso
turistico, è assai vario e spesso interessante; tra gli esempi più
vistosi: lavori in pelletteria, rame, ottone, filigrane in oro e argento, smalti,
bottiglie di sabbia colorata del deserto (tipico prodotto arabo-giordano), belle
armi bianche.
Omnia Storia Panorama- © 2003 Istituto Geografico De Agostini
bazàr
sm. inv. [sec. XIII; dal persiano bazar, mercato].
1) Nel mondo islamico designa il quartiere dei suq, centro commerciale della
città musulmana, dove gli artigiani e i commercianti abitano e tengono
i loro banchi di vendita, i magazzini e le officine. Il bazar costituisce architettonicamente
un complesso a sé, ben delimitato (anticamente veniva anche chiuso la
notte). Le botteghe sono costituite da ambienti quadrati, coperti da una piccola
cupola o da un semplice soffitto, scompartiti da navate e forniti sul davanti
di una tenda per il sole.
2) Per estensione, negozio di articoli vari, generalmente di scarso valore.
Fig., ambiente che si distingue per confusione e disordine.
Omnia Storia Panorama- © 2003 Istituto Geografico De Agostini
beduino
sm. e agg. [sec. XVII; arabo dialetto bedewin, pl. di bedewi, abitante del
deserto]. Appartenente ai Beduini: usanza beduina. Fig., persona dall'aspetto
primitivo e incolto, dall'abbigliamento esotico.
Omnia Storia Panorama- © 2003 Istituto Geografico De Agostini
Bisànzio
antica colonia megarese fondata nel 658 a. C. sulla riva tracica del Bosforo
(vedi Costantinopoli e Impero bizantino, per la storia; Istanbul, per la geografia).
Omnia Storia Panorama- © 2003 Istituto Geografico De Agostini
Càiro, Il-
Generalità
Città (6.800.992 ab. nel 1996) dell'Africa nordorientale, capitale dell'Egitto
e capoluogo del governatorato omonimo (997.739 km2; 59.312.900 ab. nel 1996)
situata a 25 m nella pianura tra il Nilo e il primo gradino dirupato del Gebel
el Muqattam, subito a monte del punto in cui il fiume, dividendosi nei due rami
di Rosetta e Damietta, inizia la zona del delta. Lo sviluppo moderno della città
risale al XIX secolo quando, a seguito delle campagne napoleoniche del 1798-1801,
l'interesse dell'Europa si volse verso l'Egitto. La successiva dominazione britannica
diede impulso allo sviluppo della zona (i 300.000 ab. del 1800 divennero 398.700
nel 1882 e 1.059.824 nel 1927): accanto all'antico nucleo arabo andò
formandosi la città moderna di tipo mediterraneo, con uffici, banche,
negozi, alberghi, peraltro sempre più contrassegnata da un caotico sviluppo
edilizio. Oggi Il Cairo si estende per la maggior parte sulla riva destra del
Nilo, valicato da quattro ponti , e sulle isole il El Gezîra e di El Rôda,
mentre la sua area metropolitana, chiamata anche Grande Cairo, corrisponde a
un vasto insieme urbanizzato, ancora in espansione, in cui è sempre più
difficile distinguere le città satelliti che la compongono (El-Gîza,
Imbâba, Heliopolis, quest'ultima fondata nel 1906 in pieno deserto, El
Matarîya, ecc.) da un gran numero di villaggi e centri che tendono a saldarle.
La creazione di città nel deserto è stata ripresa negli anni Settanta
(Città Sadat). La popolazione del Cairo ha registrato un consistente
aumento nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta (2.500.00 di ab. nel 1952,
4.800.000 nel 1960, 6.100.000 nel 1966). In seguito, tale crescita è
rallentata, a causa di flussi migratori diretti verso i Paesi petroliferi, per
poi riprendere con il venir meno di queste correnti migratorie e con il parallelo
fenomeno di inurbamento di una consistente quota di popolazione rurale. L'enorme
sviluppo demografico del Cairo ha determinato sia l'insediamento di nuovi quartieri,
sia la densificazione delle aree già abitate: ciò, tuttavia, è
avvenuto in modo caotico, al di fuori di ogni piano regolatore, e ha reso più
drammatiche le conseguenze del terremoto che ha colpito la città nel
1992. Favorito da un clima asciutto (al Cairo può non piovere anche per
parecchi anni di seguito) e relativamente mite (con temperature medie di 14
ºC in gennaio e 29 ºC in luglio), Il Cairo è oggi la più
grande metropoli dell'Africa e la capitale economica e intellettuale del mondo
islamico. Importante nodo stradale e ferroviario, è unito da facili comunicazioni
ad Alessandria, Assuan, Suez e Porto Said, nonché è dotato di
quattro aeroporti (di cui due internazionali), di un porto fluviale e di una
metropolitana (aperta nel 1987), che lo collega a Helwân. La città
è, inoltre, un grande mercato agricolo e un centro commerciale della
massima importanza all'incrocio dei traffici tra l'Europa, l'Asia e l'Africa
centrale e meridionale. È il principale polo industriale dell'Egitto,
sede di industrie manifatturiere (produzione di automobili, frigoriferi, tessuti,
tabacco) e di industrie pesanti (siderurgia, metallurgia, cementifici, materiali
da costruzione). Le raffinerie di petrolio di Mostorod, alla periferia settentrionale
della città, sono servite dall'oleodotto Suez-Il Cairo. È infine
vitale per l'economia della città l'apporto di valuta estera derivante
dall'intenso turismo. L'importanza culturale del Cairo è poi determinata
dal fatto che la città è sede di due università, una moderna
(fondata nel 1956) e una antica, l'Università di El Azhar, celebre scuola
coranica risalente al 972; questa università possiede una biblioteca,
dedicata soprattutto agli studi religiosi, importante per il suo ricco fondo
di manoscritti (oltre 20.000). Numerosi musei conservano importanti testimonianze
della storia del Paese (Museo Egizio, Museo d'Arte Islamica, Museo Copto), mentre
tra le altre istituzioni culturali vanno ricordate l'Accademia di musica araba
e la Biblioteca nazionale egiziana che, fondata nel 1870, è la seconda
biblioteca del mondo arabo, dopo quella dell'Università di Alessandria:
conta ca. 850.000 volumi. Il nome arabo del Cairo , El Qâira, significa
“La vittoriosa”.
Arte e urbanistica
Il più antico insediamento della città risale a una fortezza romana,
detta di Babilonia (oggi Qasr el-Sams), dell'età di Traiano, le cui rovine
sono ancor oggi visibili presso l'isola di Roda. In età paleocristiana
si stabilì nel cerchio delle sue mura la città copta, di cui restano
le chiese principali: S. Michele, oggi trasformata in sinagoga, al-Mu'allaqa,
S. Barbara, Abu Sarga fondata nel luogo dove, secondo la leggenda, si sarebbe
stabilita la Sacra Famiglia durante la fuga in Egitto. Tipico di queste chiese,
che sono prive di transetto, è il presbiterio di forma rettangolare con
tre absidi incorporate. Nel 640 (19º dell'egira) la città fu conquistata
dalle truppe arabe di !Amr ibn-al-!As, generale del califfo di Baghdad !Omar,
che fondò la nuova capitale (El Fustat) nell'area immediatamente prospiciente
l'isola di El Rôda. !Amr circondò la città con una prima
cerchia di mura, mentre emergeva la tendenza all'espansione in direzione N,
con il quartiere militare di El Askar (armata). Della modesta moschea, fatta
costruire da !Amr e recante ancora il suo nome, non resta praticamente niente,
nell'attuale Misr al Qadima (Il Cairo Vecchia), del nucleo originario, numerose
volte rimaneggiato. L'importanza della città andò gradatamente
aumentando e sviluppandosi in direzione E sotto il governatorato dei Tulunidi,
ex schiavi turchi dei califfi abbasidi, che tra l'868 e il 905 diedero vita
a una breve dinastia indipendente da Baghdad. L'esempio più interessante
dell'architettura tulunide rimane naturalmente la Grande Moschea, costruita
in laterizio cotto, secondo la tecnica mesopotamica. La sala di preghiera dell'edificio
di ibn Tulun ha cinque navate parallele al muro della qibla (unico elemento
che la differenzia da quelle abbasidi), definite dai pilastri disposti col lato
più largo ortogonalmente all'asse maggiore della corte. Un altro richiamo
all'arte irachena si ha nel minareto della stessa moschea, costruito a imitazione
di quelli elicoidali di Samarra. Il periodo d'oro del Cairo coincise tuttavia
col regno dei Fatimiti (969-1171), che le diedero l'aspetto di grande città
e la dotarono di innumerevoli monumenti religiosi, civili e militari. Fra le
moschee più famose di questo periodo si ricordano quella di Al-Azhar
(970-71), sede anche dell'università di scienze teologiche; quella di
al-Hakim, costruita sul modello della moschea di ibn Tulun, con due torri a
più piani nella facciata; quella funeraria di al-Juyushi (1085) e numerosi
mausolei. Altrettanto importante, sebbene assai rimaneggiato, è quanto
rimane della cinta muraria della città, con grandi torri quadrate e porte
monumentali, di cui si possono ammirare ancora, nella loro semplice ma superba
imponenza, il Bab al-Futuh, il Bab al-Nasr e il Bab Zuwayla. Le porte di al-Mudarrag
e di al-Qarafa, con ingressi “a baionetta”, sono invece tipiche
del periodo ayyubita, caratterizzato dalle costruzioni militari del Saladino,
concentrate tuttavia prevalentemente fuori del Cairo , per ragioni difensive.
La dinastia dei Mamelucchi (1250-1517) dotò la città di una serie
imponente di monumenti, basati su un'altissima abilità tecnica e su un
ottimo materiale costruttivo: calcare e pietra perfettamente tagliata. Fra i
complessi più imponenti: quelli di Baybars I (1266-69), di Qalawun (1285),
di al-Maridani (1338-40) e di Sultan Hasan (1356-63), uno degli edifici maggiori
e più belli della città. La decorazione architettonica, assai
movimentata negli esterni da aggettature, arcatelle, muqarnas, è ricca
all'interno di legni intagliati (già presenti, in esempi sontuosi, fin
dall'epoca fatimide), mosaici di ceramica e marmi intarsiati. Tutti i raccordi
delle cupole, lisce all'interno ma assai variate all'esterno (con disegni a
costolature, zig-zag, spina di pesce), sono mascherati da muqarnas in stucco
o, soprattutto, in legno lavorato e dorato. Il periodo turco ottomano (sec.
XVI-XVIII) poco o nulla ha aggiunto al patrimonio monumentale del Cairo , le
cui costruzioni, religiose o civili, non sono che una replica fedele di quelle
di Costantinopoli (per esempio la moschea di Muhammad !Ali , o la Sinaniyya).
Nella seconda metà dell'Ottocento si ebbe un rinnovamento urbanistico
ispirato all'Occidente, con l'erezione di nuovi quartieri con grandi strade
a reticolato geometrico, giardini e piazze con fontane monumentali. Con il regno
d'Isma!il, ca. nel 1865, cominciò un altro periodo della storia urbana
del Cairo , caratterizzato, dato l'enorme sviluppo commerciale che produsse
un'elevatissima immigrazione dall'Europa occidentale, da un inserimento di modelli
urbani di derivazione europea sulla struttura della città araba. Il sorgere
di questa tendenza che, anticipata nel piano di W. Hammerstein del 1858, si
concretizzò nel 1874 con il piano di P. Grand Bey, si può ricondurre
alla costruzione del complesso di edifici e del porticato che circondano il
giardino di Ezbekieh tra il quartiere di El Ezbekieh e di El Mouski, dove fino
ad allora s'era concentrata la colonia europea. Con la costruzione di analoghi
complessi, furono tracciate nuove arterie come quella che collega, in direzione
N-S, il nucleo antico alla stazione ferroviaria centrale, e i boulevards che
costeggiano il Nilo o penetrano nel centro costituendo rapidi collegamenti tra
i nuovi quartieri residenziali esterni e la città. Sulla scia del movimento
delle “città giardino” vennero costruiti nuovi quartieri
residenziali, come Heliopolis, in prossimità dell'antica città
omonima, o come la città giardino nel quartiere di Kasr el Doubara, lungo
le sponde del Nilo tra le due isole.
Musei
L'attuale Museo Egizio, il più importante del mondo per le raccolte egizie,
fu inaugurato dal chedivè Isma!il il 18 ottobre 1863, per volontà
di Auguste Mariette, allora direttore degli scavi, col proposito di conservare
all'Egitto le vestigia della sua antica civiltà che, fino ad allora,
erano andate ad arricchire i maggiori musei stranieri. La sede primitiva era
a Bulak, di qui fu trasferita per breve tempo a Giza e nel 1902 fu inaugurata
l'attuale sede di Midan el-Tahrir, progettata dall'architetto francese Marcel
Dougnon. Le collezioni sono disposte su due piani; al piano terreno sono allocati
grandi monumenti in pietra (statue, stele, sarcofagi, in ordine cronologico),
al piano superiore sono invece esposte tipologicamente le varie categorie di
oggetti, dalla preistoria all'età romana. Ivi, nelle gallerie di destra
e di fondo, è sistemato il materiale proveniente dalla tomba intatta
di Tutankhamon. Tutta la disposizione era stata all'origine studiata in modo
da rendere possibili le inserzioni del materiale che esce incessantemente dagli
scavi (è da notare che, a parte alcuni piccoli musei locali, quello del
Cairo raccoglie tutto quanto viene scoperto nel territorio egiziano), ma ormai
l'eccessivo affollamento rende necessario l'approntamento di un nuovo museo
ispirato alle più moderne concezioni espositive.
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Corano
Il libro
(arabo Qur!ân, recitazione, proclama, lettura; in senso pieno: libro del
proclama di Dio). Il libro sacro dell'Islam che contiene le rivelazioni fatte
da Dio al profeta Maometto e da questi dettate ai suoi scrivani. In vita, Maometto
non pensò a una raccolta organica delle rivelazioni, che sarebbero poi
cessate soltanto alla sua morte. Il testo canonico, accolto da tutti i musulmani
ortodossi ed eterodossi, venne fissato, intorno al 650, per ordine del califfo
!Uthman, da una commissione presieduta da un segretario del profeta, Zaid ibn
Thabit. Il Corano è suddiviso in 114 capitoli, detti surah (pl. suwar),
di varia lunghezza, ordinati, a eccezione del primo, dai più lunghi ai
più corti. Ogni surah è suddivisa in versetti (arabo aya), anch'essi
di varia lunghezza ed è preceduta, a eccezione della nona, dalla formula
detta basmala, cioè “in nome di Dio clemente e misericordioso”,
e porta uno o più nomi. Le imperfezioni della scrittura araba del tempo
(mancanza di segni diacritici e di notazione delle vocali), pur con una tradizione
orale del testo, portarono ad alcune discrepanze di lettura nelle varie scuole
di recitatori e quindi a diverse recensioni che, alla fine, si ridussero a due:
quella della scuola di Creta che fa capo a Hafs e quella della scuola medinese
che fa capo a Naji'. La seconda prevale nel Maghreb e in Africa. Il Corano ebbe
una quantità enorme di commentari, fra i quali sono celebri quelli di
Tabari, rigidamente ortodossi, e di Sujiti e Mahalli; ottima l'Introduzione
alle scienze coraniche dello stesso Sujiti. In Europa è universalmente
usata l'edizione del Flügel (Lipsia, 1841), riprodotta da L. Bonelli in
Il Corano con tavole di concordanza (1937). La prima traduzione latina fu quella
di Pietro il Venerabile (ca. 1094-1156); meritatamente nota anche quella, sempre
in latino, di L. Marracci: Alcorani textus universus (1698); fra quelle successive
primeggiano per rigore scientifico le traduzioni italiane di Bonelli (1929),
di Moreno (1967) e di Bausani (1955 e 1978); fra le francesi gode di meritata
fama quella di M. Kasimirski (1840) e quella di Blachère (1949-50); buona
quella tedesca di Henning (1900).
Teologia
Per la fede islamica, autore del Corano è Dio stesso, che l'avrebbe rivelato
a Maometto per mezzo dell'arcangelo Gabriele. Prima del Corano “terrestre”
esisteva un Corano archetipico “celeste” (detto Umm al-kîtab,
Madre della Scrittura) iscritto nella cosiddetta “Tavola Custodita”.
Ciò fa sì che ogni parola coranica, per la teologia islamica ortodossa,
sia divina, eterna e insostituibile: i rigoristi vietano conseguentemente la
traduzione del Corano (intesa come contraffazione); i moderati, pur vietandone
l'uso cultuale, ne ammettono la traduzione, considerandola una spiegazione in
lingua straniera. Questa “atemporalità” del Corano spiega
come le suwar siano state ordinate con un criterio di lunghezza meramente formale
ed esteriore, invece che cronologicamente, pur riconoscendo i commentatori islamici
diversi periodi di composizione (3 meccani e 1 medinese). Il contenuto è
di varia natura e, dato il criterio con cui si susseguono le suwar, è
disposto a caso. Ne risulta una lettura difficile, appesantita da continue ripetizioni
– dovute alla casualità della predicazione di Maometto –,
che solo un profondo studio (o la fede islamica) è in grado di apprezzare
per le differenti sfumature. Nel Corano c'è innanzitutto l'immagine di
Dio: potenza, conoscenza, misericordia. Una concezione esasperatamente monoteistica,
che riflette gli sforzi rivoluzionari di Maometto contro un ambiente “animista”.
La teologia si amplia poi in un disegno cosmologico che comprende angeli, diavoli
e profeti (da Adamo a Gesù Cristo). Ci sono prescrizioni di culto: le
preghiere rituali, l'elemosina (specialmente la zakâh, un obolo per le
spese della guerra santa e per l'assistenza ai poveri), il digiuno nel mese
di Ramadàn, il pellegrinaggio alla Ka'ba. Ci sono prescrizioni morali:
pietà filiale, misericordia, generosità, giustizia, onestà,
veridicità. Non mancano vere e proprie leggi, o prescrizioni che diverranno
tali negli Stati musulmani, e che in origine dovevano servire a Maometto nell'esercizio
delle sue funzioni di capo di una comunità organizzata. L'azione legislativa
del Corano non è rivoluzionaria rispetto alla tradizione preislamica,
limitandosi a eliminare certi abusi (amministrazioni patrimoniali da parte dei
tutori, infanticidio, poligamia illimitata, potere maritale, ecc.). Ogni questione
legale è, in tal senso, moderata da un principio morale.
Arte: calligrafi e " immagini " sacre
Gruppi di lettere o frasi prese dal Corano, intrecciate artisticamente, ornarono
fin dai tempi più antichi le moschee, sostituendovi, anche psicologicamente,
l'“immagine” sacra. I calligrafi si dedicarono con particolare impegno
alla stesura del testo coranico, che veniva abbellito sulle testate da decorazioni
in oro e in colori vivaci, racchiuse in scomparti, anch'essi miniati in oro
e terminanti al margine con una rosetta. In seguito comparvero, sullo sfondo
delle pagine di apertura, dedicate al titolo e all'indice, disegni floreali
e geometrici. In Persia, già dal sec. XII, l'ansa marginale divenne un
elemento di decorazione a sé stante, abbellito da arabeschi floreali
su fondo scuro . I calligrafi realizzarono numerosi tipi di scrittura per rendere
più prezioso il manoscritto coranico, che tuttavia non fu mai illustrato
da figure.
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Gerusalemme
Generalità
Città (633.700 ab. secondo una stima del 1998) capitale di Israele e
capoluogo dell'omonimo distretto. La città è situata a ca. 800
m sulle colline della Giudea , in favorevole posizione sia per le comunicazioni
tra il mare e la valle del Giordano sia per la difesa, essendo racchiusa per
tre lati da profonde valli, tra cui quella percorsa dal Cedron. Gerusalemme,
costituita da moderni quartieri, è il massimo centro politico e culturale
dello Stato, con un'università, la biblioteca nazionale, istituti superiori,
musei, ecc.; è sede di industrie meccaniche, chimiche, farmaceutiche,
alimentari e del tabacco. Gerusalemme, inoltre, è una delle maggiori
piazze della lavorazione dei diamanti. Nel quadro delle attività economiche
riveste un forte rilievo il settore terziario, che assorbe l'80% della popolazione
attiva. In ebraico, Yerushalayim; in arabo, El Quds.
Storia: dalle origini alla conquista inglese
Già citata in testi egiziani nel sec. XIX a. C., era capitale di un regno
vassallo dell'Egitto nel sec. XIV a. C. Gli abitanti cananei (Gebusei) resistettero
agli Israeliti fino al sec. XI, quando David prese Gerusalemme e ne fece la
capitale del suo regno; Salomone vi costruì il tempio e il palazzo reale.
Dopo la scissione del regno, rimase capitale di Giuda e conobbe alterne vicende
fino all'espugnazione a opera di Nabucodonosor II (598 e 587 a. C.) che distrusse
il tempio, abbatté le mura, deportò la popolazione in Babilonia.
Gerusalemme acquistò allora aspetti mitici: l'esilio fu spiegato come
punizione di colpe e il ritorno fu prospettato come restaurazione morale. Col
ritorno degli esuli consentito da Ciro si ebbe la costruzione del “secondo”
tempio (519 a. C.) e delle mura (452 a. C., con Neemia); le vicende della città
(restaurazione dei Maccabei, distruzione di Pompeo, costruzioni di Erode) culminarono
con la seconda radicale distruzione a opera di Tito (70 d. C.) al termine della
rivolta giudaica, con definitiva scomparsa del tempio e dispersione della popolazione.
La città riacquistò una certa importanza al tempo di Costantino,
quando i luoghi santi divennero centro di culto. Nel 638 fu conquistata dai
musulmani. Dal 1099 al 1187 fu capitale del Regno latino di Gerusalemme. Dopo
aver goduto di una notevole prosperità sotto i Mamelucchi, decadde sensibilmente
una volta conquistata dagli Ottomani che la conservarono, se si eccettua la
parentesi egiziana del 1831-40, dal 1517 al 1917 quando, nel dicembre, fu conquistata
da Allenby. Dal 1920 al 1948 fu capitale della Palestina posta sotto mandato
inglese.
Storia: dalla seconda guerra mondiale al Duemila
Nei piani dell'ONU, Gerusalemme avrebbe dovuto essere internazionalizzata; in
effetti nel 1948 la città venne divisa tra gli Israeliani, che si assicurarono
il settore occidentale, e i Giordani, che conquistarono il settore orientale.
Nel 1950 essa fu scelta come capitale di Israele. Dopo la guerra del 1967, gli
Israeliani riunificarono la città annettendo il settore giordano. Il
30 luglio 1980, sanzionando una realtà di fatto peraltro contestata in
ambito internazionale, la Knesset (Assemblea nazionale israeliana) definiva
Gerusalemme “capitale eterna e indivisibile di Israele”. Si intensificava
anche l'opera di colonizzazione intorno a Gerusalemme , nel tentativo di invertire
una tendenza demografica che vedeva la netta superiorità numerica dei
Palestinesi. L'obiettivo veniva raggiunto all'inizio degli anni Novanta, quando
venivano presi anche numerosi provvedimenti limitativi della libertà
dei Palestinesi. La contestata sovranità sulla città diventava,
insieme con la complessa vicenda arabo-palestinese, una delle ragioni principali
del fallimento delle trattative tra le due parti svolte a Camp David, negli
USA, nel luglio 2000. Alla fine del settembre 2000, in seguito alla provocatoria
visita di Ariel Sharon, leader del partito della destra ebraica, il Likud, alla
Spianata delle Moschee di Gerusalemme (area della città ritenuta sacra
dai musulmani), scoppiavano violentissimi scontri che portavano ben presto a
una nuova Intifada palestinese. La vittoria di Sharon alle elezioni politiche
(febbraio 2001) e la formazione di un governo da lui guidato riportavano Israele
su posizioni di estrema intransigenza rispetto allo statuto da attribuire della
città.
Arte
Scomparsi il palazzo e il tempio di Salomone, i più importanti monumenti
antichi di Gerusalemme appartengono alla fase detta “del secondo tempio”,
ricostruito a opera di Erode dopo il 37 a. C. e di cui rimangono i grandi muri
di sostruzione, gli ingressi meridionali coperti a volta, resti dei ponti (“arco
di Wilson” e “arco di Robinson”) che congiungevano il tempio
al centro della città. Accanto al tempio sono i resti della fortezza
Antonia, così chiamata da Erode in onore di Marco Antonio. Dopo la distruzione
del 70 d. C. e un lungo periodo di abbandono, Gerusalemme fu ricostruita da
Adriano col nome di Aelia Capitolina. Della città romana, costruita secondo
il consueto schema ortogonale, restano tracce nell'impianto urbanistico dell'attuale
città vecchia. Numerose, attorno a Gerusalemme, le necropoli, con tombe
monumentali (tombe dei Re, tomba detta di Erode, tomba dei Benè Hezir
e tombe dette di Zaccaria, di Assalonne e di Giosafat nella Valle di Cedron)
nelle quali si mescolano forme architettoniche orientali ed ellenistiche. Nella
città antica, compresa entro la cinta delle mura medievali, si distinguono
cinque quartieri tradizionali; quello cristiano, quello ebraico, quello musulmano,
quello armeno e infine, a sé stante, l'area compresa nel recinto sacro
musulmano (al-Haram al-Sharif). I monumenti della città presentano un
aspetto assai eterogeneo, dovuto al sovrapporsi nei secoli di civilizzazioni
diverse. Gli edifici costruiti nel periodo che va da Costantino a Giustiniano
furono in gran parte distrutti dall'invasione persiana del 614. Restano, fortemente
alterate, le chiese di S. Giovanni Battista e della Tomba della Vergine, entrambe
del sec. V. Il monumento musulmano più importante è la Qubbat
as-Sahra (Cupola della Roccia, erroneamente detta Moschea di Omar), costruita
dal califfo omayyade !Abd al-Malik tra il 687 e il 691 sulla spianata dell'antico
tempio salomonico, dove affiorava la roccia (sahra) dalla quale Maometto avrebbe
iniziato il suo viaggio verso il cielo e sulla quale Abramo avrebbe dovuto compiere
il sacrificio di Isacco. L'edificio ha pianta ottagonale, con quattro porte
ai punti cardinali che danno accesso a un vano centrale cupolato, circondato
da due gallerie concentriche riservate al rito della deambulazione intorno alla
sahra. La preziosa decorazione musiva delle parti interne è quella originale
del sec. VII; quella esterna fu sostituita nel sec. XVI, a opera di Solimano
il Magnifico, da un paramento di ceramica smaltata. Alle epoche omayyade e abbaside
risale anche la monumentale Moschea Lontana (Masjid al-Aqsa), che conserva un
bellissimo mihrab dell'epoca di Saladino (sec. XII), e un minbar, quasi contemporaneo,
fatto costruire da Norandino come ex voto per la riconquista della città
sui crociati. Al periodo dei Mamelucchi Burgiti risalgono la fontana di Qayt
Bey (1482) e il portale della Madrasa Ashrafiyya. Dal 1517 per circa quattro
secoli Gerusalemme fece parte dei domini ottomani, che soprattutto con Solimano
il Magnifico l'arricchirono di numerose opere d'arte, fra cui le mura fortificate
della cittadella, con la bella Porta di Damasco (1532) e la fontana di Bab el-Silsile
(1537). Al periodo della conquista cristiana risalgono la chiesa di S. Anna
(1130-40), la chiesa di S. Giacomo (sec. XII) e il rifacimento del Santo Sepolcro
(l'edificio originario, dell'epoca di Costantino, era formato da una basilica
unita a un'ampia rotonda). Anche le mura merlate, intervallate regolarmente
da torri e da porte, risalgono alla ricostruzione fattane dai crociati. All'architettura
gotica francese si richiama la Sala del Cenacolo, che i francescani fecero costruire
nel Trecento da maestranze cipriote sul luogo della cosiddetta Tomba di Davide.
Dopo i periodi abbaside e omayyade e la conquista turca vi fu un periodo di
decadenza (sec. XVII-XVIII). Nell'Ottocento e nel primo Novecento sorsero a
Gerusalemme, a opera di Tedeschi, Inglesi, Greci, Francesi, Copti, Armeni, ecc.,
innumerevoli edifici e complessi religiosi nei più diversi stili di imitazione.
Urbanistica
Nel 1917, con l'ingresso del generale Allenby, si aprì per la città
un nuovo momento. Gerusalemme, fino ad allora prevalentemente chiusa nei quartieri
cristiano, armeno, ebreo, arabo, si estese all'esterno del centro storico, in
particolare a W; furono eretti edifici religiosi, ospedali, istituti culturali,
residenze e vennero portati a termine restauri. Si elaborarono vari schemi di
piano regolatore (1918, 1919 da P. Geddes, 1922, 1929, 1930); l'ultimo, nel
1944, ipotizzava un grande anello stradale fuori della città in cui era
prevista l'espansione residenziale, un asse industriale lungo la strada per
Tel Aviv, spazi verdi e una cintura verde (agricola a E, boscosa a W). Il centro
storico era salvaguardato da una rigorosa normativa, mentre particolare attenzione
era rivolta ai luoghi sacri delle religioni cristiana, ebrea, musulmana. Dopo
la nascita dello Stato d'Israele (1948), il centro storico e le aree a NE restarono
agli Arabi. Assai forte, specialmente dopo i trattati del 1950, fu l'espansione
urbana nella parte israeliana della città, con la costruzione di quartieri
residenziali, grandi alberghi, unità di abitazione e della Città
universitaria ebraica (1954-60), che comprende gli istituti, i laboratori, la
biblioteca, lo stadio, l'auditorium, ecc. Il Museo Nazionale di Israele, aperto
nel 1965, comprende il Museo Biblico e Archeologico Samuel Bronfman (storia
della Palestina), il Museo d'Arte Bezalel (pittura moderna, arredi rituali giudaici,
costumi e oggetti della cultura ebraica di ogni Paese dal Medioevo a oggi),
la collezione di scultura Billy Rose (opere di Rodin, Maillol, Bourdelle, Zadkine,
ecc.) e il Sacrario del Libro, dove sono conservati i rotoli del Mar Morto.
Destinato a collezioni di arte moderna è il Nathan Cunnings 20th Century
Art Building, inaugurato nel 1990. Il Museo dell'Olocausto (Yad Vashem) è
il primo museo storico che conservi l'ampia e sconvolgente documentazione sulle
persecuzioni subite dagli Ebrei durante il nazismo; vi è archiviato l'elenco
dei dispersi e deceduti nei campi di concentramento. In ricordo dei bambini
è un edificio-monumento, il Children Memorial, appartenente al complesso
dello Yad Vashem. A partire dall'occupazione israeliana si è operata
una vasta operazione di restauro e di risanamento del centro antico.
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Ìndia
Generalità
(o Unione Indiana; Bharat Juktarashtra). Stato dell'Asia meridionale che costituisce
una delle più grandi unità politiche del mondo; per numero di
abitanti è anzi la seconda dopo la Repubblica Popolare Cinese, mentre
per l'ampiezza del suo territorio è superata solo da altri cinque Stati.
Il Paese è un vero subcontinente, un'immensa penisola chiusa a N dalla
catena dell'Himalaya e protesa verso l'Oceano Indiano tra il Mar Arabico a W
e il golfo del Bengala a E . La formazione dell'Unione Indiana come entità
statale moderna è un portato del colonialismo, da cui il vasto dominio
si è emancipato con l'Independence Act del 15 agosto 1947: alcuni tratti
dei suoi confini, infatti, non sono ancora ben definiti. A N confina con la
Cina, il Nepal e il Bhutan; a W con il Pakistan: tuttavia l'area montagnosa
costituente il Kashmir è un nodo irrisolto del quadro politico indiano.
Lo Stato del Jammu e Kashmir fu più volte rivendicato dal Pakistan e
oggi è delimitato dalla linea del “cessate il fuoco” sancita
nel 1972 dagli accordi di Simla (la Cina peraltro si è annessa de facto
la sezione più interna del Kashmir). La disputa sul confine ovest rimane
ancora aperta. A NE l’India confina con Myanmar (Birmania) e Bangladesh.
Parte integrante del territorio indiano sono ormai gli ex possessi portoghesi
di Goa, Daman e Diu e quelli ex francesi di Chandernagore, Yanam, Pondicherry,
Karikal e Mahe. Appartenenti all'India sono anche le isole Laccadive, Minicoy
e Amindivi (attuali Lakshadweep), geologicamente collegate al subcontinente,
e le isole Andamane e Nicobare che si ricollegano però all'Asia sudorientale
Infine, a S, lo stretto di Palk separa l'India dallo Sri Lanka (Ceylon). Dopo
l'indipendenza, che provocò grandi spostamenti di musulmani e induisti
tra India, Pakistan e Pakistan Orientale (divenuto poi Bangladesh), il Paese
ha continuamente ricercato una sua unità culturale e religiosa.
Lo Stato
In base alla Costituzione del 26 gennaio 1950, più volte emendata, l'India
è una Repubblica federale nell'ambito del Commonwealth; comprende 28
Stati (3 dei quali formatisi nel corso del 2000 per scorporazione da altri Stati)
e 7 Territori amministrati dal potere centrale. Gli Stati, che hanno Assemblee
legislative e governi propri, sono retti da un governatore nominato per 5 anni
dal presidente della Repubblica. Capo dello Stato è il presidente della
Repubblica, che dura in carica 5 anni ed è eletto dai due rami del Parlamento
federale e dalle Assemblee degli Stati. Egli esercita il potere esecutivo insieme
con il Consiglio dei ministri di cui nomina il primo ministro nella persona
del leader del partito di maggioranza. Il governo federale, cui competono la
politica estera, la difesa, la programmazione e l'amministrazione dei settori
nazionalizzati dell'economia, è responsabile nei confronti del Parlamento,
cui spetta l'esercizio del potere legislativo, e che si compone di due Camere:
la Camera Alta o Consiglio degli Stati (Rajya Sabha), i cui membri, eccetto
un'esigua minoranza di nomina presidenziale (12 membri), sono eletti dalle Assemblee
degli Stati in proporzione ai rispettivi abitanti e si rinnovano per un terzo
ogni due anni, e la Camera del Popolo (Lok Sabha), eletta a suffragio universale
diretto per 5 anni. Il Paese si estende per 3.287.263 km2 e ha una popolazione
di 1.027.015.247 ab. (2001); capitale è Nuova Delhi. Lingue ufficiali
sono l'hindi, parlato da ca. il 30% della popolazione, e l'inglese. Le lingue
parlate nel Paese risultano essere 1652; di queste, 15 (l'assamese, il bengali,
il gujarati, l'hindi, il kannada, il kashmiri, il sanscrito, il sindhi, il malayalam,
il marathi, l'oriya, il puñjabi, il tamil, il telugu, l'urdu) sono riconosciute
come lingue nazionali negli Stati dove sono particolarmente diffuse. La popolazione
è in prevalenza induista (81,3%); seguono i musulmani (12%), i cristiani
(2,3%), i sikh (1,9%), i buddhisti (0,8%), i giainisti (0,4%), i parsi; esistono
anche numerose sette religiose e varie tribù animiste. L'indice di sviluppo
umano (ISU) è pari a 0,563 e pone il Paese al 128° posto della graduatoria
mondiale.
Geomorfologia
A grandi linee il territorio dell'India è costituito dal versante meridionale,
o esterno dell'Himalaya-Karakoram, dalla pianura gangetica e infine dalla grande
e tozza penisola del Deccan. Queste tre grandi e fondamentali divisioni rappresentano
altrettanti elementi strutturali, ai quali si connette l'evoluzione geologica
dell'intera Asia meridionale: da una parte il grande corrugamento cenozoico
emerso dalla congenita instabilità della Tetide, dall'altra una zolla
rigida e archeozoica, il Deccan appunto, frammento gondwaniano traslato verso
N, dove oggi chiude la fossa gangetica. In territorio indiano è compresa
solo la sezione occidentale e parte di quella orientale del versante himalayano,
essendo il restante entro i confini del Nepal e del Buthan; questa ha uno sviluppo
trasversale medio di ca. 200 km ed è attraversata da valli profonde,
culminando nei grandi massicci nodali del sistema, i più elevati del
territorio indiano, tra cui quelli del Nanda Devi (7817 m), del Kamet (7756
m) e del Shilla (7026 m) nella sezione occidentale, del Kangto (7089 m) e di
altri minori in quella orientale. La sezione montagnosa occidentale ha una conformazione
assai complessa. Essa inizia con una fascia collinare, prehimalayana, costituita
da depositi pliocenici sollevati dai più recenti moti orogenetici del
sistema e conosciuti come formazioni di Siwalik. Più all'interno, al
di là di una marcata faglia, appaiono le falde sedimentarie esterne costituenti
il Piccolo Himalaya, solcato da ben popolate valli dal fondo pianeggiante (dun)
e dall'andamento prevalentemente longitudinale. Più internamente ancora
si passa alla fascia centrale dei possenti massicci (il Grande Himalaya), dove
emergono le formazioni del Paleozoico superiore, rocce scistose e granitiche
alternate a formazioni archeozoiche e anche a lembi sedimentari mesozoici. Nella
sezione nordoccidentale del Paese, corrispondente al Kashmir , il territorio
indiano comprende non solo il versante esterno della catena (solcato da ampie
e fertili vallate come quella di Srinagar), ma anche il versante interno che
dà sulla grande valle longitudinale dell'Indo superiore dominata dai
massicci del Karakoram, cui si aggiunge l'appendice tibetana del Ladakh. Tutta
questa regione interna, accentuatamente montagnosa, è stata modellata
dal glacialismo e per la sua marcata altitudine è poco ospitale. La sezione
himalayana orientale è mediamente meno elevata di quella occidentale,
ma il rilievo sorge dalla pianura con forme subito aspre, ciò che rende
questa regione poco accessibile: l'unico varco è lo stretto corridoio
aperto dal Brahmaputra, che incide trasversalmente, in modo netto, tutta la
catena. In questa sezione orientale prevalgono le formazioni del Paleozoico
superiore, che verso E lasciano il posto a vasti affioramenti granitici e gneissici
dell'Archeozoico, che i ringiovanimenti cenozoici hanno modellato in forme tormentate.
L'India montagnosa marginale si completa, a E, con i rilievi del Nagaland, serie
di catene a orientamento meridiano che continuano in territorio birmano, costituite
da formazioni cristalline, saldate all'Himalaya orientale con il caratteristico
gomito che chiude l'Assam: questa regione comprende la pianura del Brahmaputra,
dai territori inondabili, e un ampio affioramento archeozoico con rocce simili
a quelle che formano il Deccan (“formazioni di Dharwar”) elevandosi
in media sui 1500 m (Khasi-Jaintia Hills). Il lungo arco montagnoso che serra
l'India a N è una sorta di bastione dominante la pianura gangetica. Essa
si estende, al di là di una fascia pedemontana spesso ciottolosa e di
una zona di risorgive caratterizzata da terreni paludosi (terai), oggi per lo
più bonificati, per oltre 1500 km dalla soglia nordoccidentale che la
divide dal bacino dell'Indo, sino alla vasta piana deltizia orientale (Bengala),
dove confluiscono le alluvioni del Brahmaputra; in larghezza supera in media
i 400 km. Ha una superficie di ca. mezzo milione di km2 ed è una delle
più grandi pianure alluvionali della Terra. La sua origine si collega
agli apporti dei fiumi himalayani e, in misura minore, di quelli del Deccan:
è infatti una fossa di colmamento che ha cominciato a formarsi nell'Eocene
e nella quale ai depositi marini più antichi si sovrappongono i depositi
fluviali, cui si devono grandiosi conoidi allo sbocco delle valli; gli apporti
principali sono quelli dei fiumi Yamuna, con il quale si fa iniziare a NW la
pianura gangetica, Ghaghara e Gandak. Alla piana gangetica vera e propria, estesa
dall'Uttar Pradesh al Bengala, si ricollega a NW quella del Punjab, che appartiene
al bacino idrografico dell'Indo (inclusa perciò quasi tutta nel Pakistan)
ed è essenzialmente formata dagli apporti di cinque fiumi himalayani
(Sutlej, Beas, Ravi, Chenab, Jhelum): all'enorme fascia di basseterre, tra l'Himalaya
e il Deccan, ci si riferisce perciò comunemente come piana indogangetica.
Tra i depositi alluvionali da cui è costituita si distinguono quelli
più antichi (bangar), risalenti al Pleistocene medio, da quelli più
recenti (khadar); questi ultimi formano il basso Bengala, la vasta regione deltizia
del Gange e del Brahmaputra, con il suo intrico di canali e di aree inondabili.
Tale distinzione è assai importante dal punto di vista umano ed economico,
in quanto i primi, più alti e al riparo perciò dalle inondazioni,
sono più intensamente coltivati e ospitano fitti insediamenti stabili,
mentre i secondi, facilmente inondabili, presentano un più rado popolamento.
Questo è però particolarmente fitto nei doab, le aree interfluviali
del Punjab e dell'Uttar Pradesh, nelle zone più alte e riparate dalle
inondazioni. La fossa delle grandi pianure è delimitata a S dalla scarpata
dei cosiddetti Altopiani Centrali, una regione che rappresenta strutturalmente
l'orlatura settentrionale del Deccan, corrugata in era paleozoica e poi soggetta
a perturbamenti tettonici nel Mesozoico e nel Cenozoico; a quest'ultima era
si collegano le espansioni basaltiche che coprono larga parte del Deccan e una
parte degli stessi Altopiani Centrali. Tale regione è delimitata a NW
dai monti Aravalli , ringiovanimenti di un'antichissima catena algonchiana (Precambriano),
mentre a SW ha la sua caratteristica componente orografica negli allineamenti
dei monti Vindhya e Satpura, tra loro divisi da un marcato elemento strutturale,
la valle del Narmada; al centro comprende l'altopiano di Gondwana e a E quello
di Chota Nagpur. In media l'altitudine oscilla sui 500-600 m e solo gli Aravalli
assumono forme erte in corrispondenza di alcune masse granitiche, che nel Guru
Sikhar raggiungono i 1722 m; in generale predominano le forme senili e la regione
si presenta in un avanzato stadio di peneplanazione. Tuttavia, in seguito ai
ringiovanimenti cenozoici, il reticolo idrografico risulta marcatamente inciso,
specie sul versante gangetico. Al di fuori dell'area interessata dai ricoprimenti
basaltici, come l'altopiano di Malwa, a N dei m. Vindhya, affiorano le rocce
del Paleozoico inferiore (per esempio i gneiss granitici e scistosi dei Vindhya)
e non mancano aree in cui vengono in luce quelle formazioni archeozoiche che
rappresentano il sostrato del Deccan. In rapporto alle diverse strutture geologiche
variano le linee morfologiche, che non sempre hanno un andamento ad altopiano.
Così nel Gondwana le arenarie hanno determinato la formazione di scarpate
successive negli ampi versanti fluviali, mentre nel Chota Nagpur per la prevalenza
di gneiss granitici si hanno una morfologia più mossa e un aspetto decisamente
collinare. Determinata dal clima arido, con affioramenti rocciosi del Paleozoico
che emergono al di sopra di superfici neozoiche, largamente rappresentate da
allineamenti dunosi, è la morfologia del deserto del Thar, vasto penepiano
situato a W degli Aravalli; esso cede a S a una regione parimenti arida, disseminata
di conche paludose e salmastre (rann), tra cui l'ampio Rann of Kutch (pantano
di Kutch) cui segue la tozza penisola di Kathiawar, un'area di formazioni basaltiche
cenozoiche incise da larghe vallate ad andamento radiale. A S degli Altopiani
Centrali si entra nell'India peninsulare; il limite strutturale è indicato
da una linea depressionaria che dalla valle del Tapti continua verso E con il
solco del fiume Mahanadi. La struttura del Deccan è quella dei tavolati
rigidi; l'elemento basale è costituito dai gneiss granitici archeozoici
che affiorano su tutta la parte orientale della penisola, mentre nella sezione
nordoccidentale gli strati antichi sono coperti dalle già ricordate espansioni
basaltiche cenozoiche, che danno luogo a una morfologia tabulare della regione.
Ma nel loro complesso i paesaggi del Deccan sono relativamente vari, anche per
la presenza dei due allineamenti montuosi periferici, i Ghati Orientali e Occidentali,
che orlano la penisola. I Ghati Occidentali sono molto più elevati, anche
per la generale lieve inclinazione verso E di tutto il tavolato del Deccan;
essi formano un insieme continuo, alto in media ca. 1000 m, e digradano verso
la costa con una scarpata spesso ripida, ai cui piedi corre una breve cimosa
pianeggiante in cui sedimentano i materiali trasportati dai brevi corsi d'acqua
che incidono la scarpata stessa. Nella parte meridionale i Ghati Occidentali
raggiungono le altezze massime in alcuni Horst, che formano i massicci del Doda
Betta (2637 m), dell'Anai Mudi (2695 m) e del Palayankottai (1654 m), un rilievo
questo che domina l'apice meridionale della penisola, la cui estremità
è nel granitico capo Comorin. I Ghati Orientali, oltre che più
bassi, hanno un'orografia discontinua; in essi si aprono le ampie vallate dei
fiumi che drenano la penisola, provenendo da NW e attingendo al versante interno
dei Ghati Occidentali. Il reticolo idrografico, il cui sviluppo dissimmetrico
è connesso alla generale inclinazione del tavolato peninsulare, movimenta
tutta la parte interna del Deccan, dove sussistono “isole” paleozoiche
sovrapposte al substrato archeozoico. La cimosa costiera orientale è
varia, alternando ampie pianure a zone pianeggianti più ristrette; in
corrispondenza degli sbocchi fluviali si hanno infatti ampi conoidi deltizi;
su vasti tratti, infine, il litorale presenta orlature sabbiose che chiudono
spazi lagunari.
Idrografia
A questi lineamenti morfologici corrisponde un'organizzazione idrografica centrata
su pochi grandi bacini. Il più esteso è quello del Gange (Ganga),
compreso tra l'Himalaya e gli Altopiani Centrali. Il fiume, il cui sviluppo
complessivo è di 2700 km, nasce dall'Himalaya occidentale e sbocca in
pianura a N di Delhi, seguito dal suo corteo di affluenti himalayani che, per
lungo tratto, data la vigorosità del loro corso, corrono paralleli al
fiume maggiore prima di confluire in esso. Lo Yamuna, per esempio, raggiunge
il Gange ad Allahabad, dopo ca. 800 km dal suo sbocco in pianura; più
o meno la stessa distanza percorre il Ghaghara prima della sua confluenza. Anche
i fiumi che scendono dagli Altopiani Centrali (il Chambal e il Betwa affluenti
dello Yamuna, il Son che tributa direttamente al Gange) hanno corsi obliqui
rispetto al fiume maggiore che segue l'asse depressionario della fossa gangetica,
molto spostata verso S per effetto della maggior capacità di trasporto
detritico degli affluenti di sinistra. A ca. 100 km dalla foce il Gange riceve
il contributo del Brahmaputra, il cui bacino superiore si estende nella lunga
valle longitudinale del Tibet e poi, varcato l'Himalaya, occupa, in territorio
indiano, la sezione compresa tra il versante himalayano, il Nagaland e i rilievi
dell'Assam. Il bacino del Brahmaputra è inferiore a quello del Gange
(poco più di 600.000 km2 su complessivi 1.125.000 km2), ma la sua portata
è superiore (380.000 milioni di m3 all'anno contro 350.000 milioni del
Gange), dato che scorre in zone molto piovose. Entrambi i fiumi hanno un regime
di tipo nivale nella sezione superiore del loro corso; per il resto risentono
delle precipitazioni monsoniche e particolarmente notevoli sono le variazioni
di portata del Gange. Importante elemento nell'idrografia gangetica sono le
falde freatiche, che affiorano nella fascia pedemontana dell'Himalaya e sono
attingibili con pozzi anche nella parte più centrale della pianura (in
zone climaticamente più aride, come nel Bihar). Nel territorio indiano
rientra una porzione del bacino dell'Indo (ca. 354.000 km2 su complessivi 1.165.500
km2), estesa dal Punjab alle zone aride del Rajasthan. Tra i fiumi del Punjab
solo il Sutlej interessa, e parzialmente, il Paese; per il resto, trattandosi
di terre aride, l'idrografia in tutta la sezione compresa nel bacino dell'Indo
ha un rilievo limitato, con corsi d'acqua asciutti per gran parte dell'anno,
mentre più importanti, dal punto di vista antropico, sono le falde freatiche
che alimentano numerose oasi del deserto del Thar. A S di questo, uno sviluppo
autonomo hanno i fiumi che scendono dagli Aravalli: hanno un regime stagionale
e ai loro apporti si deve la formazione dei citati rann, le conche salmastre
del Gujarat. Gli Altopiani Centrali alimentano numerosi fiumi. Di essi alcuni,
come si è visto, tributano al Gange, altri versano le loro acque nei
due fiumi che, con direzione opposta, drenano la maggior parte di questa regione:
il Narmada e il Mahanadi, sfociando il primo nel Mar Arabico (golfo di Cambay),
dopo aver percorso la fossa tettonica tra i monti Vindhya e Satpura, il secondo
nel golfo del Bengala. Il Mahanadi ha un bacino piuttosto esteso (132.100 km2)
in quanto comprende una sezione del Deccan; ha un regime che risente in modo
diretto delle precipitazioni monsoniche ed è perciò estremamente
irregolare, dando luogo a frequenti inondazioni nelle aree deltizie dell'Orissa.
Nel Deccan i bacini idrografici più estesi sono quelli del Godavari (313.389
km2), del Krishna (259.000 km2) e del Cauvery (72.500 km2); tutti e tre nascono
dai Ghati Occidentali e si dirigono verso il golfo del Bengala, secondo la caratteristica
morfologia della penisola. In rapporto a ciò i fiumi del Deccan che sfociano
nel Mar Arabico hanno bacini limitati; il maggiore è il Tapti, che drena
il versante meridionale dei monti Satpura. Anche i fiumi del Deccan hanno un
regime irregolare connesso con le precipitazioni monsoniche; però quelli
meridionale hanno un regime più regolare dato che il clima si fa via
via di tipo equatoriale procedendo verso l'apice della penisola.
Clima
Il clima dell'India è determinato da diversi fattori: anzitutto dalla
posizione tropicale del Paese, poi dalla sua apertura all'Oceano Indiano e dalla
presenza della catena himalayana a N. Però non tutto il territorio ha
condizioni analoghe. Il rilievo è un primo fattore di diversificazione,
cui si aggiungono la latitudine e l'esposizione più o meno diretta alle
invasioni delle grandi masse d'aria. Esistono infatti un'India arida, un'India
dal clima spiccatamente a due stagioni, un'India dal clima umido equatoriale,
per non parlare del clima himalayano dalle caratteristiche tutt'affatto speciali.
Però nel complesso non esistono nel Paese grandi anomalie. Dal punto
di vista termico l'apertura all'Oceano Indiano fa sì che le variazioni
siano quasi unicamente legate al rilievo, oltre ovviamente al diverso grado
di continentalità, la quale si fa sentire anche sulle variazioni stagionali,
più sensibili verso N e verso l'interno. A Delhi la media di gennaio
è di 15 ºC, quella di luglio di 22 ºC; a Kolkata (Calcutta)
e a Mumbai (Bombay) le stesse medie sono rispettivamente di 20 ºC e 28
ºC e di 24 ºC e 28 ºC (Bombay è più esclusa dagli
influssi continentali di Kolkata); a Chennai (Madras), nel Deccan meridionale,
le medie sono di 25 ºC e 31 ºC mentre a Calicut, un'area a clima equatoriale,
si hanno valori quasi costanti tutto l'anno (26 ºC e 25 ºC). Al lato
opposto si hanno le notevoli variazioni della zona himalayana, rispecchiate
nelle medie di Srinagar, pari a 2 ºC in gennaio e 24 ºC in luglio.
Molto più irregolare è la distribuzione delle precipitazioni.
Vi sono infatti in India zone decisamente aride, come il Rajasthan, e altre
dove si registrano precipitazioni tra le più elevate della Terra, come
l'Assam. Però gran parte del Paese ha precipitazioni comprese tra i 500
e i 1500 mm; esse tuttavia si verificano in una sola stagione e ciò,
più che la quantità delle piogge, costituisce un aspetto negativo,
specie in certe regioni, del clima indiano. Questo è infatti in generale
del tipo tropicale a due stagioni, legate allo spirare dei monsoni. D'estate
con il crescere delle temperature si determinano basse pressioni sul Paese mentre
sull'Oceano Indiano si stabilisce una zona anticiclonica e si hanno venti da
SW, portati dalle masse di aria tropicale. Dopo un periodo di caldo soffocante
che fa registrare in molte località i valori massimi della temperatura
(fino a 50 ºC nel Rajasthan) iniziano le piogge, accompagnate spesso da
violente manifestazioni temporalesche, e la temperatura si rinfresca. Ciò
avviene nell'India meridionale ai primi di giugno e verso la fine del mese il
monsone si propaga anche nel N e nel NW dove giunge però via via indebolito:
ciò spiega l'aridità delle zone comprese nel bacino dell'Indo.
Alla metà di settembre il monsone di SW perde vigore e le precipitazioni
diminuiscono, anche nelle aree meridionali più esposte agli influssi
marini. Si ha così una stagione calda e asciutta che segna l'inversione
barometrica, con l'imporsi dei venti continentali da NE (o in certe zone, come
nella piana gangetica, da NW) attratti dalle basse pressioni nella fascia equatoriale
dell'Oceano Indiano. Nel Sud tuttavia si hanno ancora precipitazioni per la
caratteristica equatorialità della fascia costiera occidentale. È
qui che si hanno le massime precipitazioni del Deccan: a Calicut esse superano
i 3000 mm annui, valore che decresce verso N sino ai 1700 mm di Bombay. Nell'interno
della penisola i valori oscillano tra i 1000 e i 1200 mm, e aumentano nei versanti
meridionali degli Altopiani Centrali. Nell'Assam gli alti valori delle precipitazioni
(oltre i 5000 mm annui) sono dovuti allo stazionamento estivo dei cicloni nel
golfo del Bengala, cicloni che investono direttamente la regione, spesso con
una violenza che ha conseguenze particolarmente disastrose sulle coste del Bangladesh,
specie nella fascia di Chittagong. Anche nel Bengala si hanno precipitazioni
abbondanti e a Calcutta cadono annualmente oltre 1600 mm di pioggia. I valori
decrescono da E a W nella pianura del Gange, dove oltretutto le piogge sono
molto irregolari (a Delhi si hanno 660 mm annui); nelle terre aride del Rajasthan
non vengono superati generalmente i 250 mm annui mentre nell'estremo Nord è
più favorita Srinagar, che trovandosi sul versante himalayano riceve
anch'essa oltre 600 mm annui d'acqua. L'alternanza stagionale lascia asciutta
per lunghi mesi gran parte dell'India e ciò corrisponde a un periodo
di sosta della stessa attività umana, che si ravviva d'improvviso alle
prime manifestazioni del monsone. Talora queste tardano a venire e si hanno
allora in certe zone (frequentemente nella pianura settentrionale) drammatiche
carestie, cui si aggiunge sovente l'improvviso e rovinoso scatenarsi del monsone.
Flora e fauna
La copertura vegetale dell'India è caratterizzata da associazioni molto
diverse, che si presentano però oggi profondamente manomesse dall'uomo.
La degradazione vegetale investe tutta la pianura e gran parte del Deccan, dove
si hanno tuttavia lembi di foresta tropicale nei versanti sudoccidentali del
Deccan (pendici dei Ghati Occidentali), nelle dorsali montuose degli Altopiani
Centrali, nei monti dell'Assam e del Nagaland. Si tratta di una foresta sempreverde
in cui dominano alberi d'alto fusto, che comprendono anche essenze pregiate
come il teak e il sandalo, sebbene questi alberi siano tipici soprattutto della
regione peninsulare. Lembi di foresta sempreverde si trovano anche lungo i corsi
fluviali dell'interno, dove però predomina la foresta tropicale decidua,
nella quale la pianta dominante è il sal (Shorea robusta). Procedendo
verso N e NW questa foresta assume adattamenti xerofili: compaiono così
varie specie di acacie, che, rare e isolate, dominano l'arido paesaggio del
Rajasthan. Le pendici himalayane ospitano foreste subtropicali, che via via
trapassano con il crescere dell'altitudine in foreste temperate (con querce
e conifere, tra le quali ultime caratteristico è il Cedrus deodara),
cui succedono poi i tipici livelli alpini d'alta quota che comprendono anche
ricchi pascoli (mergs). ? Nell'India si possono distinguere due zone faunistiche
divise dal Gange e dai rilievi di Vindhya e Satpura. In quella a N sono rappresentati
quasi tutti gli ambienti caratteristici della regione zoogeografica orientale:
qui vivono il nilgau, l'antilope cervicapra, il caracal, una specie di gazzella
(Gazella gazella), il cinghiale, oltre a ricci, toporagni, pipistrelli e moltissimi
roditori. Nella fascia centrale, numerosissima è la popolazione degli
uccelli acquatici; nei pressi della foce dell'Indo esiste ancora il leone asiatico
e molti fiumi settentrionali ospitano il delfino del Gange (Platanista gangetica)
e il gaviale. La zona a S comprende la vera e propria penisola indiana il cui
animale tipico è la tigre; nelle formazioni a mangrovie non è
difficile trovare il coccodrillo di palude e quello marino oltre al varano fasciato
e ai bufali indiani. Tipico anche l'orso labiato ancora frequente nei fitti
boschi del Deccan; molte le scimmie, mentre i Lemuroidei sono rappresentati
dal lori gracile. Diffusi infine in tutto il Paese l'elefante asiatico, il rinoceronte
unicorne, moltissimi cervidi fra cui fa spicco il muntjak (Muntiacus muntjak),
moltissimi animali acquatici e numerosissimi serpenti velenosi che causano migliaia
di vittime ogni anno.
Geografia umana: generalità
Il subcontinente indiano è stato uno dei centri d'irradiazione nell'evoluzione
degli Hominoidea, come testimoniato dai numerosi reperti fossili di Ramapitecine
portati alla luce, finora, nell'India settentrionale (Haritalyngar, monti Siwalik)
datati a 12-8 milioni di anni fa. La carenza di ricerche sistematiche, e quindi
la scarsità di ritrovamenti, impedisce tuttavia una precisa ricostruzione
del più remoto popolamento, sebbene l'India costituisca una sorta di
“ponte” tra l'Africa e il resto dell'Asia per quanto concerne la
diffusione delle specie umane. L'unico reperto sicuramente attribuibile a Homo
erectus è quello di Hatnora, nella valle del Narmada, datato a circa
1 milione di anni fa, portato alla luce nel 1982; scarsi e frammentari i resti
più antichi di Homo sapiens sapiens, nonostante il rinvenimento di vari
siti paleolitici in tutta la penisola indiana. A partire dal IV millennio a.
C. l'India appare abitata da genti dedite all'agricoltura itinerante: qui vennero
domesticate varie piante, fra le quali il cotone, il riso di montagna e persino
il mais (nell'Assam). Già prima della diffusione degli Indoeuropei erano
presenti popolazioni antropologicamente e culturalmente diverse, come testimoniato
dalla molteplicità dei gruppi etnici tuttora esistenti, solo in parte
fusi tra loro. Le genti più antiche vengono ritenute quelle veddoidi
del sud-ovest (area dei monti Carmadon e Nilghiri), da alcuni studiosi designate
con il nome collettivo di Malidi; questi presentano un misto di caratteri australoidi-negroidi-europoidi
(le tribù più significative sono: Mala Vedar, Kanikkar, Kadar,
Kuruba, Malasar, Paman, Jeravà); affini, ma con più spiccati caratteri
australoidi, sono i gruppi residuali dell'orlo orientale del Deccan (Sholiga,
Chenghu, Irula, Yamadi e altri); tutte queste genti, nomadi, sono dedite ancor
oggi alla raccolta e alla caccia. Un altro gruppo di genti di origine assai
antica, designato da alcuni studiosi con il nome collettivo di Gondidi, è
diffuso in piccole entità isolate su una vasta area tra il basso Gange
e il bacino del Narmada fino alle regioni nord-occidentali e al bacino del Mahanadi:
presentano caratteri negroidi-australoidi sebbene la loro pelle sia decisamente
chiara; i gruppi più numerosi sono i Gond, Juang, Santal, Oraon, Khond,
Bhuiya, Male, Mardia, Korku, Bhil, Katkari, Thakur, Kandesh, Mewak, quasi tutti
ancora nomadi cacciatori-raccoglitori, che praticano una semplice agricoltura
alla zappa. Coltivatori un tempo nomadi, probabile residuo del primo popolamento
neolitico, sono le numerose popolazioni di lingua munda, oggi sedentarie, stanziate
soprattutto nella regione fra il basso Gange e il Narmada fino all'alto corso
del Mahanadi (Munda, Korwa, Asur, Kha, Horo, Ho, Bhumi, Kharvar, Kharia). I
loro caratteri somatici presentano tratti europoidi con taluni aspetti negroidi
nel taglio della faccia, nel naso e nei capelli; sono le genti che presentano
colorazione cutanea più scura di tutta l'India tanto che vari studiosi
li designano collettivamente con il nome di Indomelanidi o Paleoindidi. Di pelle
bruna o bruno-scura sono le popolazioni di lingua dravida che all'epoca dell'invasione
indeuropea erano diffuse in tutta l'India, dove avevano costituito grandi comunità
di agricoltori sedentari ai quali si deve, probabilmente, la creazione dei primi
stati urbani, soprattutto nel bacino del Gange. Oggi i Dravidi popolano principalmente
l'India meridionale, costituiscono forti minoranze omogenee e rappresentano
il tipo fisico noto con il nome di “indiano meridionale”; le etnie
più numerose sono i Tamil, stanziati nel Deccan sudorientale con una
forte presenza anche nello Sri Lanka, i Telegu del Deccan orientale, i Canaresi
del Deccan occidentale e i Malayalam della fascia costiera sudoccidentali della
penisola indiana. In epoca storica, l'India fu interessata da una progressiva
penetrazione di genti sino-tibetane delle quali Purighi, Lahuli, Kiranti, Limbu,
Lepcia, Chutià, Kuc, Ladaki, Lahudi, Chang-pà e Newari sono gli
attuali rappresentanti; l'espansione di questi pastori-contadini fu bloccata
nelle regioni settentrionali dall'arrivo, a partire dal III millennio a. C.,
di popolazioni dedite alla pastorizia nomade, di origine indo-iraniana (Preari
o Paleoari), tuttora presenti nel nord-ovest dell'India (Pahari, Brokpa, Garhwali,
Khasmiri, Dardi, Kho, Machnopa, Kafiri). A questi fece seguito, verso il 1500
a. C., la massiccia invasione degli Indoeuropei (costituenti oggi il tipo fisico
noto come “indiano meridionale”) provenienti da nord-ovest: pastori
e allevatori organizzati in tribù patriarcali fortemente gerarchizzate
e militarizzate, passate alla storia con il nome generico di Indù o Indoari.
Costituiscono oggi numerose etnie, le più importanti delle quali sono
i Maratha, Hindi, Puñjabi, Rajastani, Sindhi, Bihari e Gujarathi; alcune
di queste diedero origine a potenti Stati che sottomisero le preesistenti genti
nomadi e ricacciarono Dravidi e Munda nelle attuali sedi. Diventati agricoltori
sedentari, solo in piccola parte si fusero con gli autoctoni ai quali imposero
la propria organizzazione sociale, i costumi e spesso anche la religione.
Geografia umana: lo sviluppo demografico
Nel corso dei secoli si è venuta così a produrre una complessa
sovrapposizione etnica che, secondo alcune interpretazioni, è all'origine
delle caste, le quali tuttavia si spiegano anche in rapporto all'organizzazione
gerarchizzata tradizionale del mondo indù, con le specializzazioni professionali
e dei compiti che essa comporta con le sue varie attività. Sebbene la
Costituzione abbia abolito le tradizionali caste e il governo cerchi di limitare
il potere delle numerose sette religiose, l'induismo svolge un ruolo fondamentale
in questo Paese prevalentemente contadino. Ciò è dovuto al fatto
che la religione degli Indoari si è imposta nel processo storico come
elemento di affermazione della civiltà indiana. Esistono anche delle
minoranze religiose, le più importanti delle quali sono rappresentate
dai musulmani, dai cristiani, dai Sikh del Punjab, dai buddhisti, dai parsi,
per lo più ricchi commercianti del Maharashtra, che vivono nelle città.
Questo mosaico etnico e religioso, che va poi sminuzzato ulteriormente in centinaia
di frammenti, spiega la complessità dell'India e può rivelare
come, nonostante secoli di storia che ha visto anche periodi di unificazione
politica, il Paese non abbia potuto trovare il suo “punto di fusione”.
Il colonialismo, con gli scambi e le attività che ha promosso, ha agito
da stimolo, in senso moderno, per la vita dell'India, ma ha suscitato nel contempo
nuovi problemi sociali, imponendo un'organizzazione territoriale sua propria,
esaltando in modo esagerato l'urbanesimo, la crescita demografica, tutti problemi
che assillano l'India di oggi. Quello demografico è uno dei più
gravi: al censimento del 2001 l'India contava 1.027.015.247 abitanti. Il processo
di crescita nel corso del Novecento è stato vertiginoso. Il primo censimento
del 1901 aveva registrato 238 milioni di ab.; essi non aumentarono di molto
nei successivi vent'anni; decrebbero anzi tra il 1911 e il 1921 e ancora nel
1931 la popolazione non toccava i 280 milioni. Gli incrementi fortissimi si
ebbero a cominciare dagli anni Quaranta; così nel 1941 si registrarono
318,5 milioni, nel 1951 ca. 360, nel 1961 oltre 439 milioni. Questo rapido incremento
demografico fu dovuto, fondamentalmente, alla riduzione del tasso di mortalità,
che fino ai primi decenni del sec. XX era determinato dalle frequenti carestie
e dalle ricorrenti malattie epidemiche come il vaiolo, la peste, il colera,
la malaria, che contribuivano a mantenere quell'“equilibrio della miseria”,
con il quale, sia pure in modo crudele, si contenevano gli sviluppi demografici.
Il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie ha fatto scattare l'esplosione
demografica, risultato di una natalità sostanzialmente mantenutasi elevata,
ma non più controbilanciata da un'altrettanto elevata mortalità,
il cui tasso annuo è via via sceso negli anni. Corrispondentemente l'incremento
demografico naturale si è via via elevato dagli inizi del secolo. La
gravità del problema demografico in un Paese di limitate risorse (o non
adeguatamente sfruttate) fu avvertita dallo stesso Gandhi; il problema fu affrontato
sotto il regime di Nehru, durante il quale fu teorizzato quel neomalthusianesimo
che indusse il governo a istituire, nel 1965, i primi centri per il controllo
delle nascite sotto la direzione del Ministero della Sanità. Malgrado
le politiche antidemografiche adottate da anni con impegno dal governo, la crescita
demografica e molto sostenuta, sia per l'ancora elevato tasso di natalità
(26,4‰ nel 1998) sia per la diminuzione del tasso di mortalità
(9‰ nel 1998). La pressione demografica elevata di certe regioni esisteva
già alla fine del sec. XIX e, favorita dalle possibilità consentite
dal colonialismo, aveva suscitato un'emigrazione verso altre terre, soprattutto
verso quelle affacciate all'Oceano Indiano. In molti casi si trattò di
un'incetta di manodopera di tipo schiavistico, come quella che portò
migliaia di Indiani nelle piantagioni di canna da zucchero delle isole Maurizio
e dell'Africa Orientale; altre correnti migratorie si diressero in Birmania,
in Malaysia, nelle Figi, persino nelle Antille. La densità della popolazione
è di 312 ab./km2, valore elevato anche per un Paese così vasto;
ma tuttavia esso non dice delle altissime concentrazioni di certe zone. Le massime
concentrazioni si hanno nella bassa pianura gangetica, nel delta del Bengala,
in una parte dell'Assam e nel Kerala. Zone meno popolate, oltre alle aree aride
del Rajasthan, sono le valli himalayane, specie orientale, il Deccan nordorientale
e il Gujarat interno. Gli squilibri economici e demografici da parte a parte
hanno alimentato nel Novecento le prime migrazioni interne; le più cospicue
però sono state quelle dirette verso le città. La corsa all'urbanesimo
ha raggiunto in India ritmi molto elevati, esaltati all'epoca della divisione
tra India e Pakistan, che ha portato migliaia di profughi ad accentrarsi nelle
periferie delle grandi città come Calcutta.
Geografia umana: dal villaggio alla megalopoli
Il villaggio indiano, fondato sull'economia agricola e sull'artigianato, autosufficiente
almeno alle origini, è una germinazione spontanea della sedentarietà
ed è rimasto pressoché immutato nei millenni. Socialmente il villaggio
(grama) ha conservato, fino all'epoca coloniale, la sua organizzazione comunitaria
espressa nel Panchayat, il consiglio di villaggio, e la sua composizione castale
implicita nella divisione professionale dei compiti nell'ambito dell'economia.
Tradizionalmente ogni villaggio è rappresentato da un gramini, un capo-villaggio,
e a sua volta ogni villaggio fa capo a un organismo territoriale che comprende
più villaggi, retti da gerarchie superiori. Il rapporto tra villaggi
e unità territoriale è legato alle condizioni ambientali. Il villaggio
ha un dintorno coltivato più o meno vasto secondo la bontà dei
suoli o delle possibilità di irrigazione; anche la sua dimensione varia
secondo questi fattori. In generale i villaggi si pongono lungo i corsi d'acqua.
Il 55% dei villaggi è dotato di energia elettrica, che serve soprattutto
per l'estrazione dell'acqua di falda; ca. un terzo dei centri rurali non dispone
di pozzi e quindi deve servirsi dell'acqua non potabile dei serbatoi (eri).
Proprio la capacità di queste riserve d'acqua determina la dimensione
del villaggio, il quale in generale ha non più di 400-500 ab., ma esistono
sia grandi villaggi (kasba) sia piccoli villaggi (gaon). Nelle aree più
fertili e piovose (per esempio nel Bengala) vi sono anche casali isolati (kheda).
Prima del colonialismo la trama territoriale fondata sui villaggi e i centri
rurali faceva capo, in senso però politico più che economico,
alle città principesche, sedi del potere, in funzione del quale erano
state concepite anche dal punto di vista urbanistico (pianta regolare con centro
nodale rappresentato dal palazzo del principe e il tempio, indù o musulmano),
come nei mirabili esempi di Jaipur, Agra, Madurai, ecc. L'organizzazione del
villaggio entro l'ordinamento feudale si è rotta in epoca coloniale,
con gli aggravi fiscali e l'imporsi del potere degli zamindari (appaltatori
d'imposte) e di quel regime assenteista che è stato uno dei fattori della
decadenza economica dell'India a partire dagli inizi del sec. XIX. Anche l'artigianato,
oltre che l'agricoltura, è deperito, mentre l'imporsi di un circuito
commerciale di tipo moderno ha valorizzato i centri meglio favoriti dal punto
di vista delle comunicazioni, oltre che delle attività produttive più
redditizie. Così si è determinata quella gerarchia di piccoli
e grandi centri, già però avviata dopo la penetrazione dell'islamismo,
che formano la trama territoriale dell'India, la quale fa capo a pochi grandi
poli urbani, valorizzati dai collegamenti ferroviari dell'Ottocento. Tra questi
centri focali i primi a emergere sono state le città portuali, quelle
cioè che facevano da tramite tra India e Gran Bretagna: Calcutta (Kolcata)
e Bombay (Mumbay) furono le prime grandi basi dell'India coloniale, insieme
con Madras (Chennai); Delhi, divenuta importante sotto il dominio turco-musulmano,
fu potenziata invece per la sua funzione di “cerniera” dei collegamenti
continentali, tra la valle dell'Indo e quella del Gange. Queste città
in misura via via maggiore delle altre subirono quelle incentivazioni economiche
che ne fecero anche la meta della migrazione dalle campagne, non peraltro fortissima
prima degli ultimi vent'anni. Il fenomeno migratorio però non si può
considerare come un fattore positivo, perché è stato determinato
dalla decadenza della vita rurale ed è stato assorbito in senso parassitario
dalle città, incapaci di stimolare economicamente le campagne. Gli sviluppi
maggiori li ha avuti Calcutta, che dopo la divisione tra India e Pakistan è
stata il rifugio di molti profughi, così come Delhi e Bombay. Queste,
come tutte le grandi città indiane, hanno una grande frangia periferica
dove si accatastano, in modo provvisorio, le masse inurbate, in condizioni spesso
drammatiche; il loro assorbimento è lento, difficile, collegato com'è
agli sviluppi economici del Paese. Delhi è una città “terziaria”
per il suo ruolo amministrativo, rivelato anche dalle sue strutture urbanistiche,
nelle quali si distingue Nuova Delhi, sede del governo (questa propriamente
è la capitale) e quartiere aristocratico, dove al vecchio nucleo musulmano
si giustappongono i nuovi ariosi quartieri di epoca coloniale. Delhi è
il nodo occidentale nella trama territoriale della piana del Gange, al cui lato
opposto, nel delta bengalese, sta Calcutta, capitale del Bengala Occidentale,
porto fluviale e città industriale che ha germinato intorno a sé
una serie di altri centri con i quali forma la più grossa conurbazione
o città-regione dell'India Di stampo inglese nella sua parte monumentale,
è per il resto un agglomerato assai esteso, squallido, che accoglie alla
periferia molti stabilimenti industriali (i più vecchi sono quelli legati
alla lavorazione della iuta, quelli più recenti connessi allo sfruttamento
delle vicine miniere di ferro e carbone); Calcutta però accoglie anche
molte attività terziarie e commerciali suscitate dal suo porto, sbocco
della piana gangetica già valorizzato dagli Inglesi. La pianura del Gange
ospita numerose altre grandi città, alcune con funzioni industriali come
Kanpur (centro dell'industria tessile) e Lucknow (Lakhnau), la capitale dell'Uttar
Pradesh; ma questa è una città d'origine antica, così come
altre della pianura quali Agra, legata all'affermazione islamica, Varanasi (Benares),
massimo centro religioso dell'induismo, e Allahabad, città santa buddhista;
Patna è invece nodo di comunicazioni valorizzato in epoca moderna. Nell'India
nordoccidentale la popolazione urbana non è molto elevata, ma esistono
antiche e storiche città vivacizzate da attività diverse: Jaipur,
la capitale del Rajasthan, Ajmer, Udaipur, facenti capo alla regione degli Aravalli;
Jodhpur, al margine sudorientale del deserto del Thar. Nel fittamente popolato
Punjab si trovano molti centri commerciali e industriali (Amritsar, Ludhiana,
Jullundur, ecc.); Srinagar, massimo centro del Kashmir, è notevolmente
accresciuta grazie alle sue molteplici funzioni. Nel Gujarat l'ex capitale Ahmadabad
è una metropoli commerciale con importanti industrie tessili e alimentari.
Nel Deccan, Bombay, capitale del Maharashtra, continua a essere il polo urbano
maggiore; cresciuta come porto fondamentale in epoca coloniale (era “la
porta dell'India”), oggi è una città ricca di industrie
di trasformazione e manifatturiere ed è sede di attività culturali
e finanziarie. È ben collegata con ferrovie alla piana del Gange, al
Rajasthan e agli Altopiani Centrali, dove sorgono città storiche, vecchie
capitali principesche come Indore (Indaur), Bhopal, Jabalpur, valorizzate dai
moderni raccordi ferroviari. Questi hanno particolarmente accentuato la posizione
gerarchica di Nagpur, a S dei Satpura, di Pune (Poona), città industriale
con funzioni di satellite nei confronti della vicina Bombay, e di Hyderabad,
capitale dell'Andhra Pradesh, città storica legata all'islamismo (è
l'ex Golconda) di cui è ancor oggi il massimo centro in India, benché
sia anche sede di industrie e attività commerciali che investono tutto
l'interno della penisola. Più a S grossa città è Bangalore,
capitale dello Stato del Karnataka. Nel Deccan orientale la rete urbana gravita
su Madras, la capitale del Tamil Nadu e attivissima città portuale privilegiata
dagli Inglesi, attrezzata anche come centro industriale (siderurgico e dell'industria
meccanica). Altri importanti centri del Deccan sono situati agli sbocchi delle
valli sulla pianura costiera, come Vijayawada e Rajahmundry. Nell'interno della
parte più meridionale della penisola è Madurai, centro religioso
dell'induismo, mentre sulla costa del Malabar Calicut e Cochin sono sbocchi
portuali di una ricca regione agricola.
Economia: generalità
Pochi Paesi hanno una realtà economica e sociale complessa come quella
dell'India; pur risultando tra gli Stati più industrializzati del mondo,
e malgrado negli ultimi decenni del Novecento l'economia indiana si sia sviluppata
a un tasso piuttosto elevato (mediamente attestato tra il 5 e il 6% annuo),
il Paese si colloca in uno degli ultimi posti tra le nazioni del Terzo Mondo,
con il 35% della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà.
Tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi del decennio successivo l’India
ha subito le conseguenze di una grave crisi economica, i cui elementi paradigmatici
sono individuabili nelle enormi proporzioni del deficit di bilancio e del debito
estero. La difficoltà di mantenere entro un livello sostenibile il disavanzo
dello Stato è divenuta palese nell’anno fiscale 1989-90 per l’effetto
combinato di più fattori strutturali. All'inefficacia della politica
fiscale, non estesa, peraltro, agli agricoltori, si è sommata la crescente
pressione della spesa pubblica, determinata, in maniera preponderante, dalle
sovvenzioni elargite, sia alle imprese statali, caratterizzate tradizionalmente
da una bassa produttività, sia, anche se in misura minore, all’agricoltura.
Il debito estero tra il 1980 e il 1991 era stato contratto, in larga parte,
per finanziare il saldo negativo della bilancia commerciale, ma con la crisi
del Golfo, successiva all’occupazione irachena del Kuwait, gli elementi
di pressione sull’intera bilancia delle partite correnti e, in generale
sull’economia indiana, si sono moltiplicati. All’aumento del prezzo
del petrolio, che ha avuto una parte rilevante nel rilancio dell’inflazione,
si è aggiunto il crollo verticale delle rimesse degli emigrati indiani
che lavoravano nella regione del Golfo. La drastica riduzione delle importazioni
e la mobilizzazione di una parte considerevole delle riserve di oro non sono
riuscite a evitare il ricorso al FMI, che ha elargito un prestito di 2,3 miliardi
di dollari, concordato all’interno di un più generale programma
di stabilizzazione economica voluto dal governo insediatosi nel giugno del 1991.
Le linee guida della nuova politica economica erano mirate alla trasformazione
della tradizionale strategia di sviluppo che aveva guidato l’India fin
dai primi tempi dell’indipendenza e si proponevano, in particolare, la
liberalizzazione dell’economia dallo strettissimo controllo statale. In
quest’ottica venivano decise l'eliminazione dei costosi sussidi alle esportazioni,
la svalutazione della rupia nella misura del 22% rispetto al dollaro e la riduzione
di una parte delle restrizioni alle importazioni. La riforma fiscale, altro
fattore chiave del programma di ristrutturazione economica, si mosse nella direzione
dell’ampliamento della base contributiva e della restrizione dei prelievi
fiscali. Decisivi interventi erano effettuati nel settore delle pubbliche imprese,
riducendo i sussidi statali e favorendo una maggiore competitività. Il
governo si dotava di quegli strumenti legislativi in grado di consentirgli di
ristrutturare o chiudere le imprese sofferenti di una cronica passività
di bilancio, senza dimenticare le esigenze dei lavoratori, ai quali venivano
accordate delle sovvenzioni. All’interno del generale processo di liberalizzazione,
venivano ridotte anche le restrizioni imposte alle industrie private, riguardanti,
per esempio, il necessario assenso governativo per la scelta della localizzazione,
i nuovi investimenti ed espansioni, le importazioni. Il bilancio della politica
di liberalizzazione economica, può essere considerato positivamente alla
luce dei dati riguardanti l’aumento del PIL, passato dal 3,5% degli anni
precedenti la riforma al 6% dell’anno fiscale 1995-96. Il PNL prodotto
nel 1999 è stato di 441.834 milioni di dollari USA. La sua variazione
annua nel 1998 è stata del 6%. Nel 1999-2000 la crescita dell’economia
si è mantenuta elevata (6%) grazie soprattutto allo sviluppo dei settori
industriali ad alta tecnologia (informatico) che possono utilizzare personale
specializzato a basso costo. Il governo, nel giugno 2000, annunciava che, per
combattere l’enorme povertà, il Paese avrebbe perseguito un obiettivo
di crescita del 10% annuo nel decennio successivo. Tuttavia, al di là
di questo risultato, che pure è assai modesto se paragonato ai tassi
di crescita dei Paesi del Sud-Est asiatico e della Cina, altri indicatori macroeconomici
indicano la persistenza di alcune deficienze strutturali. Il deficit di bilancio,
per esempio, ha continuato a rappresentare un grave ostacolo sulla via dello
sviluppo. Sebbene tra il 1990 e il 1993 vi sia stata una sua significativa riduzione,
essa non si è mantenuta stabile. Anche la situazione dei conti con l’estero
ha fatto registrare un andamento altalenante. Per quanto riguarda gli investimenti
stranieri, i risultati della politica di apertura inaugurata nel 1991 sono stati
particolarmente favorevoli sia in relazione agli investimenti di portafoglio,
pari a 2,1 miliardi di dollari nel 1995-96, sia a quelli diretti. Questi ultimi,
che nel 1996 hanno raggiunto i 2,5 miliardi di dollari, sono stati incoraggiati
dalla decisione del governo di estendere il livello massimo di quote azionarie
che possono essere possedute dagli investitori stranieri fino al 74% per alcuni
settori non strategici. Dall’insieme di questi fattori ne è risultata
la possibilità di innalzare il livello delle riserve estere fino a 17
miliardi di dollari (marzo 1996), in modo tale da raggiungere una stabilità
che si era rischiato seriamente di compromettere nel 1991, quando le riserve
ammontavano ad appena un miliardo di dollari. La monetizzazione di una parte
di queste riserve, così come quella parziale del deficit pubblico, hanno
avuto effetto sul tasso di inflazione, provocandone l’innalzamento. Divise
tra la lotta contro l’inflazione e la necessità di non penalizzare
gli investimenti e la crescita economica, le autorità indiane hanno optato
per la prima soluzione. La ricerca della stabilizzazione economica è
intesa anche a tranquillizzare gli investitori stranieri, nella prospettiva
di ampliare ulteriormente il proprio mercato, che, del resto, è stato
considerato, nel 1996, uno dei dieci grandi mercati internazionali emergenti.
Il primato per gli investimenti stranieri, nel 1995, è andato all’UE,
che ne ha incrementato la quota nella misura del 30% rispetto all’anno
precedente. Dal punto di vista degli scambi commerciali, però, sono sempre
gli Stati Uniti a ricoprire il ruolo principale, anche se sono notevolmente
aumentati gli scambi con la Cina, di cui l’India è divenuta il
partner più importante nella regione dell’Asia meridionale. Anche
il Giappone ha confermato il suo primato in quanto primo fornitore di aiuti
bilaterali.
Economia: agricoltura
L'agricoltura indiana ha notevoli possibilità, data l'estensione dei
terreni produttivi: già ora dispone di vaste superfici coltivabili, pari
al 51,6% del territorio nazionale, con condizioni climatiche e pedologiche molto
varie, il che consente un'ampia gamma di colture pur praticate generalmente
in modo estensivo. Sebbene il clima monsonico provochi una distribuzione irregolare
delle precipitazioni, queste sono considerevoli per cui il problema consiste
nel saperle utilizzare convenientemente mediante una serie di opportune infrastrutture
irrigue. A queste favorevoli condizioni non corrisponde quello sviluppo delle
colture che potrebbe rendere l'India un Paese più che autosufficiente
se non addirittura esportatore, almeno per vari prodotti; infatti il settore
rimane in condizioni di pesante arretratezza, egemonizzato dalle colture destinate
al consumo interno e soggetto inoltre al forte condizionamento delle fluttuazioni
climatiche annuali. Nel corso del 1999-2000 una serie di catastrofi naturali
ha colpito il Paese. I cicloni, le siccità, i terremoti, le inondazioni
e le piogge monsoniche influenzano pesantemente il settore agricolo che dal
clima indiano dipende strettamente. L'indipendenza abolì l'arcaico regime
della proprietà terriera, basato sul latifondo parassitario e sulla vera
e propria servitù della gleba, grazie alla distribuzione di gran parte
delle terre ai contadini e in minore misura alle cooperative di villaggio. Lo
Stato però non si fece carico di attuare una radicale riforma agraria,
tanto che esistono ancora grandi proprietà terriere, che sono di fatto
le sole aziende efficienti con colture di alto valore commerciale. Poco o nulla
sovvenzionati dagli organi governativi, impossibilitati ad accumulare i capitali
necessari per rifornirsi di fertilizzanti, sementi, macchinari agricoli, ecc.,
i contadini traggono a fatica di che vivere dai loro microfondi. L'estrema parcellizzazione
delle aziende impedisce così il raggiungimento di soddisfacenti livelli
produttivi, mentre l'assenza di adeguati mezzi di trasporto e di magazzini per
la conservazione dei prodotti non consente l'accesso ai mercati di buona parte
del raccolto, nel frattempo deterioratosi. Ancor più, in mancanza di
agevolazioni creditizie da parte dello Stato, poco o nulla si è riusciti
a fare per debellare la piaga dell'usura e dello sfruttamento da parte degli
intermediari, anche quando i governi di opposizione al Partito del Congresso
hanno posto, fra i propri obiettivi programmatici, quello di una maggiore attenzione
alle necessità del mondo rurale attraverso l'approntamento di specifici
strumenti di sgravio del debito agrario. Inoltre, le oligarchie rurali, proprietarie
di moderne aziende altamente redditizie e arbitre del mercato interno, conservano
spesso intatto l'antico potere feudale: ne è prova che solo nel 1975
sono stati aboliti i lavori forzati per il contadino impossibilitato a pagare
i propri debiti (questa forma di servitù della gleba era in vigore da
secoli nelle campagne e obbligava alle prestazioni anche tutti i membri della
famiglia del debitore). L'intervento del governo si è limitato alla realizzazione
delle opere di irrigazione primaria, tanto che le superfici irrigate si estendono
per ca. 50 milioni di ha, pari solo al 30% della complessiva area coltivata.
Dagli anni Settanta si è cercato di diffondere l'uso di fertilizzanti
e di varietà colturali (ibridi) ad alta resa, frenato però dall'insufficienza
della rete d'irrigazione, dalla scarsa disponibilità di investimenti
e da una radicata resistenza all'innovazione da parte degli agricoltori; qualche
progresso è stato attuato, anche tramite l'inserimento di personale qualificato
nella società rurale, ma le potenzialità offerte da tali fattori
sono state adeguatamente sfruttate solo in aree ristrette (soprattutto nel Punjab)
e nella grande proprietà, diffondendosi nella media solo nel più
recente periodo; la “rivoluzione verde” ha quindi generalmente accentuato
le disparità sociali e territoriali. Ciò nonostante, a parte talune
annate persino rovinose, l'andamento produttivo ha fatto registrare costanti
incrementi, che tuttavia non corrispondono all'aumento impressionante della
popolazione. Il cereale più largamente coltivato è il riso, che
interessa quasi un quarto dell'arativo, con massime concentrazioni nell'India
orientale. Seguono il frumento, diffuso nell'India occidentale più asciutta,
il miglio e il sorgo, che si adattano anche a suoli più poveri e poco
irrigati; altre produzioni sono quelle del mais e dell'orzo. Tra le altre colture
alimentari hanno particolare rilievo le patate, la manioca e le banane, nonché
numerose altre varietà di frutta, sia tropicale sia di zona temperata,
fra cui ben rappresentati sono soprattutto gli agrumi. Dei prodotti orticoli
vengono consumati in notevole quantità i ceci, i fagioli, i piselli,
le lenticchie, le cipolle e i pomodori. Numerose sono le colture industriali,
tra le quali un ruolo preminente svolgono le oleaginose, che danno notevoli
contributi all'esportazione e costituiscono la prima fonte per la produzione
di grassi. L'India è al secondo posto della graduatoria mondiale per
le arachidi , il riso e il frumento; produce inoltre buoni quantitativi di colza
e soia. Tra le piante tessili, oltre al cotone e al lino, ha notevole rilievo
la iuta, coltivata soprattutto nel Bengala Occidentale, e di cui l'India è
il massimo produttore mondiale; seguono la canapa, il kenaf, ecc. L'India detiene
il primato per la produzione del tè , che per oltre la metà proviene
dall'Assam, mentre il caffè è coltivato in varie zone montuose
del Deccan meridionale. Altre due importanti colture sono quelle della canna
da zucchero, diffusa soprattutto nella pianura del Gange, che solo in parte
è avviata agli zuccherifici, mentre per il resto è impiegata nella
produzione di una particolare bevanda, il gur, e il tabacco (l'India è
il secondo produttore mondiale). Di rilievo, nel quadro mondiale, è anche
la produzione di spezie (pepe, noce moscata, cannella). Le superfici boschive
(pari al 20,8% della superficie nazionale) rappresentano un patrimonio prezioso
ma insufficiente alle necessità del Paese, sia per la produzione di legname
sia per la protezione dei suoli. Ricchi lembi di foreste tropicali esistono
ancora sulle pendici dei Ghati Occidentali e nell'adiacente costa del Malabar,
nonché sui monti Vindhya e Satpura; varie essenze pregiate (mogano, teak,
sandalo, ecc.) sono destinate anche all'esportazione. Nel Bengala Occidentale
si utilizza largamente il bambù per svariati impieghi, tra cui la fabbricazione
della carta. Ingente è anche la produzione di caucciù.
Economia: allevamento e pesca
L'allevamento è un'attività molto antica in India, ma dà
contributi assai limitati al reddito nazionale. Più dell'effettiva scarsità
dei pascoli (prati e pascoli permanenti sono pari al 3,5% della superficie territoriale)
sono le radicate credenze religiose a influire in modo determinante sullo sviluppo
del settore, rimasto in effetti sempre al margine della vita economica indiana
e caratterizzato da elementi di estrema arcaicità. La proibizione per
gli induisti di consumare la carne bovina (la mucca essendo da tempi antichissimi
un animale sacro che è vietato uccidere) fa sì che questi animali,
di cui i credenti consumano solo il latte e i suoi derivati, invece di costituire
una risorsa, come il loro enorme numero potrebbe far supporre (214.877.000 capi
nel 1999, un netto primato mondiale), rappresentino motivo di un ulteriore impoverimento
delle popolazioni rurali, che devono provvedere, bene o male, al sostentamento
delle bestie. Sebbene con grandi difficoltà, il governo sta attuando
una politica di miglioramento delle razze, nella prospettiva di un'abolizione
della norma tradizionale; inoltre, vicino alle grandi città, come Calcutta,
Bombay, Delhi e Madras, esistono ormai alcuni moderni allevamenti di bovini
destinati alla macellazione. Molto diffusi sono anche i bufali, utilizzati per
i lavori agricoli e particolarmente numerosi nel Bengala Occidentale, nella
pianura del Gange e nelle regioni costiere. Nell'India nordoccidentale, più
arida, vengono allevati i caprini e gli ovini; pochi sono i suini e relativamente
non molto numerosi i volatili da cortile. Tradizionale e tuttora diffusa in
diversi Stati, tra cui il Karnataka e il Jammu e Kashmir, è la bachicoltura.
Anche la pesca, che pure potrebbe dare notevoli contributi all'alimentazione,
è un'attività ben lungi dall'essere adeguatamente sfruttata; è
svolta per lo più a livello artigianale, sia nelle acque interne sia
in quelle marine (comunque quasi unicamente nelle acque costiere, mancando una
flotta adatta alla pesca in alto mare), benché non manchino moderni centri
organizzati in funzione commerciale come Koilon; il pescato proviene per oltre
un terzo dal Tamil Nadu e dal Kerala.
Economia: risorse minerarie
L'India è un Paese piuttosto ricco dal punto di vista minerario e probabilmente
ancora molto deve essere scoperto; si stanno per esempio rivelando assai ingenti
le riserve di carbone (il settore è stato interamente nazionalizzato
nel 1973 e sottoposto a un apposito ente governativo). Bacini particolarmente
importanti sono quelli nel Bihar e nel Bengala Occidentale, data la vicinanza
di ricchi giacimenti di ferro ad alto tenore metallico; questa concomitante
presenza ha favorito il sorgere dell'ormai potente industria siderurgica della
valle del Damodar, la cosiddetta “Ruhr indiana”. Il quadro energetico
comprende, oltre al carbone, la lignite e il petrolio, con principali giacimenti
nel Gujarat, nel Nagaland e nell'Assam (dove si estrae anche gas naturale) e
offshore nel golfo di Cambay; sempre tra i giacimenti marini sembrano assai
cospicui quelli al largo della costa del Maharashtra e nel golfo del Bengala.
Tra i minerali metalliferi sono ingenti le produzioni di manganese, di bauxite
e di cromite, seguite da quelle di rame, piombo, zinco, magnesite, oro, argento,
diamanti, tungsteno, uranio, ecc.; completano il panorama dei maggiori prodotti
minerari i fosfati naturali, la mica e il sale, estratto sia dai depositi di
salgemma sia dalle saline costiere e dei laghi interni. La limitata industrializzazione
e la prevalente composizione del settore manifatturiero determinano un ridotto
sfruttamento delle risorse minerarie e la prevalenza del materiale grezzo su
quello lavorato nella relativa quota di esportazione. Il potenziale idroelettrico
è rilevante, specie nella regione himalayana e nel Deccan, ma è
stato solo in parte valorizzato mediante la costruzione di grandi dighe (sul
Sutlej, sul Mahanadi, ecc.) che servono anche per l'irrigazione. Quasi il 70%
della produzione di energia elettrica è quindi di origine termica, ottenuta
in buona misura sfruttando il carbone nazionale e in proporzione crescente il
petrolio che non soddisfa ancora il fabbisogno interno. L'India è anche
interessata a potenziare il settore elettronucleare, costituito con assistenza
straniera anche grazie alla valorizzazione delle risorse locali di uranio. Sono
in funzione tre centrali, quella di Tarapur vicino a Bombay, quella di Ranapratap
Sagar presso Kota, nel Rajasthan, e quella di Kalpakam; altre sono in costruzione.
Molto attivo e all'avanguardia è il Bhabha Atomic Research Centre di
Trombay, presso Bombay, importante centro per la ricerca dell'energia nucleare.
Economia: industria
L'industria di base ha fatto registrare progressi notevoli specie nei settori
siderurgico, chimico e petrolchimico. Oltre ai molteplici impianti presenti
nella valle del Damodar (taluni dei quali ereditati dalla dominazione britannica),
altri complessi siderurgici sono stati costruiti in varie regioni del Paese
secondo i programmi governativi miranti a vitalizzare il Sud e più in
generale a realizzare una vasta distribuzione geografica delle industrie. Vi
sono buone produzioni di acciaio, ghisa e ferroleghe. Il settore metallurgico,
meno sviluppato, produce alluminio, piombo, rame, zinco e altri metalli destinati,
come gran parte dei prodotti siderurgici, all'industria nazionale. Questa comprende,
oltre al settore ferroviario di origine coloniale, fabbriche di macchine agricole,
autoveicoli, biciclette, motori e materiali elettrici, materiali e apparecchi
radio-elettronici; sensibili progressi registrano i settori cantieristico e
del montaggio di aeroplani su licenza straniera. Le industrie ad alta tecnologia,
soprattutto informatica, hanno i loro centri nelle aree di Hyderabad e Bangalore;
la regione compresa tra le due città è stata denominata “Silicon
Valley indiana” per le presenza di parchi scientifici e stabilimenti installati
da imprese straniere (IBM, Hewlett-Packard, Texas Instruments, Oracle, Microsoft
ecc.). Molte grandi aziende hanno trasferito, in questa area, i loro centri
di elaborazione dati (SwissAir, British Airways, General Motors, Deutsche Bank);
in tal modo l’India è diventato un forte esportatore di servizi
alle imprese. L'industria leggera si avvale su larga scala della miriade di
aziende a conduzione familiare o artigianale. Una notevole espansione registra
l'industria chimica, che ha vari importanti complessi in prossimità delle
aree carbonifere (per esempio nella regione compresa tra il bacino carbonifero
del Damodar e il centro industriale di Calcutta) o là dove esiste una
consistente disponibilità di energia elettrica (per esempio nel Karnataka
meridionale, con centro in Bangalore). Le principali produzioni riguardano l'acido
solforico, il nitrico e il cloridrico, i fertilizzanti azotati, la soda caustica,
le materie plastiche e le resine sintetiche, i prodotti farmaceutici, ecc. L'industria
petrolchimica dispone di numerose raffinerie, sorte sia nelle aree di estrazione
del grezzo (come a Digboi, nell'Assam), sia nei grandi centri costieri (Cochin,
Madras, Vishakhapatnam, ecc.) che hanno una capacità di raffinazione
nettamente superiore alla produzione di grezzo nazionale, sicché lavorano
anche petrolio d'importazione. Sviluppati sono del pari l'industria della gomma,
rivolta per lo più alla produzione di pneumatici, quella cementiera e
quella cartaria. Il settore manifatturiero più sviluppato e anche più
antico è però quello tessile, soprattutto l'industria cotoniera
che trae vantaggio dall'utilizzare la materia prima nazionale; si producono
filati e tessuti largamente esportati in tutto il mondo grazie ai costi nettamente
concorrenziali. Prospero è del pari lo iutificio, dislocato nel Bengala
Occidentale, mentre più modesto è il lanificio, che ha il suo
massimo centro a Kanpur. Mantiene la sua importanza il setificio, che vanta
prestigiose tradizioni (sari, scialli, tessuti ricamati come quelli celebri
del Kashmir). In notevole crescita è, infine, il settore delle fibre
artificiali e sintetiche. Diffuse ovunque sono le industrie alimentari, nelle
quali però, salvo per alcuni prodotti di piantagione, prevalgono le aziende
artigianali ubicate in genere nei luoghi stessi delle diverse colture. Accanto
ai numerosi complessi molitori e per la lavorazione del riso si hanno oleifici,
stabilimenti per la lavorazione del tè e del caffè, conservifici
della frutta e delle verdure, zuccherifici, birrifici, ecc. Considerevoli sono
anche la manifattura dei tabacchi e l'industria del cuoio. Uno spettacolare
livello quantitativo ha infine raggiunto l'industria cinematografica che, concentrata
soprattutto a Bombay, produce un numero assai elevato di film all'anno. Il settore
secondario, registrando nell'ultimo decennio del Novecento una notevole dinamica
di crescita, è giunto a fornire complessivamente il 26% del reddito nazionale,
tanto da porre il Paese fra i più industrializzati del mondo. I comparti
manifatturieri, complessivamente protetti e poco produttivi (a eccezione di
quelli di interesse militare e delle comunicazioni, concentrati soprattutto
nel Gujarat e nel Maharashtra), vi hanno contribuito in minima parte.
Economia: vie di comunicazione
Le comunicazioni indiane si basano soprattutto sulle ferrovie, la cui rete fu
in gran parte realizzata, sul tracciato delle antiche vie imperiali moghul,
dagli Inglesi nel sec. XIX, quale unico mezzo per collegare le diverse parti
del vasto dominio coloniale: dei 62.725 km di complessivo sviluppo dell'attuale
rete ferroviaria (la quarta del mondo) ben 54.000 costituiscono una “eredità”
britannica. I principali nodi ferroviari sono: Delhi, dove la rete della pianura
gangetica si allaccia con quella della piana dell'Indo e del Rajasthan; Kanpur,
dove la rete gangetica si raccorda con quella degli Altopiani Centrali che,
sul versante opposto, gravitano su Bombay; Calcutta, nodo di convergenza della
rete gangetica e di tutta l'India orientale. È un tracciato dunque al
servizio soprattutto dei grandi centri portuali, non a caso sviluppatisi come
autentiche metropoli e aree industriali. I maggiori porti sono Calcutta, Bombay,
Madras, Vishakhapatnam, Cochin, Marmagao, Paradip, Mangalore, Tuticorin, Kandla
e Haldia. Al fianco di questi principali sbocchi marittimi, sulle coste indiane
si allineano moltissimi altri centri portuali al servizio della navigazione
di piccolo cabotaggio, tuttora largamente praticata. Del pari nei traffici interni
conserva la sua importanza la navigazione fluviale, che può contare su
una rete navigabile di oltre 16.180 km costituita sia dai fiumi maggiori, come
il Gange e il Brahmaputra con i relativi affluenti, sia da numerosi canali.
A lungo trascurata, la flotta mercantile indiana comincia ad avere un certo
peso internazionale: con quasi 7 milioni di t di stazza lorda è ormai
la quarta dell'Asia. Notevoli impulsi ha avuto anche la rete stradale, che può
contare su oltre 2 milioni di km di strade, di cui 1.006.800 km sono pavimentati
in macadam o asfalto; spesso si tratta di strade strette e non molto efficienti,
ma che nel complesso appaiono abbastanza adeguate al traffico che devono sopportare,
non molto intenso tranne che nelle aree urbane. Tutti i centri principali sono
ormai collegati da buoni servizi aerei, che hanno assunto anzi un ruolo sempre
più rilevante; la compagnia Indian Airlines assicura i servizi interni
e quelli con i Paesi vicini (Nepal, Bangladesh, ecc.), mentre la Air India effettua
servizi diretti con una quarantina di Stati in ogni parte del mondo. I maggiori
aeroporti, tutti internazionali, sono quelli di Bombay (Santa Cruz), Calcutta
(Dum Dum), Delhi (Palam) e Madras (Meenambakkam).
Economia: commercio
Con un territorio così vasto, e soprattutto con risorse tanto differenti
da zona a zona, il commercio interno è molto sviluppato e tende a potenziarsi
man mano che si diversificano i consumi malgrado i ritardi nella costituzione
di un vero mercato nazionale. La bilancia commerciale dell'India resta infatti
permanentemente in deficit. Principali partner commerciali (1999) sono nell'import
USA, Svizzera, Regno Unito, Belgio, Giappone, Germania e Arabia Saudita; nell'export
sono USA, Regno Unito, Germania, Emirati Arabi Uniti e Giappone. L'India importa
prevalentemente petrolio e prodotti petroliferi, macchinari e mezzi di trasporto,
materie plastiche, fibre sintetiche e prodotti chimici in genere, cereali, mentre
esporta soprattutto prodotti tessili (di cotone, iuta, ecc.) e articoli in pelle,
seguiti da manufatti di ferro e acciaio, minerali metalliferi, tè, caffè,
zucchero, oli vegetali e altri generi alimentari; si è comunque verificato
un discreto allargamento dell'esportazione di macchine e beni d'investimento,
divenuti voce significativa nel commercio con l'estero. Ancora limitato è
il turismo, nonostante il notevole interesse che il Paese desta (2.374.000 ingressi
nel 1997); ciò a causa delle gravi carenze nelle strutture alberghiere
e nei servizi. Crediti e aiuti internazionali sostengono l'economia indiana
malgrado il debito estero sia sensibilmente cresciuto negli ultimi anni.
Istruzione
La millenaria cultura dell'India ha contribuito al progresso della civiltà
nel mondo, nel campo della matematica, della filosofia e della religione. L'educazione
di tipo occidentale iniziò nel sec. XVIII quando acquisì importanza
nel Paese la Compagnia inglese delle Indie Orientali: nel 1813 la Gran Bretagna
diede la responsabilità dell'istruzione alla citata compagnia e l'educazione
fu impostata secondo il modello inglese; nel 1857 furono inaugurate le università
di Calcutta, Bombay e Madras. Negli anni successivi vennero aperti nel Paese
numerosi istituti e collegi privati, modellati sul tipo inglese. L'istruzione
primaria era, fino agli albori del sec. XX, poco sviluppata in confronto a quella
secondaria e universitaria che serviva per il reclutamento dei funzionari locali.
Solo nei primi decenni del sec. XX furono organizzate scuole tecniche e dopo
la prima guerra mondiale vennero aperte le prime scuole nazionali indiane. Nel
1937 con l'Indian Act fu istituito il Dipartimento dell'Educazione: nello stesso
anno fu tenuta una conferenza sull'educazione, con la presenza di Gandhi, in
cui si stabilirono alcuni principi basilari, quali l'istruzione obbligatoria
e gratuita, l'impiego della lingua madre, ecc. Dopo l'indipendenza, nel 1947,
l'India nazionalizzò l'insegnamento: l'alto tasso di analfabetismo (85%),
le distanze, le diverse lingue e religioni costituivano gravi problemi da risolvere.
Le campagne di alfabetizzazione varate nel Paese nella seconda parte del Novecento
hanno portato tale tasso al 44,2% (2000). Oggi l'istruzione obbligatoria e gratuita
si estende dai 6 ai 14 anni e comprende la scuola primaria della durata di cinque
anni e la scuola media della durata di tre anni. In effetti, però, la
durata dell'obbligo scolastico e la suddivisione dei cicli della scuola fondamentale
(primaria e media) variano da Stato a Stato. L'istruzione secondaria, alla quale
si accede al termine dei due cicli della scuola fondamentale, comprende le high
schools la cui durata varia dai due ai quattro anni secondo se si voglia ottenere
un diploma intermedio di studi o se si voglia accedere all'università.
L'istruzione tecnica e professionale viene assicurata dalle università
e da istituti di istruzione tecnica, taluni dei quali dipendono dai dicasteri
dell'Agricoltura, dell'Industria e del Lavoro. L'istruzione superiore è
impartita nelle università. Fra le più importanti sedi universitarie
vi sono: Agra (1927), Aligarh (1875), Baroda (1949), Bihar (1952), Bombay (1857),
Calcutta (1857), Delhi (1922), Madras (1857), Nagpur (1923), Osmania (Hyderabad,
1918), Varanasi (1916).
Religioni: generalità
La storia religiosa dell'India comprende: la religione vedica, le religioni
eterodosse rispetto al nucleo vedico e l'induismo. Per religione vedica s'intende
la fase più antica, orientata dai Veda, scritti sacri risalenti almeno
al sec. X a. C., e dai loro commentari interpretativi, che sono i Brahmana (sec.
X-VII a. C.) e le Upanisad (dal sec. VI a. C.). Le religioni eterodosse sorgono
in seguito alla crisi della religione vedica (dopo il sec. VI a. C.); le più
importanti sono il buddhismo e il giainismo, entrambe nate nell'India settentrionale.
Per induismo s'intende la religione, formalmente ortodossa, che continua la
religione vedica dopo la crisi del sec. VI; tuttavia sostanzialmente è
una snaturazione e una reinterpretazione del politeismo vedico; e non è
neppure una continuazione unitaria, ma una quantità di formazioni religiose
identificate, per lo più, con i rispettivi maestri e fondatori e contraddistinte
dalla divinità specifica assunta come principio fondamentale.
Religioni: la religione vedica
La religione vedica è un politeismo che si forma dall'incontro di popoli
di cultura indeuropea con culture di tipo superiore, già orientate in
senso politeistico. Nella fase più antica non aveva templi: ciò
denota la mancanza del concetto di un luogo comune di culto, a contrassegno
e a edificazione di una determinata unità politico-culturale. Non c'è
mai stata in effetti nella tradizione indiana una concezione precisa del culto
pubblico. L'unità politica era data dal re di un singolo territorio;
i culti connessi con l'esercizio della regalità tenevano il posto di
un culto pubblico. Pubblici, semmai, erano i sacerdoti (brahmani) e a essi era
affidata l'unità culturale della nazione indiana. Questa si riconosceva
come tale (arya), a prescindere dalle suddivisioni territoriali, in un complesso
costituito da tre caste: dei brahmani, che forniva i sacerdoti; dei kshatriya,
fornitrice di guerrieri e di re, e la vaisya, in cui erano compresi tutti i
produttori di beni economici. L'appartenenza a una delle tre caste arya e lo
stato di fuori-casta (paria), riservato alle popolazioni indigene, era religiosamente
giustificato dalla teoria dell'esistenza (samsara) come reincarnazione, per
la quale si nasceva in una condizione piuttosto che in un'altra in ragione del
karman, ossia dei meriti o demeriti acquisiti in una vita precedente. Per avere
la qualifica di arya, comunque, non bastava nascere in una casta, ma bisognava
“rinascere” mediante un'iniziazione conseguita presso un brahmano,
nel corso di alcuni anni attorno all'età pubere. L'iniziazione, che oltre
ai riti comprendeva un'adeguata istruzione religiosa, conferiva il titolo di
dvija (due volte nato) e rendeva l'indiano adulto, in grado cioè di compiere
il rituale domestico (grhya) una volta formatasi una famiglia. Ma la sua integrazione
completa nella società si aveva quando diventava uno yajamana (sacrificante),
ossia acquisiva il diritto di celebrare i riti srauta, più strettamente
legati al culto degli dei, e cioè alla religione nazionale. La cerimonia
d'installazione sul proprio terreno di tre “fuochi”, celebrata da
quattro brahmani, gli dava questo diritto. Una volta “sacrificante”,
egli poteva intervenire di sua iniziativa nel campo d'azione degli dei nazionali,
sia pure sempre con la mediazione di un sacerdote “sacrificatore”
materiale (adhayaryu). Nell'ideologia indiana l'integrazione sociale consisteva
nell'inserimento della vita individuale nello rta, l'ordine cosmico. Il sacrificio
agli dei garantiva e promuoveva questo inserimento, in quanto collegava l'azione
umana a quella divina, che era appunto espressione di rta. Lo rta stesso può
essere inteso come una sublimazione, in chiave cosmica, del comportamento rituale
(si noti la parentela linguistica tra vedico rta e latino ritus). Rta è
flusso vitale (è la vita stessa, a cui si contrappone, con l'arresto,
la morte), ma incanalato nel giusto comportamento e questo a sua volta è
un'astrazione dal comportamento storico, che, nell'ideologia indiana, è
pura illusione (maya). In un mondo così concepito, gli dei, che come
in ogni politeismo sono “forme del mondo”, vengono rappresentati
non tanto per la loro essenza (come si converrebbe a forme di un mondo statico),
quanto per la loro azione, quale espressione di rta. Lo sforzo teologico indiano,
più che a fissare i tratti individuali degli dei, si è rivolto
a rilevarne i possibili interventi e le occasioni in cui essi si realizzano.
Queste occasioni da accidentali (o naturali) si fanno necessarie (o culturali)
in quanto determinate dallo rta, l'ordine universale, e dal rito sacrificale
che è rta esso stesso o lo promuove. Lo rta trascende anche gli dei.
Non c'è un dio che fissa lo rta; non c'è un “re degli dei”,
alla cui volontà si debba adeguare l'ordine del mondo. Si trova, sì,
un dio, Indra, che rappresenta la sovranità, ma non la esercita nel senso
di un re dell'universo. E del resto, per altri aspetti, la sovranità
è rappresentata anche da un altro dio, Varuna. Ne risulta un pantheon
senza gerarchia; la sua organizzazione procede, invece, per raggruppamenti divini
che corrispondono, in genere, alle divinità che sono chiamate in causa
nelle medesime occasioni. Un raggruppamento fondamentale è quello che
divide gli dei in Deva e Asura, in risposta evidentemente a una concezione ambigua
della divinità, o dell'ambiguità sostanziale delle occasioni d'intervento
divino (crisi e superamento). A volte un raggruppamento divino viene formalmente
giustificato da una genealogia comune: è il caso degli Aditya (i figli
di Aditi, una specie di Grande Madre primordiale) che comprendono, insieme ad
altri, Varuna e Mitra. Una forma minima di raggruppamento è la coppia;
d'importanza fondamentale per l'edificazione dello rta è la coppia Mitra-Varuna:
Mitra lo promuove e Varuna ne punisce i trasgressori imprigionandoli nei suoi
“lacci”. Di grande importanza è nella religione vedica il
rito sacrificale che, in riferimento allo rta, sembra addirittura trascendere
gli dei che ne sono i destinatari. Il sacrificio stesso è concepito come
un dio: è il caso di Agni, fuoco sacrificale e mediatore tra uomini e
dei, e di Soma, bevanda sacrificale e divinità a un tempo. La divinizzazione
del sacrificio apparentemente è uno sviluppo in senso politeistico, ma
in realtà si muove in senso contrario. Dà al sacrificio un valore
assoluto che non potrebbe avere finché resta nei limiti di uno strumento
di comunicazione tra uomini e dei. È strumento se si distinguono da esso
gli dei che se ne giovano; non lo è più quando la sua natura e
quella degli dei vengono identificate. Fornire al sacrificio un valore assoluto
significa rilevarne l'autonomia rispetto agli dei e agli uomini, e significa
snaturare il rapporto tra i destinatari dell'azione rituale, gli dei, e gli
esecutori del rito, gli uomini. La differenza tra dei e uomini si riduce alle
due rispettive forme d'esistenza; per il resto gli dei dipendono dalla forza
che il sacrificio conferisce loro e gli uomini dalla capacità che hanno
di sacrificare. È in questi termini che si muove la religione vedica
nello sviluppo ulteriore orientato dai Brahmana.
Religioni: la nascita delle religioni eterodosse
Se in un politeismo è fondamentale l'individuazione degli dei, nella
religione indiana diviene fondamentale l'individuazione della forza che il sacrificio
conferisce agli dei, quali che siano. Se in un politeismo è pure fondamentale
stabilire la posizione degli uomini rispetto agli dei, per la religione indiana
diviene fondamentale stabilire la posizione degli uomini rispetto al rito sacrificale.
Per quanto riguarda gli dei, al di là delle singole qualifiche si cercò
la sostanza di cui erano fatti e questa fu concepita come brahman, conferito
dal rito sacrificale. Per quanto riguarda gli uomini, fu gradualizzato il loro
accesso al sacrificio e fu riservata l'azione sacrificale vera e propria a sacerdoti
manipolatori del brahman, detti appunto brahmani. Tuttavia ora non basta più
né il grado di “sacrificante” né la mediazione del
“sacrificatore”. L'uomo deve trovare in sé, mediante l'ascesi,
un “calore” (tapas) interiore, capace di conferire efficacia al
sacrificio. Si delinea la crisi del politeismo vedico: a che cosa servono gli
dei se essi stessi traggono sostanza dal rito? Non servono neppure a definire
un universo, dal momento che questo universo si fonda, nella nuova ideologia
indiana, non tanto sulla loro esistenza quanto sulla retta (ora: rituale) amministrazione
di forze impersonali. Il colpo di grazia al politeismo vedico sarà dato
dalla successiva speculazione delle Upanisad: l'uomo, capace di produrre tapas,
viene posto al centro dell'universo e questo, prima rappresentato dal complesso
delle divinità, è ormai risolto nell'“essenza” delle
divinità, ossia nel loro brahman. La comune essenza divina aveva già
portato la riduzione del pantheon a un unico dio personificante la forza-sostanza
brahmanica, Brahma. Un ultimo passo fu quello d'identificare l'essenza dell'uomo,
atman, con l'essenza dell'universo, Brahma o il brahman. Quando ciò avvenne,
scomparve ogni funzione del culto: l'uomo per mettersi in contatto con l'universo
non ha più bisogno di comunicare con gli dei; basta che lo cerchi in
sé, nel proprio atman, mediante la meditazione e l'ascesi, che divengono
così l'ideale di vita religiosa; in pratica è la rinuncia (samnyasa)
alla vita mondana, già prescritta dai Brahmana per l'ultima età
dell'uomo (dopo che egli ha ormai soddisfatto ai doveri sociali), ma che adesso
diventa un modo d'essere assoluto, fondato sulla rinuncia ai fini di una liberazione
(moksa) dall'esistenza, come fenomeno doloroso, e a esso si ispirano le nuove
religioni che rompono definitivamente con la tradizione vedica: il buddhismo
e il giainismo. La tradizione politeistica, peraltro, sarà continuata,
sviluppando i temi dell'azione divina (sakti, potenza creatrice) e del giusto
comportamento umano (dharma): le diverse soluzioni hanno dato luogo a quel coacervo
di dottrine e di pratiche cultuali che si chiama globalmente induismo. La contraddizione
tra la natura permanente di un dio e l'occasionalità del suo intervento,
che aveva portato alla crisi il politeismo vedico, si risolve nell'identificazione
di un signore dell'universo (Isvara) e delle sue molteplici manifestazioni (avatara).
L'Isvara fu dapprima Brahma, la divina personificazione del brahman, ma poi
si espresse in due divinità meno “filosofiche”, Visnu e Siva,
dando luogo alle due principali correnti dell'induismo: il visnuismo e il sivaismo.
Visnu era un antico dio vedico, connesso con l'asse del mondo, già alleato
di Indra e adesso suo successore. Siva costituisce una nuova interpretazione
del vedico Rudra, dio del mondo selvaggio. Antiche e nuove divinità sono
adesso venerate e giustificate come manifestazioni del “signore universale”,
e, se femminili, come sue spose. Un tentativo di sintesi è pure dato
dalla concezione di una Trimurti, ovvero di una “triforme” essenza
divina, comprendente Brahma, Siva e Visnu. Riguardo al comportamento religioso,
l'induismo presenta, a parte le scelte tra Siva e Visnu, una grandissima varietà
di livelli, ognuno identificato con un complesso di norme (dharma), ognuna altrettanto
valida e degna di rispetto, in quanto relativa alla presente esistenza di un
individuo (la differenza tra le esistenze essendo giustificata dalla condotta
in una vita precedente). C'è il livello della meditazione e dell'ascesi,
ma c'è anche il livello del semplice culto degli dei. C'è il “maestro”,
il “santone”, il guru, ma c'è anche chi acquista meriti senza
dover né capire né praticare le sue dottrine, purché lo
veneri e gli fornisca cibo. C'è un misticismo, a livello della meditazione,
che darà luogo al tantrismo e alle pratiche yoga, ma c'è anche
un misticismo, a livello della religiosità popolare, che si esprime nella
bhakti, la devozione amorosa assoluta per un dio. Dal sec. XI l'induismo dovette
fronteggiare la prepotente avanzata dell'Islam. Da un lato, allora, si eresse
a religione nazionale contro l'invasione arabo-islamica e dall'altro produsse
comunità ibride che cercarono di assimilare la nuova religione. Ma tali
comunità non ebbero seguito, tranne che nel Punjab, dove si costituì
la compagine nazionale dei Sikh.
Diritto
Il termine sanscrito che richiama al concetto di legge è dharma, ma esso
più propriamente designa, in una sintesi di elementi religiosi e profani,
i diritti e doveri dell'uomo in ogni campo della sua attività, le norme
che dirigono il comportamento degli esseri tanto più sul piano religioso
e morale quanto su quello sociale e giuridico. Secondo la tradizione indigena
quattro sono le fonti del dharma: la rivelazione (sruti), la tradizione (smrti),
il comportamento delle persone colte e virtuose (sistacara), gli usi e costumi
delle regioni, delle caste, delle famiglie (desajatikuladharma). Il dharma ha
dato luogo a una ricca letteratura che dalla fine del periodo vedico (sec. VI
a. C. ca.) si estende fino al sec. XVIII. Le fonti più antiche del diritto
indiano sono i Dharmasutra (aforismi relativi alla legge), in prosa, che contengono,
accanto alla trattazione di problemi dottrinali e religiosi, i primi abbozzi
di una dottrina giuridica (definizione dei doveri delle quattro caste, norme
di natura economica e sociale, elementi di diritto civile e penale). Con l'affermarsi
di scuole giuridiche specializzate, che tendono a codificare la materia legale
in esposizioni ampie e particolareggiate, nascono i trattati di diritto veri
e propri, i Dharmasastra (Trattati giuridici), detti anche Smrti, basati sugli
antichi Dharmasutra ma con un carattere più strettamente giuridico: famoso
è il Manusmrti (Codice di Manu) comparso fra i sec. II a. C. e II d.
C., consacrato in prevalenza all'esposizione di questioni di diritto pubblico.
Antico e autorevole è pure il Trattato giuridico di Yajnavalkya, del
sec. III d. C. ca., che espone la materia legale secondo la classica tripartizione
in condotta sociale (acara), procedura giudiziaria (vyavahara), espiazione delle
pene (prayascitta). Molto popolare è anche il Codice di Narada del sec.
IV d. C. ca., che circoscrive il dharma all'ambito del diritto vero e proprio.
Queste fonti giuridiche, che costituiscono la base della giurisprudenza indiana,
ebbero, a partire dal sec. IX d. C., un notevole numero di commentari, redatti
con finalità critiche e coordinatrici: il più importante è
un commento al trattato di Yajnavalkya di Vijñanesvara (seconda metà
del sec. XI ca.), testo fondamentale della scuola di Mithila. Infine a partire
dal sec. XI compaiono compendi di diritto, i Dharmanibandha, compilati da giuristi
e uomini di Stato con metodo critico e sistematico. Elementi di diritto si trovano
in tutta la produzione letteraria dell'India, in particolare nella letteratura
politica: per esempio, il Kautilya-Arthasastra (per alcuni risalente al sec.
IV a. C. e per altri al sec. III d. C.), dedica ampio spazio alla procedura
giudiziaria, alla definizione delle competenze dei funzionari e ai sistemi di
punizione. In tutti prevale sempre il fondamento religioso. Ecco in breve sintesi
i principi fondamentali del diritto indiano: il principe, investito di maestà
e natura divina, è ordinatore del regno, tutore della legge, arbitro
assoluto della giustizia; egli deve giudicare e punire, perseguitare il male,
ricercare la verità attenendosi alle norme codificate nei trattati, considerarsi
responsabile di un delitto impunito o di una condanna ingiusta. Al sovrano spetta
il potere decisionale anche quando, con il perfezionarsi dell'organismo statale,
egli viene affiancato, nell'amministrazione della giustizia, da funzionari competenti.
Il valore teorico, peraltro non escluso, dell'uguaglianza di ogni individuo
di fronte alla legge, viene continuamente infirmato dalle prerogative castali
che affiorano in ogni sezione del sistema giuridico indiano. Di taluni privilegi
della casta brahmanica, protrattisi in India fino all'età moderna, si
ha notizia già nei testi più antichi. Le norme che disciplinano
le istituzioni processuali sono molto precise. Le forme probatorie sono generalmente
suddivise in umane e divine: le prime costituite dalla prova documentale e dalla
prova orale dei testimoni, le seconde dal giuramento e dalle ordalie cui si
ricorre nei casi dubbi o in mancanza di altre prove (talune forme di ordalie
si sono conservate fino all'età moderna e contemporanea). Le pene previste
variano dalla semplice ammonizione all'esecuzione capitale. Una delle condanne
più temute è l'espulsione dalla casta. L'istituto familiare è
oggetto di ampia trattazione giuridica: di tipo patriarcale, la famiglia è
protetta e regolata da norme rigorose che condizionano la vita quotidiana dei
suoi componenti, essendo considerata l'organizzazione fondamentale della società.
Il matrimonio, da tutti i testi sempre teoricamente vietato fra persone di caste
diverse, è generalmente considerato vincolo sacro e indissolubile. Numerose
però le infrazioni pratiche alle norme sulle caste, mentre eccezioni
all'indissolubilità del matrimonio sono contemplate dagli stessi trattati.
Le norme che regolano la ripartizione del patrimonio e il diritto ereditario
sottolineano la precedenza dei figli legittimi su quelli adottivi. Pur nel susseguirsi
delle dominazioni straniere che esercitarono il potere sui territori dell'India
e che portarono con sé ciascuna le proprie consuetudini e ordinamenti,
la legge indiana rimase sostanzialmente basata sugli antichi principi, soprattutto
per la naturale e ancor oggi viva tendenza della mentalità indù
a conservare le originarie strutture in quanto consacrate dalla tradizione.
Nell'attuale Repubblica Indiana, infatti, l'ordinamento giuridico, nonostante
necessari adeguamenti e introduzioni di nuove istituzioni (generalmente sulla
base della legislazione britannica), si è mantenuto fedele alle linee
principali dell'antico sistema.
Filosofia: generalità
Al fine di capire meglio lo sviluppo della filosofia indiana sono necessarie
alcune premesse: manca in India una seria storiografia anche in campo filosofico
e le notizie sui singoli autori, anche dei più importanti, sono frammiste
a molti elementi leggendari; di conseguenza quasi mai si riesce a collocarli
in precisi riferimenti di tempo e di luogo e si deve rinunciare a ricostruire
la loro personalità e ripiegare sull'esposizione di correnti di pensiero
e di sistemi. Questi ebbero una fase creativa piuttosto rapida ed esercitarono
una profonda influenza gli uni sugli altri trovando una sistemazione definitiva
nei primi secoli dell'era volgare. Problema principale della ricerca filosofica
indiana fu la tematica sull'essenza dell'io e del suo rapporto con la realtà,
non come conoscenza a sé, ma in quanto atta a operare il passaggio dell'individuo
dalla realtà dubbia in cui è immerso (samsara), origine del dolore,
all'identità con l'Assoluto (liberazione dal dolore, nirvana). La filosofia
indiana è spesso una propedeutica alla religione; tuttavia alcune sue
parti, come la logica e l'epistemologia, hanno uno schietto rigore filosofico
e denotano grande originalità di ricerca. La prima speculazione filosofica
indiana è sparsa nei vari testi di preghiere (Samhita), di prescrizioni
rituali (Brahmana, Upanisad) e fra le regole religiose, giuridiche e morali
della società brahmana (sutra): essi ci offrono una prima cosmogonia,
in cui il mondo è emanazione di un dio supremo e le cose si strutturano
in un dualismo psicofisico, al quale l'uomo partecipa essendo formato di nama,
essenza interiore, e rupa, forma esterna e sensibile. Al centro però
di questa prima speculazione è l'esistenza di un principio essenziale,
sia per l'uomo sia per l'universo, dalle Upanisad concepito come l'anima (atman),
soggetto di ogni azione e pensiero dell'uomo, ma unico in tutto l'universo,
libero da ogni categoria spazio-temporale. L'antinomia tra atman universale
e soggetto dell'azione del singolo è spiegata dalle Upanisad con la presenza
del karman, che non consente di sciogliere l'antinomia. Una seconda spiegazione
è data dalla dottrina samkhya, che trovò una formulazione sistematica
probabilmente nel sec. IV d. C. ma che ha origini molto antiche: esistono due
realtà parimenti eterne, le anime individuali (purusa), fornite d'intelligenza
ma negate all'azione, e la materia (prakrti), unica ma differenziata in tre
modi di essere: l'uno leggero e luminoso, fonte di piacere; l'altro mobile,
causa di dolore; il terzo inerte, in funzione d'ostacolo; dal loro perpetuo
movimento hanno origine le cose del mondo empirico; il dolore deriva dalla non-distinzione
fra psiche (momento dell'evoluzione della materia) e anima e dall'attribuzione
a questa di qualità proprie invece della materia. Questa confusione avrebbe
origine dalla loro vicinanza, per cui l'anima si riflette nella psiche al punto
di sentire il dolore come cosa sua, mentre per natura ne è libera. La
liberazione avviene quando la psiche prende coscienza della sua derivazione
dalla materia e l'anima della sua nativa purezza. Alla ricerca dei mezzi di
conoscenza la dottrina samkhya elaborò una teoria epistemologica assai
interessante: l'uomo ha undici sensi, cinque di percezione (vista, udito, olfatto,
gusto, tatto), cinque d'azione (lingua, piedi, mani, organi di escrezione, organi
di riproduzione), più l'intelletto, che reagisce agli stimoli sensori.
Accanto alla scuola samkhya si colloca lo yoga: la materia è eterna e
increata, ma guidata al suo fine da un dio (Isvara); per conoscere il suo vero
essere sotto le forme illusorie ed empiriche della sua personalità l'uomo
deve liberare, con una severa disciplina, la psiche da ogni ricordo e arrivare
all'assoluta quiete delle funzioni mentali, in cui si fa trasparente nell'intelletto
umano la differenza fra anima e psiche e l'uomo si libera dal divenire fenomenico.
Filosofia: dal VI all'VIII secolo
Nel clima culturale del sec. VI a. C. sorsero in India due altri sistemi filosofico-religiosi:
il giainismo e il buddhismo. Cinque secoli dopo (sec. I a. C.) il buddhismo
fu profondamente rinnovato dalla dottrina del Grande Veicolo: al principio individualistico
del raggiungimento del nirvana da parte del singolo con il suo proprio sforzo,
viene sostituito quello della carità, che spinge a uscire dal proprio
individualismo per aiutare i non illuminati a giungere al nirvana grazie a parole
e azioni adatte ai loro bisogni. Eroe del sistema è il Bodhisattva, l'illuminato
che ormai giunto alle soglie del nirvana, ritorna per rendere partecipi i non-illuminati.
La nuova dottrina trovò la sua elaborazione metafisica nella scuola Madhyamika,
fondata da Nagarjuna (sec. II d. C.) che, con una logica ben argomentata, sostiene
che nulla si può affermare nel mondo empirico; i concetti sono tutti
contraddittori; le cose non hanno una natura propria essendo l'una dall'altra
condizionate; l'essere individuale è solo apparenza; il mondo è
mera rappresentazione dell'uomo; al fondo di tutte le cose esiste solo il vuoto.
Da questo monismo metafisico discende la teoria delle due verità: la
verità superiore della realtà e la verità convenzionale
delle apparenze. Quando l'uomo acquisisce la certezza che tutte le cose si riducono
all'unico principio del vuoto, assoluto e relativo, realtà spirituale
e realtà fenomenica s'identificano. Al concetto monistico del vuoto contrappone
un'interpretazione idealistica della realtà la scuola dello Yogacara
fondata da Maitreya (forse sec. IV d. C.), che ebbe come suoi illustri rappresentanti
i due fratelli Asanga e Vasubandhu (inizio sec. V d. C.): realtà assoluta
è la coscienza conoscente (vijñana) e gli oggetti esistono solo
in relazione a essa. Prendendo consapevolezza di questa verità l'uomo
diventa capace di un pensiero, che è “atto del pensiero puro”
e in quel momento realtà fenomenica e dolore diventano nirvana. Grande
anche il contributo portato da questa scuola alla logica: è possibile
la distinzione fra conoscenza discorsiva e conoscenza sensibile, fra inferenza
e percezione. Primo atto del conoscere, precedente allo stesso linguaggio, è
la percezione del particolare nella sua individualità; nel secondo, all'intuizione
subentrano l'immagine discorsiva e la parola; a questa appartengono le costruzioni
mentali, mentre le sensazioni sono dati immediati della coscienza. L'oggetto
è dapprima percepito dai sensi in sé, poi viene conosciuto dall'intelletto
secondo le forme degli universali e delle parole. Alla tradizione vedica e all'idealismo
si opposero fin dall'antichità i materialisti (mastika, negatori). In
campo gnoseologico essi affermarono che solo la percezione sensoriale dà
la conoscenza della verità; negarono il valore dell'inferenza, della
relazione di causa ed effetto; affermarono la spontaneità e accidentalità
degli eventi escludendo qualsiasi loro causalità in un essere soprannaturale.
Tutti gli oggetti provengono da quattro elementi primari ed eterni: terra, acqua,
aria, fuoco; di questi è formata la stessa coscienza. In campo morale
i negatori più estremisti non ammettevano nemmeno l'esistenza del bene
e del male: stolto è volersi liberare dal dolore, che è nella
natura del mondo, e privarsi del piacere, che dà sapore alla vita; questa
invece va vissuta con coraggio. Le teorie materialistiche furono rielaborate
e meglio adattate all'ambiente culturale indiano dalla scuola atomistica (vaisesika)
e dalla logica nyaya. Fondata da Kanada (forse sec. I d. C.), la scuola affermava
che la realtà è divisibile in sei categorie: sostanza, qualità,
attività, generalità, particolarità, inerenza. Delle sostanze
(aria, acqua, terra, fuoco, etere, tempo, spazio, anima, intelletto), le prime
quattro si compongono di atomi, eterni e indivisibili. Alla loro organizzazione
presiede un dio (Isvara), che però non ne è il creatore. La scuola
ammetteva anche l'anima come sostanza eterna e immateriale, invisibile, ma percepibile
attraverso gli atti conoscitivi e volitivi, il desiderio, il piacere, ecc. La
scuola nyaya (retto ragionamento), sorta a opera di Aksapada (forse sec. II
d. C.), accettava la metafisica vaisesika (non però l'esistenza di un
dio ordinatore), ma volgeva la sua maggiore attenzione ai problemi gnoseologici,
elaborando una terminologia tecnica di notevole precisione. Problema fondamentale
del nyaya è la distinzione fra conoscenza vera e falsa: a una conoscenza
vera portano la percezione, l'inferenza, la comparazione e la testimonianza;
falsa è invece la conoscenza prodotta dalla memoria, dal dubbio, dall'errore
e dall'ipotesi. Fautrice di una critica al soggettivismo buddhista e di un ritorno
al pensiero ortodosso dei Veda fu la scuola mimamsa, apparsa forse fra il sec.
II a. C. e il sec. II d. C. e più tardi approfondita da Kumarila (sec.
VIII d. C.) e Prabhakara (sec. VII-VIII d. C.): la realtà del mondo empirico
è formata da atomi e si percepisce con i sensi; l'universo è eterno
e ha la vita in sé senza dover ammettere un dio creatore. Le conoscenze
sono valide in forza dei motivi intrinseci a esse stesse, quindi il ragionamento
serve solo a eliminare il dubbio e a provare la falsità di una conoscenza
errata.
Filosofia: dal IX al XX secolo
Fra il sec. IX e l'XI la rivelazione dei Veda fu sostituita da quella degli
Agama e le nuove scuole, dal nome del dio Siva, che era al centro di questa
rivoluzione culturale, si chiamarono sivaite. Fra di esse importante fu quella
formatasi attorno ad Abhinavagupta (sec. XI): la realtà è un'entità
unica, assoluta e ineffabile; anche l'essenza dell'uomo non è descrivibile
e per di più avvolta in una non-conoscenza innata e permeata di karman;
ma Siva interviene a rendere conoscibile all'uomo l'Assoluto. Il mondo ha la
sua causa in Dio, che però è coevo al mondo e quanto in questo
accade è manifestazione dell'evolversi della coscienza divina ed espressione
della sua volontà. Nel problema della conoscenza, gli sivaiti sostenevano
che non vi può essere separazione della coscienza sensibile da quella
discorsiva; lo stesso individuale, per il fatto di essere percepito, è
già immagine discorsiva, anzi è lo stesso universo che venendo
a contatto con lo spazio e il tempo perde la sua eternità e ubiquità.
Ancor prima però che l'oggetto sia percepito come universale o particolare,
è dentro di noi come tensione al conoscere e principio di volizione.
L'io individuale è libero e la molteplicità è frutto della
libertà attraverso la quale l'io si esprime. L'anima individuale, oscurata
dal karman, si libera all'atto di riconoscere la sua natura divina, la sua beatitudine
e libertà sotto le false spoglie del dolore. Legato alla mistica e allo
gnosticismo del brahmanesimo, si sviluppò già da epoca antica
il sistema Vedanta, che ha a fondamento il pensiero di Badarayna (sec. III d.
C.) e trova in Sankara (788-820) la sua sistemazione definitiva: da una parte
è il brahman o atman, assoluto, indefinibile; dall'altra il mondo empirico
sospeso tra essere e non-essere. Per il karman che lo circonda l'uomo soffre
e per liberarsi dal suo dolore deve aver chiara coscienza che il mondo non può
identificarsi né con l'essere né con il non essere. Altra scuola
Vedanta è quella fondata da Ramanuja (ca. 1017-ca. 1137): partendo dalle
premesse di Sankara, egli concluse che la molteplicità del mondo empirico
è una qualità eterna e reale del brahman, assoluto metafisico,
che egli identifica con dio; questi dalla sua infinità trae l'essenza
con la quale crea il mondo. Al monismo Vedanta reagirono Bhaskara (sec. IX-X)
e Madhva (1199-1274 o 1276) spezzandolo in una concezione dualistica. La vivacità
delle scuole Vedanta è dimostrata dal fatto che esse resistettero alla
conquista musulmana (sec. XI-XIV) e continuarono a vivificare il pensiero indiano:
proprio nel periodo della dominazione inglese (sec. XVIII-XIX) furono esse a
dare origine a una forte corrente di rinascita della religione e della filosofia
induiste e sono ancora esse a rappresentare oggi il filone più vivo della
filosofia indiana. Nel sec. XIX si ebbero vari tentativi di riforma: Rammohan
Roy (1774-1833), che nel 1828 raccolse attorno a sé una comunità
religiosa (Brahma Samaj) per la lotta al politeismo e all'idolatria e che abolì
fra i suoi seguaci le caste; la Società teosofica, che esportò
nel mondo i principi più elevati della religione e della filosofia indù.
A questo pensiero più volte millenario chiesero ancora ispirazione i
grandi personaggi della nuova India (Gandhi, Aurobindo Ghosh, Tagore, Radhakrishnan)
e vivace è tuttora nelle università indiane la ricerca del pensiero
filosofico dell'India e della sua storia.
Il pensiero scientifico
Le più antiche documentazioni sulle osservazioni scientifiche, soprattutto
su quegli aspetti della natura che gli Indiani, naturalmente inclini alla ricerca
astratta, collegarono al problema religioso, risalgono al mondo culturale vedico.
Astronomia, matematica e medicina furono i settori delle scienze maggiormente
oggetto di indagine e dove, a volte, furono anticipate, sotto molti aspetti,
scoperte avvenute nel mondo occidentale in epoca molto posteriore. Nozioni di
astronomia si trovano già nei Veda, i libri sacri; tuttavia l'interpretazione
dei fenomeni celesti è strettamente legata alle credenze religiose ed
è soltanto con i cinque libri dei Siddhanta (trattato che espone un completo
sistema), la cui composizione risale ai primi secoli dell'era volgare, che l'astronomia
indù assume precise caratteristiche e s'inquadra secondo gli schemi di
una più concreta metodologia scientifica. In questo testo fondamentale,
più volte in seguito ripreso e commentato da vari autori, si trovano
sviluppati diversi argomenti che riguardano divisione del tempo, movimenti di
rivoluzione degli astri, determinazione dei meridiani e dei punti cardinali,
equinozi e solstizi, eclissi lunari e solari, movimenti dei pianeti. Al sec.
VI d. C. risale una delle prime esposizioni in sintesi della materia trattata
nei Siddhanta dovuta all'astronomo Aryabhata; l'opera, che prese il nome di
Aryabhatiya, è in versi e in essa sono particolarmente sviluppati calcoli
astronomici nell'ambito di un sistema rigorosamente geocentrico. Gli studi astronomici
indiani raggiunsero il loro punto culminante, dopo il quale non segnarono più
alcun progresso, intorno al sec. XII. Le teorie elaborate in questo arco di
tempo furono raccolte nel trattato Siddhantasiromani (Il principio basilare
o il diadema dei Siddhanta) dall'astronomo e matematico Bhaskara (o Bhaskaracarya);
i punti cardini che ivi risultano chiaramente stabiliti sono: sfericità
della Terra, posizione dei poli e dell'equatore, rotazione su proprie orbite
del Sole, della Luna e dei cinque pianeti allora noti attorno alla Terra che
è immobile nello spazio, distinzione tra giorno solare e giorno sidereo,
suddivisione dell'anno solare in dodici mesi e sei stagioni, precessione degli
equinozi e teoria degli epicicli. Le scienze matematiche nell'antica India furono
coltivate soprattutto in funzione dei calcoli astronomici. Tuttavia nozioni
di geometria richieste per la costruzione degli altari e per l'apprestamento
delle aree sacre, erano già note in epoca vedica e raccolte in una serie
di aforismi, i Sulvasutra, che rivelano buone conoscenze di geometria piana,
risolvono problemi di proporzioni e di equivalenze di superfici (vi è
inclusa tra l'altro l'enunciazione del teorema di Pitagora), forniscono con
notevole approssimazione il valore di ?. Per quanto riguarda invece la matematica
pura, in cui gli Indiani hanno conseguito risultati di fondamentale importanza
(come la scoperta della notazione posizionale e quella, notevolissima, dello
zero, trasposizione matematica e riproduzione simbolica del sunga, che in sanscrito
significa contemporaneamente vuoto e zero), le opere più notevoli si
trovano inserite quali sezioni integranti dei trattati di astronomia. Il testo
più antico è compreso nell'Aryabhatiya ed è un vero e proprio
manuale di aritmetica contenente vari metodi di addizione, sottrazione, moltiplicazione
e divisione anche con numeri frazionari. Le conoscenze matematiche, e ancor
più quelle algebriche, sono meglio sviluppate nelle parti a esse dedicate
delle opere di Brahmagupta e di Bhaskara che giunsero a trovare la soluzione
generale delle equazioni indeterminate di primo e secondo grado e, in casi particolari,
anche di problemi algebrici di terzo grado. Buone furono anche le conoscenze
di trigonometria e sembra probabile che agli indù si debba l'introduzione
dei concetti di seno e coseno. La medicina fu l'altra grande scienza dell'India
con una tradizione orale e scritta che risale al periodo vedico e si riallaccia
in massima parte alle credenze religiose. I primi testi redatti secondo una
precisa metodologia scientifica risalgono invece agli inizi dell'era cristiana;
i più noti sono il Carakasamhita (La raccolta di Caraka), compendio medico
che, nella stesura originale, è stato datato come risalente al sec. II
d. C., e il Susrutasamhita (La raccolta di Susruta), un trattato di chirurgia
di poco anteriore al precedente. Entrambi raccolgono teorie preesistenti all'età
in cui vennero sistematicamente redatti, ma, mentre nel primo prevalgono le
nozioni di medicina generale e farmacopea, nel secondo sono descritti numerosi
tipi di interventi chirurgici che indicano lo sviluppo e la perfezione conseguiti
in questo campo dalla medicina indù. Fondandosi sul concetto della forza
vitale, diversa da persona a persona e anche nella stessa persona secondo le
varie età e circostanze, sulla profonda conoscenza del rapporto esistente
tra psicologia e fisiologia (yoga) e sulla premessa che il corpo umano vive
per l'armonia delle singole parti, la medicina indù giunse a formulare
concetti anticipatori della moderna endocrinologia, come la teoria dei tre dosa,
o forze primarie, cioè la forza dell'anabolismo, la forza del catabolismo
e la forza nervosa, cui si collegano i tre umori: flemma, bile e vento. L'aspetto
più caratteristico della medicina indù è il suo limitarsi
alla descrizione di fenomeno, nonché la mancanza di una vera e propria
eziologia. Di fronte alla malattia nulla era possibile se non lenire i dolori
e le sofferenze. Di qui il grande sviluppo della farmaceutica nell'India antica
a partire dal sec. III a. C. Tutti i trattati di farmacologia dell'epoca raccomandavano
l'uso di preparati metallici, i più comuni dei quali in funzione di tonici
erano a base di oro e di mercurio; particolarmente diffuso era anche l'uso di
polveri soporifere da inalare e di droghe per provocare anestesia locale nelle
operazioni chirurgiche. Infine, veterinaria e fitoterapia vennero incluse nella
medicina per la concezione indiana della vita che ne abbraccia tutti gli aspetti
come estrinsecazione dell'unico principio divino.
Preistoria
L'India fu abitata fin dai più remoti tempi preistorici: lo dimostrano
i grossolani reperti litici – per lo più massicci scheggioni di
quarzite appena sbozzati – che possono farsi risalire al secondo periodo
glaciale himalayano, rinvenuti nelle valli delle regioni settentrionali e che
vengono assegnati a una cultura detta pre-soaniana, la quale precedette il complesso
culturale soaniano propriamente detto, diffuso specialmente nel Kashmir e di
cui vengono distinte varie fasi. Testimonianze dei tempi paleolitici, costituite
sia da ciottoli appena ritoccati sia da manufatti bifacciali e dai cosiddetti
hachereaux, sono state rinvenute anche in altre numerose località, tra
cui occorre ricordare Chauntra nel Punjab, le terrazze dei fiumi Beas e Banganga
a nord di Delhi, le valli dei fiumi Gambhin, Shivna, Narmada, nella zona di
Madras. Tra i siti acheuleani di maggiore importanza si possono ricordare quello
di Attirampakkam, vicino a Madras, quello di Singi Talav in Rajasthan, con industria
attribuita all'Acheuleano inferiore e datazione compresa all'incirca tra 300.000
e 200.000 anni, quello di Chirki vicino al fiume Pravara, quello di Gangapur
vicino Nasik e quello di Lalitpur nel distretto dello Jhansi. A nord di Bombay
(Mumbay) e in altre zone sono stati messi in luce i resti di insediamenti di
popolazioni di cacciatori e pescatori, con industria microlitica, riferibili
alla fine dei tempi pleistocenici. Una serie di ripari, nella collina di Adamgarh,
ha restituito una sequenza compresa tra il Pleistocene medio, con industrie
acheuleane, e l'Olocene, con industrie microlitiche e geometriche; diversi animali
domestici sono attestati nei livelli databili tra il 6000 e il 5000 a. C. Agli
inizi dell'Olocene sono datate alcune officine litiche rinvenute a Birbhanpur,
nel Bengala. Numerosi sono anche i resti che risalgono al Neolitico, in cui
accanto ai prodotti ceramici appaiono le asce levigate e le zappe che indiziano
la comparsa di genti dedite all'agricoltura. Contemporaneamente alle più
sviluppate manifestazioni culturali della civiltà dell'Indo sono documentate,
in varie parti dell'India, facies non urbane caratterizzate dalla tecnologia
litica e dalla metallurgia del rame.
Storia: dalle origini alla fine dell'Impero Gupta
La protostoria dell'India si apre nel III-II millennio a. C. con la civiltà
eneolitica dell'Indo o di Mohenjo-Daro e Harappa, sviluppatasi in fiorenti centri
agricoli e commerciali, la cui fine giunse improvvisamente, forse causata dalle
invasioni arie. Gli Ari arrivarono in India in ondate successive a partire da
ca. il 1500 a. C., sopraffacendo nel loro progressivo stanziarsi verso est e
poi verso sud le popolazioni (Dravida, Munda, ecc.) già da millenni impiantatesi
nel subcontinente. Nonostante gli sforzi di non mescolarsi in alcun modo con
le genti vinte e sottomesse (divisione della società in caste rigide),
gli Ari finirono per amalgamarsi etnicamente e culturalmente con esse, così
da dar vita a una nuova e complessa civiltà, di cui furono espressione
massima i Veda, pilastri di tutto il pensiero filosofico e religioso dell'India
fino ai giorni nostri. Risale anche a questo periodo di stanziamento e di assestamento
degli Ari l'organizzazione sociale avente come elemento base il villaggio, ancora
oggi così tipico dell'India. Politicamente il Paese era un mosaico di
Stati, più o meno grandi, alcuni retti da una monarchia non assoluta,
altri da un'aristocrazia. Alla fine del sec.VI a. C. acquistò potenza
tra di essi il Magadha, sotto i re Saisunaga Bimbisara (ca. 545-490) e Ajatasatru
(ca. 490-460). Ancora il Magadha si trovò in primo piano quando, dopo
le invasioni di Alessandro Magno (dal 327 al 325 a. C.), che ebbero il merito
di aprire le comunicazioni tra l'Occidente e l'India, si costituì il
primo grande impero indiano, quello dei Maurya (ca. 320-ca. 295 a. C.), originario
appunto del Magadha. I domini Maurya raggiunsero un'estensione quasi panindiana
sotto il terzo sovrano, Asoka (274-232 a. C.), famoso per il suo zelo nel praticare
e nel propagandare il buddhismo; egli inviò infatti missioni di carattere
religioso in molte parti del mondo allora conosciuto. Delle sue gesta e del
suo regno, prospero e sostanzialmente pacifico, saldamente organizzato dal punto
di vista burocratico, restano molte testimonianze in iscrizioni rupestri o su
pilastri. Dopo Asoka l'impero andò progressivamente sgretolandosi e l'India
si trovò di nuovo divisa in una congerie di Stati e staterelli e subì
nuove invasioni: nel Nord-Ovest si formarono regni indopersiani; nel Punjab
prosperarono per un certo periodo dinastie di origine greca, provenienti dalla
Battriana (a una di esse appartenne il famoso re Menandro, il Milinda dei testi
sanscriti); sopraggiunsero quindi gli Saka, i Parti e infine i Kushana. Questi
ultimi, identificati dagli storici con gli Yüechi, conquistarono un vasto
territorio nell'Asia centrale, comprendente anche buona parte dell'India nordoccidentale,
organizzandovi un saldo e fiorente impero, i cui sovrani principali furono Kadfise
I e II e Kaniska I. La storia dei Kushana resta a tutt'oggi alquanto oscura
in parecchi punti, soprattutto per quanto riguarda la cronologia; si sa comunque
per certo che il loro impero non godeva più di grande potenza al tempo
in cui sorse l'astro dei Gupta (sec. IV d. C.). Messasi in luce anche fuori
dell'originario Magadha con Candragupta I, la dinastia Gupta estese e consolidò
i propri domini con guerre di conquista e alleanze matrimoniali, fino a includere
tutto l'Ovest, il Nord, l'Est e parte del Sud dell'India. Sotto i sovrani Gupta
(Candragupta I, Samudragupta, Candragupta II, Kumaragupta I, Skandagupta, Budhagupta)
l'India visse la sua epoca d'oro: fiorirono le arti, specialmente la letteratura
(con Kalidasa), l'architettura e la scultura, prosperarono i commerci e le relazioni
con gli altri Stati del mondo antico, si compirono progressi in vari campi scientifici,
si perfezionarono e misero in atto sistemi burocratici non troppo oppressivi
ma di grande efficienza. L'impero crollò poi sotto le invasioni degli
Unni, che imposero il tributo in varie zone dell'India settentrionale, di nuovo
frazionatasi in numerosi Stati.
Storia: dalle invasioni musulmane alla fine della dinastia moghul
Nel 606 dal piccolo Stato del Thanesar partì l'ultima iniziativa indiana
di unificare il Paese, a opera di Harsa o Harsavardhana (606-647 o 648). Ottenuto
anche il trono di Kannauj, Harsa conquistò tutto il territorio compreso
tra il Punjab e il Bihar e Bengala, volgendo poi le proprie mire verso il Sud.
In questa direzione venne però sconfitto dal re Calukya Pulakesim II
e dovette quindi arrestare i suoi confini alla Narmada. Oltre che conquistatore,
Harsa fu anche ottimo amministratore, mecenate e letterato. Protettore del buddhismo,
accolse con benevolenza il pellegrino cinese Hsüan Tsang, che lasciò
una dettagliata descrizione dell'India del sec. VII. Alla morte di Harsa, l'impero
da lui conquistato si sfasciò e nelle varie regioni si instaurarono dinastie
locali di non grande importanza, se si esclude quella bengalese dei Pala. Più
tardi (verso la metà del sec. VIII) si formò nel Nord-Ovest del
Paese una serie di principati rajput, il più importante dei quali fu
quello dei Gurjara-Pratihara (sec. VIII-X). Attaccati a varie riprese da Arabi,
Pala e Rastrakuta, i Gurjara-Pratihara finirono per soccombere davanti a questi
ultimi. Con la loro scomparsa venne meno uno dei maggiori capisaldi contro le
invasioni musulmane. Queste erano cominciate con gli Arabi. Comandati da Muhammad
ibn Qasim, essi penetrarono nel Sind nel 711, costituendovi i principati di
Multan e Mansura. Di vere e proprie invasioni, però, è il caso
di parlare solo nel sec. XI con Mahmu'd di Ghazna (998-1030), di origine turca.
Abilissimo stratega, egli compì con i suoi eserciti un gran numero di
scorrerie nell'India settentrionale, estendendo i suoi domini fino a includere
anche il Punjab, con Lahore come capitale. Il suo regno, però, non gli
sopravvisse e, per quanto riguarda l'India, essa vide nuovamente il costituirsi
di un mosaico di Stati: il principato dei Cauhan a Delhi, quello dei Candela
nel Bundelkhand, dei Paramara nella parte centrale dell'altopiano indiano, dei
Sena nel Bengala ecc. Ma verso la fine del sec. XII nuove forze turche di fede
musulmana si affacciarono minacciose in India. I regni indiani del Nord si coalizzarono
contro di esse sotto il comando supremo di Prithviraj III dei Cauhan. A una
prima vittoria indù sul campo di Tarain (1191), seguì però
nello stesso luogo un'irreparabile sconfitta (1192) e gli eserciti di Muhammad
di Ghor dilagarono nella pianura gangetica fino nel Bengala, conquistandosi
più che un regno vero e proprio una serie di capisaldi militari.Morto
Muhammad di Ghor (1206) e smembratosi il suo vasto impero, la maggior parte
del quale si estendeva a nord dell'India, le province indiane, con Delhi capitale,
rimasero in mano di un generale schiavo, Qutb ad-Din Aibak (1206-10). Con lui
ha inizio la dinastia dei Mamelucchi, durata fino al 1290. A essa seguirono
quella dei Khalgi (1290-1320), che intrapresero varie guerre di conquista nel
Deccan; quella dei Tughlaq (1320-1413), un principe della quale, Muhammad ibn
Tughlaq (1325-51), trasportò la capitale da Delhi, ormai troppo decentralizzata,
a Daulatabad nel Deccan; e poi quella dei Sayyd (1414-51) e quella dei Lodi
(1451-1526), il cui maggior rappresentante, Sikandar (1488-1517), diede un nuovo
splendore politico e culturale all'ormai decadente sultanato. Caratteristica
di tutte queste dinastie fu la costante direttiva centralizzatrice del potere,
in sostituzione del primitivo sistema di lasciare una certa autonomia ai principi
locali; tutte inoltre, essendo di origine turca o turco-afghana, comunque passate
attraverso una formatrice esperienza persiana, diedero un'impronta altamente
persianizzata all'organizzazione e all'amministrazione della corte e dello Stato,
nella quale peraltro erano accettati, a un certo livello, anche gli indù.
Nel terzo decennio del sec. XVI il sultanato di Delhi, allo stremo delle sue
forze, non poté resistere all'attacco di un valente condottiero che rivendicava
un'incerta origine mongola (a partire dai primi decenni del sec. XIII le popolazioni
turco-mongole avevano rappresentato una costante minaccia per le zone più
settentrionali dell'India, che subirono varie scorrerie fino al grave saccheggio
compiuto da Tamerlano nel 1398). Si trattava di Bâbur (1526-30), sovrano
di un piccolo Stato afghano, che, sconfitto l'ultimo dei Lodi a Panipat (1526),
conquistò Delhi e Agra e, assunto il titolo di imperatore dell'Hindustan,
si spinse fino ai confini del Bengala. La dinastia moghul da lui iniziata, che
tenne il potere in India fino al 1857, conobbe un periodo di incredibile splendore
e potenza sotto i primi cinque sovrani – Humayun, Akbar, Jahangir, Shah
Jahan, Aurangzeb –, che la storia ricorda infatti sotto il nome di Gran
Mogol. Artefice massimo della grandezza dei Moghul fu Akbar, abilissimo politico,
guerriero e amministratore. Aiutato dal valente ministro indù Todar Mall,
egli diede all'impero un'impronta fortemente centralizzata, abolendo il “feudalesimo”
esistente, istituendo nuovi e più diretti sistemi di riscossione delle
imposte, introducendo l'uso dei registri catastali, adottando una diversa divisione
amministrativa del vastissimo territorio da lui retto. Si accattivò inoltre
l'appoggio di elementi prima irrimediabilmente ostili, quali i Rajput, e seguì
una politica di estrema tolleranza religiosa. Come i suoi predecessori e i suoi
diretti successori fu un appassionato d'arte, specialmente dell'architettura,
che in effetti giunse a vertici altissimi. La potenza moghul si mantenne al
livello raggiunto sotto Akbar fin verso il sec. XVIII, quando nel Nord e nell'Est
vari territori cominciarono a staccarsi dal potere centrale, mentre anche il
Deccan e il Sud risentivano delle rivendicazioni autonomistiche dei governatori
locali e della potenza dei Maratha in ascesa.
Storia: l'India meridionale
Occorre ora accennare un breve panorama della storia dell'India meridionale,
per ragioni di carattere prevalentemente geografico rimasta in margine alle
grandi vicende del Nord, se si escludono le conquiste, peraltro di breve durata,
effettuate dai fondatori dei pochi imperi panindiani. Nel Deccan e nel meridione
del Paese gli Ari non erano riusciti a penetrare in modo altrettanto massiccio
che nel Nord, e comunque avevano dovuto impiegare molto più tempo, per
cui la loro civiltà non influenzò così radicalmente gli
usi e i costumi delle popolazioni locali, in maggioranza di stirpe dravidica.
Dal punto di vista politico anche il Sud vide il fiorire di numerosi Stati,
nel complesso però meno frazionati di quelli del Nord. Le dinastie più
antiche furono quelle dei Pandya, dei Cera e dei Cola, già note nel sec.
III a. C. Nel sec. I a. C. acquistarono grande potenza i Satavahana o Andhra,
i primi ad accogliere su vasta scala la cultura aria del Nord, specie in campo
religioso e letterario. Importante sotto questa dinastia fu anche il commercio
estero, esteso verso occidente fino a Roma e verso oriente fino all'Asia sudorientale,
dove Indocina e Indonesia risentirono profondamente dell'influsso indiano. Nel
sec. V si affermò la dinastia dei Pallava, giunta al suo apogeo nel sec.
VII con il re Narasimhavarman I (ca. 630-660), che edificò il maestoso
complesso dei templi di Mahabalipuram. La sua capitale Kanchipuram era sede
di una famosa università. Pure nel sec. VII assunsero importanza i Calukya,
mentre nell'VIII esercitarono l'egemonia nel Sud i Rastrakuta, il cui re più
famoso fu Amoghavarsa I (814-878), ricco e potente, protettore del giainismo.
Nel 973 Taila II (973-997), appartenente a un altro ramo dei Calukya, detronizzò
i Rastrakuta e si spinse con i suoi eserciti fino nel Magadha e nel Bengala.
Comunque dalla fine del sec. X sino al XII il regno meridionale più importante
fu quello dei Cola, grande potenza marinara, l'unica nella storia dell'India,
che tenne il dominio di tutta la costa orientale indiana, di Ceylon, delle Laccadive
e delle Maldive, giungendo con le sue spedizioni militari fino a Sumatra. Con
la fine della seconda dinastia Calukya e la decadenza dei Cola nel sec. XII,
anche nel Sud si svolse una fase di equilibrio tra vari regni regionali: quelli
degli Yadava, dei Hoysala, ecc. Più tardi, quando cominciarono le invasioni
musulmane, il Sud rappresentò ancora, come era avvenuto al tempo della
conquista aria dell'India, un grosso impedimento alla penetrazione delle forze
ideologiche e politiche dell'Islam in tutto il Paese. Esso divenne anzi il depositario
e il custode della tradizione indù: non a caso i musulmani incontrarono
la più irriducibile resistenza alla loro avanzata nel regno di Vijayanagar.
Fondata nel 1336 dopo una rivolta indù contro i Tughlaq, Vijayanagar,
la “Città della vittoria”, diventò capitale di un
vasto regno, forte di un numeroso e valente esercito, ricco di grandi realizzazioni
pubbliche, fiorente di arti e commerci. Nel 1565, però, una coalizione
di Stati musulmani riuscì a prendere e distruggere la città; il
regno le sopravvisse ancora per un poco, ma ormai privato di ogni importanza.
Altre grosse formazioni statali di questo periodo pre-moghul furono il regno
dei Bahamani e il complesso dei valorosi principati rajput (Chitor, Mewar, Marvar,
ecc.), ambedue fiorenti nel Deccan e famosi per la loro resistenza all'avanzata
della potenza imperiale, risultata peraltro vittoriosa alla fine della lotta.
Storia: dall'epoca coloniale alla prima guerra mondiale
Ritornando alla storia generale dell'India, un fatto nuovo si era prodotto a
partire dal sec. XVI: le potenze coloniali europee si erano affacciate nel subcontinente.
Primo era giunto il Portogallo nel 1498 con la conclusione nel porto di Cochin
del viaggio che aveva visto le navi di Vasco da Gama circumnavigare l'Africa.
Successivamente, al Portogallo si erano affiancate l'Olanda, la Francia e l'Inghilterra,
che erano venute installando basi mercantili lungo le coste del subcontinente
e mantenevano rappresentanti delle loro compagnie commerciali presso la corte
moghul o le altre minori dell'India costiera. Rivalità locali e avvenimenti
politici europei portarono alla progressiva ascesa e affermazione della Compagnia
inglese delle Indie Orientali: nell'arco di una sessantina d'anni a cominciare
dalla battaglia di Plassey (1757), che le assicurò il dominio del Bengala,
essa si rese praticamente padrona di tutta l'India, dando l'avvio al profondo
e caratteristico processo di occidentalizzazione del Paese. Divenuta un organismo
molto politicizzato, la Compagnia dovette trasferire la sua posizione di supremazia
in India direttamente al governo di sua maestà britannica, dopo la grande
rivolta (Mutiny) del 1857, ultimo sussulto dell'India tradizionalista nel tentativo
di ostacolare l'avanzata della civiltà occidentale . La classe borghese,
formatasi e cresciuta proprio per l'approfondirsi del processo di occidentalizzazione,
cominciò a rivendicare con sempre maggiore insistenza la concessione
di posti di importanza primaria nell'amministrazione pubblica, posti che si
riteneva in grado di ricoprire, avendola il dominatore europeo sufficientemente
preparata a ciò. Nel 1885, come sfogo a queste esigenze e come organismo
attraverso il quale il governo potesse sondare gli umori locali, venne fondato
il Congresso Nazionale Indiano. Dapprima lealista e moderato nelle sue richieste,
il Congresso assunse ben presto un carattere decisamente nazionalistico, soprattutto
in seguito all'opera svoltavi in tal senso da L. G. Tilak (1856-1920), zelante
predicatore del patriottismo tra la popolazione maratha. Anche in altre parti
del Paese, come per esempio nel Bengala, che era stato culla di un profondo
risveglio religioso e sociale e che lord Curzon aveva artificiosamente diviso
in diverse amministrazioni (1905), cominciò a svilupparsi un certo malcontento
verso il governo straniero. Questo concesse via via varie riforme di carattere
amministrativo, tese soprattutto ad allargare la partecipazione degli Indiani
all'amministrazione pubblica, anche negli organismi più importanti. Nello
stesso tempo venivano accolte anche le richieste di un trattamento differenziato
per i musulmani, che si decisero a formare una Lega Musulmana (1906), in opposizione
al Congresso. Ne fu anima Muhammad 'Ali Jinnah (1876-1948). Il prestigio di
cui avevano sempre goduto gli Europei si andava intanto attenuando, specie in
seguito alla vittoria del Giappone sulla Russia (1904-05) e poi alla prima guerra
mondiale, vista dagli Indiani come una lotta fratricida degli Europei. La rivoluzione
dei Giovani Turchi, quella bolscevica, i “14 punti” del presidente
degli USA Thomas Woodrow Wilson furono ulteriori stimoli alla rivendicazione
dell'autodeterminazione. Nel 1917 il governo britannico promise di concederla
per gradi, ma gli animi erano già molto esasperati. A questo punto entrò
in scena il grande apostolo del nazionalismo indiano, Mohandas Karamcand Gandhi
(1869-1948). Con le sue campagne di non-cooperazione e di disubbidienza civile
e il fascino della sua profonda umanità, egli seppe imprimere un carattere
nuovo alla lotta indipendentistica, sebbene nella pratica i suoi metodi venissero
a volte criticati e rifiutati come troppo idealistici.
Storia: dalla nascita dell'Unione Indiana al governo di Indira Gandhi
Durante la seconda guerra mondiale l'India combatté lealmente a fianco
della Gran Bretagna, ma all'interno l'insofferenza verso il dominio straniero
continuava ad aumentare, mentre cominciava a farsi insostenibile anche la situazione
tra indù e musulmani. Assunse così sempre maggior consistenza
il progetto della formazione di due Stati, uno indù e l'altro musulmano,
quando il Paese avesse ottenuto l'indipendenza. Il che infatti avvenne con l'istituzione
dell'Unione Indiana e del Pakistan, proclamati Stati indipendenti nell'ambito
del Commonwealth il 14 agosto 1947. L'Unione Indiana, costituita dalla maggior
parte del territorio dell'India storica, si trovò davanti tutta una serie
di problemi gravissimi e urgentissimi: pacificazione delle zone di frontiera
con il Pakistan, sconvolte e insanguinate per l'odio religioso e l'esodo nei
due sensi di milioni di persone; risoluzione delle difficoltà di carattere
economico-produttivo, dovute all'assurda distribuzione tra i due nuovi Stati
delle opere di canalizzazione tra Sutlej e Indo; strutturazione della federazione,
al primo momento composta di ben 362 Stati, di cui alcuni di estensione e importanza
insignificanti, altri (Hyderabad, Kashmir, ecc.) di difficile attribuzione all'Unione
Indiana o al Pakistan, essendo retti da un principe musulmano, ma con popolazione
in maggioranza indù, o viceversa; impellenza di industrializzare il Paese
e promuoverne il progresso economico e sociale. A poco a poco, grazie all'abilità
degli uomini di punta, Vallabhai Jhaverbhai Patel e soprattutto Jawaharlal Nehru
– Gandhi era morto, vittima dell'odio religioso –, tali questioni
vennero risolte o comunque persero la loro virulenza. In particolare, la Costituzione
– a sistema parlamentare bicamerale (Lok Sabha e Rajya Sabha), per la
quale sono servite da modello quella inglese, quella statunitense e quella irlandese
– entrò in vigore nel 1950; l'Unione infine risultò composta
da 17 Stati, più alcuni territori a statuto speciale. In campo internazionale,
Nehru e poi i suoi successori, Lal Bahadur Shastri e Indira Gandhi, seguirono
sempre la politica del non-allineamento tra le grandi potenze, sebbene negli
anni Settanta si fosse manifestata una certa propensione verso il blocco sovietico.
Nel 1971, infatti, India e URSS stipularono un trattato ventennale di amicizia
e di reciproco aiuto. Con la Cina le relazioni si deteriorarono progressivamente,
fino all'invasione da parte cinese delle zone della frontiera indiana di nord-est
nel 1962; tuttavia, all'inizio degli anni Ottanta si avvertirono segni di distensione.
Con il Pakistan lo stato di lotta durò sino al 1972, dapprima a causa
del Kashmir (di cui una parte divenne uno Stato federato dell'India nome di
Jammu e Kashmir) che aveva dato luogo alle guerre di frontiera del 1948 e del
1965-66, quindi a causa del Pakistan Orientale, divenuto indipendente alla fine
del conflitto (1971) con il nome di Bangladesh. Nel 1975 fu formalmente annesso
all'India il Sikkim. Per quanto riguarda la politica interna, il potere fu sempre
in mano a un unico partito, quello del Congresso (ribattezzato Nuovo Congresso
nel 1969 dopo la scissione degli elementi più conservatori), fino al
1977, anno in cui le varie forze di opposizione – tranne i comunisti –
si unirono in un'eterogenea coalizione, il Janata (People's) Party, che vinse
le elezioni e governò il Paese per tre anni, prima con Moraji Desai e
poi (1979) con Charam Singh. Nel 1980 nuove elezioni riportarono al potere il
Partito del Congresso e la sua leader Indira Gandhi. I primi passi del nuovo
governo di Indira furono caratterizzati da una relativa tranquillità
interna e da un certo riequilibrio della politica estera (che negli anni Settanta
aveva assunto tinte troppo filosovietiche) mediante l'instaurazione di rapporti
più amichevoli con gli USA. Riacquistata così una maggior equidistanza
tra i due blocchi, nel marzo 1983 l'India accolse a Nuova Delhi la VII Conferenza
dei Paesi non allineati (assumendone poi la presidenza).
Storia: l'intensificarsi dei conflitti religiosi e politici
Nel 1984 esplose il problema dei Sikh del Punjab e Indira, per evitare un'autentica
secessione, diede ordine di snidare i ribelli asserragliati nel Tempio d'Oro
di Amritsar. Per vendicarsi dell'oltraggio subito, i Sikh fecero assassinare
Indira (31 ottobre 1984) sulla soglia di casa. Le subentrò nelle cariche
di primo ministro e leader del Partito del Congresso il figlio Rajiv, il quale,
nelle elezioni del dicembre 1984, ottenne una vittoria quasi plebiscitaria.
L'opera di modernizzazione della società indiana, da questi perseguita
mediante il rinnovamento della pubblica amministrazione e il miglioramento dell'efficienza
delle strutture (comprese quelle del Partito del Congresso), in campo economico
più specificamente volta a una maggiore liberalizzazione, si scontrò
con forti resistenze interne agli organismi toccati. Le difficoltà economiche
e la crescente turbolenza delle manifestazioni autonomistiche nonché
un rinascente fondamentalismo induista segnarono in breve la parabola discendente
di Rajiv. Il Partito del Congresso, presentatosi diviso al proprio interno alle
elezioni del 1989, risultò nettamente sconfitto. In seguito alle dimissioni
di Gandhi, l'incarico di primo ministro fu assunto da Vishwanath Pratap Singh
(del Janata Dal), il quale formò un governo di minoranza, primo nella
storia del Paese, appoggiato esternamente dal Fronte delle Sinistre e dal Bharatiya
Janata (destra confessionale induista). Confermato dalle elezioni di febbraio
1990 svoltesi in alcuni Stati, Singh introdusse più severe misure di
austerità e cercò di avviare un processo di pacificazione interna
con i movimenti separatistici, che invece intensificarono la loro attività
provocando numerosi incidenti. In ottobre il Bharatiya Janata uscì dal
governo provocando lo scioglimento della coalizione. Dopo la breve parentesi
(novembre 1990-marzo 1991) che vide Chandra Shekar del Janata Dal “S”
alla guida di un governo di coalizione con l'appoggio esterno del Partito del
Congresso, le tensioni, stimolate anche da tendenze egemoniche induiste, raggiunsero
una tale violenza fino a sfociare, all'inizio della nuova campagna elettorale,
nell'assassinio di Rajiv Gandhi (21 maggio 1991), motivo di turbamento e ulteriore
confusione nel Paese. Il Partito del Congresso si affidò quindi alla
guida di Narasimha Rao, che subito dopo fu eletto primo ministro. Rao, formato
un governo monocolore di minoranza, avviò una politica economica finalizzata
a ridurre lo statalismo potenziando l'iniziativa privata e gli scambi con l'estero,
e instaurò più stretti rapporti con l'Occidente. Nel luglio 1992
un altro esponente del Partito del Congresso, Shankar Dayal Sharma, fu eletto
alla presidenza della Repubblica. Dalla fine del 1992 l'India diventava teatro
di un'interminabile spirale di violenza tra fedeli indù e musulmani.
Nel dicembre 1992 veniva distrutta la moschea di Ayodhya, attentato nel quale
perdevano la vita più di mille persone. Da quel momento nuove fiammate
di sanguinosa violenza, causate da motivi religiosi, si registravano in varie
parti del Paese con scontri diretti tra esponenti delle due confessioni, ma
anche con attentati che causavano numerose vittime a Bombay e Calcutta (marzo
1993). Al conflitto religioso si sommava anche la ripresa delle tensioni separatiste
che portavano ai tragici combattimenti nel Kashmir (aprile-novembre 1993). Un
tale quadro di violenza incontrollata si confermava anche negli anni successivi
e il governo di Rao riusciva a segnare un punto a suo favore solo nel Punjab
(febbraio 1993), debellando sostanzialmente l'organizzazione dei Sikh. Respingendo
le accuse di aver abbandonato una linea politica di sostegno alle classi più
disagiate, di aver favorito gli investitori stranieri e la ricca borghesia,
Rao intraprendeva la via del risanamento economico del Paese. Al declino ormai
inarrestabile della leadership di Rao faceva riscontro una riacutizzazione della
violenza politica che si manifestava con numerosi attentati in varie parti del
Paese. Indebolito al suo interno e sempre meno radicato nella società,
il partito del premier tentava vanamente un suo rilancio nelle elezioni generali
che si svolgevano tra aprile e maggio del 1996. Ma la disaffezione dell’elettorato
era confermata oltre le previsioni perché il Congresso I era nettamente
battuto non solo dal Bharatya Janata, ma anche dal Terzo Fronte, un’alleanza
nella quale si erano ritrovate numerose formazioni di sinistra e centro-sinistra.
La destra confessionale induista risultata vincitrice non riusciva, comunque,
a formare una maggioranza parlamentare e il presidente Shankar Dayal Sharma
nominava primo ministro D. H. Deve Godwa, un esponente del Terzo Fronte e leader
del partito Karnata, il quale poteva formare un esecutivo appoggiato esternamente
dal Congresso I. Quest'ultimo però, nel marzo 1997, toglieva il suo sostegno
al premier il quale, venuta meno la fiducia del Parlamento, doveva lasciare
l’incarico a Inder Kumar Guiral. Il nuovo primo ministro riapriva il dialogo
con il Pakistan, con il quale raggiungeva un accordo per l'apertura di trattative
sia commerciali sia economiche, nonché sullo scottante problema dell'assetto
politico del Kashmir. Un mese dopo veniva eletto presidente della Repubblica
Kocheri Raman Narayanana che, nel febbraio 1998, a causa di un’ulteriore
crisi di governo, doveva indire le elezioni anticipate: la vittoria andava al
Partito nazionalista indù (Bharatiya Janata Party) il cui leader, Atal
Behari Vajpayee, assumeva la carica di primo ministro. Nel maggio 1998, l’India
portava a compimento alcuni esperimenti nucleari nel deserto dello Stato del
Rajastan; la corsa agli armamenti, scatenata dal governo nazionalista indù,
minava seriamente la stabilità regionale e riaccendeva i contrasti con
il Pakistan, inducendo questo Paese, poco dopo, a rispondere alla sfida atomica
indiana con altri esperimenti nucleari. Nel luglio 1999, dopo mesi di durissimi
scontri armati, i due Paesi giungevano a un accordo per la riduzione dell’attività
militare nel Kashmir, ma il dirottamento di un Airbus indiano da parte di estremisti
islamici (dicembre 1999) e l’esplosione di una bomba nel gennaio 2000
a Srinangar, in territorio controllato dall’India, nonché una serie
di scontri e attentati che provocavano decine di morti nel distretto di Ahmadab
nel 2002 facevano riaccendere il conflitto. Alle elezioni legislative della
fine del 1999, nonostante l’avanzare del Partito del Congresso, si riconfermava
la vittoria dei nazionalisti di Vajpayee, mentre nel luglio 2002 veniva eletto
il nuovo presidente della Repubblica, lo scienziato musulmano Abdul Kalam, padre
della bomba atomica indiana.
Lingue
e lingue ufficiali degli Stati che si trovano nel subcontinente indiano sono:
l'hindi nell'Unione Indiana, l'urdu nel Pakistan, la bengali o bengalese nel
Bangladesh, la nepali o nepalese nel Nepal, il tibetano nel Sikkim e nel Bhutan,
il singalese e il tamil nell'isola di Ceylon. Ma accanto a queste lingue, oltre
all'inglese che è stata la lingua di colonizzazione di tutto il territorio,
si parlano anche moltissimi altri idiomi e dialetti che si possono raggruppare
in quattro famiglie linguistiche principali: tibeto-birmana, nella parte settentrionale
e nordorientale (dove si ha anche una penetrazione della famiglia linguistica
monkhmer con la lingua khasi parlata in alcune regioni dell'Assam); munda, che
forma piccoli gruppi sparsi nell'India centrorientale; dravidica nell'India
meridionale, nella parte settentrionale dell'isola di Ceylon (Sri Lanka), nelle
isole Laccadive, con una propaggine isolata nel Belucistan centrorientale; indeuropea,
che copre la maggior parte del restante territorio. Quest'ultima è la
famiglia linguistica più importante perché vanta il maggior numero
di parlanti e le tradizioni letterarie più prestigiose. Le lingue di
questa famiglia parlate nel subcontinente indiano appartengono al ramo ario
o indoiranico costituito dal gruppo iranico, di cui solo il dialetto beluci
interessa la parte sudoccidentale del Pakistan, e dal gruppo indoario, che comprende
tutte le altre lingue e dialetti indeuropei parlati in India. Cronologicamente
l'indoario si può dividere in tre periodi: quello dell'antico-indiano,
in cui si distingue una fase più arcaica rappresentata dal vedico e una
più recente rappresentata dal sanscrito classico; quello del medio-indiano,
che comprende il pali, il pracrito epigrafico e gli altri dialetti pracriti,
il sanscrito misto, cioè una lingua ibrida composta di forme sanscrite
e pracrite in cui sono scritte in particolare le strofe di leggendarie biografie
del Buddha; il periodo neoindiano, che comprende numerose lingue e dialetti
che si possono raccogliere in quattro gruppi: nordoccidentale, che abbraccia
le estreme regioni montuose confinanti con il Pamir in cui si parlano kafiri,
kashmiri, shina, kohistani (da questo gruppo indoario derivano anche i dialetti
zingari); occidentale, di cui fanno parte la puñjabi occidentale o lahnda
parlata lungo il corso superiore dell'Indo, la sindhi parlata lungo il corso
inferiore dell'Indo, la gujarati a sud-est della sindhi (è la lingua
dei Parsi, comunità zoroastriane emigrate dalla Persia, che ha subito
un sensibile influsso da parte del persiano e dell'arabo), più a sud
la marathi che confina con il dominio linguistico dravidico, la rajasthani a
est della sindhi, la bhili a est della gujarati; il gruppo centrale comprende
i vari dialetti hindi, la puñjabi in senso proprio a est della puñjabi
occidentale, la nepali che è la lingua ufficiale del Nepal, e più
a occidentale la pahari; il gruppo orientale comprende la bihari a sud-est del
Nepal, l'assamese o asami, il bengalese e più a sud l'oriya. Separato
da tutte le altre lingue indoarie è il singalese, parlato nella parte
meridionale dell'isola di Ceylon.
Letteratura: la letteratura vedica
Le lingue letterarie dell'India, area dove quelle censite sono 179 e i dialetti
sono ca. 1500, sono soltanto dodici, quattro della famiglia dravidica (Deccan,
India meridionale, Ceylon settentrionale) e le altre della famiglia indeuropea
del gruppo indoario (India centrale e settentrionale, Pakistan). Mentre la letteratura
antica in vedico e in sanscrito si cristallizza nella classicità delle
rispettive lingue, i pracriti (lingue parlate volgari), letterariamente impiegati
nei drammi e nei testi religiosi giainisti e buddhisti, subiscono un lungo processo
di evoluzione sfociante nella formazione delle lingue base delle letterature
arie moderne: hindi, urdu, bengalese, assamese, oriya, puñjabi, gujarati,
marathi. Analogo sviluppo, attestato a cominciare dai primi secoli dell'era
volgare, seguono le lingue della famiglia dravidica: telegu, canarese, tamil,
malayalam. Si darà qui soltanto un profilo delle diverse espressioni
letterarie, mentre si rinvia il lettore alle voci delle singole letterature
per una visione cronologica più specifica della materia. La letteratura
vedica (secondo millennio-sec. V-IV a. C.) trae il nome dal Veda, “il
sapere”, “il sapere sacro” e comprende le Samhita (collezioni:
Rgveda, Yajurveda, Samaveda, Atharvaveda), i Brahmana (sulla scienza sacrificale),
gli Aranyaka (sulle selve), le Upanisad (seduta intorno al maestro, sulla dottrina
segreta). A questi si affiancano i Vedanga (sull'interpretazione del rituale
solenne e privato) e i Sutra (regole). Composti forse tra il 500 e il 200 a.
C. con scopi evidentemente didattici e di difficile comprensione senza opportuni
commentari, comprendono praticamente tutto il sapere del tempo e chiudono la
letteratura vedica. L'epica sanscrita consta di due capolavori del genere: Mahabharata
e Ramayana. Tema centrale del primo (110 mila strofe in 18 libri, più
un diciannovesimo: Harivamsia, dedicato alla genealogia di Hari-Visnu) è
la rivalità tra Kaurava e Pandava, figli di Pandu. Ma, accanto ai temi
narrativi, trovano sviluppo quelli religiosi, cosmogonici, didattici, di ordine
amministrativo statale, così che il Mahabharata viene a costituire una
vera e propria summa determinatasi tra il sec. IV a. C. e il IV d. C. Meno vasto
del precedente, ma più unitario, è il Ramayana (Il viaggio di
Rama) in 24.000 strofe e sette libri, attribuito a un unico autore, Valmiki,
e incentrato sulle vicende di Rama, incarnazione del più alto ideale
della virilità guerriera indiana. Anch'essa ricca di temi estranei al
racconto principale, l'opera, la cui stesura definitiva non è posteriore
al sec. II d. C., è forse la più celebre della letteratura indiana
ed è stata tradotta, imitata, rifatta in tutte le lingue del subcontinente,
ed è ancora oggi la più diffusa e la più letta nella versione
in hindi di Tulsidas (1532-1623). Alla letteratura epica si affiancano i Purana,
composti oltre il sec. V d. C., in versi di stile epico (sloka), divisi in tre
gruppi: dedicati a Visnu, Siva e Brahma per un totale di 18 libri, tutti nel
complesso di carattere enciclopedico. Accanto ai grandi Purana esistono poi
i Purana minori, o secondari (Upa purana). La rinascita della lingua sanscrita,
affiancata dagli schemi codificati da Panini (sec. V o IV a. C.) e da Patañjali
(sec. II a. C. o II d. C.), come forma espressiva di letteratura profana, si
afferma nello stile letterario kavya (poema epico in stile ornato) spesso però
soffocato dalla ricercatezza formale, che tuttavia fornisce gli schemi alla
letteratura epico-artistica. Testimoniata sino dal sec. II d. C., questa ha
il suo massimo rappresentante in Kalidasa (sec. IV-V d. C.), autore, tra l'altro,
di due poemi che sono modelli del genere: Kumarasambhava (Nascita del dio della
guerra) e Raghuvamsa (Genealogia di Raghu). La concezione formale dell'arte
ha, per altro, rallentato la nascita di una letteratura storica, che ha avuto
manifestazioni deboli e che ha il suo punto di riferimento nel Rajatarangini
(Il fiume dei re) di Kalhana, composto nel 1149-50, in 7826 strofe divise in
8 capitoli, sulla storia del Kashmir dalle origini fino al regno di Jayasimha,
cioè ai tempi dell'autore. Kalhana fece, in un certo senso, scuola e
le opere a carattere storico divennero numerose, ma nessuna eguagliò
il Rajatarangini.
Letteratura: la letteratura sanscrita
La lirica domina invece tra i generi letterari più rappresentativi e
più antichi della letteratura sanscrita. I temi sono quelli dell'amore
e della contemplazione della natura. La prima opera importante è Sattasai
(Le settecento strofe) attribuita dai Purana al re Hala Satavahana o Salivahana
Andhra (sec. I-II d. C.), dove trionfa la componente erotica. Ancora una volta
il posto di primo piano spetta tuttavia a Kalidasa con i due poemetti Rtu Samhara
(Il ciclo delle stagioni) e Meghaduta (La nuvola messaggera). Da ricordare inoltre
il capolavoro della lirica erotica indiana: l'Amarusataka (Centurie di Amaru)
del sec. VI o VII. Accanto a questo genere lirico si effonde anche quello religioso
ed erotico-religioso, nel quale ultimo spicca il Gitagovinda di Jayadeva (sec.
XII). Il poemetto è composto in 12 canti ed è la celebrazione
mistico-erotica degli amori di Radha e di Krsna. Grande sviluppo ha avuto in
India la poesia gnomica e didattica. Celebre fra le prime la raccolta di Canakya,
identificato con Kautilya, l'autore del più famoso trattato di scienze
politiche dell'India antica, il Kautilya-Arthasastra. Ma le migliori trattazioni
gnomiche sono dovute al poeta Bhartrhari, che costituì per tutti un modello.
Nel genere didattico e antologico vanno ricordati il Kuttanimata (Gli ammaestramenti
della mezzana) di Damodaragupta (sec. VIII), trattato sulla pornografia, ma
con fini moralistici, e il Sufhasitaratnakosa (Tesoro delle gemme di bei detti)
di Vidyakara, composto intorno al 1100. Il genere antologico ebbe sempre fortuna
e continua anche ai giorni nostri. La narrativa è tra i generi non meno
validi della letteratura sanscrita, nei diversi aspetti di favola, di dottrina,
di racconto popolare e di romanzo, spesso con prosa e versi alternati. Il Pañcatantra
è la più importante raccolta di favolistica didattica; composta
tra il sec. II e il VI, dovuta al brahmano Visnusarma e diffusissima anche in
Occidente (Mille e una notte), le ha fatto seguito una narrativa popolare che
si è liberata dei motivi moraleggianti, al solo scopo di dilettare. L'esempio
più alto è la Brhatkatha (Il grande racconto) di Gunadhya, il
cui originale è andato perduto, ma che sopravvive in rifacimenti del
sec. VIII o IX. Meno coltivato della favola è il romanzo che raggiunse
livelli artistici considerevoli. Ne fa fede la più antica opera e la
più celebre fra tutte: Dasakumaracarita scritta da Dandin nel sec. VII.
Se la letteratura indiana è particolarmente ricca nella trattatistica
filosofica (Brahmana, Upanisad, Purana, Tantra, Yogasutra, ecc.), lo è
altrettanto di manuali filosofici e di scienza vera che da strumenti si sono
elevati a trattati veri e propri. Tra di essi un particolare accenno va fatto
alla letteratura del Trivarga, cioè a quel complesso di opere i cui argomenti
riguardano i tre fini dell'esistenza umana: “La legge morale e religiosa”,
“Le attività della vita pratica” e “La politica”,
testimoniata da numerosissime pubblicazioni, tra cui il Manavoidharmasastra
(Trattato giuridico di Manu) e il Kautilya-Arthasastra (Trattato sull'arte del
governo) attribuito a Kautilya. Accanto al vedico e al sanscrito si svilupparono
fortemente anche i pracriti, in parte conquistatisi poi una dignità letteraria,
di cui si ha l'esempio più antico nelle iscrizioni di Asóka (sec.
III a. C.). A questi gruppi di pracriti appartengono il pali e il maharastri,
usate da buddhisti e giainisti per i loro testi canonici, che a cominciare dai
primi secoli d. C. hanno dato vita a un'imponente fioritura letteraria. Basterà
qui ricordare la Samaraiccakatha (La novella di Samaraditya), grandioso romanzo
edificante di Haribhadra, e la Upanitibhavaprapañcakatha (La novella
in cui la molteplicità delle esistenze è presentata mediante confronti)
di Siddharsi, composta nel 906.
Letteratura: la produzione letteraria dal sec. IX al XIX
Diamo qui qualche cenno sulle letterature più recenti dell'intera area
indiana di cui il lettore troverà, come già accennato, maggiore
trattazione alle voci specifiche. Tra le più note va citata quella in
lingua tamil, iniziata secondo la leggenda dal saggio Agastya. Le sue origini
storiche risalgono ai primi secoli dell'era cristiana. Alla fase più
remota di tale letteratura appartengono migliaia di strofe elogiative di diversi
sovrani, raccolte in otto antologie (Ettuttohai). Particolarmente significativi
i romanzi epici, che hanno nel giaina Tirutakkatevar l'autore più noto.
Dopo un periodo di influsso sanscrito (sec. X), si affermò il medio tamil
(sec. XIV-XIX) che accolse anche autori stranieri (basti ricordare gli italiani
Roberto de Nobili, 1577-1656, e Costanzo Giuseppe Beschi, 1680-1746), mentre
l'influsso occidentale è andato aumentando recentemente, specie per il
teatro e la narrativa. L'opera più antica della letteratura canarese
che sia stata conservata è La via del poeta di Srivijaya, poeta di corte
di Nrpatunga (sec. IX). A essa si aggiungono quasi subito le opere dei tre maggiori
poeti canaresi (le “tre gemme”) Pampa, Ponna e Ranna. Questa letteratura
si sviluppa intorno a temi religiosi, agiografici, didattici, moraleggianti
e solo ultimamente si è andata evolvendo verso temi sociali. Tra le lingue
dravidiche, certamente la più diffusa è quella telugu, parlata
nell'India centrorientale, che ha il suo poeta più antico in Nannaya
Bhatta (sec. XI), e che per molti secoli subì l'influsso della cultura
sanscrita. Soltanto nel sec. XVI si ha con il poeta Vemana una schietta originalità
che volge però ben presto al virtuosismo di cui la letteratura telugu
si libererà poi soltanto nel sec. XIX, per merito soprattutto del poeta
e drammaturgo Rao Bahadur Kandukuri Viresalingam Pantulu (1858-1919). E d'altra
parte l'influsso della letteratura sanscrita fu palese anche sulla letteratura
malayalam di cui la prima manifestazione sicura è data dalle Avventure
di Rama, databili al 1300 e attribuite a un maharaja del Kerala. Assai ricca
è dal canto suo la letteratura hindi, che comprende tutte le composizioni
scritte nei tanti dialetti di questa lingua e che cominciò a differenziarsi
dai pracriti medio-indiani attorno al sec. VIII. La letteratura hindi si affermò
attorno al 1100 con la “poesia bardica”. Famoso tra tutti il poema
di Cand Bardai Le imprese di Prthviraj, 100.000 stanze in 69 libri, sugli amori
del re Prthviraj per la principessa Samyogita. Al poeta Vidyapati (ca. 1350-ca.
1450) si deve l'inizio del periodo bhakti o della “poesia devozionale”
(nelle due correnti nirguna e saguna) che si sviluppò tra il sec. XV
e il XVI, non solo in area hindi ma in tutta l'India, e sono i poeti bhakta
a raccogliere l'eredità di un santo di nome Ramananda cui è collegata
la figura di uno dei più grandi mistici dell'India e del mondo, Kabir
(prima metà del sec. XV-ca. 1518). La letteratura hindi, che dopo la
grossa fioritura delle diverse scuole nirguna, saguna e Krsnabhakti, si orientò
nel “periodo riti” verso la poesia del manierismo (1650-80) ed ebbe
il suo ultimo poeta originale in Padmakar (1753-1833), decadde, ma con l'influsso
occidentale portato dalla dominazione inglese fiorirono nuovi generi: romanzo,
saggio, racconto. Forma islamizzata dell'hindi occidentale è la lingua
urdu, che ha dato vita a una letteratura autonoma la cui prima personalità
di rilievo è Shamsuddin Waliallah (1667-1707), più noto come Vali.
La decadenza letteraria conseguita alle vicende politiche della metà
del sec. XIX si è andata poi attenuando per trovare nuovi fermenti prima
con Sayyid Ahmad (1817-1899), poi con Muhammad Iqbal (1873 o 1877-1938), padri
della letteratura moderna urdu. Abbastanza tarda è anche l'affermazione
della letteratura bengalese, che ha le sue prime manifestazioni nei sec. IX-X,
ma la cui espressione classica va dal sec. XIV in poi e ha il suo primo grande
poeta con Candidas (ca. 1350-ca. 1430) considerato il più grande lirico
bengalese. Fino al sec. XIX la letteratura bengalese è dominata da motivi
religiosi, erede degli insegnamenti del riformatore Caitanya (1486-1533) che
diffuse nel Bengala un culto di tipo bhakti. La dominazione inglese segnò
l'apertura a nuove idee e costituì motivo di ripensamenti dando l'avvio
a una moderna letteratura. Con Bankim Chandra Chatterji (1838-1881) nasce il
“padre del romanzo bengalese” che diffuse romanzi alla Walter Scott
e idee nazionalistiche, rifacendosi in parte al movimento innovatore iniziato
da Rammohan Roy (1774-1833), che trovò invece piena eco in Dovendra Nath
Thakur (1818-1905), il cui figlio Rabindranath Thakur, in Occidente noto come
Tagore (1861-1941), si rivelò uno dei più grandi poeti dell'India
e del mondo e il mediatore più alto tra le due civiltà. Di un'altra
letteratura, forse più remota, ci giungono documenti tardivi. Si tratta
di quella in lingua marathi, le cui prime composizioni poetiche dovute a Mukundaraja
sono della fine del sec. XII. Il primo grande poeta marathi è Jñanesvan
o Jñandev autore del Commento di Jñanesvan (1290). Altrettanto
noto è Namdev (1270-1350) cui si devono eccellenti canti religiosi, iniziatore
di una corrente di poeti religiosi, tra cui si affermò il più
grande poeta marathi: Tukaram (1607-1649). A cominciare dal sec. XVII fiorì
una letteratura di soggetto storico, che portò nell'epoca moderna al
romanzo e al dramma sociale. Ancora più tarde le testimonianze della
letteratura assamese che inizia nel sec. XV e che ha il più grosso impulso
con i riformatori religiosi visnuiti, primo fra tutti Sankaradeva (1449-1568).
Numerose le opere di traduzione e adattamento di opere sanscrite. Una vera e
propria letteratura autonoma si muove agli inizi del sec. XIX dopo le occupazioni
birmana e inglese. Verso la metà del sec. XV inizia anche la letteratura
oriya che diventa originale con Upendra Bhañja (1670-1720), autore di
42 opere abbraccianti tutti i generi. Eguale evoluzione sembra aver avuto la
letteratura puñjabi che ha il suo più antico monumento nel Libro
Sacro dei Sikh (1604) e che nello stesso sec. XVII ebbe il suo momento aureo
con autori musulmani. Si ricorda per tutti !Abdullah (1616-1666). Tuttavia la
letteratura puñjabi ha avuto il suo massimo autore ai nostri tempi con
Puran Singh (1882-1932), detto il Tagore del Punjab. Più antica è
la letteratura del Gujarat, che si suole dividere in tre periodi: antico fino
al 1450, con opere di monaci giaina e di parsi; classico, fino al sec. XIX,
soprattutto valido per la poesia devozionale; e moderno, in cui si affermano
i generi occidentali e vedono la luce gli scritti di Gandhi.
Letteratura in lingua inglese
Dall’epoca dell’indipendenza, l’inglese non appare più
tra le lingue ufficiali dell’India, ciononostante esso riveste un’importanza
fondamentale come mezzo espressivo letterario; la critica ha addirittura coniato
un’espressione ad hoc per designare la letteratura scritta in inglese
da autori indiani: si tratta del termine Indo-anglian, che ricalca e rovescia
quello di Anglo-indian, con cui gli Inglesi residenti in India durante la dominazione
inglese indicavano se stessi. L’importanza relativa della letteratura
in lingua inglese nel panorama letterario del Paese è tale, soprattutto
per quanto riguarda la narrativa e il genere del romanzo, da giustificare l’affermazione
paradossale (R. Cronin) che il romanzo indiano in lingua inglese sia “l’unico
tipo di romanzo indiano esistente”. La motivazione essenziale che spinge
autori indiani a scegliere l’inglese per le loro opere sembra risiedere
nella volontà di sintetizzare in esse la complessa realtà dell’India
nella sua globalità, laddove l’uso di una qualsiasi delle diverse
lingue del Paese conferirebbe loro un’identità regionale che inevitabilmente
prenderebbe il sopravvento su quella di “indiano”. Nessun esempio
può essere più chiarificatore di quello rappresentato dai romanzi
di Rasipuran Krishnaswamy Narayan (1906-2001) ambientati nell’immaginaria
cittadina di Malgudi, sorta di microcosmo che intende racchiudere in sé
l’intero subcontinente indiano. In essi è identificabile uno schema
narrativo ricorrente in cui sono rappresentati, in maniera simbolica e con l’umorismo
tipico di Narayan, tutti gli archetipi socio-culturali della moderna società
indiana, sullo sfondo del conflitto tra i valori tradizionali della cultura
indù e quelli contemporanei del cosmopolitismo. Da The Man-eater of Malgudi
(1961) a Malgudi Days (1982), A Tiger for Malgudi (1983) e Talkative Man (1986)
gli anti-eroi di Narayan e la comunità di Malgudi a cui essi appartengono
devono confrontarsi con la minaccia dell’espropriazione culturale, ma
anche con la necessaria evoluzione della mentalità corrente (tema centrale,
questo, di The Painter of Signs, del 1976). L’ennesimo romanzo, The World
of Nagaray, è stato dato alle stampe da un Narayan ultraottantenne e
afflitto da sordità nel 1990; a testimoniare il vigore creativo di questa
eccezionale personalità, gli ha fatto seguito, nel 1993, la raccolta
di racconti The Grandmother’s Tale. Narayan, con la sua visione del mondo,
si colloca idealmente a metà strada tra le posizioni diametralmente opposte
di due scrittori suoi contemporanei, Mulk Raj Anand (n. 1905) e Raja Rao (n.
1909), la cui opera è per sommi capi riconducibile ai canoni, rispettivamente,
del realismo sociale di impronta materialista e del romanzo metafisico. Nelle
generazioni successive, la critica dell’uso reazionario della religione
e della mitologia avviata da Anand è stata sviluppata, nel senso di una
“riforma” dell’ortodossia induista, da autori attivi a cominciare
dagli anni Sessanta, quali Kamala Markandaya (n. 1924), Manohar Malgonkar e
Bhabani Bhattacharya, nonché da altri emersi nella decade successiva,
come Arun Joshi (n. 1939) e Chaman Nahal, mentre la tradizione narrativa inaugurata
da Narayan ha trovato invece uno sviluppo e un’espansione nei romanzi
di Anita Desai (n. 1937). La Desai dà però maggior enfasi all’analisi
psicologica dei protagonisti dei suoi romanzi; si tratta, nella maggior parte
dei casi, di figure femminili, come nel libro d’esordio Cry, the Peacock
(1963) o nel successivo A Village by the Sea (1982), ma anche la realtà
maschile è stata oggetto della sensibile esplorazione di questa scrittrice
(come in In Custody, 1984), della quale nel 1995 è stato pubblicato Journey
to Ithaca. Ancora a uno scrittore di inizio secolo, G. V. Desani (1909-2000),
che nel suo All About H. Hatter – uscito in ben nove edizioni rivedute
e ampliate – ha fuso descrizione attenta della realtà e uso del
simbolismo, sono in qualche modo debitori il Salman Rushdie di Midnight’s
Children (1981) e l’Amitav Ghosh di The Circle of Reason (1986), opere
nelle quali il fantastico e il farsesco si coniugano con risultati di indubitabile
valore. L’attività di Rushdie (n. 1947) è poi proseguita
con il controverso The Satanic Verses (1988) e The Moor’s Last Sigh (1995)
mentre Ghosh (n. 1956) nel 1988 ha pubblicato The Shadow Lines e successivamente,
nel 1996, da The Calcutta Chromosome. L’assegnazione del Booker Prize
1997 alla scrittrice anglo-indiana Arundhati Roy (n. 1961) ha sancito il riconoscimento
internazionale degli scrittori indiani di lingua inglese. Esponente della seconda
generazioni di autori indo-anglian, Roy ha conquistato l’attenzione internazionale
grazie al suo stile asciutto e a tratti lirico, alle atmosfere rarefatte, all’esotismo
e al fascino dell’India che ha saputo infondere nel suo primo romanzo
The God of Small Things (1997); nel secondo The Cost of Living (1999) sceglie
invece l’impegno e la denuncia sociale verso il pericolo rappresentato
da un’incombente catastrofe ambientale. Negli anni Novanta la produzione
degli scrittori indiani di lingua inglese continua secondo due direttive, una
di genere e una di contenuto: il romanzo o il racconto breve rimangono i generi
letterari per antonomasia, mentre per quel che riguarda i contenuti, nella pur
diversificata scelta individuale, si riscontra una tendenza verso l’analisi
storico-sociale. Questa tendenza è stata inaugurata da Vikram Chandra
(n. 1961) con il romanzo Love and Longing in Bombay (1997), in cui l’autore
affronta il tema dell’interazione fra tradizione e modernità, tra
Oriente e Occidente, per sottolineare le contraddizioni e gli stati d’animo
degli abitanti delle moderne metropoli. Anche la nuova scoperta della letteratura
anglo-indiana, Pankaj Mishra (n. 1969), affronta nel suo primo romanzo The Romantics:
a Novel (2000) il difficile rapporto tra Oriente e Occidente visto come l’incontro-scontro
tra due culture, due filosofie, due mondi così diversi e distanti. Lo
stesso tema viene affrontato da una diversa angolazione dallo scrittore naturalizzato
canadese Rohinton Mistry (n. 1952) nell’opera Such a Long Journey (1991);
lo scrittore offre, con il suo tipico realismo, molto spesso definito di stampo
stendhaliano, uno spaccato che propone la complessità delle identità
linguistiche ed etniche dell’India moderna. La ricerca delle proprie radici
è un tema comune ai giovani autori indiani definiti dalla critica “i
figli di Rushdie”; molti di loro affrontano il problema di un’identità
nazionale, come nel caso di Vikram Seth (n. 1953) che, in Suitable Boy (1993),
presenta la questione da un punto di vista storico-sociale, ambientando il suo
lunghissimo romanzo negli anni immediatamente successivi all’indipendenza.
Due giovani debuttanti della fine degli anni Novanta sono Kiran Desai (n. 1971),
figlia di Anita Desai, che con il suo romanzo Strange Happenings in the Guava
Orchard (1997) fa una delicata riflessione sull’amore, la fede e le relazioni
familiari di un piccolo villaggio indiano, e A. Vakil (n. 1962) che nel romanzo
Beach Boy (1998) tratta una divertente e reale analisi della vita urbana della
moderna Bombay.
Teatro
Il teatro indiano, secondo la leggenda, avrebbe origini divine. Allo stesso
Brahma sarebbero infatti dovute le regole di un Veda dell'arte drammatica che
tocca recitazione, canto, musica, sentimenti. Per ragioni estetiche ed etiche
il teatro viene a essere privato della tragedia e resta essenzialmente lirico,
vi manca o quasi l'azione e si ricorre a linguaggi diversi secondo l'importanza
dei personaggi: dei, sovrani, asceti, ministri parlano sanscrito; regine, ancelle,
personaggi di grado e caste inferiori parlano in pracrito. I personaggi sono
fissi e i modelli di rappresentazione sono ventotto: dieci principali (rupaka)
e diciotto secondari (uparupaka). Eccelle la commedia eroica e diffuse sono
la commedia borghese e la farsa. Tra i primi autori drammatici il più
noto è Bhasa (sec. III-IV), autore fra l'altro del Povero Carudatta,
considerato fonte di un altro capolavoro: Il carrettino d'argilla di Sudraka
(sec. IV-V), primo esempio di studio dei caratteri. Un'opera di particolare
interesse e validità è stata scritta nel sec. VI-VII da Visakhadeva
e si tratta del Raksasa del sigillo, che mette in scena il re Candragupta e
il suo ministro e consigliere Canakya, identificato con Kautilya, il più
famoso maestro dell'arte di governo dell'India antica. Ma il capolavoro in senso
assoluto del teatro indiano è Sakuntala di Kalidasa (sec. IV-V), delicata
storia d'amore del re Dusyanta per Sakuntala, figlia adottiva dell'asceta Kanva.
Dopo di lui, l'autore più noto è certamente Bhavabhuti (sec. VIII)
cui si devono tre drammi ancora oggi rappresentati: Malati e Madhava, Le gesta
del grande eroe, Le ultime gesta di Rama. Sono queste le opere maggiori dell'antichità
classica, mentre tutte le letterature moderne dell'India trovano le loro massime
espressioni drammatiche a contatto con la cultura occidentale. Abbiamo le opere
a sfondo sociale dei bengalesi Dinabandru Mitra (1829-1873), su un filone ormai
generalmente seguito, e quelle altamente liriche di Tagore: La vendetta della
natura, Raja, Oleandri rossi e Citra, il suo capolavoro, tenera storia d'amore,
ispirata al ciclo mahabharatiano. L'affermarsi di una coscienza nazionale, fatto
nuovo per una nazione da sempre politicamente frazionata, ha favorito il diffondersi
di una vasta, se non sempre valida, letteratura patriottica, sostituita oggi
dalle ideologie marxiste dei giovani antitradizionalisti. Tutto ciò ha
portato a sperimentare nuove tecniche che vanno dalla prosa, alla poesia, al
teatro, e ha promosso l'ascesa e il declino di un numero incredibile di scuole
e correnti letterarie, che pur avendo vita breve e generalmente poco fortunata,
contribuiscono a rendere la scena artistica assai vivace con nomi di risonanza
mondiale.
Arte: la civiltà di Mohenjo-Daro e di Harappa
La civiltà urbana dell'India prearia di Mohenjo-Daro e di Harappa non
è strettamente limitata alla cronologia delle sue manifestazioni maggiori
(2500-1400 a. C.), né rigorosamente circoscritta ai territori dove sono
più evidenti le documentazioni archeologiche della valle dell'Indo (dal
cui fiume questa civiltà prende nome). Essa sembra affondare le radici
in culture in certo qual modo affini, fiorite nell'Afghanistan e nel Pakistan
Occidentale (IV-III millennio a. C.). Culture preistoriche dell'India ebbero
interessanti manifestazioni a Kot Diji nel Pakistan (la cui organizzazione urbana
precede quella più funzionale delle città dell'Indo), a Mundigak
nell'Afghanistan (che documenta i remoti legami indo-iranici) e altrove, con
irradiazioni sensibilmente orientate verso Occidente e con anticipazioni (Amri
nel Sind, Quetta nel Belucistan) di qualche millennio rispetto ad Harappa e
Mohenjo-Daro. Inoltre la fine di queste due città dell'Indo in un periodo
in cui era in atto un processo di decadenza non concluse totalmente l'ampiezza
di manifestazioni di questa civiltà, che sopravvisse o si prolungò
per secoli in numerose altre località (Chanu-Daro, Lothal, Rangpur),
secondo lo studio dei reperti archeologici rinvenuti a un livello superiore
rispetto allo strato riferibile alla datazione della civiltà dell'Indo.
Tale è il caso della cultura di Jhukar, sovrappostasi a una fase di attardamento
della civiltà dell'Indo (Chanu-Daro) e caratterizzata da una ceramica
di mediocre fattura e da una produzione di sigilli rotondi (per vari aspetti
messa in correlazione con l'Iran e il Caucaso). Ai portatori della cultura Jhukar
succedettero gli allevatori Jhangar. Altre tracce della civiltà dell'Indo
continuarono a persistere durante il I millennio a. C. nella documentazione
dei reperti forniti dalle sepolture a tumulo di Moghul Gundai nella valle dello
Zhob, non mancando anche qui riferimenti e riscontri cronologici con culture
iraniche e caucasiche. Riferimenti caucasici appaiono anche nelle manifestazioni
della civiltà fiorita nella piana del Gange con centri urbani organizzati
e caratterizzata da una produzione ceramica ocra, grigia dipinta (sec. VIII
a. C.) e nero-lucida (sec. V-II a. C.), oltre che da un grande sviluppo metallurgico
(rame). Importanti città del bacino Jumria-Gange furono Hastinapura (ritrovamento
di monili di vetro e statuine di terracotta) e Ahichch-hatra (ca. 500 a. C.).
Arte: l'India antica prima dei Gupta
Tuttora oscuro, dal punto di vista artistico, è il periodo compreso tra
la fine della civiltà dell'Indo e gli inizi della dinastia Maurya (fine
sec. IV-inizi II a. C.), sotto la quale nasce l'arte ufficiale e monumentale.
In ambito architettonico, le più antiche strutture pre-Maurya sembrano
essere rappresentate dalla cinta muraria in pietrame di Rajgir (Rajagrha, l'antica
capitale del Magadha, odierno Bihar) e da quanto rimane delle mura in legno
e argilla della successiva capitale, Pataliputra (odierna Patna, Bihar), la
quale sotto i Maurya ricevette un'impronta persiana, com'è evidente dalla
“sala per le udienze” (pilastrata e sostenuta da 84 colonne monolitiche
polite su basi di legno, un tempo ricoperta per mezzo di travi lignee), costruita
sul modello di un apadana. Purtroppo null'altro ci è rimasto dell'architettura,
con ogni probabilità quasi interamente lignea, affermatasi nel periodo
Maurya, e della quale si può avere idea dai posteriori rilievi dello
stupa di Bharhut (Madhya Pradesh orientale; 100 a. C.): si tratta di edifici
a due o tre piani, recintati spesso da una balaustra, con portali ad arco carenato,
logge e balconi e copertura a padiglione. All'epoca Maurya risalgono le isolate
“colonne di Indra”, simboleggianti la liberazione delle acque da
parte di Indra e, allo stesso tempo, il sovrano universale, asse e garante dell'ordine
cosmico ed etico-sociale. Altre di queste colonne-pilastri, più tarde,
forse simboleggiano il Buddha. Le iscrizioni e i numerosi stupa tradizionalmente
attribuitigli sono testimonianza dell'appoggio dato da Asoka al buddhismo, che
convisse accanto alle altre religioni, come provato dalle grotte fatte costruire
per la setta degli Ajivika a Barabar (Bihar). È a partire dai sec. II-I
a. C., nelle cosiddette epoche Sunga (nel Nord) e Satavahana (nel Sud), che
si assiste alla piena formulazione dell'arte buddhistica, anche se lo stupa
n. 2 di Sanchi presenta una decorazione con temi non necessariamente buddhistici.
È sullo stupa di Bharhut (100 a. C.), di cui rimangono parte della balaustra
e dei portali, che, per la prima volta nell'arte indiana, sono raffigurati gli
episodi della vita del Buddha storico e delle sue precedenti incarnazioni (Jataka);
i rilievi di Bharhut, fondamentali per la ricostruzione della vita quotidiana
dell'India antica, dal punto di vista stilistico mostrano i caratteri essenziali
della scultura indiana che perdureranno fino all'epoca Gupta e che vedono le
figure schiacciate fra due piani paralleli. Di poco posteriori a Sanchi n. 2
e a Bharhut sono gli stupa di Amaravati, nella decorazione più antica,
e di Pauni (Maharashtra). Il monumento buddhistico più celebre è
forse lo stupa n. 1 di Sanchi, sui cui rilievi le figure acquistano un certo
spessore pur rimanendo estranee a ogni forma di naturalismo. Al periodo che
va dalla fine del sec. II alla metà del sec. I a. C. risalgono i più
antichi caitya e vihara, del Maharashtra, importanti per la ricostruzione “in
negativo” degli edifici in scala naturale: Bhaja (vihara n. 19), Pitalkhora,
Bedsa. Alla più antica epoca Satavahana risale la più famosa delle
grotte di Nanaghat, la n. 11, dal significato non direttamente religioso, con
le immagini dei primi sovrani della dinastia. Sempre nel Maharashtra, e in ambito
buddhistico, è ormai accertato che alla metà del sec. I d. C.
risale la parte più antica della grotta di Karli, mentre al periodo compreso
fra il sec. II a. C. e il sec. I d. C. rimontano le più antiche grotte
di Ajanta. Più avanti nel tempo sono da collocarsi quelle di Nasik (sec.
II-III d. C.). Intorno alla seconda metà del sec. I a. C. sorgono le
prime immagini antropomorfe del Buddha, sino ad allora rappresentato aniconicamente,
nel Gandhara e a Mathura. A partire dal sec. I-II d. C., accanto a quelle del
Buddha, troviamo le prime immagini di Bodhisattva, in concomitanza con l'affermarsi
del Mahayana. Sono tre le scuole che in questo periodo emergono: sotto la dinastia
Kusana, quelle del Gandhara e di Mathura. La terza, fiorita sotto gli Satavahana,
è nota come Scuola di Amaravati; caratterizzata da varie fasi, ha il
suo naturale sbocco nella produzione di Nagarjunakonda, sotto gli Iksvaku, e
si protrae fino al sec. IV, oltre i limiti cronologici degli Satavahana. In
questa scuola, dal punto di vista stilistico, la linearità caratteristica
della prima fase viene sostituita da una crescente profondità e plasticità,
cui subentra il progressivo appiattimento delle figure, che si allungano sempre
più, perdendo ogni naturalezza e trasformando la composizione in un nodo
di linee concentriche. Queste caratteristiche si accentuano nell'ultima fase,
con l'ulteriore assottigliarsi delle figure, ora dagli arti inferiori estremamente
allungati e dall'aspetto quasi “ragniforme”.
Arte: l'età Gupta e post-Gupta
La scuola di Mathura ha la funzione di guida nella successiva produzione Gupta,
dove si fissano i canoni estetici e iconografici dell'arte indiana. È
ormai accertato che all'epoca bassa (seconda metà del sec. V) risalgono
le sculture più “classiche” di questa scuola. Comunemente
considerato produzione Gupta, in realtà da attribuirsi ad epoca post-Gupta,
è il gruppo più tardo delle grotte di Ajanta, alcune delle quali
famose soprattutto per le pitture di altissima qualità e la cui eco si
riscontra a Ceylon (Sri Lanka) negli “affreschi” di Sigiriya (sec.
V). Dal punto di vista architettonico, il conseguimento più importante
dell'arte Gupta è il tempio indù, che in epoca post-Gupta si andrà
definendo, grosso modo, in tre stili: nagara o “settentrionale”,
con copertura conico-convessa sormontata da un vaso (kalasa), vesara, derivato
dal caitya, con copertura a botte, dravida, o “meridionale”, con
copertura formata da una successione di terrazze dall'andamento piramidale.
Il tempio in stile “settentrionale” avrà la sua massima espressione
in epoca “medievale”, a Khajuraho (Madhya Pradesh) e nell'Orissa
(Bhubaneswar e Puri). La tradizione Gupta sembra continuare a Aihole (Karnataka),
sotto i Calukya (sec. VI-VIII), mentre i templi di Pattadakal (Karnataka), della
metà del sec. VIII, rappresentano una fase di transizione, che vede convivere
stile “settentrionale” e “meridionale”. Un esempio dello
stile vesara ci è offerto dal Bhima (uno dei ratha di Mahabalipuram).
Fra i più famosi templi indù in stile dravida sono il “Tempio
della spiaggia” di Mahabalipuram, il contemporaneo Kailasanatha di Kanchipuram
(Tamil Nadu) e lo splendido Rajarajesvara di Tanjore (Tamil Nadu), degli inizi
del sec. XI. Volendo tracciare un'evoluzione, se sotto i Cola eccelle il vamana
(sacrario) è sotto i Pandya che si sviluppano i gopura (portali-torri),
che, nella produzione di Madurai, in accordo con il fenomeno del gigantismo,
assumono dimensioni immense, maggiori del tempio stesso. L'interesse di Vijayanagar
è rivolto al mandapa (ambiente antistante il santuario), ricco di figure
finemente scolpite. Sempre nel Sud, sotto gli Hoysala (sec. XI-XIV) vengono
costruiti i templi a pianta stellare (Belur, Halebid, Somnathpur), dove la decorazione
scultorea, estremamente raffinata, copre interamente le pareti esterne, non
lasciando più alcuno spazio libero. Architettura e scultura rupestre
raggiungono i massimi livelli in epoca post-Gupta nella grotta sivaita di Elephanta
(Maharashtra; metà sec. VI) e, fra il 700 e l'800, nelle grotte indù,
buddhistiche e giaina di Ellora (Maharashtra) – famosa per il gigantesco
Kailasanatha, monolito in stile “meridionale” – che segnano
la fine di questo particolare tipo di architettura. Nel Sud, al di fuori di
quella templare, la produzione scultorea è rappresentata soprattutto
da rilievi rupestri (Mahabalipuram) e da una ricchissima produzione in bronzo
che raggiunge i massimi livelli artistici sotto i Cola. Fra i centri più
importanti del Nord-Est post-Gupta sono Nalanda, Besnagar e Paharpur (sec. VII).
Le sculture del complesso di Nalanda (noto per l'università buddhistica)
segnano la fase di transizione fra arte Gupta e Pala, rivelando, allo stesso
tempo, la presenza di elementi del Nord-Ovest, particolarmente evidenti nella
produzione in stucco. L'arte Pala-Sena (sec. VII-XIII), fiorita nell'India nordorientale,
è destinata ad avere una grande diffusione in Nepal, nel Tibet, e nel
Sud-Est asiatico. Caratterizzata da una produzione scultorea in pietra e in
bronzo, buddhistica e indù, si distacca dalla tradizione Gupta della
quale è erede e che vede le figure, non più compresse fra due
piani, ora rese con un certo manierismo meccanico e privo di vita, quasi virtuosistico,
spesso accompagnato da una notevole pesantezza dovuta all'abbondanza dei particolari.
Nel Nord, sono infine da menzionare le scuole del Kashmir; nella produzione
scultorea dei monumenti più antichi si ricorda quella fittile, che una
volta ornava la corte del complesso buddhistico di Harwan (fine sec. V), oggi
sommerso da una frana. Le sculture di impronta gandharica di Akhnur e Uskur
(sec. V-VI), originariamente in crudo, sono testimonianza dei legami esistenti
con il Nord-Ovest, come anche le numerose immagini buddhistiche in bronzo, del
sec. VIII e IX, spesso confuse con quelle dello Swat (Pakistan). L'influsso
gandharico è evidente anche nell'architettura, che vede i templi (a pianta
quadrata o quadrangolare con copertura piramidale) con le porte sormontate da
un frontone triangolare che iscrive un arco trilobato. Fra i più famosi
templi sono quello del Sole di Martand (sec. VIII), quelli di Siva Avantisvara
e di Visnu Avantisvami di Avantipur (sec. XI) e il Puranadhisthana di Pandrethan.
Da ricordare infine gli avori, fra cui lo stupendo Buddha del Prince of Wales
Museum (Bombay) del sec. V. In stretto rapporto con quella del Kashmir è
la cultura Hindu-Sahi (sec. IX), fiorita in Afghanistan, caratterizzata da una
produzione in marmo di soggetto prevalentemente sivaita.
Arte: l'epoca musulmana e moghul
L'arte del periodo musulmano (sec. XII-XV) e di quello successivo Moghul (sec.
XVI-XVIII), caratterizzata dalle costanti tendenze persiane e turche, diede
luogo a interessanti incontri con le tradizioni artistiche indù, le quali
riuscirono a manifestarsi con nuove possibilità espressive, giungendo
spesso ad amalgamarsi in perfetta sintesi con l'estetica islamica (stile indomusulmano).
Le manifestazioni più significative dell'arte indomusulmana si hanno
non solo a Delhi, che fu capitale del Sultanato dal sec. XII al sec. XV, ma
anche nei cosiddetti Stati Provinciali, che, approfittando dell'indebolimento
del potere centrale, riuscirono a creare un'indipendenza non solo politica ma
anche artistica, finché l'impero moghul non riassorbì tutto sotto
la sua supremazia, imponendo al subcontinente un'unità politica e artistica.
Nella regione del Bengala, così lontana geograficamente da Delhi, lo
stile architettonico che si venne sviluppando è dovuto all'utilizzazione
del mattone, unico materiale reperibile in un terreno alluvionale come quello
bengalese, che diede alle costruzioni un aspetto compatto e pesante appropriato
alla situazione climatica del Paese. La pietra, importata da lontano, veniva
usata con parsimonia sia per scopi strutturali sia per motivi decorativi, affiancata,
a volte, da mattonelle smaltate di stile indù. Nelle due capitali bengalesi
Gaur e Pandua gli edifici meglio conservati sono le moschee, le quali generalmente
sono prive di cortile, fatta eccezione per la Adina Masgid di Pandua (1374-75),
e presentano la sala per la preghiera oblunga, aperta da tante porte e coperta
da una serie di cupole, fra cui spicca al centro della facciata il chauchala,
un tetto ricurvo a due o quattro spioventi di tradizione indigena. Di questo
tipo sono la Chota Sona Masgid (Piccola Moschea dorata) e la Bara Sona Masgid
(Grande Moschea dorata) entrambe a Gaur. Il piccolo regno di Jaunpur, sotto
la dinastia Sharqi (fine sec. XIV-sec. XV) divenne uno dei centri più
raffinati di cultura e di arte dell'India. Qui lo stile architettonico, esemplato
nelle moschee rimasteci, Àtala Masgid, Gami Masgid, risente dell'influenza
del Sultanato di Delhi. Questo è evidente sia nella pianta delle moschee
che seguono modelli tradizionali sia nell'inclinazione delle mura delle torri
che incorniciano l'ingresso alla sala della preghiera, enfatizzato quest'ultimo
dalla presenza di un grande iwan di stile persiano. La regione del Gujarat (nei
sec. XIV-metà sec. XVI) mantenne intatta la tradizione indiana, sia per
la raffinata tecnica di lavorazione della pietra sia per i modelli architettonici
seguiti, di stile giaina e indù. Nel Malwa, punto di incontro tra le
regioni del Nord, il Gujarat e il Deccan, lo stile architettonico risentì
di questa pluralità di influssi. Nella capitale Mandu, il paesaggio naturale
ricco di acqua e di vegetazione si integra perfettamente con le architetture
religiose e civili creando piacevoli effetti scenografici. Realizzati in una
bella arenaria locale, gli edifici sono spesso abbelliti da mattonelle smaltate,
da ornati di marmo, da pietre di vari colori. Oltre alla Grande Moschea di Mandu
ricordiamo il Jahaz Mahal (Palazzo Nave) formato da una serie di padiglioni
che spiccano su una terrazza di una costruzione stretta e lunga, e l'Ashraph
Mahal (Palazzo delle Monete d'oro). Negli Stati meridionali del Deccan (metà
del sec. XIV-fine sec. XVIII), nel lungo periodo di autonomia si sviluppò
uno stile che risente da una parte dell'influenza di Delhi, dall'altra della
Persia timuride, dovuta alla presenza della classe politica che era di origine
persiana. A parte l'insolita Gami Masgid di Gulbarga, priva di corte e di minareto,
a Bidar la madrasa di Mahmud Gawan, sia per l'impianto architettonico (i quattro
iwan e i minareti cilindrici a più piani) sia per il rivestimento a mattonelle
smaltate, è un perfetto esempio di architettura timuride. A Bijapur gli
influssi più evidenti sono di origine ottomana e si evidenziano nella
forma bulbosa delle cupole, nelle torrette cupolate, nella profusione di ornati.
Di questo tipo sono il Mithar Mahal, l'Ibrahim Rauza, il Gol Gumbaz. Il Kashmir
diede vita a un tipo di architettura del tutto originale che rimase vincolato
a metodi costruttivi indù e buddhistici, all'uso del bel legno locale
(il cedro deodar) alternato a corsi di mattoni, e all'influenza dell'edilizia
persiano-centroasiatica espressa soprattutto nella planimetria a quattro iwan.
Interessante a partire dal sec. XII fu la rigogliosa fioritura delle scuole
di pittura, come quella del Bengala (sec. XII-XIX), così importante per
le conseguenze nell'arte nepalese e tibetana, e quella Rajput (sec. XIV-XIX),
nella suddivisione dei due filoni pahari e rajasthani, le cui radici affondavano
nell'antica tradizione giainica della scuola del Gujarat, sviluppatasi sotto
la protezione dei Calukya nel sec. XII e durata fino al sec. XVII.
Arte: l'influenza europea
Alla secolare dominazione dell'arte musulmana seguì in India l'influenza
dell'arte europea, che si era già insinuata nei sec. XVI-XVII attraverso
la presenza di opere occidentali alla corte moghul. Tale influenza divenne più
pressante attraverso il contatto diretto con gli Europei, che diffusero nell'India
forme dell'architettura barocca portoghese e di quella neogotica inglese, nonché
il gusto decorativo degli stili francesi. A loro volta gli Europei furono interessati
e suggestionati dall'arte indigena, la cui produzione tuttavia era scaduta a
carattere artigianale. Verso la fine dell'Ottocento, attraverso iniziative varie,
l'India prese coscienza del pericoloso impoverimento della cultura nazionale
e iniziò l'opera di tutela e di rivalutazione delle proprie tradizioni.
Arte: l'epoca contemporanea
Nel sec. XX, negli anni Trenta-Quaranta l'arte indiana ha assistito a un movimento
di ritorno alle origini onde individuare una fertile fonte di ispirazione nel
proprio patrimonio culturale (si ricordino le creazioni di Amrita Sher Gil,
di Jamini Roy, di Sailoz Mukherji); tuttavia in seguito la preoccupazione maggiore
è stata quella di integrare creativamente le influenze provenienti dall'Occidente
mediante un processo di assimilazione che, mantenendosi aperto agli stimoli
esterni, non facesse torto alla mentalità indiana. Nacquero così
vari movimenti, come il Delhi Silpi Cakra (Circolo artistico di Delhi), che
si proponeva di opporsi all'impreparazione critica di altre società ed
ebbe fra i suoi massimi rappresentanti K. S. Kulkarni; o come la Scuola di Bombay,
dalla quale si staccò il Gruppo dei Progressisti, le cui figure principali
furono Rancis Newton Souza e M. F. Husain. Se i primi artisti, ispirandosi vagamente
a pittori occidentali, quali Gauguin e Modigliani (Amrita Sher Gil), incentravano
le loro ricerche sul patrimonio culturale indigeno, in particolare bengalese
(Jamini Roy), gli altri si proponevano di creare un linguaggio figurativo prettamente
indiano, pur non rinnegando le dominanti correnti internazionali. Una tendenza
che negli anni Settanta ha attratto l'attenzione internazionale e che, nell'ambito
del panorama nazionale, si è posta quale punto di riferimento per i valori
autenticamente indiani di cui si fa veicolo, è quella che trae ispirazione
dalle radici mistico-simboliche del ricco patrimonio religioso del Paese. Forti
di un'identità nazionale e del legame con la propria tradizione, corroborata
da una solida impalcatura filosofica, gli artisti hanno prodotto un neoastrattismo
che per significatività, qualità formale e sensualità del
colore è stato di fascino immediato. Negli anni Ottanta, è stata
avvertita l'esigenza di rivedere criticamente l'adozione di valori creativi
internazionali per verificare se effettivamente soddisfacessero al genio nativo
e se fossero di stimolo per l'inventiva autoctona. Contemporaneamente si è
sviluppata una corrente figurativista che si è sforzata di fungere da
cerniera tra le correnti ideologicamente più avanzate e il retroterra
sociale, che rischiava di rimanere emarginata dal processo evolutivo. L'approccio
culturale di tale corrente si è esplicato anche con periodiche mostre
collettive che hanno continuato la tradizione iniziata negli anni Sessanta e
Settanta. Con tali intenti, si è fatto notare l'eterogeneo gruppo “Saar”,
costituitosi a Nuova Delhi. Successivamente si è affermata una corrente
che ha fuso l'aspetto fantastico del movimento neoastrattista con le forme più
convenzionali del figurativismo; ne è nata una pittura dai toni più
intimistici che si è posta come sviluppo espressivo di un orientamento
surrealistico con forme allusive che, per sensibilità e adattabilità,
non sono nuove all'arte indiana. Per quanto riguarda l'architettura, sensibile
all'esperienza europea, l'India ha raccolto le stimolanti esperienze e realizzazioni
dei maggiori architetti occidentali chiamati a operare nel Paese (Le Corbusier,
piano di Chandigarh; E. Lutyens e H. Baker, Nuova Delhi). L'influenza della
cultura occidentale si è affermata anche con il diffondersi dell'International
Style. Solo negli anni Ottanta si è formata una classe di architetti
indiani promotori di un'architettura moderna attenta alle condizioni climatiche
e al linguaggio tradizionale; si ricordano B. Doshi (villaggio per la Gujarat
State Fertilizers) e Charles Correa (pianificazione di Bombay).
Musica
La musica indiana ha origini antichissime, essendo sempre stata considerata
una componente essenziale del rituale mistico-religioso. Testimonianze indirette
possono essere individuate nei primi libri vedici; nel Natyasastra, vero e proprio
manuale di drammaturgia risalente, forse, al sec. II d. C. e attribuito a un
mitico Bharata, sei capitoli dedicati alla musica offrono un primo documento
diretto. La fonte principale della teoria musicale indiana resta tuttavia il
Samgitaratnakara (sec. XIII; Oceano della musica), ricchissimo di implicazioni
cosmogoniche e metafisiche, al quale ci si riferisce per intendere quasi tutti
i linguaggi musicali indiani, rimasti sostanzialmente immutati anche se diversificati
secondo la regione e il ceto sociale di diffusione. In pratica, soltanto verso
il sec. XIV iniziò una distinzione significativa fra la tradizione musicale
dell'India settentrionale, condizionata dall'Islam e dalla musica persiana,
e quella dell'India meridionale, fedele alla tradizione antica. La teoria armonica
indiana è assai complessa e denota singolari similitudini con quella
dell'antica Grecia. Nella teoria classica indiana, l'ottava risulta suddivisa
in 22 sruti, approssimativamente uguali fra loro. Sovrapponendo gli sruti secondo
precise norme, si ricavano tre scale fondamentali eptafoniche e da queste, con
opportune alterazioni e trasposizioni, 56 modi derivati, a loro volta trasformabili
per ottenere scale pentatoniche ed esatoniche. I modi (jati) di uso comune furono
però solo sette; in epoche successive tuttavia fu conferito a ogni modo
(detto ora raga) un significato simbolico particolare, fu stabilita una rigida
gerarchia fra le note e il sistema acquisì possibilità di variazioni
e combinazioni praticamente infinite. Le esecuzioni non seguono tuttavia schemi
formali rigidi e sono di solito liberamente improvvisate su temi noti. Il ritmo
si sviluppa secondo modelli molto elaborati, in larga misura improvvisati. Gli
strumenti utilizzati sono assai differenziati: idiofoni vari, tamburi (il tabla
e il pakhawaj), fiati (il sanai e lo srnga), a corda (la vina e numerosi derivati
tra cui il kinnari, il sarod e il sitar).
Danza
Di origine divina secondo i suoi cultori, la danza indiana è legata agli
antichissimi riti e alle cerimonie religiose: l'evoluzione dell'universo viene
espressa in India sotto forma di danza eterna eseguita da Siva (detto Nataraja,
cioè maestro e signore dei danzatori e degli attori), “che crea
l'orbe carolando”. Allo stesso Brahma si attribuisce la creazione del
Natyaveda che codifica per la danza e la musica due tipi (Margi per gli dei,
Desi per i mortali) e due generi (l'aggraziato e femminile Lasya e il forte
e virile Tandava). Nella teogonia vedica la danza è quindi parte del
pensiero divino e tale appare nell'antico trattato indiano sulla danza e l'arte
drammatica, il Natyasastra (forse sec. II d. C.), la cui tradizione è
ancor oggi viva in alcune aree (Ceylon, Bali) e in cui sono descritte le 108
Karana, le unità-base della danza classica (illustrate dai bassorilievi
dei portali del tempio di Siva a Chidambaram). Tre sono le forme o stili fondamentali
della danza indiana e discendono da una radice nrt che esprime il danzare (donde
il teatro, l'attore, il danzatore): natya, la danza usata nel dramma, una specie
di pantomima; nrtta, la pura danza in musica; nrtya, la danza mimica nella sua
forma più eletta. Quest'ultima è espressione di un sentimento
(bhava) attraverso gesti e mimica (ankur) e linguaggio delle mani (mudra) e,
quindi, estrinsecazione estetica (rasa) dello stato d'animo. L'interpretazione
di bhava e rasa è chiamata abhinaya e si realizza con la fusione di quattro
differenti modi d'espressione: angika, riguardante i movimenti del corpo (espressione
figurativa); aharya, concernente scene, costumi, trucco, illuminazione (interpretazione
coreografica); vacika, espressione verbale, e sattvika o rappresentazione delle
otto condizioni psichiche originarie (calma o equilibrio, fissità, orrore,
vergogna, dolore, orgoglio, stanchezza, gioia sfrenata). Tra le danze classiche
indiane si possono distinguere, operando secondo criteri di provenienza geografica,
quattro stili e tipi: il bharata natyam della costa sudorientale, antica e solenne
danza cultuale delle devadasi (ancelle di dio), forma religiosa e rituale della
vita contemplativa nella quale il linguaggio delle mani è rigidamente
codificato; il kathakali , proveniente dalla costa sudoccidentale (Malabar),
e come il bharata natyam, danza nazionale, fusione di dramma, pantomima e danza,
con impiego della mimica facciale e accentuazione drammatica del linguaggio
delle mani, eseguita all'aperto durante una notte e con tema la storia della
vita, con intervento di dei e di demoni; il manipuri, che prende nome dallo
Stato nordoccidentale del Manipur di cui è originario, danza anch'essa
eseguita all'aperto e nottetempo e che racconta l'amore divino di Krsna e Radha
con uno stile caratterizzato dall'estrema delicatezza dei movimenti di tutto
il corpo, frutto di una tecnica assai difficile e complessa e il più
pittoresco – anche per la ricchezza dei costumi – fra gli stili
classici indiani; infine, il kathak, sensuale e dinamica danza di corte dell'India
settentrionale. La danza classica indiana, dopo una parentesi di oscuramento
(sec. XVIII e XIX) coincisa con la decadenza dello sivaismo, ha ripreso il suo
significato e la sua potenza, sostenuta da interpreti divenuti nuovamente numerosi
dopo l'operazione di recupero culturale condotta in India nel sec. XX e ampiamente
divulgata anche all'estero al punto di influire sulla danza occidentale contemporanea,
dal danzatore e coreografo Uday Shankar, dalla danzatrice Yamini Krishnamurti
e, nella scuola di Santiniketan, dal poeta Tagore.
Spettacolo
Caratteristico di tutto il teatro indiano, conservato attraverso i secoli nonostante
le enormi differenze etniche, linguistiche e culturali tra i vari popoli della
penisola, è il legame inscindibile tra declamazione poetica, musica,
canto e danza. All'origine di ogni manifestazione fu il tempio, centro focale
non solo della vita religiosa ma di ogni forma di esistenza associativa. In
esso, fin da epoche remote, si costituirono gruppi di donne, le devadasi (ancelle
di dio), che, dopo un lungo e severo addestramento iniziato in età infantile,
si dedicavano alle danze rituali, del cui significato, simboli e tecnica si
tratta nel Natyasastra. Il teatro della grande epoca (quello della drammaturgia
sanscrita che ebbe origini lontanissime e arrivò sino all'anno 1000 ca.
della nostra era) fu il quinto Veda, un'arte sacra nella quale confluirono tutte
le arti, un'esperienza estetica ed emotiva fondamentale, una disciplina severa
con norme rigorosissime. Non esistevano teatri permanenti (per le rappresentazioni,
solitamente concomitanti con le solennità religiose, si adattavano templi
o saloni di palazzi) e non esistevano scenografie, tutto essendo affidato ai
gesti convenzionali degli attori e alla simbologia dei costumi. Gli attori,
organizzati o aggregati a compagnie professionali itineranti, erano pagati male
e infima era la loro posizione sociale. Abituale fu sin dall'inizio l'impiego
di attrici. La tradizione classica sopravvive in parte nelle numerose forme
di spettacolo popolare esistenti in ogni regione: i repertori sono spesso traduzioni
e adattamenti dei più noti drammi in sanscrito, ma grande importanza
hanno in genere le componenti più esplicitamente spettacolari e assai
più diretto è il rapporto con la vita, le usanze e le cerimonie
rituali della gente. La recitazione è fortemente stilizzata e costantemente
accompagnata da canti e danze; esistono personaggi-maschere come il sutradhara,
o narratore, e il vidusaka, o pagliaccio; si dà largo spazio all'improvvisazione.
Parallela alla storia dello spettacolo popolare è quella della danza
drammatica, che ha raggiunto in India livelli estetici straordinari; dramma
popolare e danza drammatica sono ancora i generi di spettacolo più diffusi
e restano fedeli alle antiche tradizioni, alterate soltanto nei teatri commerciali
con una preminenza di effetti visivi e sonori. Arduo è stato ed è
tuttora lo sviluppo del dramma moderno nell'accezione occidentale del termine
e rari i casi in cui esso si è armonicamente fuso con le forme nazionali.
Gli Inglesi cominciarono a presentare spettacoli secondo il proprio gusto sin
dalla fine del sec. XVIII, ma soltanto nella seconda metà dell'Ottocento
si costituì un repertorio indigeno. Esso non ha però avuto grandi
sviluppi, essendo sempre stato affidato a gruppi amatoriali e rimasto quindi
ai margini della vita culturale e sociale del Paese. Molti di questi gruppi
hanno inscenato le opere dei maggiori drammaturghi europei e hanno cercato di
adattarle alle tradizioni locali; altri hanno riesumato i capolavori del dramma
sanscrito traducendoli nelle lingue odierne; altri ancora hanno recuperato in
chiave moderna le lezioni dello spettacolo popolare e della danza drammatica;
altri infine hanno condotto esperienze importanti di teatro politico. Si delinea
insomma una situazione in movimento, sebbene difficilmente potrà aversi
un teatro del tutto significante per l'uomo contemporaneo prima che siano state
appianate e superate le gravi contraddizioni che rallentano o paralizzano lo
sviluppo del Paese. Un cenno a parte merita il teatro delle ombre (chayanataka),
che taluni vogliono originario proprio dell'India e che qui comunque si sviluppò
fin da tempi remoti (il Mahabharata ne fa cenno più volte) come spettacolo
di carattere profano e squisitamente popolare, ma di cui si hanno anche numerosi
esempi di valore letterario.
Cinema
Sedici anni dopo l'introduzione a Bombay del Cinématographe dei Lumière
(1896) il pioniere D. G. Phalke realizzò il primo lungometraggio indiano,
Raya Harischandra (1913), ottenendo un successo che favorì la produzione
di pellicole storiche e mitologiche e anche di commedie durante l'intero periodo
muto per un totale di ca. 1500 film. Padre del sonoro e del colore fu invece
Ardeshir M. Irani, rispettivamente con Alam Ara (1931), parlato e cantato in
hindi, e con Kisan Kanya (1937). All'avvento del sonoro il primato culturale
e artistico passò a Calcutta e al cinema drammatico in lingua bengali
della “New Theatres” di P. C. Barua e D. K. Bose, legato alla tradizione
degli antichi vati nazionali e all'insegnamento di Tagore; mentre nasceva al
Sud la produzione tamil (a Madras dal 1934) e telegu, particolarmente versata
nei film musicali con gran copia di canzoni. Tale consuetudine, del resto, dominò
sempre anche il cinema di Bombay, in prevalenza commerciale e basato su commedie
e leggende, tra i cui registi si affermò V. Shantaram, presente negli
anni Trenta e Quaranta alla Mostra di Venezia e attivo anche a Poona per la
“Prabhat” più incline al film sociale. Quindici produzioni
nazionali, 14 lingue-madri, 300-350 film all'anno di alta durata media (428
lungometraggi nel 1972) costituirono lo standard quantitativo del cinema indiano,
che a partire dagli anni Cinquanta fu secondo solo a quello giapponese. Ma nel
1952 un festival internazionale a Nuova Delhi rivelò che le altre cinematografie
erano andate ben più avanti nella qualità e che dai melodrammi
teatrali, operistici e letterari fino a quel tempo imperanti era assente la
vita del Paese e del popolo. Soprattutto il neorealismo italiano ebbe un effetto
di choc. E fu allora, sulla traccia già indicata da K. A. Abbas con I
figli della terra (1943-44) sulla carestia nel Bengala, che nacquero film assai
apprezzati ai festival europei, come Due ettari di terra (1953) di Bimal Roy,
Sciuscià (1954) di P. Arora, Munna (1954) di Abbas, Il signor 420 (1955)
e All'erta o Sotto il manto della notte (primo premio a Karlovy Vary, 1957)
di Raj R. Kapoor, Due occhi e dodici mani (1957) di Shantaram; mentre sorgeva
il cinema pakistano con Quando nascerà il mondo (1959) di A. Kardar e
il grande Satyajit Ray portava a termine la trilogia bengalese (Pather Panchali,
1955; Aparajito o L'invitto, premiato con il Leone d'oro alla Mostra di Venezia
del 1957, e Il mondo di Apu, 1959), che doveva renderlo celebre, ma solitario
in seno a una cinematografia rimasta nella sua enorme maggioranza estranea e
impermeabile alla sua lezione. Al realismo sociale di Abbas (La città
e il sogno, 1964), all'umanesimo dialettico e “tagoriano” di Ray
(La dea, 1960; La metropoli, 1963; Charulata o La donna sola, 1964), continuò
a opporsi l'industria dello spettacolo commerciale. Duro apparve quindi il cammino
per un nuovo cinema, di cui nel 1968 stese il manifesto Mrinal Sen, il cineasta
più anticonformista e ardente di quell'ultima leva, il quale polemizzava
su aspetti concreti di esistenza individuale e su problemi collettivi reali,
lasciando in sottordine il lirismo che invece affascinava ancora troppi registi
indiani. Il fulcro di un cinema drammaticamente consapevole rimase, come in
passato, a Calcutta, dove la produzione era assai più povera che a Bombay.
Il successo alla Mostra di Venezia del 1969 del film di Sen a basso costo Il
signor Shome (un film senza attori né colori né canzoni) servì
al rilancio in patria di questo cinema “post-Ray”, nel quale esordirono
molti giovani e al quale talvolta si convertirono registi e attori prima dediti
al prodotto commerciale. Superati nel 1973 i 450 film annui, nel 1976 i 500,
nel 1980 i 750 e nel triennio 1982-85 i 2400, il cinema indiano agli inizi degli
anni Novanta si è trovato a detenere, per quantità di pellicole
prodotte, il primato mondiale. Non ancora minacciato dalla concorrenza televisiva,
rimane l'unico nutrimento per le masse povere nella sua confezione di melodramma
cantato e danzato, colorato e mitologico, con divi assai popolari e nessun riferimento
alla realtà concreta. Tale è il tipico film hindi commerciale,
prodotto a Bombay e distribuito in ben 88 Paesi d'Asia e d'Africa: la sua produzione
è tuttavia diminuita negli ultimi tempi a favore dei film regionali del
Sud e dell'altra capitale del cinema che è Madras. All'enorme numero
di pellicole corrisponde però un numero esiguo di sale: ca. 13.000, di
cui un terzo ambulanti, e per di più concentrate nelle città,
anche se l'incremento negli anni Ottanta è stato notevole, con oltre
500 sale in più all'anno. La grande novità è rappresentata
dallo sviluppo crescente della produzione nelle diverse lingue regionali (oltre
all'hindi e al tamil, si producono film in telugu, marathi, bengali, malayalam,
kannada, ecc.); Bangalore, capitale del Karnataka, è divenuta con i suoi
film in kannada il “paradiso dei cineasti”, merito del regista-attore
Girish Karnad. A partire dagli anni Ottanta il cinema indiano ha cominciato
a essere oggetto di importanti retrospettive, anche in Italia; i registi più
noti continuano però a essere i due maestri bengalesi, Mrinal Sen e Satyajit
Ray. Tra gli altri principali registi si ricordano: Ritwik Gathak, iniziatore
del cinema moderno indiano, scoperto in Occidente solo negli anni Ottanta dopo
la morte (grazie anche a una retrospettiva realizzata alla Mostra Internazionale
del Nuovo Cinema a Pesaro nel 1985): regista bengalese, ha avuto una straordinaria
importanza anche come insegnante al Film Institute di Poona, scuola in cui si
sono formati alcuni tra i migliori registi degli anni Sessanta e Settanta (Mani
Kaul, Kumar Shahani, Adoor Gopalakrishnan); Shyam Benegal, autore hindi di melodrammi
imperniati sulle relazioni feudali di casta; Mani Kaul, con un capolavoro narrativo
come Il pane quotidiano (1969) e numerosi altri film; M. S. Satyu, autore di
Venti caldi; Radmas Phutane, che con L'onnisciente ha denunciato le uccisioni
rituali di bambini; Adoor Gopalakrishnan, importante regista proveniente dal
Kerala, e il suo conterraneo G. Aravindan. Dal Karnataka provengono il citato
Girish Karnad, già famoso in patria come commediografo e regista di Kaadu
(1973), prima di raggiungere maggior celebrità come attore in film commerciali
e in televisione; e Karasavalli (Il rituale e La conquista). Più aperta
al mercato occidentale, infine, è Mira Nair, che ha visto distribuiti
anche in Italia (caso raro) i suoi pregevoli Salaam Bombay (1988), Mississippi
Masala (1990) e Monsoon Wedding, vincitore del Leone d'oro a Venezia nel 2001.
Fra i film di un certo rilievo segnaliamo: Kasba (1990) e Bhavantarana (1991),
di K. Shahani; Ishanou (1990), di A. S. Sharma; Idiot (1991), di M. Kaul; Roja
(1992), di M. Ratman e Mayar Memsaab (1992), di K. Mehta.
Folclore
Data l'estensione del Paese e il numero e la varietà degli abitanti,
il folclore indiano assume aspetti assai diversi, difficili da riunire in un
unicum. Tentando tuttavia di giungere a una sintesi, gli usi e i costumi si
possono raggruppare in collettivi e domestici. Ai primi appartengono le feste
la musica, la danza, l'artigianato, ecc.; ai secondi il vestiario, la cucina,
le pratiche religiose e igieniche, i matrimoni, i funerali. Le feste, legate
alle vicende agricole o a celebrazioni epico-religiose e spesso accompagnate
da danze e scambi di doni e auguri, sono numerosissime e tutte molto sentite
dalla popolazione. Tra le principali quella di Dussehra (ottobre) incentrata,
specialmente nel Nord e nel Maisur, sui fatti del Ramayana (Ram Lila), messi
in scena con grande sfoggio di truccature e costumi, in particolare per quanto
riguarda il clou della rappresentazione, cioè il duello finale tra Rama
e Ravana. La festa, che dura dieci giorni, raggiunge il massimo della spettacolarità
a Delhi e nel Maisur, il cui maharaja presenzia alla conclusione delle rappresentazioni
troneggiante su un ornatissimo elefante. Molto importanti anche la Divali (ottobre),
caratteristica per l'illuminazione di ogni edificio con piccole lampade a olio;
la Holi (marzo), con cui la gente dà il benvenuto alla bella stagione,
gettandosi polvere e acqua colorata durante il passeggio per le strade; il Muharram
(aprile) a ricordo del martirio dell'imam Hussain, che prevede imponenti processioni
di accompagnamento del taziya (facsimile di carta e bambù della tomba
dell'imam) e, nel Sud, di danze, sempre nell'ambito delle processioni, di uomini
camuffati da tigri; il Raksha-Bandhan (agosto), celebrazione dell'amor fraterno
e della protezione che i fratelli devono alle sorelle. La musica è molto
amata e coltivata a livello popolare, accompagnata o meno dal canto, sempre
accentuatamente modulato, e come strumenti predilige tamburelli e flauti. Anche
la danza, che vanta grandi scuole classiche, ha vivaci tradizioni popolari,
tra cui primeggia quella del Manipur o manipuri. Sono comunque tutte caratterizzate,
oltre che dalla ricchezza di trucchi e costumi, dall'esaltazione della pantomima:
il danzatore è sempre il narratore di una storia e perciò, dovendo
ogni suo movimento significare qualcosa di preciso, ogni gesto segue le leggi
di un'accurata codificazione. L'artigianato comprende una vastissima gamma di
prodotti: stoffe, vasellame d'ottone cesellato, oreficeria, lavori in avorio,
intarsi di marmo, ecc., spesso ottenuti con procedimenti antichissimi. Questi
oggetti sono spesso venduti in caratteristiche bottegucce ai lati delle strade,
specie di armadi con un ripiano sollevato da terra su cui sta accovacciato il
proprietario. Per le strade la gente si muove in bicicletta e a piedi, si possono
incontrare vacche, capre, corvi, incantatori di serpenti (ai quali è
stato tolto il veleno), venditori di braccialetti e di collane di fiori freschi,
mendichi. Questi ultimi – sannyasin, pancangam, sanati, jangam, dasari,
ecc. – danno molto spesso una giustificazione religiosa alla loro “professione”
e perciò hanno diritto a ricevere rispettosa ospitalità nelle
case della gente fedele. A parte questa tradizione di ospitalità, che
si rivolge a chiunque bussi alla porta, gli Indiani concepiscono la casa come
un sacrario che va custodito gelosamente. Molte sono le regole da osservare
per scegliere l'ubicazione della propria abitazione, per edificarla, per inaugurarla,
per disporne le stanze; e, naturalmente, prima di qualsiasi operazione, è
necessario consultare l'astrologo, il cui oroscopo è d'obbligo per tutti
gli avvenimenti di una certa importanza. La donna è generalmente votata
al pativratam (servizio del marito) e come tale impegnata in tutte le faccende
domestiche e nella cucina. Gli Indiani sono per lo più vegetariani, anche
se le eccezioni sono numerosissime in tutti i ceti (si mangiano montone, pollo,
pesce, ecc., ma mai carne bovina); molte le qualità di dolci, usatissime
le spezie, pressoché abolite le bevande alcoliche. Il riso sta alla base
dell'alimentazione nel Sud e in parte dell'Est del Paese, mentre altrove si
consumano vari tipi di pane sotto forma di focacce. Diffusa è l'usanza
di masticare, dopo il pasto o durante tutta la giornata, foglie di betel, contenenti
un impasto di calce e spezie varie, che rende rossa come il sangue la saliva.
Il cibo viene consumato stando seduti per terra, ogni commensale ha davanti
una foglia o un intreccio di foglie che utilizza come un vero e proprio piatto,
non impiegando posate ma la punta delle dita della mano destra, con la quale
forma palline di cibo che poi si getta in bocca, onde evitare il contatto con
la saliva, considerata impura. Anche il bicchiere, per lo stesso motivo, non
deve toccare le labbra. L'igiene è molto importante per l'indiano, che
in un giorno compie infatti molte abluzioni rituali e prende due bagni. Non
può invece radersi e tagliarsi le unghie personalmente e in casa. Di
qui l'importanza del barbiere, figura tipica del mondo indiano, che provvede
a fornire questi servizi per la strada. L'abbigliamento indiano resta il medesimo
da secoli, seppure con leggere varianti: gli uomini si drappeggiano attorno
ai fianchi la dhoti, lunga striscia di cotone, oppure indossano l'achkan, giacca
piuttosto lunga tagliata a redingote; le donne portano il sari, pezzo di tessuto
lungo ca. 6 metri, drappeggiato sopra un corpetto corto e aderentissimo e fermato
dalla cintura di un'ampia sottogonna, oppure la salvarkamiz, pantaloni aderenti
alla caviglia e tunica svasata al ginocchio, completata dal dupatta, specie
di stola con le cocche ricadenti sulla schiena. Tra i copricapi, caratteristico
è il turbante, di varia foggia e colore secondo la regione (è
molto diffuso nel Rajasthan) o la setta religiosa (è d'obbligo in testa
ai Sikh, che non si tagliano mai i capelli). Immancabili i gioielli. Di varia
forma e materiale – ovviamente ogni metallo e ogni pietra hanno un particolare
significato simbolico e augurale –, essi vengono indossati su tutto il
corpo, comprese le narici e le dita dei piedi. Emblemi sociali e religiosi sono
invece i segni dipinti sul volto di uomini e donne con argilla, ceneri, pasta
di sandalo, ecc. Molte donne indicano la loro condizione di moglie con un circolo
disegnato sulla fronte o con un tratto orizzontale: nel primo caso la donna
sarà una devota di Laksmi, sposa di Visnu, nel secondo di Gauri, sposa
di Siva. I matrimoni, ancor oggi spesso combinati – ma quelli in età
infantile vanno per fortuna scomparendo –, comportano un complicatissimo
cerimoniale, che si protrae per tre giorni e che ha il suo momento più
spettacolare nell'arrivo dello sposo sfarzosamente vestito e a cavallo (su un
elefante ornato di disegni, lustrini e strisce di stoffa coloratissima nei matrimoni
principeschi). La sposa veste generalmente un sari rosso e oro (il colore bianco,
che indica purezza, è invece simbolo di lutto, poiché la morte
è appunto una cosa pura). Oggi la terribile usanza della sati, o bruciamento
volontario della vedova sul rogo del marito, non è più seguita,
ma le vedove restano in generale piuttosto emarginate socialmente. I morti vengono
per lo più bruciati e le loro ceneri gettate nell'acqua di un fiume,
perché giungano al Gange. I musulmani usano l'inumazione, i parsi appendono
i cadaveri alle Torri del Silenzio (famosa quella di Bombay), lasciandoli in
pasto agli avvoltoi.
Omnia Storia Panorama- © 2003 Istituto Geografico De Agostini
Islàm
Definizione
sm. [sec. XVIII; dall'arabo islam, propr. sottomissione totale alla volontà
divina]. La religione fondata da Maometto e il sistema sociale e politico che
ne conseguì; anche il panorama storico, culturale, artistico che prendendo
avvio nell'Arabia del profeta si estese dai Paesi dell'Asia centro-merid., del
nord-ovest africano, dell'area balcanica fino alla Penisola Iberica.
La religione: cenni storici
L'I. si sviluppò in stretta connessione con le vicende e attività
personali del suo fondatore, diventando prima espressione culturale di una comunità
politica, e poi, dopo aver fomentato la spettacolosa espansione araba, la religione
di un'imponente massa di fedeli e una delle tre grandi religioni universalistiche
moderne (le altre due sono il cristianesimo e il buddhismo). L'I. nasce nella
prima metà del sec. VII. L'ambiente, l'Higiaz, era religiosamente caratterizzato
da culti e credenze che l'I. stesso, sulla falsariga della polemica antipoliteistica
ebraica e cristiana, definisce politeistiche. C'è da dubitare dell'esistenza
di un politeismo vero e proprio, anche se vigeva un termine, allah, che in altre
lingue semitiche significava “dio” (el, ilu, ecc.). D'altra parte
non si possono neppure attribuire alla fase preislamica della cultura araba
condizioni di tipo primitivo: il Paese confinava pur sempre con civiltà
superiori, quali l'Impero romano d'Oriente e l'Impero persiano; e comunque si
sa di una diffusione sia da parte ebraico-cristiana e sia da parte mazdea di
un vago indirizzo monoteistico, al quale si adeguavano coloro che gli Arabi
stessi chiamavano hanifin, praticanti, prima dell'I., una vita religiosa diversa
dalle masse legate alle religioni tribali. In questo ambiente Maometto cominciò
a predicare la nuova religione, che egli presentava come una rivelazione fattagli
direttamente da Dio. In veste di profeta (rasul) Maometto conseguì successi
nella sua città natale, La Mecca, ma trovò anche un'opposizione
politica; perciò si trasferì nell'altro importante centro dell'Higiaz,
Yatrib, che per gli islamici divenne la Città per antonomasia, ossia
Medina. Il 622, l'anno del “distacco” (hijra, egira) dalla Mecca,
segnò ufficialmente la nascita della nuova religione, secondo la tradizione
islamica che da quell'anno fa decorrere la propria era, rinunciando alla cronologia
cristiana.
La religione: il culto
Il messaggio di Maometto è contenuto in un libro sacro, il Corano, dal
quale emerge la credenza in un dio unico, onnipotente e personale, Allah. Le
sue caratteristiche, più che da un'elaborazione teologica, emergono dalle
istruzioni e dalle rivelazioni che Allah fornisce al suo Profeta di volta in
volta, secondo le diverse contingenze, a volte persino in contraddizione con
quanto disposto in precedenza. Allah si esprime ai livelli più diversi:
ora reclama la conversione degli uomini in vista del Giudizio universale, e
ora dà disposizioni per la soluzione di una controversia d'ordine legale
o amministrativo. Questa mancanza di una teologia sistematica si spiega con
l'iniziale adesione teorica al dettato biblico, per cui non si aveva tanto la
coscienza né il proposito di fondare una nuova religione, quanto l'idea
di rinnovare la prassi religiosa, così come risultava dall'esperienza
ebraico-cristiana. Il rinnovamento, pertanto, non era contenuto nei limiti della
forma religiosa, ma acquistava i caratteri di una rinascita culturale della
nazione araba. Attraverso l'I. la nazione araba prese coscienza di sé
e si confrontò col mondo in un processo espansionistico che nel termine
di pochi decenni la portò a conquistare una larga zona dell'ecumene.
Per quanto riguarda il culto, l'islamismo non è caratterizzato tanto
dai riti, quanto dall'adesione totale alla volontà di Dio. Non che abbia
eliminato il ritualismo proprio a ogni forma di religione, ma non lo ha codificato
in termini eccessivamente ristretti, o meglio non ha esercitato un reale sforzo
di codificazione delle pratiche rituali più diverse che gli son venute
sia dalla tradizione araba, sia da certi dettati coranici e sia dalle tradizioni
dei popoli conquistati. La precettistica cultuale si riduce ai cosiddetti “cinque
pilastri” della fede: la professione di fede, il versamento della “decima”
alla comunità, l'esecuzione delle cinque preghiere giornaliere, il digiuno
del mese di ramadan e il pellegrinaggio alla Mecca. La preghiera è un'espressione
della dedizione a Dio; è un'affermazione dell'I. di portata cosmica:
cinque volte al giorno, alla stessa ora, con gli stessi gesti, e rivolti nella
stessa direzione (La Mecca), tutti “coloro che praticano l'I.” (muslim,
musulmano) confermano l'esistenza di Dio e la loro propria esistenza come corpo
mistico indivisibile. Il venerdì, il giorno sacro scelto da Maometto
per distinguersi dagli ebrei celebranti il sabato e dai cristiani celebranti
la domenica, si prega collettivamente nella moschea: la funzione, introdotta
da una predica, per essere valida deve essere celebrata alla presenza di almeno
40 uomini. Il digiuno, accompagnato dall'astinenza sessuale, distingue il mese
“sacro” di ramadan, come il mese che fonda l'anno (e il mondo).
Il ramadan è il mese in cui Dio ha inviato la rivelazione al Profeta,
e pertanto va distinto con un comportamento ritualizzato. Al riguardo si ricorda
che digiuno e astinenza sessuale non vanno intesi tanto come “rinunce”
in onore di Dio, quanto come rovesciamento dell'ordine usuale; infatti il divieto
di mangiare e di avere rapporti sessuali vale soltanto per le ore diurne, mentre
di notte tutto è permesso, come a significare che l'attività mondana,
normalmente svolta di giorno, in questo periodo eccezionale si svolge di notte.
Il pellegrinaggio alla Mecca, che ogni musulmano deve compiere almeno una volta
nella vita, è la continuazione, in chiave islamica, di un antico culto
pagano che si prestava a una pietra nera racchiusa in una costruzione cubica
(Ka'ba) della città. Proprio a questo culto La Mecca doveva la sua importanza
religiosa nel mondo arabo preislamico e, d'altra parte, proprio questa importanza
fu decisiva per la nascita e il primo sviluppo dell'islamismo.
La religione: la dogmatica
Si richiama a tre fonti: il Corano (rivelazione esplicita), la Sunnah o la tradizione
sul comportamento di Maometto (rivelazione implicita) e il consenso della comunità.
La formula più nota che sintetizza la credenza islamica è la shahadah:
“Non vi è altro Dio al di fuori di Dio e Maometto è il suo
Profeta”. Tra Dio e gli uomini agiscono come esseri intermedi gli angeli
che Dio ha formato di luce; non hanno sesso e trascorrono il tempo nella lode
di Dio in Cielo. È un angelo, e precisamente Gabriele, che ha avuto il
compito di trasmettere a Maometto la rivelazione divina. Il diavolo (Iblis)
è un angelo decaduto per non aver voluto adorare Adamo. Di derivazione
pagana è la credenza in certi spiriti, detti ginn. Nel campo d'azione
profetica, si distingue tra profeti e inviati: i primi hanno avuto il compito
di conservare il vero culto e i secondi quello di trasmettere la rivelazione.
Maometto è l'ultimo Profeta-Inviato di una serie che nel Corano è
di 25 ma che, secondo la tradizione, raggiunge la cifra di 124.000. Maometto,
quale ultimo e definitivo Profeta-Inviato, viene detto nel Coranostesso Khatam
(Suggello). Gesù Cristo viene interpretato come un Inviato. La credenza
nell'immortalità dell'anima è fondamentale; a essa consegue una
rappresentazione dell'aldilà come Paradiso (Giannah o Firdaus) e come
Inferno o Geenna, a cui si è destinati secondo i meriti conseguiti in
vita. L'escatologia si completa con l'idea di una fine del mondo e di un Giudizio
universale. Credenze, a volte soltanto collaterali, ma comunque diverse, distinguono
le varie sette eterodosse. Di particolare sviluppo sono le credenze nell'imam
e nel mahdi.
La religione: lo sviluppo dell'ascetica e della mistica
Dato che con l'I. nasce non soltanto una religione ma una completa unità
culturale, con dimensioni, pertanto, anche socio-politiche (oltre che artistiche,
letterarie, ecc.), non fa meraviglia che il suo sviluppo sia condizionato da
rivalità e lotte politiche, nelle quali il problema del potere temporale
coincideva con quello del potere spirituale. La carica di califfo, ossia di
capo dell'I., fu contesa tra due grandi famiglie, quella degli Omniadi e quella
degli Alidi, finché si giunse a una scissione del corpo islamico in due
grandi parti con conseguenze di grandissima portata anche per la definizione
della fede. Il partito degli Alidi diede forma all'eresia sciita (Shi!a) la
quale col tempo assimilò ed elaborò ideologie di varia provenienza,
estranee all'I. originario. L'unità culturale islamica si espresse anche
come un sistema di leggi, fomentando l'azione di giureconsulti che si svolse
parallelamente all'azione teologica vera e propria, talvolta addirittura intralciandone
il passo. Le questioni teologiche più dibattute furono: il libero arbitrio,
che nell'ortodossia fu parzialmente negato in favore della predestinazione;
la validità delle leggi naturali e delle spiegazioni razionali riguardo
ai principi islamici. Più per contrasto alle elaborazioni giuridiche
e teologiche, che non contro i principi generali dell'I., che di per sé
è già completa dedizione a Dio, sorgono le formazioni mistiche
islamiche. I mistici islamici – detti sufi, donde sufismo, il misticismo
islamico – si ritiravano dal mondo per dedicarsi alla contemplazione di
Dio, mediante ascesi e mortificazioni. Attorno a essi in qualche modo si polarizzava
la religiosità del popolo, in un alone di stima e venerazione. Considerati
come “santi”, se ne venerarono le tombe; e, come maestri, si formarono
attorno a loro gruppi di discepoli che, a partire dal sec. XIII, diedero luogo
a veri e propri ordini monastici. Nel fenomeno generale del misticismo va compresa
l'azione di quei santoni, noti col nome di dervisci, che raggiungevano l'estasi
mediante danze estenuanti, musiche, autoferimenti, e ripetizione meccanica di
formule sacre. Al misticismo pratico si deve aggiungere il misticismo filosofico
o teologico, e soprattutto quello poetico, che ha dato vita a una letteratura
i cui influssi, come espressione assoluta di religiosità, sono rinvenibili
a tutti i livelli e in ogni particolare indirizzo della religione.
Il sistema politico
È strettamente connesso al sistema religioso. L'insegnamento del Corano
dirige tutto l'orientamento politico del mondo musulmano e gli impone le sue
norme. I due concetti più interessanti di questo sistema sono quelli
della guerra santa e del califfato. La guerra santa (gihad) è l'elemento
dinamico della storia islamica; attraverso di essa si realizzarono l'impero
islamico, l'espansione della fede sino a confini lontanissimi, la diffusione
della civiltà arabo-islamica in molte parti del mondo. La gihad è
considerata dai musulmani come il sesto pilastro della fede da aggiungere ai
cinque fondamentali; ma, a differenza di questi, non costituisce un dovere personale
per ogni credente, bensì un dovere collettivo: il precetto si può
ritenere adempiuto quando tutta la comunità o almeno una parte di essa
si impegna valorosamente in una guerra contro gli infedeli. Il dar al-islam
(territorio dell'I.) è il territorio appartenente ai seguaci della vera
fede; tutt'attorno si stende il dar al-harb (territorio di guerra) che, dove
fosse possibile, sarebbe doveroso trasformare in dar al-islam. I nemici che
si convertono alla fede islamica sono accolti nella comunità dei fedeli;
sugli altri si esercita o la “conquista per forza” o la “conquista
per trattato”. In questo secondo caso, i “popoli del Libro”
(ebrei e cristiani) divengono “protetti”, pagando un'imposta fondiaria;
più tardi, questa concessione si allargherà anche agli idolatri.
I “protetti” conservano il possesso della terra e il diritto di
praticare il loro culto. La comunità musulmana, considerata un tutto
unico, è retta da un khalifa o imam (califfo), che è il successore
o meglio il “vicario” di Maometto, non già nell'insegnamento
religioso (che il Corano esaurisce), bensì nell'esercizio di funzioni
politiche e giudiziarie, ambito nel quale la sua autorità è illimitata.
Il diritto
Comprende la Shari‘ah (legge religiosa) regolatrice del comportamento
esterno del fedele verso Allah, verso se stesso e verso il prossimo; il fiqh',
comprensivo del diritto delle persone, familiare, successorio, patrimoniale,
giudiziario e penale, locale con un'appendice riguardante il rituale religioso
(giuramenti, voti, animali per il sacrificio, cibi e bevande leciti e illeciti,
vesti e costumanze da evitare). Autore di questo diritto fu Maometto, che dopo
la sua emigrazione (egira) dalla Mecca a Medina (622), provvide di volta in
volta a dare le norme necessarie alla vita sociale del sorgente gruppo dei nuovi
credenti: norme di carattere giuridico, ma sempre emanazione della sua missione
di “profeta di Allah”, portanti il segno della “parola di
Dio”, di cui egli aveva raccolto la rivelazione. L'osservanza della legge
non era solo un dovere civile, ma anche religioso e il potere legislativo non
era compito del sovrano ma dei dottori (ulama, preti della legge). Su questi
presupposti si fondava il principio cuius religio eius lex, la confessione religiosa
cioè determinava la personalità del diritto. Il diritto musulmano
non conosce confini di Stato, ma si applica, unico e identico, ovunque esista
una comunità musulmana. In questa dilatazione a confini esclusivamente
religiosi cadono i concetti di nazione e di cittadino. Per gli individui di
altra religione conviventi con i musulmani, la legge islamica imponeva il rispetto
dei diritti dei fedeli musulmani a esso adeguando la libertà di professare
la loro fede religiosa e di agire in conformità di questa. Di qui le
numerose giurisdizioni confessionali esistenti nel mondo musulmano. Il principio
coranico della fratellanza faceva tutti i musulmani uguali davanti alla legge;
solo gli schiavi subivano qualche restrizione, ma in misura lieve e frequenti
sono le raccomandazioni per la loro liberazione; nei processi sulle formalità,
ridotte al minimo indispensabile, prevaleva la benevolenza e si ricercava con
insistenza l'intenzione con cui l'individuo aveva agito e su quella ci si basava
per giudicare. Anche nei contratti, tutti bonae fidei, prevaleva la preoccupazione
morale: era rigorosamente vietata l'usura ed erano favorite le fondazioni pie.
Elementi costitutivi di questo diritto erano le consuetudini vigenti prima di
Maometto fra le popolazioni cittadine dell'Arabia nord-occid. e le modifiche
e innovazioni da lui apportatevi: si trattava però di un materiale inorganico,
per cui se ne fece presto una sistemazione che a cinquant'anni dalla morte del
Profeta appare già realizzata per quanto riguarda gli elementi fondamentali.
La rapida espansione dell'islamismo lo mise in contatto con concezioni nuove
(ideologie greco-romane e persiane) e i dottori musulmani cercarono nell'insegnamento
e negli atti di Maometto gli elementi per ridurre nello spirito musulmano norme
e consuetudini di questi popoli: p. es., il trattamento riservato dal Profeta
agli ebrei fu preso a base della posizione giuridica fatta ai sudditi non musulmani
per la proprietà fondiaria e i tributi. Insegnanti e interpreti del diritto
erano i dottori, i quali, senza alcun carattere ufficiale, raccoglievano attorno
a sé scolari e diventavano dei veri capiscuola. I più insigni
fra loro diedero vita a scuole, molte delle quali scomparvero in breve tempo,
lasciando spazio, nell'ambito dell'ortodossia, a quattro principali: hanafita,
fondata da Abu Hanifah (m. 767) e fiorente nell'Asia centr. fra le popolazioni
turco-tartare; malikita, fondata da Malik ibn Anas (m. 795), diffusasi nell'Africa
sett., nella Mauritania e nel Sudan; schafeita, fondata da Muhammad ash-Shafi'i
(767-820), la cui zona d'influenza si localizzò in Somalia, Etiopia,
Ciad, Kenya, Tanganica e nel delta egiziano; hambalita, fondata da Ahmed Ibn
Hanbal (780-855) che fiorì nell'Iraq centr. e merid., in Siria, nell'Arabia
centrale. Fra gli eterodossi le maggiori scuole furono: gia'fari, probabilmente
dovuta a Gia'far as-Sadiq (m. 765), riconosciuta dagli sciiti imamiti e ismailiti
della Siria, dell'India, dell'Iraq, del Libano e della Persia; zaidita, attribuita
a Zaid ibn 'Alì e diffusa nello Yemen centr.; ibadita, risalente ad 'Abd
Allah ibn Ibâd e fiorente in Algeria, Tunisia, Zanzibar. Le differenze
fra le varie scuole sunnite (od ortodosse) dipendono dal periodo in cui si formarono
e non intaccano la vera sostanza dell'ortodossia, al punto che viene ammesso
che il seguace di una scuola possa in una particolare questione seguire l'insegnamento
di un'altra. In particolare si può dire che la differenza principale
sta nel metodo seguito dalle varie scuole e l'osservazione vale anche per quelle
eterodosse. Per tutte il fondamento del diritto è dato: dal Corano; dalla
Sunnah, cioè il complesso delle tradizioni canoniche sui detti (e i silenzi)
e i fatti di Maometto; dall'igma, ossia l'accordo che su un tema particolare
si stabilisce fra i vari dottori; dal qiyas, ossia le deduzioni tratte dai dottori
della legge dalle tre fonti precedenti. Il califfo e i sovrani musulmani minori
erano stati estranei a tutto il movimento delle scuole, limitandosi a scegliere
una scuola piuttosto che un'altra per i loro territori (scelta d'altronde determinata
dalla presenza più o meno cospicua dei seguaci di una scuola fra i propri
sudditi) e nel dettare istruzioni ai qadi per la casistica lasciata libera dai
dottori. Solo in età moderna questo ambito si è notevolmente esteso
nei contatti sempre più complessi con il resto del mondo: sono così
decadute le norme per il sistema fiscale, la legge del taglione, le pene stabilite
dal Corano per il foro interno. Essendo pertinenza del sovrano tutta l'amministrazione
della giustizia, con l'allontanarsi nel tempo dalle fonti originarie, anche
nel campo legislativo si creò una doppia giurisdizione, l'una lasciata
al sovrano per le questioni che non richiedevano approfondimenti specifici,
mentre queste ultime venivano attribuite al qadi. Nell'impero musulmano, alla
fine del sec. XIX, il campo di giurisdizione del qadi fu ridotto al diritto
di famiglia, successorio e allo stato delle persone. L'esempio fu seguito anche
dall'Egitto e, con varianti, in Tunisia, nel Marocco, nella Siria, nel Libano
e in Palestina. Con l'istituzione della Repubblica in Turchia, il diritto musulmano
fu abolito (1926). La forza della tradizione musulmana invece è ancora
molto efficace tra i Beduini, i Somali, i Cabili dell'Algeria e i Berberi del
Marocco. L'introduzione della Costituzione in Egitto (1923), nell'Iraq (1924)
e in Siria (1930) ha privato del diritto di legiferare i dottori musulmani a
vantaggio dei Parlamenti. In Iran, dove la Costituzione laica si era avuta nel
1906, una forte opposizione ha costretto nel 1979 alla fuga lo scià e
si è costituita una Repubblica che ha ripristinato integralmente il diritto
islamico.
L'espansionismo islamico
La storia politica del mondo islamico si confonde ovviamente con quella degli
Arabi in un primo periodo che, per grandi linee, si conclude con il tramonto
del califfato omayyade (750) . Ma già in quest'epoca, pur dominata dalla
fede e dal valore militare degli Arabi, l'I. si presentava con un credo orientato
in senso universalistico e gli “islamizzati” non erano meno numerosi
né meno fedeli a Maometto dei musulmani d'Arabia. Sin dal primo secolo
dopo la morte del Profeta, il suo messaggio era arrivato all'Atlantico (Marocco)
e alla Spagna da un lato, alla Persia e all'India dall'altro e pertanto non
era più unicamente arabo né portato esclusivamente dagli Arabi.
Il distacco tra il mondo arabo e quello, ben più vasto, che si può
chiamare “islamico”, si fece più evidente con l'avvento della
dinastia degli Abbasidi. Arabi, anzi meccani, costoro inaugurarono un nuovo
tipo d'impero che si fondava non tanto sulla superiorità degli Arabi
quanto sul fermentare inquieto dei popoli sottomessi, non tanto sull'ortodossia
sunnita quanto sul ribellismo sciita (almeno in un primo tempo). Baghdad non
riuscì però a imitare Damasco e quello che era stato un impero
unitario e compatto divenne un tentativo, a volte velleitario, di organizzazione
politica estesa a tutti i popoli dell'Islam. Il califfato abbaside (750-1258)
fu caratterizzato da un eclettismo culturale molto accentuato, che mise la civiltà
islamica a contatto con influenze persiane, siriache, greche, bizantine, e rappresentò
d'altro canto il fallimento di un autoritarismo politico-religioso che aveva
animato a lungo il mondo islamico. Già nel sec. X si erano affermati
due altri califfi: quello d'Egitto (fatimita e quindi sciita) e quello di Cordova
(omayyade). Nel sec. XI gli Arabi, frenati da un'ostinata tendenza al particolarismo,
videro veramente sgretolarsi la loro supremazia. I Turchi da est, i Berberi
da ovest si fecero paladini dell'I. più ortodosso. I Turchi Selgiuchidi
occuparono Siria, Palestina, parte dell'Asia Minore, minacciarono Costantinopoli,
si difesero dai Crociati dell'Occidente. Più tardi (sec. XIV) i Turchi
Ottomani, sostituendosi ai Selgiuchidi, incalzarono i Bizantini, penetrarono
nella Penisola Balcanica e finalmente conquistarono Costantinopoli (1453). L'Impero
ottomano si estese poi verso il cuore dell'Europa (sec. XV-XVII), varcò
il Danubio, minacciò Venezia e Vienna, avvolse tutto il Mar Nero, si
insediò in Mesopotamia, Siria, Palestina, Egitto, occupò le terre
migliori dell'Arabia e dell'Africa del nord sino all'Algeria. D'importanza assai
più ridotta fu lo sforzo dei Berberi dell'Africa occid., che con gli
Almoravidi (sec. XI-XII) e gli Almohadi (sec. XII-XIII) cercarono di restaurare
l'ortodossia e i valori religiosi in una Spagna dove l'I. stava ormai perdendo
terreno. Non meno importante dell'espansione militare fu, per l'I., la penetrazione
pacifica, ossia la “diffusione della fede” in senso proprio. Se
Turchi e Mongoli islamizzati conquistarono l'India con le armi, l'Indonesia
– come del resto parecchie regioni dell'Africa nera – assorbì
lentamente ma sicuramente il verbo musulmano. La storia dell'I., almeno sino
al sec. XIX, è apparentemente la storia di una conquista bellica; ma
un esame più attento ci induce oggi a considerare prevalente l'azione
d'uomini di fede e di preghiera (pellegrini, mercanti, persino negrieri). Quello
ottomano fu comunque il più serio tentativo di rinnovare l'antica unità
politico-religiosa dell'I., tentativo peraltro destinato a fallire, minato dalla
pressione ideologica oltre che politica ed economica dell'Occidente. Le risposte
alla sfida europea si collocarono su piani diversi. Alcune élites promossero
un rinnovamento dell'ideologia islamica, recependo, con accenti diversi, i nuovi
ideali di libertà, nazione, progresso scientifico. Questo movimento ebbe
i suoi centri in Egitto, Persia e India. Sul versante opposto si volle invece
fare leva sull'affiliazione religiosa per riproporre una politica reazionaria,
di assoluta fedeltà al passato. Accanto al sultano ottomano !Abd ül-Hamid
II che promosse una crociata panislamica allo scopo di cementare le scricchiolanti
strutture del proprio Stato, vanno allineati in questo ambito i movimenti politico-religiosi
del Mahdi (Sudan) e dei wahhabiti (Arabia). Entrambe le tendenze andarono incontro
a pesanti sconfitte: in alcuni Paesi (p. es. Turchia e Iran) il nazionalismo,
che poteva radicarsi e trarre alimento da un glorioso passato preislamico, ebbe
risvolti ostili all'I.; in altri (la stessa Turchia e la Tunisia) il riformismo
islamico fu costretto a cedere il posto a un'ideologia decisamente laica; raramente
le interpretazioni tradizionali dell'I. acquistarono un rilievo politico. Tutto
ciò favorì lo sviluppo di un'apologetica concordista, diretta
a dimostrare che i precetti dell'I. non ostacolano la realizzazione delle aspirazioni
dei musulmani contemporanei, propensa più a giustificare a posteriori
che a indirizzare le scelte politiche (si veda p. es. il socialismo islamico).
Generalmente l'I. è interpretato come un valore d'identificazione nazionale
o culturale e, tranne qualche eccezione (l'Arabia Saudita, il Pakistan e, per
un certo verso, la Libia, l'Algeria e il Marocco), rimane un modo di vita soltanto
per le masse popolari. Il sentimento d'unità islamica affiora soprattutto
al livello della pietà popolare e acquista importanza politica soltanto
in circostanze particolari. Abolito il califfato nel 1924, l'I. ha trovato un
punto di raccordo in periodiche Conferenze islamiche, la prima delle quali fu
tenuta nel 1926. Ma se è vero che le convergenze tra gli Stati musulmani
appaiono più come la conseguenza di comuni interessi economico-sociali
che non dell'appartenenza alla stessa fede, va tuttavia osservato che con la
fine degli anni Settanta si è andata delineando e via via rafforzando
una tendenza integralista. Infatti, la netta separazione tra vita religiosa
e assetto istituzionale che si era affermata in molti Stati con popolazione
a maggioranza islamica ha subito una battuta d'arresto con la rivoluzione iraniana,
dove il rovesciamento dello scià di Persia (1979) ha favorito la costituzione
di una Repubblica Islamica strettamente controllata dai vertici religiosi di
rito sciita. L'esempio offerto dall'Iran, unito alle sempre crescenti difficoltà
politiche ed economiche incontrate dai regimi laici al potere negli Stati a
prevalenza religiosa musulmana, ha rilanciato il fondamentalismo islamico.
L’Islam in Italia
L’aumento costante del numero di extracomunitari in Italia sta portando
gradualmente alla ribalta la questione dell’integrazione nella società
italiana della comunità islamica. Si parla di ca. 300.000 musulmani,
nella grande maggioranza sunniti provenienti dal Marocco, Tunisia, Senegal ed
Egitto, con una minoranza di sciiti di provenienza libanese e iraniana. Per
fornire a essi accoglienza, aiuto, educazione religiosa e soprattutto rappresentanza
ufficiale capace di tutelarne i diritti e gli interessi, si sono costituiti
da tempo vari organismi, tra cui vanno ricordati: il Centro Islamico culturale
d’Italia, sorto nel 1965 per iniziativa delle ambasciate degli Stati riuniti
nella Lega Araba, che ha promosso la costruzione della moschea di Roma; il Centro
Islamico di Milano e Lombardia, che è nato nel 1977, cura la moschea
di Lambrate, pubblica una rivista e dà vita a un’intensa attività
culturale, sociale e religiosa; l’Unione delle Comunità e delle
Organizzazioni Islamiche in Italia, che è sorta nel 1990 ad Ancona e
che ha proposto nel novembre 1992 alla Presidenza del Consiglio dei Ministri
italiano un’ipotesi d’intesa per la legittimazione giuridica della
loro presenza, in base all’art. 8 della Costituzione che regola i rapporti
delle confessioni religiose con lo Stato; l’Unione degli Studenti Musulmani
in Italia, che da Perugia si è poi estesa in altri centri dotati di università.
Si contano inoltre un centinaio di luoghi di culto islamici, che in qualche
caso dispongono anche di personale religioso. I problemi posti da un eventuale
riconoscimento giuridico-religioso degli immigrati islamici (in Italia come
nelle altre nazioni europee, quali Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna
e Spagna, che hanno già stipulato accordi e convenzioni più o
meno organiche con i rappresentanti delle comunità islamiche residenti
o con i rispettivi Paesi di provenienza) derivano non tanto dal diritto al libero
esercizio della professione religiosa quanto dalla difficoltà di conciliare
la fede islamica con i principi basilari dell’ordinamento giuridico italiano
(ed europeo), specie in materia di matrimonio e diritto familiare e in merito
alla netta distinzione tra legge civile e legge religiosa.
Arte: le arti minori
L'osservanza dello stesso credo ha dato una sostanziale identità –
da G. Marçais definita la “personalità dell'arte islamica”
– alle espressioni estetiche di Paesi spesso assai distanti fra loro,
non solo geograficamente, ma anche per motivi etnici, culturali, tradizionali.
Questa “personalità”, immediatamente riconoscibile dappertutto,
è in realtà la risultanza della nuova concezione metafisica che
sta alla base della visione estetica musulmana e che condiziona ogni aspetto
della vita, della cultura e delle arti. Queste sono anzi subordinate alla religione
e l'artista non ha libertà espressiva. Per l'I., inoltre, l'uomo non
è più, come per il pensiero classico, la misura di tutte le cose,
né l'arte può imitare la natura, perché sarebbe un blasfemo
tentativo di copiare l'opera creatrice di Dio. Per questo gli artisti musulmani
si esprimono con forme astratte e allusive che trasformano e quasi mimetizzano
le cose reali, così che da questa frammentarietà e dissoluzione
risulti ancor più l'immutabilità e l'eternità delle opere
divine. Per la stessa ragione il costruttore si serve di materiali umili e deperibili
come il mattone crudo, il fango pressato e lo stucco, e nasconde le strutture
sotto parati decorativi che – magari ripetendo all'infinito lo stesso
motivo geometrico o vegetale – tolgono organicità all'insieme.
Si spiega perciò la fortuna straordinaria dell'arabesco, nato dall'estrema
stilizzazione di un motivo vegetale, e della calligrafia, che con le sue caratteristiche
di astrazione e di artificiosità soddisfaceva a tutte le esigenze della
religione. Considerata anzi l'arte per eccellenza, in quanto strumento della
diffusione della parola di Dio attraverso il Corano, la calligrafia conobbe
una straordinaria fortuna in tutto il mondo islamico e gli artisti che vi si
dedicavano furono gli unici a godere sempre dell'incondizionata ammirazione
dei principi, al contrario di tutti gli altri che, fino a epoca abbastanza tarda,
venivano generalmente disprezzati, a causa dei pregiudizi del mondo arabo nei
confronti del lavoro manuale. Come diretta conseguenza della stilizzazione delle
forme reali, si ebbe nell'I. il rifiuto delle immagini culturali figurate, le
uniche espressamente proibite dal Corano. Tuttavia, nonostante il rigore dei
teologi, figure umane e animali comparvero presto sia nella decorazione architettonica,
sia in pittura, sia in oggetti d'arte applicata, anche se in ambienti strettamente
privati come le corti. Sempre in questa élite conobbe un eccezionale
successo la miniatura, in origine poco congeniale all'Islam. La ricchezza e
varietà del panorama artistico musulmano, a onta dei condizionamenti
e delle direttive comuni, è sorprendente. Esso è infatti il risultato
della rielaborazione e dell'adattamento delle esperienze, dei suggerimenti e
delle tradizioni culturali delle civiltà più evolute, con le quali
l'I. era venuto in contatto negli innumerevoli Paesi conquistati. L'area culturale
islamica comprende infatti gran parte della Penisola Iberica, la Sicilia, l'Africa
del nord – dall'Egitto al Marocco –, l'Africa orient., la Penisola
Arabica, il Vicino Oriente, la Turchia, la Penisola Balcanica, l'attuale Iraq,
l'Iran, l'Afghanistan, l'Asia centr. ex sovietica, il subcontinente indiano
e l'Indonesia. L'evoluzione storica dell'I. copre un arco di quattordici secoli:
essa ebbe inizio dopo l'epoca delle conquiste arabe, quando nel 661 i primi
sovrani omayyadi trasferirono la sede del Califfato da Medina a Damasco, e dura
fino ai nostri giorni, anche se a cominciare dal sec. XVI è iniziato
un processo di decadenza. Tutte le arti, senza distinzione tra maggiori e minori,
raggiunsero nel mondo islamico altissimi livelli tecnici e bellissimi effetti
decorativi, grazie sia alla severa disciplina cui erano sottoposte le corporazioni
artigianali e le manifatture auliche, sia alla fantasia creativa degli artisti.
Notevolissime furono la produzione ceramica (maiolica smaltata e a lustro metallico)
e la lavorazione dei metalli (culminata nella tecnica dell'agemina), dell'avorio,
del vetro smaltato e dorato (famosa la produzione persiana e soprattutto quella
siriana, caratterizzata fra l'altro dalle lampade pensili da moschea, con le
pareti in vetro trasparente ricoperte d'iscrizioni), del cristallodi rocca in
cui eccelse l'Egitto; grandissimo sviluppo ebbero l'industria serica e l'arte
del tappeto, che fiorì specialmente nell'Iran, nel Caucaso e nell'Anatolia.
Religione essenzialmente cittadina, l'I. ebbe però nell'architettura
una delle sue espressioni più vitali, in quanto realizzatrice per antonomasia
dei suoi programmi.
La moschea, il bagno, il bazar
Centri focali della città sono la moschea, il bagno, il bazar. La moschea,
monumento islamico per eccellenza, dove la comunità, specie nei primi
tempi, si riuniva non solo per la preghiera canonica, ma anche per deliberare
su tutte le questioni più importanti, si andò precisando in forme
diverse. Poiché l'unica esigenza liturgica espressamente richiesta era
l'orientamento della preghiera (qibla) in file parallele verso La Mecca, dopo
una serie di tentativi e di ricerche si realizzò più diffusamente
la cosiddetta moschea di “tipo arabo”, costituita da un ampio cortile
(sahn) circondato su tre lati da portici e sul quarto da una sala di preghiera
ipostila, con tetto piatto e con navate parallele al muro della qibla. Al centro
del cortile, o in un locale adiacente, era un impianto per le abluzioni rituali.
La qibla fu messa in evidenza da una nicchia (mihrab) sempre riccamente ornata
con stucchi, mattonelle di ceramica, marmi pregiati. In molti casi la navata
afferente al mihrab si costruì più larga e più alta delle
altre, sormontata da una cupola davanti alla qibla. L'esigenza della predica
del venerdì nelle moschee principali d'ogni città portò
alla creazione del minbar, specie di pulpito, in legno (talvolta anche in pietra
o marmo), alla destra del mihrab. Un recinto di legno (maqsura) serviva, in
qualche moschea, a isolare il principe dal resto della comunità. Il minareto
(minar) fu introdotto dagli Omayyadi (sec. VII) e sembra derivare dalle torri
di segnalazione e dai fari (manara). Il bagno, sconosciuto agli Arabi, per influsso
del mondo romano-bizantino divenne in breve uno degli edifici fondamentali d'ogni
città musulmana, anche se subì qualche modifica, per esigenze
climatiche: manca p. es. della piscina fredda e ha lo spogliatoio, usato come
sala di riunioni, di proporzioni monumentali. Il bazar, anch'esso ereditato
dal mondo classico e orientale, è una struttura complessa dove si concentrano
le attività economiche, commerciali e artigianali, ed è abitato
solo da quanti vi esercitano un mestiere, divisi per categorie in diversi settori.
La casa d'abitazione musulmana è sempre ispirata a criteri di semplicità,
anche se subisce modifiche notevoli nei numerosissimi Paesi dell'Islam. Di solito
è a corte interna e presenta le strutture più adatte ad assicurare
protezione e intimità agli abitanti. La casa del sovrano, che spesso
si identifica con la casa del governo, è disegnata con propositi di monumentalità,
per esaltare “la maestà del potere sovrano”. I castelli degli
Omayyadi e soprattutto i palazzi degli Abbasidi avevano pianta molto articolata,
esemplata rispettivamente sui castra siriaci e sui palazzi sassanidi, e servirono
da modello per le residenze della maggioranza dei principi musulmani. Solo i
Safawidi di Persia (sec. XVI-XVIII) e gli Ottomani in Turchia (sec. XIV-XX)
abbandonarono questa formula compatta a favore di padiglioni sparsi entro giardini.
Fra le opere di utilità pubblica, particolare cura fu posta nella costruzione
di opere idrauliche (realizzazioni degli Aghlabiti, sec. IX-X, presso Kairouan;
il Nilometro dell'isola di Roda; i grandi ponti-diga dei Safawidi e degli Ottomani),
di ospedali, di ospizi per i poveri, di caravanserragli (gli splendidi khan
selgiuchidi d'Anatolia e d'Iran), di fontane. Per la difesa delle frontiere
e le esigenze della guerra santa furonocostruiti, specie nell'I. occid., i ribat,
sorta di conventi fortificati, con cellette per i monaci-combattenti, una sala
di preghiera e una torre di vedetta, insieme minareto e segnacolo dell'Islam.
L'edilizia funeraria, così caratteristica del paesaggio islamico, dall'Egitto
all'India, comparve solo verso il sec. X, per la proibizione canonica di costruire
sopra le sepolture. Essa si sviluppò in forme sempre più monumentali,
che culminarono con le realizzazioni degli Ilkhanidi (sec. XIII-XIV), dei Timuridi
in Persia e in Asia centr. (sec. XIV-XV) e con quelle dei Moghul (sec. XV-XIX)
in India. Al di là di queste somiglianze di fondo, dovute ai comuni interessi
religioso-sociali, è possibile tuttavia individuare, nella vasta area
islamica, differenze di gusto e chiare tendenze di stile, determinate da influenze
locali o, in qualche caso, addirittura “dinastiche”. È questo
il caso dell'Andalusia e del Maghreb, dell'area siro-egiziana, dei territori
iranici, dell'Anatolia, dell'India.
Storia: l'architettura araba
Priva di specifiche cognizioni scientifiche e artistiche, l'architettura araba
andò ispirandosi alle tradizioni ellenistiche e cristiane della Siria
e della Mesopotamia, nonché a quelle degli Arabi preislamici (Nabatei,
Gassanidi, Lakmidi, Yemeniti) per dar vita alle sue prime creazioni. Fra i capolavori
di questo periodo è la splendida Qubbat as-Sahra (Cupola della Roccia)
di Gerusalemme, a pianta circolare. Degli Omayyadi restano ancora la bellissima
Grande Moschea di Damasco e i resti di numerose residenze di campagna (Mshatta,
Khirbet al Mafjar, Qusayr Amra, ecc.). Con l'avvento degli Abbasidi (750) e
lo spostamento della capitale califfale dalla Siria alla Mesopotamia (Baghdad),
l'I. si orientalizzò adottando numerose tradizioni artistiche irano-mesopotamiche,
cui si aggiunsero, per le infiltrazioni dei Turchi nella guardia dei sovrani,
numerosi apporti centro-asiatici, individuabili soprattutto a Samarra dove,
accanto ai superbi palazzi e alle grandiose moschee coi tipici minareti a spirale,
sono state scoperte tracce di pittura murale, sculture in legno e la prima ceramica
“a lustro metallico”, dalla ricca tipologia. Nella zona nord dell'Africa
e nell'Andalusia si elaborò un'architettura caratteristica, dovuta alla
forte tradizione classica e al sostrato indigeno, in particolare berbero. Nacque
in queste regioni il cosiddetto stile moresco, che caratterizzò nei sec.
XIII e XIV la fase classica dell'arte musulmana d'Occidente, culminando poi
con le realizzazioni dei Nasridi di Granada. Nell'area siro-egiziana l'indebolimento
del potere califfale abbaside permise il formarsi di successive dinastie (Tulunidi,
Fatimiti, Ayyubidi, Mamelucchi), che elaborarono un'architettura caratteristica,
nella quale venivano messi in evidenza e rielaborati in maniera originale i
suggerimenti della tradizione ellenistica della Siria. La vasta area irano-mesopotamica
conobbe, a partire dalla fine del sec. X, una vigorosa fioritura artistica autonoma,
nella quale si riaffermavano, con opportuni adattamenti alla nuova religione,
antiche formule strutturali e planimetriche del patrimonio architettonico iranico
– partiche e sassanidi – che si sarebbero mantenute sostanzialmente
immutate fino ai nostri giorni. Queste planimetrie, a cupola e a ivan, introdussero
nel panorama artistico musulmano, a tendenza orizzontale, una componente verticale,
che si mantenne costante nell'I. d'Oriente. In questo stesso periodo, oltre
al grande sviluppo dell'edilizia funeraria monumentale, nei due tipi fondamentali
a torre e a cupola, si sviluppò la decorazione col mattone in facciavista,
che dal mausoleo di Ismail il Samanide, a Buhara, trovò larga eco intutto
il mondo iranico (dal X al XII sec.), dai Buwaiydi ai Gasnavidi, ai Selgiuchidi.
Sempre nel sec. X comparvero i primi esempi di muqarnas, i caratteristici raccordi
a nicchia ornata di alveoli “a stalattite”. Con i Selgiuchidi d'Iran
si precisò la tipica moschea iranica, la cosiddetta moschea-madrasa (accademia
teologica), costituita da quattro ivan disposti a croce, prospicienti una corte.
L'ivan qibli, cioè quello contenente il mihrab, è più grande
ed è seguito, nelle moschee monumentali, da una sala cupolata, secondo
lo schema della sala del trono sassanide; le ricerche sulla cupola costituirono
il merito più alto dei grandi architetti selgiuchidi. Di altrettanta
importanza artistica furono i Selgiuchidi d'Anatolia e gli Ortuqidi in Mesopotamia,
mentre in Iran si affermava successivamente l'impero dei mongoli Ilkhanidi e
poi dei turcomanni di Tamerlano (v. Timuridi). Accanto alle arti maggiori fiorì
un vivacissimo artigianato, caratterizzato da un'estrema raffinatezza di esecuzione
e da un'inesauribile inventiva iconografica e stilistica. Se con gli Ottomani
in Turchia e con i Safawidi in Persia si precisarono nuovi indirizzi artistici,
spesso di marca occidentale, il corrispondente panorama artistico indo-musulmano
si presenta come uno dei capitoli più prestigiosi dell'arte islamica,
in quanto in esso si incontrano e si conciliano, nonostante la totale diversità
delle loro concezioni metafisiche e sociali, le tradizioni del mondo indù
e quelle del mondo musulmano, in una nuova civiltà, originale e composita
insieme. Sotto la dinastia dei Moghul si ebbe l'apogeo di questo stile, che
col grande Akbar e con i raffinati Jahangir e Shah Jahan (di cui si ricorda
il celeberrimo Taj Mahal) si diffuse in tutto l'immenso Paese. Un aspetto totalmente
originale assunse l'arte islamica in Indonesia.
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jihad o gihad
s. arabo usato in italiano come sf. (propr. combattimento, lotta). La “guerra
santa” contro gli infedeli alla quale sono chiamati tutti i seguaci dell’Islam
in base alla legge coranica: la partecipazione alla jihad contro i crociati
garantiva ai musulmani l’accesso al Paradiso.? Per estensione, nel linguaggio
pubblicistico, nome di alcune formazioni di integralisti islamici che, spinti
da motivazioni religiose o politiche, compiono atti di terrorismo e mantengono
posizioni favorevoli all’uso della lotta armata contro i nemici della
causa musulmana: l’attentato viene attribuito all’attività
della jihad. In particolare la Jihad Islamica (Harakat al-Jihad al-Islami al-Filastini)
è un organizzazione integralista islamica palestinese fondata nel 1979
a Gaza, da militanti palestinesi appartenenti ai Fratelli Musulmani. Questa
influenzata dalla rivoluzione khomeinista, cominciò a predicare una radicale
riforma in senso islamico della società araba, facendo della distruzione
dello Stato ebraico il proprio obiettivo. Negli anni che precedettero l’Intifada
la Jihad Islamica impiantò una rete clandestina di alcune dozzine di
attivisti: al 1985-86 risalgono le prime attività terroristiche nei Territori,
in particolar modo nella striscia di Gaza. Dopo la fondazione dell’Autorità
Nazionale Palestinese, la Jihad Islamica, condividendo la stessa opposizione
agli accordi di Oslo e al processo di pace, avviò una collaborazione
a livello operativo, nella lotta contro lo Stato di Israele, con Hamas, con
cui fino ad allora non aveva avuto contatti di alcun tipo. L’epicentro
dell'attività della Jihad Islamica può essere considerato il Libano,
dove numerosi sono i membri palestinesi reclutati nei campi profughi.
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Maométto
(arabo Muhammad). Fondatore dell'islamismo (La Mecca ca. 570-Medina 632).
Di modesta famiglia, Maometto rimase orfano ancor giovane e fu educato dallo
zio Abi Talib (padre di !Ali). Per la sua intelligenza e onestà fu scelto
come agente d'affari da Khadigiah, ricca vedova, che poi lo sposò e visse
con lui ventitré anni dandogli sette figli. Poco colto (non è
sicuro che sapesse leggere e scrivere), conoscitore superficiale delle religioni
ebraica e cristiana, Maometto era tuttavia, sin da giovane, incline al misticismo:
amava la solitudine, la meditazione, le pratiche ascetiche, tendeva l'orecchio
a voci arcane. Verso i quarant'anni cominciò ad avere quelle “rivelazioni
da Dio”, che costituiranno poi il contenuto del Corano (Qur'an, messaggio).
Maometto iniziò la sua predicazione fra le stesse pareti domestiche e
primi a credere in lui furono la moglie Khadigiah, il cugino !Ali, il saggio
mercante Abu Bakr. Presto la sua predicazione si fece pubblica: Maometto non
si sentì più un privilegiato, che aveva rivelazioni da Dio, ma
il “profeta”. La sua predicazione si svolse in senso monoteistico
e di superamento delle tradizioni tribali. Pertanto venne osteggiato dall'ambiente
della Mecca, importante sede religiosa intertribale e in particolare dalla tribù
dei Quraish (o coreisciti), che godeva in quell'ambiente di una posizione preponderante
e a cui egli stesso apparteneva. Maometto trovò invece seguito nella
vicina città di Yatrib; qui egli si trasferì nel 622 rompendo
ogni relazione con La Mecca. Questo “distacco” (in arabo higra,
egira) costituì un momento fondamentale per la nascita dell'islamismo,
tanto che fu assunto come anno zero nella cronologia islamica. A Yatrib, che
poi fu chiamata Medina (la “Città” per antonomasia), Maometto
costituì una teocrazia di cui egli era il capo spirituale e temporale.
Questo sviluppo, religioso e politico al tempo stesso, lo portò a concepire
un popolo unito sotto di lui nella fede del Dio unico, e completamente svincolato
dalle relazioni tribali. Questo popolo, dapprima composto dagli abitanti di
Medina, si venne allargando con spedizioni militari e razzie contro le altre
comunità arabe. Il primo notevole scontro fu quello con i Quraish: la
battaglia di Badr vinta dai musulmani (i muslim, cioè i “dediti”
al Dio di Maometto) restò famosa nella tradizione islamica e da essa
Maometto trasse motivo per definire la “guerra santa” (gihad) come
un dovere religioso. La guerra si svolse con fasi alterne, ma alla fine nel
630 Maometto conquistò La Mecca. Da quel momento cessò ogni seria
opposizione alla nuova religione e l'Islam fu praticamente accettato da tutte
le tribù del deserto: ne fanno fede le disposizioni date da Maometto
per il pellegrinaggio alla Mecca del 632, al quale non avrebbe partecipato “nessun
arabo idolatra”. Nel marzo 632 il profeta, quasi presago della sua prossima
fine, rivolse ai fedeli il “discorso del commiato” proclamando la
sacralità del territorio della Mecca, esortando le tribù all'unità
e prevedendo la diffusione dell'Islam oltre i confini dell'Arabia. L'improvviso
aggravarsi della malattia gli impedì di continuare a dirigere la preghiera
e il compito fu affidato al fedelissimo Abu Bakr. L'8 giugno (secondo altri
qualche giorno prima) Maometto moriva, lasciando dietro di sé uno “Stato”
islamico sorretto da leggi e da un'ideologia affermate, oltre che dal suo prestigio,
dalla sua predicazione raccolta nel Corano. ? La figura del fondatore dell'Islam
servì da pretesto a Voltaire per la tragedia filosofica in 5 atti Mahomet
ou le fanatisme (rappresentata a Lilla nel 1741 e alla Comédie-Française
nel 1742), violento atto d'accusa contro ogni forma di fanatismo religioso.
Nel 1800 l'opera fu tradotta in tedesco da Goethe per il teatro di Weimar (dove
venne allestita da Schiller), anche se era in contraddizione con un suo giovanile
frammento drammatico, Mahomet (ca. 1772), sul dualismo tragico tra l'individuo
e le circostanze in cui deve agire.
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Mècca, La-
Generalità
Città (965.700 ab. nel 1992) dell'Arabia Saudita, nell'Higiaz, capoluogo
della provincia omonima (164.000 km2; 1.754.000 ab.), situata a 277 m in un'arida
vallata al margine occidentale dell'altopiano arabico e collegata da un'ottima
strada a Gidda, suo porto naturale sul Mar Rosso. Patria di Maometto, è
la città santa del mondo islamico, interdetta ai non credenti, meta ogni
anno di centinaia di migliaia di pellegrini che incrementano una fiorente industria
alberghiera nonché l'artigianato del cuoio, dell'argento, del vasellame,
ecc. La vita economica della Mecca si accentra nella Masah, una via animatissima
che costituisce il principale bazar della città. In arabo, Makkah.
Storia
Sebbene le notizie sul periodo preislamico della Mecca siano molto scarse, è
noto tuttavia che nel sec. VI la città era già famosa per traffici
e ricchezze, trovandosi sul passaggio obbligato delle linee carovaniere tra
l'Arabia meridionale, la Siria e la Mesopotamia. Dominava la Mecca in forme
oligarchiche la tribù dei Quraish, d'ignota provenienza e allora ricchissima
per i profitti ottenuti dal traffico carovaniero e dal culto preislamico agli
idoli raccolti nella Ka!ba. La sua importanza s'accrebbe ulteriormente per aver
dato i natali a Maometto. Nei decenni successivi alla morte del Profeta i Meccani
tentarono invano di consolidare il primato religioso della loro città
facendone il centro politico dell'impero islamico: prima Medina, poi Damasco
e Baghdad s'opposero efficacemente alle pretese della Mecca; la decadenza dell'impero
abbaside si ripercosse sulla città, che nel 930 fu saccheggiata dagli
eretici carmati. Più tardi (sec. X), vi si stabilì il dominio
dei cosiddetti “sceriffi” (discendenti da !Ali e Fatima), durato
sin quasi ai nostri giorni: costoro si preoccuparono della loro prosperità
economica, ma non contestarono mai decisamente le varie dominazioni (Ayyubiti,
Mamelucchi, Ottomani) succedutesi in Arabia. All'inizio del sec. XIX la Mecca
fu occupata dai Wahhabiti che vi imposero un giogo pesante. Migliore fu poi
il governo di Ibn Sa!ud, wahhabita anch'egli e sovrano del Neged, che s'impadronì
dell'Higiaz (1924) eliminando l'ultimo sceriffo Husayn, per conglobare poi (1932)
tutti i suoi territori, Mecca compresa, nel regno dell'Arabia Saudita.
Religione
La Mecca è la città santa dell'islamismo, sede di un pellegrinaggio
obbligatorio almeno una volta nella vita, e luogo a cui si rivolgono i musulmani
per le cinque preghiere giornaliere. L'oggetto del pellegrinaggio è la
Ka!ba, un sacrario già venerato in epoca preislamica; verso la Mecca
guardano i musulmani quando pregano nelle moschee: essa è indicata da
un'apposita nicchia. L'importanza sacrale della Mecca è data per l'islamismo
dal fatto che è la città in cui il Profeta ha iniziato la sua
predicazione.
Arte
La Mecca è stata via via ingrandita e abbellita dalle varie dinastie
che ne assunsero il controllo. I califfi Omayyadi si servirono dell'opera di
artigiani cristiani, greci o copti e di materiali importati dall'Egitto e dalla
Siria per costruire intorno alla Ka!ba una grande moschea. Dopo consistenti
rifacimenti in epoca ottomana il santuario è stato oggetto di ulteriori
lavori fino ai nostri giorni.
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Mesopotàmia (Asia)
Generalità
Regione storica dell'Asia occidentale, dai confini incerti, estesa quasi interamente
nell'Iraq, con esigui lembi in Iran, Turchia e Siria e corrispondente al tratto
medio e inferiore del bacino imbrifero dei fiumi Tigri ed Eufrate. In senso
stretto, per Mesopotamia si intende la regione compresa tra i due fiumi fino
alla loro confluenza; questa posizione geografica è all'origine del nome
dato alla regione (dal greco mésos- medio e potamós -fiume). La
sezione settentrionale è chiamata Al-Jazirah, quella meridionale, denominata
Bassa Mesopotamia (anticamente Babilonide) e dagli Arabi Iraq, è una
pianura alluvionale fertilissima arricchita dal limo delle inondazioni del Tigri
e dell'Eufrate. Questa fertilità determinò fin dal V millennio
lo sviluppo dell'agricoltura e favorì l'insorgere di grandi civiltà
urbane. Geomorfologicamente è costituita dalla depressione tettonica
situata tra i rilievi dello Zagros (Iran) a E, del Tauro Orientale Esterno (Turchia)
a N, il Deserto Siriaco a W e quello Arabico a SW e affacciata al Golfo Persico
a SE. L'economia si basa sull'agricoltura (cereali, datteri, agrumi, cotone),
sull'allevamento di ovini e cammelli e sullo sfruttamento del sottosuolo (petrolio).
Storia: fino alla metà circa del III millennio
L'antica Mesopotamia emerse come chiara individualità storica, rispetto
alle regioni circostanti, quando alla metà del IV millennio a. C. lo
sviluppo tecnologico e sociale subì una sorta di “salto”
qualitativo, con la cosiddetta “rivoluzione urbana”. L'incremento
demografico reso possibile dal progresso delle tecniche agricole si coagulò
nella formazione di “città”, sedi del potere politico e delle
attività tecniche specialistiche. Il tempio o il palazzo reale che erano
al centro di ogni città erano in grado di risucchiare dalle campagne
un'eccedenza economica che serviva a mantenere specialisti delle tecniche dedite
non alla diretta produzione di cibo, ma alla trasformazione, allo scambio, alla
conservazione, distribuzione e direzione: artigiani, mercanti, addetti al culto,
personale militare e amministrativo, ecc. Culmine del processo fu l'introduzione
della scrittura, necessaria per la registrazione e il controllo dei movimenti
di beni e persone nell'organismo palatino, e che esprime concretamente il passaggio
dalla preistoria alla storia formalmente intesa. Il processo ora illustrato
fu più precoce in bassa Mesopotamia (periodo di Uruk, ca. 3500-3100)
forse per l'esigenza di coordinamento dettata dal problema dell'irrigazione
(essenziale per centri come Ur, Eridu, Uruk, ecc.). Successivamente il sistema
urbano si diffuse più a nord, risalendo le valli del Tigri (Assiria)
e dell'Eufrate (Mari), per raggiungere le regioni circostanti con un moto di
colonizzazione che fu solo di carattere culturale e non demografico (ca. 3100-2900).
Protagonisti di questa fase della storia mesopotamica sono stati due elementi
etnici diversi: Sumeri e Accadi. I primi, linguisticamente isolati e provenienti
forse da est, erano prevalenti nel sud, i secondi, appartenenti al gruppo linguistico
dei Semiti e provenienti da ovest, prevalevano al centro-nord. È difficile
e forse scorretto cercar di distinguere gli apporti culturali sumerici e semitici,
perché i principali elementi dell'alta cultura mesopotamica vennero costituiti
in loco su un supporto etnico già misto, e non portati dal di fuori.
La presenza di altri elementi presumerici (avvertibili nel lessico e nella toponomastica),
imparentati con gli Elamiti al sud e con gli Urriti al nord, rende più
complesso il quadro. Le prime notizie storiche-politiche precise risalgono al
periodo “proto-dinastico” (ca. 2900-2400): scarne iscrizioni reali,
notizie di carattere leggendario (è la cosiddetta “età eroica”
sumerica) e la lista reale sumerica permettono di sistemare la cronologia delle
varie dinastie coeve e spesso in lotta per il predominio: emersero al sud prima
Uruk e poi Ur, al centro Kis, mentre di carattere religioso più che politico
fu il prestigio di Nippur, sede del tempio di Enlil. Le notizie più numerose
sono su Lagas, dove fu una dinastia che va da Ur-Nanse fino al riformatore Urukagina.
In ogni città il re (lugal o en o ensi) che governava per conto del dio
cittadino controllava tramite l'organizzazione templare gran parte delle terre
e della manodopera, monopolizzava artigianato e commercio e traeva tasse e lavoro
coatto dalla popolazione “libera” dei villaggi. L'orizzonte politico,
rimasto finora piuttosto ristretto, con lotte tra città-Stato per il
possesso di zone di confine o per una supremazia del tutto teorica sull'intero
Paese, si ampliò a questo punto (ca. 2400) nella tendenza all'impero
universale, che, se rimase un'utopia come realizzazione pratica, mostrò
però il disegno politico di abbracciare tutto il mondo conosciuto, sulla
scia delle spedizioni commerciali alla ricerca dei prodotti esotici, e nei limiti
delle cognizioni cosmologiche del tempo. Sono chiare le basi teologiche dell'impero
universale: ogni comunità propugnava il proprio dio cittadino come signore
teorico di tutto il mondo e cercava di sottomettere al suo volere fasce sempre
più ampie di popoli circostanti.
Storia: la dinastia semitica di Akkad
Al tentativo di Lugalzaggesi (ca. 2380), che riuscì a unificare solo
il sud sumerico, seguì quello più efficace di Sargon di Akkad
(ca. 2375-2320) che riuscì a realizzare il dominio “dal mare inferiore
(Golfo Persico) al mare superiore (Mediterraneo)” e a fare della sua capitale
il centro del mondo conosciuto. Il prestigio di Sargon e dei suoi successori
fu grande in vita (sono i primi re divinizzati della storia mesopotamica) e
divenne poi materia di leggende e poemi eroici. La politica di forza della dinastia
semitica di Akkad incontrò resistenza nel particolarismo delle città
sumeriche, che conservavano la loro autonomia, e fu soprattutto minacciata dalla
pressione delle popolazioni montanare dell'altopiano iranico (Gutei, Lullubiti).
I re di Akkad fronteggiarono i due pericoli ma dovettero progressivamente cedere.
I Gutei presero il potere nella Mesopotamia centrale e le città sumeriche
recuperarono l'indipendenza. Il dominio guteo fu sentito come estraneo, di gente
rozza e inferiore, e il sud sumerico celebrò la loro espulsione (opera
di Utuhegal di Uruk) come una liberazione nazionale. La rinascita politica sumerica
fu completata da Ur-Nammu che iniziò la potente III dinastia di Ur (ca.
2112-2004). Suo figlio Sulgi ampliò i possedimenti fino a comprendere
tutta la Mesopotamia nonché l'Elam a E e parti della Siria a W. A differenza
dei re di Akkad, egli realizzò anche l'unificazione amministrativa dell'impero,
con la sostituzione di funzionari provinciali ai vecchi re cittadini, e con
la sostituzione di se stesso, re divinizzato, agli dei cittadini. Quelle grosse
imprese economiche che erano state i templi cittadini vennero così fuse
in un'unica colossale impresa che corrispose allo Stato di Ur, la cui efficiente
burocrazia ha lasciato archivi di centinaia di migliaia di tavolette contabili
che rivelano un'accentuata pianificazione del lavoro e della produzione. L'attività
economica privata era in quel periodo in ombra. Lo Stato di Ur entrò
in rapida crisi per la pressione dei nomadi Amorrei provenienti dalla Siria
e per la concomitante carestia: le città provinciali dovettero provvedere
da sole alle loro necessità e si organizzarono di nuovo in entità
statali di raggio civico. La capitale Ur resistette ancora un poco col suo prestigio,
finché una spedizione di Elamiti la rase al suolo.
Storia: dall'ingresso degli Amorrei al regno di Hammurabi
La frammentazione politica, l'ingresso su larga scala degli Amorrei in Mesopotamia,
la scomparsa del sumerico come lingua parlata e scritta nei documenti pratici
(restò in uso come lingua di culto e letteraria) diedero forma a un nuovo
mondo, ormai del tutto aperto ai rapporti politici e commerciali verso E e specialmente
verso W, non più come direttrici di una potenziale conquista universale,
ma come interlocutori alla pari. I rapporti commerciali sono noti dall'archivio
dei mercanti assiri nella “colonia” di Kanis (Anatolia centrale),
che mostra i traffici nel vivo svolgimento (vie e mezzi di comunicazione, materie
importate ed esportate, mezzi di pagamento e di credito, ecc.). Sul piano politico,
in bassa Mesopotamia l'egemonia fu contesa tra Isin e Larsa, ma più a
nord due nuovi centri acquistarono importanza: Esnunna e Babilonia (che ereditò
il ruolo delle vicine Kis e Akkad); ancora più a nord erano potenze di
prim'ordine Assur e Mari. Ci fu un periodo di lotte equilibrate, che durò
un paio di secoli (2000-1800), poi l'equilibrio cominciò a rompersi,
a S per opera del re di Larsa Rim-Sîn (1822-1763) che conquistò
Isin e Uruk, e a N per opera del re d'Assiria Samsi-Adad I (1813-1781) che controllò
Mari; poi definitivamente per opera di Hammurabi di Babilonia (1792-1750) che
con un sapiente gioco di alleanze e di voltafaccia sconfisse e annetté
Isin, Larsa, Esnunna, distrusse Mari, ridimensionò Assiria ed Elam, unificando
nuovamente la Mesopotamia fin quasi all'estensione del vecchio impero di Ur.
L'assetto organizzativo era in parte diverso: secolarizzazione della giustizia,
cessione di terre ai soldati, commercio in mano a privati, costituzione di ampie
fortune terriere, indebitamento dei contadini, periodici interventi dello Stato
ad annullare debiti e servitù per debiti. Un vivace quadro dell'epoca
è fornito dagli archivi di Mari, che però per la sua posizione
eccentrica ha messo in particolare evidenza i rapporti con l'occidente siriano
e il ruolo delle tribù nomadi, che nella bassa Mesopotamia avevano certo
minor peso. Altro quadro (di carattere idealizzato) lo ha fornito Hammurabi
col suo “codice” che, con l'intento di celebrare il regno di Hammurabi
come modello di buon governo, conserva il quadro della vita sociale e giuridica
del tempo.
Storia: dai successori di Hammurabi al 1115 a.C.
I successori di Hammurabi persero subito il controllo del sud (a vantaggio della
dinastia del "Paese del mare") e del medio Eufrate (a vantaggio dei
re di Hana). Ma i pericoli maggiori si addensavano dal nord, dove popoli nuovi
acquistavano concreta fisionomia politica. Gli Ittiti, unificato il territorio
anatolico e conquistata la Siria del nord, si spinsero con una fortunata spedizione
fino a Babilonia (Mursili); subito dopo i Cassiti, scesi dall'altopiano iranico,
presero il potere a Babilonia e governarono la Mesopotamia centro-meridionale
per quasi mezzo millennio (1592-1157). Parallelamente nell'alta Mesopotamia
gli Urriti si organizzavano in uno Stato unitario e forte, Mitanni, che giungeva
a controllare l'Assiria a E e la Siria a W. Questo periodo fu caratterizzato
dunque dalla prevalenza politica dei “popoli dei monti”, che introdussero
innovazioni tecniche (uso del cavallo e del carro leggero da guerra) e sociali
(i guerrieri nobili ricevevano dal re grandi proprietà in cambio dei
loro servizi), e al cui interno erano attive minoranze indoiraniche. Mutò
anche la scena internazionale, nessuna potenza poteva aspirare concretamente
all'espansione, e viceversa le conoscenze geografiche si erano molto ampliate,
e tutta una serie di grandi regni entrarono in contatto su un piano di parità.
Tra Stati vicini non mancavano tuttavia attriti, guerre per il possesso delle
zone di confine, dispute sul rango rispettivo. Ogni Stato attraversò
una sua parabola di potenza: il regno cassita fu inizialmente egemone in Mesopotamia,
Mitanni toccò il vertice intorno al 1500-1450, ma (ca. 1400-1350) fu
travolto dall'espansione ittita e perse il ruolo di grande potenza divenendo
Stato cuscinetto tra Ittiti e Assiri, dapprima vassallo dei primi e poi annesso
dai secondi. Il “medio regno” assiro fu invece in netta espansione
nei sec. XIV e XIII, liberatosi della tutela di Mitanni e sostituitosi a esso
nello scacchiere internazionale, passò all'offensiva a S contro Cassiti
ed Elamiti e si espanse a W assorbendo Mitanni e fronteggiando gli Ittiti sull'Eufrate.
Un nuovo stacco si ebbe nel sec. XII: l'invasione dei “popoli del mare”
sovvertì la scena internazionale (crollo degli Ittiti, fine dell'impero
asiatico dell'Egitto) e in particolare ricondusse l'Assiria entro i suoi confini
originari; più a S la dinastia cassita finì stremata dalle lotte
con l'Elam e il suo posto venne preso dalla II dinastia di Isin. Ma soprattutto
si fece massiccia l'infiltrazione delle genti aramaiche (Aramei), che ripetevano
dopo quasi un millennio l'azione delle tribù amorree. I nuovi nomadi
erano ora dotati di cammelli e potevano spingersi più avanti nel deserto,
aprendo nuove vie commerciali (specialmente verso l'Arabia meridionale). In
Mesopotamia settentrionale gli Aramei occuparono tutta la zona che era stata
mitannica, dando vita a una serie di Stati cittadini a base tribale, più
a S permasero più a lungo allo stato nomade e tribale, occupando soprattutto
la zona della bassa Mesopotamia che, già fiorente in età sumerica
e paleobabilonese, era poi entrata in crisi demografica ed economica per la
progressiva salinizzazione del suolo. Assiria e Babilonia reagirono diversamente
al nuovo stato di cose. Babilonia non aveva ormai più forza politica
e rimaneva soprattutto una terra di antiche città, di santuari prestigiosi,
di una cultura letteraria e religiosa da tutti ammirata. Le dinastie che si
susseguirono a Babilonia, strette tra Assiria ed Elam, erano indebolite all'interno
dall'incapacità di assoggettare le tribù aramaiche, incontrollabili
per genere di vita e per spirito bellicoso. L'Assiria invece, rimasta solida
e compatta nel suo territorio originario, affrontò con progressione ma
sempre con estrema determinazione gli Stati confinanti, temprandosi nell'abitudine
alla guerra permanente e portando a concreta realizzazione il vecchio ideale
di espansione incessante che puntava all'impero universale. Già Tiglatpileser
I (1115-1077) arrivò al Mediterraneo e manifestò le più
grandi ambizioni; ma fu un momento senza seguito.
Storia: dai grandi re del secolo IX ad Alessandro Magno
La vera espansione iniziò coi grandi re del sec. IX (Assurnasirpal II,
Salmanassar III) che assicurarono definitivamente all'Assiria tutta l'alta Mesopotamia
fino all'Eufrate, rinnovando così l'estensione dell'impero paleoassiro
di Samsi-Adad I e dell'impero medioassiro di Tukulti-Ninurta I. Nel sec. VIII
Urartu fu sconfitto e i regni della Siria e della Cilicia, già assoggettati
al pagamento di tributi più o meno regolari, vennero direttamente annessi
e ridotti a province assire. La conquista fu accompagnata da distruzioni e spoliazioni
(con crisi economica delle zone conquistate) e da deportazioni che rifornirono
di manodopera l'Assiria dissanguata dall'impegno bellico e rimescolando le nazionalità
spegnevano la volontà di riscossa dei vinti. Si diffondeva così
in Mesopotamia l'aramaico, lingua della maggior parte dei deportati. Al problema
di Babilonia si diede una soluzione diversa dalla riduzione a provincia: unione
personale o nomina di re filo-assiri, sistemi che però non spegnevano
la resistenza locale. Comunque nel sec. VII con Esarhaddon e Assurbanipal venne
assoggettato parte dell'altopiano iranico, fu conquistato l'Egitto (anche se
non durevolmente) e l'Elam venne eliminato dalla scena politica. Ma elementi
nuovi, solo allora in fase di organizzazione e perciò dotati di maggiore
vitalità, determinarono il crollo dell'impero. Da un lato furono le genti
dell'altopiano iranico: già le invasioni di Sciti e Cimmeri ai confini
nordoccidentale dell'impero assiro avevano dato un serio avvertimento; ma poi
i Medi si organizzarono in uno Stato forte ed espansionistico. D'altro lato
le tribù caldee di Babilonia passarono al contrattacco. La coalizione
del regno di Media e del regno caldeo (o neobabilonese) portò al crollo
subitaneo di quello assiro (612-609). I vincitori si spartirono il territorio:
ai Caldei spettarono quasi tutta la Mesopotamia (l'estremo nord andò
ai Medi) e i possessi siro-palestinesi. Le città assire, monumentali
creazioni e materializzazioni di tutti i tributi affluiti dalle province durante
secoli di dominio, furono rase al suolo per sempre; e la regione da centro del
mondo divenne terra di frontiera. Ma anche la rinascita neobabilonese non fu
duratura: quando agli alleati Medi subentrarono i Persiani (vedi Achemenidi)
di Ciro, il crollo fu rapido e senza alcuna resistenza (539; Nabonedo). Ancora
per qualche decennio, da Ciro a Dario, venne riconosciuta, formalmente, l'esistenza
di un regno di Babilonia, il cui sovrano era lo stesso re di Persia. Ma anche
questa autonomia, del resto solo formale, fu abolita da Serse, dopo diverse
rivolte dell'elemento indigeno, e più tardi la satrapia di Babilonia
fu costituita, oltre che dal sud, dall'Assiria e dalla Siria. Centro amministrativo
della satrapia rimase Babilonia, e l'aramaizzazione del Paese, ormai completa,
portò all'uso dell'aramaico come lingua ufficiale. L'organizzazione economica
e giuridica fu assimilata a quella dei conquistatori, sebbene per il diritto
privato si conservassero le antiche usanze, e anche nel culto si affacciarono
elementi iranici. Ancora Alessandro Magno, sconfitto Dario III ed eletta a sua
residenza Babilonia, volle mostrarsi come diretto continuatore ed erede, anche
attraverso matrimoni dinastici, dell'impero che aveva distrutto. Questa politica
di assimilazione dell'elemento greco alla cultura locale, identificata peraltro
dal Macedone in Mesopotamia non con l'elemento indigeno aramaico-babilonese,
ma con il ceto dominante iranico, se comportò per questo resistenze da
parte della popolazione, sollevò proteste vivissime, fino ad aperte rivolte,
presso gli stessi Greci, e alla morte di Alessandro la lotta per la successione
si svolse anche su questi temi.
Storia: da Seleuco I all'invasione degli Arabi
Si impose in Mesopotamia Seleuco I (354-280), e la sua dinastia riuscì
a reggere la Mesopotamia settentrionale e meridionale per più di 150
anni, perseguendo una politica di forte ellenizzazione del Paese, attraverso
la fondazione di diverse città, tra le quali Seleucia sul Tigri fu innalzata
a centro amministrativo della Mesopotamia, e soprattutto attraverso il loro
popolamento con elementi greci. Le organizzazioni templari per reazione dettero
grande impulso allo studio delle antiche lingue del Paese e alla copiatura delle
opere del passato, e Berosso, un sacerdote babilonese, rivendicò di fronte
ai Greci la nobiltà della tradizione culturale mesopotamica in un'opera
scritta appositamente in greco. Più duratura fu l'organizzazione amministrativa
che i Seleucidi dettero al Paese, diviso in numerose satrapie. L'organizzazione
seleucide fu mantenuta dai Parti arsacidi, che si impadronirono della Mesopotamia
fra il 150 e il 130 a. C., inserendola però nel loro sistema feudale
e suddividendo ulteriormente le satrapie in province, distretti e villaggi,
i cui capi godevano di larghissima autonomia. Per queste ragioni il dominio
partico fu disastroso dal punto di vista economico e sociale: la Mesopotamia
fu agitata da continue lotte fra signori e la vita alla corte di Seleucia, capitale
dell'Impero, fu caratterizzata da continui intrighi di palazzo. Questa situazione
offrì ampio spazio all'intervento romano, talvolta diretto (Crasso, Antonio,
Traiano, Lucio Vero, Settimio Severo, Caracalla), più spesso attraverso
una politica, inaugurata da Augusto, la quale, sotto la copertura di formali
trattati di pace, cercava di contrapporre satrapi a satrapi e pretendenti a
sovrani, portando il Paese a uno stato di completa anarchia. Fu facile quindi
ad Ardashir, fondatore della dinastia sassanide, spodestare il re arsacide Artabano
V (224) e impadronirsi dell'intera Mesopotamia fino a Hatra, che fu conquistata
assieme all'Armenia dal figlio Sapur I, al quale nel 260 toccò in sorte
di sconfiggere a Edessa e trascinare prigioniero in Iran lo stesso imperatore
di Roma Valeriano. Il dominio sassanide fu scandito da continue guerre contro
i Romani, ma, salvo occasionali puntate contro Seleucia-Ctesifonte di questi
e dei loro alleati (Odonato di Palmira, Caro, Giuliano), teatro degli scontri
fu prevalentemente l'Armenia, così che la Mesopotamia poté godere
di tre secoli di relativa pace. Durante il regno di Cosroe II (590-628), con
la conquista della Siria e della Palestina fino all'Egitto la Mesopotamia cessò
addirittura di essere una regione di frontiera, tornando a costituire il cuore
di un immenso impero. Ma la morte di Cosroe fu occasione improvvisa di una spaventosa
anarchia, aggravata tragicamente da un devastante straripamento del Tigri e
dell'Eufrate, che ridusse l'antica Babilonia a un'immensa palude. La strada
era così facilmente aperta all'invasione degli Arabi, che fra il 634
e il 640 si impossessarono del Paese, mettendo fine a otto secoli di dominio
iranico sulla Mesopotamia e dando così avvio alla storia dell'Iraq moderno.
Religione: generalità
La religione giustifica l'aspetto più caratteristico della cultura superiore
mesopotamica: la città. Alle origini di tale assetto è però
la cosiddetta città-templare, che viene costituita in risposta a una
divisione territoriale fatta a immagine della divisione dell'universo in tanti
settori, corrispondenti ciascuno a una divinità. Il territorio viene
così ripartito in tanti templi quante sono le divinità; e insieme
al territorio viene ripartita la popolazione in gruppi facenti capo ciascuno
a un tempio; questa polarizzazione finirà per raccogliere attorno a ciascun
tempio un agglomerato urbano. L'autonomia economica e politica di ciascun agglomerato
prenderà il sopravvento sull'interdipendenza religiosa: si avrà
allora la città-Stato che, tuttavia, quale che sia la sua storia (confederata
con altre città, o soggiogata da una città egemone), conserverà
la propria facies particolare mediante il culto di un suo dio poliade, quel
dio il cui tempio era stato alle sue stesse origini. Il sistema religioso politeistico
e l'assetto urbano sono, come si vede, strettamente correlati in Mesopotamia.
Tanto che oggi si attribuisce alla cultura mesopotamica l'origine del politeismo
allo stesso modo con cui le si attribuisce l'origine dell'assetto urbano.
Religione: le divinità
Le divinità del politeismo mesopotamico erano organizzate genealogicamente
e gerarchicamente; in una secondaria sistemazione teologica il loro ordine gerarchico
era dato da una cifra. Il dio più alto, An o Anu, ebbe la cifra di 60,
il numero più alto del primo ordine nel sistema sessagesimale mesopotamico.
Era il dio di Uruk; veniva concepito come un Essere Supremo celeste detentore
dell'autorità. Ma egli non l'esercitava; in sua vece governava il mondo
suo figlio Enlil, il dio della città di Nippur. Il potere di Enlil era
sostenuto da un terzo grande dio: Ea-Enki, il cui antichissimo santuario sorgeva
a Eridu. Il suo potere derivava dall'essere egli il padrone dell'Apsu, l'elemento
acquatico che significava il “precosmico”, o la sostanza da cui
il “cosmo” poteva prendere forma. Pertanto al potere di Enlil, che
consisteva nella sua facoltà di dare ordini e di punire i trasgressori,
si contrapponeva il potere di Ea-Enki posto fuori da ogni “ordine”,
che si esplicava come una specie di magia, nel senso di un'azione autonoma dalla
volontà degli dei. Anu, Enlil ed Ea-Enki sono convenzionalmente definiti
dagli studiosi una “triade cosmica”. Una seconda triade, altrettanto
convenzionale, è quella “astrale”: il dio-luna Sin della
città di Ur, il dio-sole Shamash (in sumerico, Utu) della città
sumerica di Larsa e della città accadica di Sippar, la dea Ishtar (sumerico
Innin) connessa con il pianeta Venere. Queste tre divinità seguono, nella
gerarchia, immediatamente quelle della “triade cosmica”. Altri dei
importanti, ma gerarchicamente inferiori, sono: Marduk e Assur, gli dei nazionali
rispettivamente dei Babilonesi e degli Assiri; Adad, il “dio della tempesta”,
che appare verso la fine del III millennio a. C., portato, forse, da una più
recente ondata semitica nordoccidentale; Ereshkigal, la regina degli Inferi,
e il suo sposo Nergal; Tammuz, il “dio che muore”, collegato alla
vegetazione, ecc. Il numero delle divinità era altissimo; nella lista
più lunga e più antica, giuntaci mutila dalla città di
Surrupak, ne dovevano essere elencate ca. 2500. Si conoscono anche due collettività
divine: gli Anunnaki e gli Igigi. A volte si trovano nomi divini che, in altra
documentazione, appaiono come epiteti di un dio. Per esaltare e caratterizzare
un dio, d'altra parte, si usavano non soltanto gli epiteti, ma anche i nomi
di altri dei. Per esempio, nell'Enuma elsh, per esaltare Marduk si dice che
tutti gli dei gli diedero i propri nomi, a titolo di ringraziamento e di onoranza
per averli salvati da Tiamat, un mostro caotico che minacciava le loro esistenze.
Il culto giornaliero degli dei era piuttosto uniforme: nel tempio, dimora del
dio, la sua statua veniva ogni mattina lavata, vestita e ornata; durante il
giorno le erano serviti quattro pasti. Il sacrificio babilonese era sentito
soprattutto come un pasto del dio; ma c'erano anche altri tipi di sacrifici
(purificatori, espiatori, ecc.). Le feste annuali delle singole divinità
variavano secondo il carattere del dio. La festa del dio poliade coincideva
con il capodanno (akitu): in questa occasione il dio veniva trasportato in processione
dal tempio a un suo santuario esterno alla città detto “casa dell'akitu”,
donde faceva ritorno con l'inizio del nuovo anno. Oltre al tempio, gli dei avevano
anche una “torre” (ziqqurat), consistente in una piramide tronca
a terrazze.
Religione: il clero
Il sacerdozio era assai articolato e complesso nelle sue numerose specializzazioni;
si ha una collezione di ben 34 nomi sacerdotali maschili e femminili. A capo
del culto era lo stesso re, quasi un sommo sacerdote. C'erano poi i dignitari
di corte a cui sembra facesse capo l'amministrazione dei singoli templi. Seguiva
il personale officiante, addetto alle varie cerimonie del culto, e, in posizione
subordinata, c'erano numerosi specialisti: lavatori, purificatori, untori, cantori,
lamentatori, musici, ecc. Al di fuori del servizio templare si avevano gli addetti
a pratiche particolari come la divinazione e l'esorcismo. Per la città
di Sippur si conosce l'esistenza di un corpo di sacerdotesse vergini, scelte
fra le famiglie nobili e addette al culto del dio-sole Shamash. Altre sacerdotesse
erano le prostitute sacre, che ci sono attestate per il tempio di Ishtar a Uruk.
Religione: la divinazione e l’astrologia
Una parte di rilievo nella religione mesopotamica era data al complesso ideologico
costituito dalla divinazione e da ciò che si può chiamare in senso
lato “stregoneria”: i testi mantici per numero vengono subito dopo
i documenti economico-amministrativi; pure abbondantissima è la letteratura
esorcistica (scritta prevalentemente in accadico): ogni male veniva attribuito
all'azione di spiriti malvagi, o fattucchieri, stregoni, ecc.; mediante la divinazione
s'individuava il colpevole, e quindi si provvedeva a scongiurare la “stregoneria”
in corso. Lo scongiuro (shiptu) poteva avere anche forma di preghiera a un dio
(e allora avveniva per lo più nel tempio del dio invocato), ma ciò
che contava era il rito che accompagnava la preghiera, quasi che questo costringesse
il dio ad agire nella maniera voluta. Alla divinazione si ricorreva non soltanto
per diagnosticare la “stregoneria”, ma in tutti i momenti critici
(sentiti ugualmente come una minaccia di forze oscure e avverse). Non si compiva
nessuna azione importante senza aver prima consultato l'indovino. L'epatoscopia
e l'estispicio (consultazione del fegato e delle viscere degli animali sacrificati)
erano forse le pratiche più antiche, ma si può dire che tutte
le pratiche divinatorie fossero conosciute. Particolarmente sviluppata in tempi
più recenti fu l'astrologia, a cui si devono la sistemazione del cielo
in 12 zone (i segni dello zodiaco) e la sua misurazione in gradi (360 all'orizzonte),
in connessione con la misurazione del tempo con un “circolo” annuo
di 360 giorni composto di 12 mesi di 30 giorni ciascuno; in tal modo il cielo
contrassegnava il tempo terrestre, determinando i destini degli uomini. Stando
alla documentazione parrebbe che tutto il complesso stregonistico-divinatorio
sia stato un apporto semitico; infatti poco o niente è riferibile ai
Sumeri la cui visione del mondo, del resto, si esprimeva appieno nell'originale
creazione politeistica. I miti più antichi, d'origine sumerica, parlano
della creazione del mondo e dell'uomo. Era noto un mito del diluvio. Altri miti
parlano delle origini delle istituzioni economiche (cerealicoltura) e sociali.
Accenni a miti, o interi episodi, sono contenuti in scongiuri, preghiere, inni,
ecc. L'inno a Marduk contiene tutto un importantissimo evento cosmogonico. Molto
materiale, poi, proviene da poemi epici, giuntici in varie redazioni frammentarie,
di cui il più noto è l'Epopea di Gilgamesh. Altri miti che è
stato possibile recuperare sono: la discesa agli inferi della dea Ishtar, l'epopea
di Erra, varie descrizioni degli inferi e miti di singole divinità. Secondo
alcune teorie questa letteratura mitica sarebbe stata redatta per servire da
“canovaccio” ad azioni di culto. È certo d'altronde che per
quanto riguarda la Mesopotamia la recitazione di miti, fissati per iscritto
quasi come formule di preghiera, era una vera e propria azione rituale; al riguardo
si ricorda che l'Enuma elish veniva recitato alla festa di capodanno, come se
la rievocazione di quell'evento cosmogonico (nascita di un nuovo mondo) influisse
magicamente sulla nascita del nuovo anno; ma si possono anche citare quegli
scongiuri che traggono la loro potenza esclusivamente dalla rievocazione di
una vicenda mitica.
Religione: l'escatologia
La religione mesopotamica non ha sviluppato mai una vera e propria escatologia:
il mondo dei morti (Arallu) appare soltanto come una connotazione negativa rispetto
al mondo dei vivi. L'ombra o lo spirito dell'uomo (etimmu), che sopravvive alla
sua morte, è destinato a un'esistenza tristissima. Non si ha l'idea del
“morto potente”, capace di aiutare i vivi; al suo posto si ha l'idea
del “morto indigente”, sempre affamato e assetato. I suoi parenti
gli fanno offerte di acqua e di cibo per impedirgli di uscire dalla tomba in
cerca di nutrimento. Un morto vagante sulla terra è pericoloso per i
vivi e ci si difende da lui con appositi scongiuri.
Arte
Una sintesi dell'arte mesopotamica deve necessariamente prendere le mosse dal
periodo protostorico e dal nord, dove si svilupparono le prime culture neolitiche
di Tell Hassuna e Samarra e, successivamente, di Tell Halaf. La cultura che
ebbe il suo centro a Tell al-Ubaid si diffuse invece su tutta l'area mesopotamica:
a essa risalgono i primi edifici in mattoni crudi, destinati ad avere pieno
sviluppo nel periodo di Uruk (detto anche predinastico), tra la fine del IV
e l'inizio del III millennio a. C. Warka, l'antica Uruk, era già una
vera e propria città, i cui abitanti erano dediti all'agricoltura e al
commercio (attività attestata da alcuni splendidi sigilli cilindrici);
la ornavano numerosi templi posti su un'altura artificiale (ziqqurat). Al periodo
predinastico risale anche l'invenzione della scrittura pittografica. Nel successivo
periodo protodinastico, alle soglie della storia (ca. 2900-2400 a. C.), il predominio
era ancora del sud, dove fiorì la città di Ur, ma l'influenza
dell'arte sumerica si ritrova a Tell Asmar, Tell Brak, Mari e Hafagah. L'arte
figurativa cominciò a esemplificarsi in molteplici forme (scultura, composizioni
acrolitiche, stele, intagli, mosaici) ed è documentata da numerose importanti
opere. Nella seconda metà del III millennio l'ascesa degli Accadi portò
a mutamenti anche in campo artistico. Nei sigilli si nota un nuovo senso dello
spazio, per cui ogni figura viene isolata sullo sfondo e acquista spicco, come
pure nella stele di Naram-Sin, il capolavoro di questo periodo. La fine della
dinastia accadica interruppe anche la sua tradizione artistica. Se si eccettuano
le opere di Mari e di Lagas, il successivo periodo della III dinastia di Ur
non offre novità di rilievo. In architettura, la ziqqurat di Ur-Nammu
a Ur o il tempio di Gimil-Sin a Tell Asmar (Esnunna) sono notevoli più
per la maestosità, raggiunta con nuovi accorgimenti tecnici, che per
innovazioni strutturali. Per quanto riguarda i rilievi, le stele ripetono monotonamente
il tema della presentazione delle offerte alla divinità; solo le scene
secondarie mostrano qualche originalità. Espressione significativa dell'arte
dell'epoca di Hammurabi sono i “ritratti” del re, in pietra e in
bronzo, e la famosa stele con il codice delle leggi. Più tardi, l'arte
del Mitanni a N e dei Cassiti a S continuò in una certa misura le tradizioni
babilonesi. Intanto, alla metà circa del sec. XIV, sorse all'orizzonte
la potenza assira, che espresse un'arte nuova, laica: le scene dei sigilli e
dei rilievi rievocano battaglie vittoriose o esaltano il sovrano e la sua corte.
In architettura gli Assiri ripresero il tema del bit-hilani e adottarono una
decorazione ad alti pannelli smaltati. L'attività edilizia ebbe notevole
impulso, soprattutto con Tukulti-Ninurta, cui si devono i templi di Assur e
di Kiar Tukulti-Ninurta. Il periodo neoassiro (sec. IX-VII) fu anch'esso ricco
di successi militari, con re pronti a edificare, scolpire o dipingere nuove
pareti per rievocarli. Assurnasirpal II fondò Kalakh, Sargon II Dur-Sarrukin,
Sennacherib ricostruì Ninive, tutte città a vasto respiro, circondate
da cinte murarie possenti, con acropoli che racchiudevano palazzi reali, edifici
amministrativi e templi, riccamente e variamente decorati. Quando Ninive cadde
sotto la spinta medo-scita, dell'effimera dinastia neo-babilonese (609-539)
creata da Nabopolassar e da suo figlio Nabucodonosor rimasero come testimonianza
a Babilonia un palazzo reale, il tempio di Marduk, la porta di Ishtar e la famosa
“torre di Babele ”.
Omnia Storia Panorama- © 2003 Istituto Geografico De Agostini
moghul
agg. e sm. pers. Mongolo, con particolare riferimento alla dinastia indiana
di origine mongola dei Moghul.
Omnia Storia Panorama- © 2003 Istituto Geografico De Agostini
ottomano, Impèro-
Storia
Stato turco, formatosi nel tardo Medioevo in territorio bizantino e precisamente
nell'Asia Minore di NW ed estesosi rapidamente in tutti i sensi sino a comprendere
vaste regioni d'Asia (Mesopotamia, Siria e Palestina, Higiaz, ecc.), d'Africa
(Egitto, Africa settentrionale) e d'Europa (Penisola Balcanica, Russia meridionale,
ecc.). Tale Stato durò oltre sei secoli (ca. 1300-1922) e rappresentò
nella storia europea e mediterranea un elemento d'importanza capitale, pur essendo
considerato quasi sempre (e forse a torto) dagli Europei come qualcosa d'estraneo,
soprattutto a causa della forte impronta musulmana. Originari, come tutti i
Turchi, dell'Asia centrale, gli Ottomani (ossia “discendenti di !Osman
od !Othman”: prima il nome designava la dinastia, più tardi il
popolo) vennero probabilmente nell'Anatolia con l'invasione selgiuchide (sec.
XI) e da quei sultani furono investiti della signoria di un territorio corrispondente
in parte all'antica Bitinia. Le loro conquiste in paese cristiano furono rapide
e durature: Brussa (1326), Nicomedia (1337), Gallipoli (1354), Adrianopoli (1361-62),
Sofia (1386). Nel 1391 ebbe inizio l'attacco a Costantinopoli, ferma nella resistenza,
ma ormai condannata. Il dominio ottomano si era intanto allargato a quasi tutta
l'Anatolia: tutti i principi spodestati si allearono allora con Tamerlano, che
stava creando un immenso impero mongolo, e lo spinsero contro il sultano ottomano
Bayazid I, che nel 1402 fu battuto e catturato ad Ankara. Dalla grave crisi,
che salvò momentaneamente Costantinopoli, gli Ottomani si risollevarono
con Maometto I, che ridiede unità allo Stato (1413) e con suo figlio
Murad II, che tornò ad assediare Costantinopoli ed estese i suoi domini
verso la Grecia, l'Albania e l'Ungheria, sbaragliando una coalizione cristiana
a Varna (1444). Nel 1453 il giovane sultano Maometto II s'impadronì dell'isolata
Costantinopoli senza eccessiva difficoltà: da quel momento gli Ottomani
poterono figurare come i realizzatori degli sforzi musulmani di tanti secoli.
Con Maometto II Fatih (“il Conquistatore”) l'Impero ottomano si
annetté la Grecia (Atene, 1456; Morea, 1460), l'Albania (1461), la porzione
d'Anatolia non ancora sottomessa (1472), le colonie genovesi del Mar Nero (1475),
e cercò di allungare i suoi tentacoli sino alla Penisola Italiana (incursione
su Otranto, 1480). Con Bayazid II (1481-1512), l'Impero ottomano arrotondò
i suoi confini meridionali a danno dei sultani mamelucchi di Siria e d'Egitto;
con Selim I (1512-20) si allargò addirittura sino a comprendere Siria,
Egitto e Arabia, superando i risultati dei Selgiuchidi che non avevano saputo
creare uno Stato unitario. Penetrando profondamente nella vita dell'Occidente,
l'Impero era riuscito a intrecciare qualche utile relazione commerciale, non
già a promuovere scambi culturali: il Rinascimento europeo rimaneva lettera
morta per uno Stato dall'anima religiosa e guerriera che ricusava quel tipo
d'influenza. Le conquiste proseguirono con Solimano I (detto il Magnifico; 1520-66),
che s'impossessò di Belgrado (1521), di Rodi (1522), di Buda (1529),
di Baghdad (1534), di Tunisi e dell'Algeria (1534), delle Cicladi (1540), dello
Yemen (1547), di Tripoli (1551); per mare la potenza turca teneva testa a Venezia
e la costringeva a retrocedere, mentre per terra conteneva ogni tentativo di
riscossa di Spagna e d'Austria. Al tempo di Selim II (1566-74), lo slancio espansionistico
sembrò esaurito; gli Ottomani, battuti duramente a Lepanto (1571) , ripresero
faticosamente il sopravvento. Ma negli anni successivi la decadenza parve accentuarsi.
Si alternarono per circa un secolo vittorie e sconfitte: Baghdad fu perduta
e ripresa; Creta venne occupata dopo una lunga guerra con Venezia; gli Ottomani
approfittarono della debolezza asburgica per attaccare l'Austria e la stessa
Vienna, ma furono definitivamente ricacciati nel 1683 dalle forze imperiali
e dai polacchi di Sobieski. La decadenza , fino ad allora ben mascherata, divenne
più visibile dalla fine del sec. XVIII in poi. I Turchi rinunciarono
successivamente all'Ungheria e alla Transilvania (1699), cedendo ancora di fronte
alla pressione austriaca (Pace di Passarowitz, 1718), per riprendere a Belgrado
(1739) i territori perduti. Ma fu questo il loro ultimo successo anche perché,
se l'Austria tentennava, la Russia incalzava vigorosamente. La preoccupazione
per l'avanzata russa spinse in seguito le potenze occidentali a proteggere l'Impero
Ottomano: la Questione d'Oriente divenne ben presto per l'Europa un problema
scottante. L'ascesa della Russia verso una posizione di grande potenza segnò
praticamente la fine del predominio ottomano nei Balcani; i due avversari erano
di forza ineguale. I Russi, ancora nel sec. XVIII, avanzarono in Caucasia, entrarono
in Bessarabia, in Moldavia, in Valacchia, conquistarono e fortificarono la Crimea
(1783): i Turchi perdettero l'egemonia sul Mar Nero che le flotte russe percorrevano
ormai liberamente. Nei frequenti conflitti, eserciti e flotte ottomani subirono
dure sconfitte. L'impossibilità di reggere al confronto con le progredite
nazioni europee divenne evidente agli occhi degli Ottomani più illuminati;
anche qualche sultano come Selim III o Mahmu'd II avvertì l'urgenza di
rinnovare gli ordinamenti dello Stato; Mahmu'd riuscì nel 1826 a eliminare
il turbolento corpo dei giannizzeri. Si riorganizzò l'esercito secondo
modelli europei; si tentarono le prime timide riforme. Il sultano !Abd ül-Megid
I emanò nel 1839 il hatt-i serif (nobile rescritto) con cui i sudditi
erano dichiarati eguali dinanzi alla legge, mentre gli ordinamenti giudiziario
e finanziario subirono radicali riforme. Tali riforme (tanzimat) si realizzarono
molto lentamente a causa dell'ostruzionismo degli ambienti più retrivi.
Solo dopo la guerra di Crimea si notarono un vero progresso nell'istruzione
dei sudditi dell'Impero e un ammodernamento reale dell'amministrazione. Nel
1876 si giunse addirittura alla Costituzione, largita dal sultano !Abd ül-Hamid
II, che però tornò presto al vecchio dispotismo. Solo nel 1908
un nuovo movimento, guidato dal Comitato d'Unione e Progresso, costrinse il
vecchio sultano a rimettere in vigore la Costituzione. Frattanto l'Impero ottomano,
che aveva resistito in qualche modo alla pressione delle grandi potenze, si
sfaldava dinanzi a un nemico “interno”, il nazionalismo dei popoli
balcanici, eccitato soprattutto dalla Russia. Di fronte a questo nemico, il
cedimento fu pressoché totale: i Greci (1821-30), i Serbi (1804-78),
i Romeni (1859-78), i Montenegrini (1851-78), i Bulgari (1876-1908), gli Albanesi
(1878-1913), i Cretesi (1841-99), in seguito a insurrezioni locali o a guerre
generali, ottennero l'indipendenza. Nel 1913 i domini ottomani in Europa furono
ridotti alla porzione orientale della Tracia. Nel frattempo, anche la parte
non europea dell'Impero ottomano aveva subito duri colpi. L'Egitto era diventato
autonomo (1841), Libanesi, Armeni e Arabi si erano sollevati ripetutamente contro
il regime ottomano, mentre la Francia, occupando Algeri (1830) e Tunisi (1881),
e l'Italia, attestandosi in Libia e nel Dodecaneso (1912), avevano mutilato
spietatamente il corpo malato dell'Impero. La I guerra mondiale non fu fortunata
per gli Ottomani che, alleandosi con gli Imperi centrali, rimasero travolti
nel loro crollo. Persino l'Anatolia fu parzialmente occupata e presieduta dalle
truppe dell'Intesa. Il Parlamento ottomano tentò coraggiosamente di salvare
lo Stato (1920) proclamando l'unità indivisibile dei territori che lo
componevano. Ma intanto Mustafa Kemal iniziava in Anatolia una “guerra
di liberazione” e costituiva una nuova repubblica democratica turca (Turchia).
Il sultanato ottomano, privo ormai di ogni autorità e di ogni funzione,
scomparve il 1º novembre 1922, e pochi giorni più tardi l'ultimo
sultano, Maometto VI, abbandonò il Paese su una nave britannica.
Religione
Principale caratteristica dell'Impero ottomano fu la sua impronta religiosa:
gli Ottomani realizzarono in questo Impero la loro vocazione musulmana. Esso
fu sentito e sviluppato in funzione dell'espansione dell'Islam nel mondo, ma
soprattutto di fronte all'Europa cristiana: per questo il suo prestigio tra
i seguaci dell'Islam fu sempre molto alto. La seconda caratteristica dell'Impero
ottomano sta nella figura del sultano: monarca dispotico non fornito d'autorità
spirituale, ma cosciente di un'elevata missione che gli proveniva dall'investitura
accordatagli dagli alti funzionari dello Stato e specialmente dagli !ulama.
Una terza caratteristica consiste nello spirito guerriero che faceva dell'Impero
ottomano una forza perennemente protesa alla conquista, anche se i giannizzeri,
nucleo principale delle sue milizie, non erano che cristiani islamizzati; il
declinare di tale aggressività verso il sec. XVII e il prevalere dell'intrigo
politico segnarono l'irrimediabile decadenza dell'Impero stesso. Una quarta
caratteristica sta nel fatto che l'Impero ottomano era retto da una élite
di politici e militari e da un'altra élite di giuristi e dottrinari:
turca e musulmana quest'ultima, ma ex cristiana e straniera la prima. Nell'insieme,
l'Impero ottomano rappresentò una forza viva e non infeconda nella storia
del Mediterraneo e dell'Europa; ma il non essersi saputo rinnovare a tempo gli
tolse la possibilità di sopravvivere all'età delle grandi rivoluzioni.
Arte
L'arte dei Turchi Ottomani, pur risentendo di influssi selgiuchidi, bizantini
e di lontana ascendenza ellenistica, elaborò uno stile originale che
si diffuse in maniera pressoché uniforme nel vasto Impero. L'aspetto
più evidente delle moschee ottomane è l'abbandono della planimetria
tradizionale per un impianto centrale, con atrio ad arcate, di tradizione bizantina;
le sale di preghiera sono costituite da un ambiente quadrato, coperto da una
grande cupola e preceduto da un portico a travate con cupolette, cui si affiancano
ambienti adibiti ad aule, tribunali, biblioteche, ecc. Già presente nelle
più antiche capitali (Bursa e Iznik), questo schema trovò poi
compiuta espressione nelle grandi moschee imperiali di Istanbul (tra cui quelle
di Solimano, 1550; di Rustem Pascià, ca. 1561; di Ahmed I, 1607-16) ed
Edirne. Non mancano tuttavia moschee di tipo selgiuchide, con sala larga a navate
parallele alla qibla, divise in travate a mezzo di pilastri, e coperte da cupole
su pennacchi (per esempio Ulu Cami di Bursa, Eski Cami di Edirne, ecc.); altre
conservano elementi di strutture cristiane, con un doppio portico corrispondente
al doppio nartece delle chiese bizantine (per esempio Yesil Cami di Iznik, Mahmu'd
Pascià di Istanbul, ecc.). Le grandi moschee di Istanbul si rifanno più
direttamente all'impianto di S. Sofia (trasformata in tempio islamico), presentando
una sala centrale coperta da una grande cupola, allargata da semicupole in corrispondenza
della qibla e dello spazio a questa opposto, e con navate laterali anch'esse
cupolate (moschee di Maometto II e di Bayazid II); tuttavia soltanto nelle opere
del grande architetto Sinan, all'epoca di Solimano il Magnifico, venne uguagliato
il capolavoro giustinianeo. Più tardi, soprattutto a Istanbul, vennero
accolti anche schemi ed elementi decorativi europei, prima barocchi e poi rococò,
che modificarono totalmente l'aspetto degli edifici, anche religiosi. Un elemento
assai tipico delle moschee ottomane è il minareto, dalla canna cilindrica
slanciatissima terminante con una punta “ad ago”, che, in numero
di due, quattro e persino sei, serve da ornamento e da motivo equilibratore
dell'intera massa muraria. L'intensa attività edilizia degli Ottomani
si rivela anche dal gran numero di madaris (madrase), di tipologia selgiuchide,
sparse in tutto il Paese; di imaret (ospizi per i poveri), di ospedali e di
refettori pubblici annessi ai principali complessi religiosi. I türbe (mausolei)
dei sovrani e dei loro familiari, dalla struttura anatolica consueta (base poligonale
o cilindrica, con copertura piramidale o conica), fanno di solito parte di tali
complessi e talvolta assumono proporzioni imponenti, come quello di Solimano,
eretto da Sinan nel 1566. Le costruzioni civili e militari non sono meno numerose
e comprendono bagni pubblici (hamman); stabilimenti termali; caravanserragli
(han) cittadini, contenenti botteghe e magazzini; fontane pubbliche monumentali,
fortificazioni. Fra queste ultime sono da ricordare i castelli di Anadoluhisarie
di Rumelihisari che furono eretti rispettivamente da Bayazid I (1395) e da Maometto
II (1542) sulle rive del Bosforo, con la cinta di mura interrotta da grandi
torri, di cui alcune coperte da tetti conici. I palazzi imperiali, di cui ci
rimane il Nuovo Serraglio (Topkapi Saray) di Istanbul, ideato (1454-58) da Maometto
II, ma ampliato in epoche successive, specie dopo l'incendio del sec. XVIII,
erano formati da padiglioni, sparsi entro diversi cortili, con giardini alberati.
La decorazione architettonica, dapprima ottenuta con pannelli di pietra, marmo
e stucco, incisi con arabeschi floreali e geometrici, preferì, dal sec.
XVI in poi, vivaci rivestimenti parietali in mattonelle di ceramica smaltata
con fiori di vari colori rialzati con dorature. Tali ceramiche venivano prodotte
dalle scuole di Iznik e poi di Kütahya e solo nel sec. XVII vennero sostituite
da dipinti e ornati rococò, di gusto occidentale. Iznik, oltre alle mattonelle,
produceva anche vasellame dipinto di gran pregio. Un posto importante nella
decorazione di edifici, sia sacri sia profani, ebbero le lacche su legno, con
motivi non di rado figurati. La pittura parietale e la miniatura ebbero grande
sviluppo, specie nei sec. XV-XVIII, e vivaci scambi intercorsero tra gli artisti
turchi e quelli occidentali (Gentile Bellini a Istanbul e il pittore Sinan a
Venezia). La miniatura turca, sebbene risenta di tradizioni centro-asiatiche,
ha caratteri di originalità e di grande rigore stilistico, con le vigorose
personalità di Siyah Qalem (Penna Nera) del sec. XV e di !Osman Naqqas
del sec. XVI. Da ricordare anche le industrie di tessuti e di tappeti dai disegni
e colori raffinati, le sculture lignee, i metalli lavorati, i vetri.
Omnia Storia Panorama- © 2003 Istituto Geografico De Agostini
Safàvidi o Safàwidi
Storia
Dinastia persiana che regnò in Persia dal 1502 al 1736. Discendeva dallo
sceicco Safit ad-Din (1253-1334) di Ardabil, capo di dervisci, che intorno al
1399 si convertì dal sunnismo allo sciismo. Fondatore della dinastia
fu lo scià Isma!il I (1487-1524), il quale, dopo aver conquistato Tabriz,
roccaforte dell'orda rivale del Montone Bianco, e approfittando della decadenza
dei Timuridi, fu incoronato nel 1501 re dell'Azerbaigian e ricostituì,
intorno al 1510, dopo nove secoli, l'unità della Persia. Isma!il proclamò
lo sciismo religione di Stato, il che dette al susseguente conflitto con il
sunnita impero ottomano il carattere di guerra di religione. Dopo la sconfitta
di Cialdiran (1514), l'impero safavide conobbe una fase recessiva, da cui uscì
sotto la guida di ‘Abbas I il Grande (1587-1629), che riportò importanti
vittorie sui Turchi, cui tolse Baghdad, e sui Portoghesi, che privò del
controllo sul Golfo Persico. L'ultimo secolo di regno della dinastia fu, salvo
la parentesi rappresentata da ‘Abbas II (1642-1667), un periodo di declino.
L'impero safavide crollò infine sotto i colpi degli Afghani e di Nadir
Shah. Il regno safavide costituì un lungo periodo di floridezza e di
prestigio per l'impero persiano, cui diede lustro anche l'imponente fioritura
artistica.
Arte
Culturalmente dipendenti dalla tradizione medievale turco-iranica, i Safavidi
seppero tuttavia trovare caratteristiche proprie e soluzioni costruttive originali.
I frequenti contatti con l'Occidente, oltre a far conoscere tecniche nuove,
specialmente per quanto riguarda la pittura, contribuirono a dare agli edifici
un maggior senso delle proporzioni, temperando la tendenza alla verticalità
di talune strutture con l'armonia dell'insieme. Fra le numerose costruzioni
religiose del periodo dello scià !Abbas si ricordano la splendida Maydan-i
Shah di Esfahan, sulla piazza omonima, nel classico schema a quattro iwan che,
pur nelle sue grandiose proporzioni, sembra levitare nello spazio alleggerita
dalla splendida decorazione ceramica abilmente ritmata. Altrettanto bella, anche
se molto diversa e più piccola, è la moschea di Shaikh Lutfullah,
formata da un'ampia sala quadrata coperta da una cupola a doppio scafo, completamente
rivestita da mattonelle smaltate in vari toni di turchese e giallo. Fra le realizzazioni
civili, benché siano in gran parte perduti gli splendidi palazzi, rimangono
alcune notevoli costruzioni che si inseriscono nella tradizione timuride dell'architettura
da giardino, caratterizzata nel mondo iranico da padiglioni con terrazze e balconate:
il palazzo a sei piani di !Alì Kapu, il sontuoso Cihil Sutun (1590),
dalle stanze fastosamente dipinte, il raffinato ed elegante padiglione di Hasht
Bihisht (1669), a pianta ottagonale. Ispirate a ideali di grandiosità
e insieme di razionalità sono anche le grandi sistemazioni urbanistiche
di Esfahan, Ardabil, Mashhad e la realizzazione di opere pubbliche, quali i
monumentali ponti-diga e il Bazaar di Esfahan, i bagni pubblici di molte città,
ecc. Grande impulso, in questo periodo, ebbero anche la pittura, la manifattura
di tappeti e arazzi, le argenterie e le opere in lacca, smalto, papier-maché
(scatole, portapenne, specchietti, ecc.). Fra i pittori, il più stimato
fu Riza-i !Abbasi, che affrescò anche numerosi palazzi. Muhammad Zaman,
inviato a studiare in Italia, importò tecniche e moduli occidentali,
che furono imitati dai pittori di corte, insieme con le incisioni di Dürer
e di altri artisti fiamminghi e italiani.
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saracèno
sm. [sec. XIII; dal latino tardo Saracenus, dal greco Sarakenós]. Nome
generico (per lo più al pl.) dato ai musulmani nel Medioevo cristiano:
le guerre contro i Saraceni. Come agg., di quanto a essi si riferisce o appartiene:
una sanguinosa scorreria saracena; grano saraceno, vedi grano saraceno.
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Sicìlia
Geografia
Regione autonoma a statuto speciale (25.708 km2; 5.080.847 ab.), costituita
dall'omonima isola (25.426 km2) bagnata dal mar Tirreno a N, dal mar Ionio a
E e dal mare di Sicilia a SW, e dagli arcipelaghi delle Eolie (o Lipari), delle
Egadi e delle Pelagie, nonché dalle isole di Ustica e Pantelleria, e
separata tramite lo stretto di Messina dalla penisola italiana (Calabria) .
Capoluogo regionale è Palermo. Amministrativamente è divisa nelle
province di Agrigento, Caltanissetta, Catania, Enna, Messina, Palermo, Ragusa,
Siracusa, Trapani. L'isola di Sicilia è la più vasta del mar Mediterraneo.
Ha forma di triangolo, che le valse l'antico nome greco di Trinacria con riferimento
alle sue tre cuspidi, rappresentate dagli odierni Capo Boeo (o Lilibeo) a W,
Punta del Faro (o capo Peloro)) a NE e Capo Isola delle Correnti a SE. Il termine
Sicilia risale all'antichità insieme con quello di Sicania, sul quale
prevalse già in epoca classica, estendendosi successivamente, in età
medievale, a designare i domini prima normanni e poi svevi nell'Italia meridionale.
L'isola fu per secoli divisa amministrativamente nelle tre "valli"
(circoscrizioni) di Mazara (o di Mazzara) a W, di Demone a NE e di Noto a SE;
nel 1817 entrò in vigore una nuova ripartizione amministrativa in sette
valli o province, che rimase pressoché inalterata fino al 1927, anno
dell'istituzione delle province di Enna e di Ragusa.
Geomorfologia
L'isola è in prevalenza montuosa e collinare. I rilievi più elevati
sorgono nel settore nordorientale: qui si trovano il massiccio apparato vulcanico
dell'Etna (3340 m), il più alto d'Europa, posto tra la Piana di Catania
e le valli dell'Alcantara e del Simeto, e il cosiddetto Appennino Siculo, che
si estende dallo Stretto di Messina alla valle del Torto e costituisce la continuazione,
al di là della profonda depressione rappresentata dallo stretto, dell'Appennino
Calabro. L'Appennino Siculo si presenta come un lungo allineamento di rilievi,
disposti a ridosso della costa nordorientale dell'isola secondo un orientamento
ENE-WSW e divisi nei tre gruppi dei Peloritani, dei Nebrodi e delle Madonie.
I primi, che occupano la cuspide dell'isola rivolta al continente, sono formati
da gneiss e da filladi e sono quindi in stretto rapporto dal punto di vista
litologico con gli antistanti rilievi della Calabria; i Nebrodi (o Caronie)
e le Madonie sono costituiti da rocce cenozoiche facilmente erodibili e da estesi
banchi calcarei, per cui presentano forme più morbide e arrotondate.
Ai piedi del versante meridionale del cono dell'Etna e delimitata a S dai Monti
Iblei, si apre sullo Ionio la piana di Catania, formata dall'apporto alluvionale
del Simeto e di alcuni suoi affluenti, quali il Dittaino e il Gornalunga. La
vasta cuspide sudorientale dell'isola è occupata dai Monti Iblei, vasto
altopiano a struttura tabulare, costituito da antichi espandimenti basaltici,
che culmina a 986 m nel monte Lauro. La parte centrale dell'isola è interessata
da un succedersi irregolare di ondulazioni collinari separate da larghe vallate:
si tratta dei monti Erei, che si stendono tra la Piana di Catania, i monti Iblei
e la valle del Salso, e del cosiddetto Altopiano Solfifero, una distesa uniforme
di modesti rilievi ondulati, costituiti da formazioni gessose e solfifere risalenti
all'era cenozoica. Il paesaggio della Sicilia occidentale presenta caratteristiche
analoghe: dossi arrotondati ed estesi altopiani ondulati, dove predominano le
argille e le arenarie dell'Eocene e del Miocene, alternate in alcuni settori
a formazioni calcaree mesozoiche; le antistanti Egadi ripetono queste strutture
geologiche e morfologiche, mentre Ustica, le Eolie e Pantelleria sono prevalentemente
vulcaniche. Oltre all'Etna, sono vulcani attivi anche Stromboli e Vulcano, nelle
Eolie. Elevata è la sismicità della regione, che è soggetta
a frequenti terremoti; nel corso del Novecento si sono verificati due catastrofici
episodi sismici a Messina, nel 1908, e nella valle del fiume Belice, nel 1968.
Il clima
Il clima è di tipo mediterraneo, con estati calde e secche e inverni
miti e piovosi. La distanza dal mare e l'altitudine dei rilievi maggiori danno
luogo a variazioni climatiche anche rilevanti: nelle fasce costiere la temperatura
media annua si aggira sui 19 ºC, mentre all'interno scende notevolmente.
Le precipitazioni sono concentrate per lo più nei mesi invernali. Solo
le aree più elevate dell'Etna, dell'Appennino Siculo e dei monti Iblei
ricevono oltre 1000 mm annui di precipitazioni; le piogge scarseggiano invece
nelle piane di Catania e di Gela e nelle estreme cuspidi occidentale e sudorientale
dell'isola, dove scendono a valori inferiori ai 600 mm annui. I corsi d'acqua
hanno regime torrentizio e portate ineguali con piene improvvise nel periodo
invernale e lunghi periodi di magra. I principali sono il Simeto (che convoglia
le acque del Dittaino, del Gornalunga e del Caltagirone), l'Alcantara, l'Anapo,
il Cassibile e il Tellaro, sul versante rivolto allo Ionio; il Torto e il San
Leonardo, tributari del Tirreno; il Belice, il Platani e il Salso, che si gettano
nel Mare di Sicilia.
Geografia umana
La Sicilia risulta una delle regioni italiane a più alto tasso di emigrazione
fin dall'Ottocento. Nel corso del Novecento le punte massime di emigrazione
di sono verificate tra 1958 e 1971 (alcune decine di migliaia per anno), con
un apice nel 1968, quando emigrarono 74.745 persone (dati ISTAT). Per tutti
gli anni Settanta e buona parte degli anni Ottanta il fenomeno migratorio è
regredito, raggiungendo anche un saldo positivo (da attribuirsi in gran parte
a fenomeni immigratori). Dopo una punta nel 1989 (18.390 emigrati), il tasso
di emigrazione ha mantenuto valori stabili (intorno alle 6.000 unità
annue), per poi risalire dal 1998 (17.246 emigrati per anno). L'emigrazione
degli anni Novanta ha riguardato in buona parte persone con alto livello di
istruzione e professionale (diplomati e laureati). Oltre che per l'emigrazione,
il saldo naturale si abbassa anche per effetto della diminuzione della natalità
(10,8 per mille nel 2001 rispetto al 13 per mille registrato nel 1992). All'interno
dell'isola si verificano gli spostamenti tradizionali di popolazione dalle aree
montane e collinari dell'interno, economicamente più depresse, verso
le coste e soprattutto verso le città. Le aree di maggior addensamento
demografico sono le fasce costiere delle cuspidi nordorientale e occidentale,
le aree di Palermo e Siracusa e l'entroterra di Agrigento e Licata. La rete
urbana è complessa e articolata: la struttura insediativa fondamentale
è rappresentata dall'asse urbano ionico, con due grandi città,
Catania e Messina, e un'altra mediogrande, Siracusa. Tale asse è bilanciato
a occidente dalla capitale storica, Palermo, polo urbano assai importante seppure
eccentrico e isolato. Queste quattro maggiori città sono costiere, come
pure affacciano sul mare, o comunque al mare sono vicinissime, città
importanti come Trapani, Marsala e Mazara del Vallo, rete urbana di rilievo
nell'estremo ovest dell'isola; Agrigento e Gela, sul mare Mediterraneo; Ragusa
e Modica, nella regione iblea meridionale. Caltanissetta ed Enna sono gli unici
poli di una struttura urbana centrale assai debole, formata per lo più
da centri poco industrializzati e con infrastrutture insufficienti.
Economia
La regione nel dopoguerra è stata destinataria di trasferimenti di risorse
(Cassa per il Mezzogiorno) operati dallo stato a vantaggio delle famiglie e
del sistema produttivo, senza che ciò abbia però innescato processi
autopropulsivi di crescita. Il 12,5% (dato ISTAT 2001) della popolazione attiva
si dedica all'agricoltura : un numero di addetti superiore alla media nazionale
e comunitaria, per una redditività inferiore: la Sicilia è prima
regione in Italia per produzione di cereali (frumento), ma la resa, rispetto
alla superficie coltivata, è inferiore a quella di altre regioni cerealicole
(Puglia, Marche, Emilia Romagna). Le cause sono da ricercarsi nella scarsità
d'acqua e di impianti di irrigazione adeguati, e a carenze nella distribuzione
e trasformazione dei prodotti, attività intraprese in ritardo rispetto
ad altre aree agricole italiane. Le zone dell'entroterra sono prevalentemente
cerealicole (un terzo delle aree coltivate), mentre nella fascia costiera e
in alcune contigue pianure si pratica un'agricoltura specializzata, basata soprattutto
su agrumi (la Sicilia fornisce oltre la metà del raccolto nazionale,
con prodotti provenienti dalla Conca d'Oro e dalle pianure di Catania e di Gela),
olive, ortaggi, frutta, fiori, mandorle e uva. La trasformazione dei beni agricoli
sta iniziando a conquistarsi un ruolo apprezzabile nel contesto nazionale (mandorle
e semilavorati, conserve di ortaggi e confetture, prodotti ittici) e internazionale.
La vinificazione fornisce, oltre vini da taglio, prodotti di pregio quali marsala,
passito e moscato di Pantelleria, corvo, malvasia. L'esportazione, in concorrenza
con Spagna e Francia, riguarda sia i vini da taglio e i mosti che i prodotti
di pregio; ruolo trainante riveste la provincia di Trapani, che nel 1998 è
risultata la quarta in Italia per volume di esportazioni. Interesse modesto
ha l'allevamento, rivolto soprattutto bovini (nella piana di Catania) equini
e, in misura molto minore, ovini. La pesca riveste notevole importanza: la Sicilia
è la prima regione in Italia per pescato, e fornisce oltre il 25% del
prodotto nazionale. Il porto peschereccio principale è quello di Mazara
del Vallo, fra i primi del settore nell'intero Mediterraneo. Tipiche dalla regione
sono la pesca del tonno nel Trapanese e del pesce spada nel Messinese, per le
quali si impiegano anche tecniche tradizionali. L'industria occupa solo il 19%
della forza lavoro. La sua articolazione interna vede una specializzazione relativa
nei comparti energetico ed estrattivo e delle costruzioni; nel comparto manifatturiero
si registra un forte squilibrio fra la grande quantità di imprese di
piccole dimensioni operanti in produzioni tradizionali (alimentari, legno, materiali
da costruzioni) e i pochi grandi impianti di proprietà pubblica, con
scarsità di aziende della fascia dimensionale intermedia. L'attività
estrattiva ha riguardato in passato l'estrazione dello zolfo, per la quale l'isola
ha raggiunto produzioni a livelli mondiali. Dagli anni Cinquanta del XX secolo,
però, la concorrenza di altri produttori (USA e Messico) dotati di tecniche
estrattive più redditizie ha portato ad progressivo rallentamento del
settore, definitivamente abbandonato dal 1986.Si estraggono ancora sali potassici,
asfalto e petrolio (distretti di Ragusa e Gela). La scoperta dei giacimenti
petroliferi (1953) ha dato origine a una solida industria petrolchimica; i giacimenti
nella regione si sono rivelati modesti, ma la presenza degli impianti, adibiti
alla lavorazione del greggio di provenienza araba, ha fatto della regione uno
dei poli mediterranei del settore (Augusta, Gela, Ragusa); a essa è legato
inoltre lo sviluppo del settore energetico, in grado di esportare parte della
propria produzione (21.133.000 MWh per il 2001). Con impianti di dimensione
superiore alla media sono presenti la chimica (fertilizzanti, con localizzazione
congiunta alla petrolchimica) e la meccanica (di particolare rilevanza è
la presenza della FIAT a Termini Imerese), concentrate attorno a Palermo e Catania;
sono inoltre comparse aziende operanti in comparti avanzati come l'elettronica
e le telecomunicazioni, verso i quali si sono rivolti gli sforzi degli operatori
pubblici. Il terziario registra in Sicilia una presenza più forte che
nel resto del Paese (71% della forza lavoro), dovuta in larga parte al peso
della pubblica amministrazione e del commercio al minuto; a tali attività
si accostano però anche quelle degli istituti bancari (alcuni di interesse
sovraregionale) e del turismo. Prevalentemente balneare, quest'ultimo interessa
soprattutto le province di Messina (Taormina, isole Eolie), di Siracusa e di
Catania; alcune aree costiere però hanno subito guasti paesaggistici
determinati da uno sfruttamento eccessivo e incontrollato del territorio. Le
risorse archeologiche, paesaggistiche e storicoartistiche eserciterebbero un
forte richiamo per il turismo nazionale e internazionale, che trova però
un potente freno nell'insufficienza delle infrastrutture, dell'attrezzatura
ricettiva e dei servizi, oltre che più in generale nella lontananza dalle
principali aree emettitrici di flussi turistici.I trasporti terrestri vengono
incanalati sulla direttrice Messina-Reggio Calabria, attraverso lo stretto di
Messina: una strozzatura che da tempo si progetta di superare con la costruzione
di un ponte o di un tunnel tra le due rive. Il progetto, sottoposto nel tempo
a numerose varianti, ha incontrato difficoltà di realizzazione. Gli aeroporti
principali dell'isola sono quelli di Catania Fontanarossa, Palermo Punta Raisi
e Trapani Birgi. I porti commerciali più trafficati sono queli di Palermo,
Messina e Catania; Mazara del Vallo detiene il primato di porto peschereccio,
mentre Augusta registra il maggior numero di scambi petroliferi.
Diritto
La Sicilia è costituita in regione autonoma (26 febbraio 1948), fornita
di personalità giuridica entro l'unità politica dello stato italiano.
Organo regionale è un'assemblea regionale con novanta deputati, eletti
a suffragio universale diretto. In carica per cinque anni (legge costituzionale
23 febbraio 1972), i deputati esercitano funzioni legislative alle quali, oltre
alle materie di competenza comuni con le regioni a statuto ordinario, si aggiungono
anche le facoltà d'intervento in materia di acque pubbliche, d'istruzione
elementare, d'industria e commercio. Il governo della Sicilia è affidato
a una giunta di dodici membri nominati dal presidente della Regione (eletto
per suffragio universale direito contestualmente all'assemblea). Questi rappresenta
l'ente regione, promulga le leggi, provvede al mantenimento dell'ordine pubblico,
dirige la polizia dello stato, partecipa al Consiglio dei Ministri con rango
di ministro e voto deliberativo su questioni pertinenti la sua regione. Consiglio
di Stato e Corte dei Conti hanno a Palermo una loro sezione distaccata competente
sugli affari della regione.
Preistoria
Manufatti tipologicamente simili a quelli dei complessi su ciottolo del Paleolitico
inferiore sono stati rinvenuti negli anni Sessanta del XX secolo in diverse
località dell'isola: in provincia di Agrigento (Torre di Monterosso,
Capo Rossello) e tra Menfi e Sciacca (Bertolino di Mare, Contrada Cavarretto).
In seguito, complessi su scheggia, sempre riferiti al Paleolitico inferiore
sensu lato, sono stati rinvenuti in provincia di Catania, lungo il Dittaino
e il Simeto e vicino a Ragusa. Per molti di questi rinvenimenti si tratta di
complessi numericamente limitati e in situazioni cronostratigrafiche non chiaramente
definibili. Se la presenza di facies su ciottolo e su scheggia del Paleolitico
inferiore in Sicilia appare finora indiziata più dal ripetersi di ritrovamenti
che non da un loro sicuro inquadramento geologico, non sembra potersi affermare
altrettanto per quanto riguarda il Paleolitico medio, finora non documentato,
mentre più numerosi sono i complessi riferiti al Paleolitico superiore
e al Mesolitico. Alle fasi antiche del Paleolitico superiore (Aurignaziano)
è attribuita l'industria di Fontana Nuova (Ragusa); all'Epigravettiano
antico sono riferiti i siti di Canicattini Bagni (Siracusa) e di Grotta Niscemi
(Palermo); all'Epigravettiano evoluto il riparo San Corrado (Siracusa) e la
grotta Mangiapane (Trapani). Più rappresentato appare l'Epigravettiano
finale con numerosi siti: il riparo San Basilio e la grotta di San Teodoro (Messina),
dove sono state scavate quattro importanti sepolture con ocra, la Grotta Corruggi
e la grotta Giovanna (Siracusa), quest'ultima con numerose manifestazioni di
arte mobiliare su blocchi e lastre di calcare con motivi incisi a carattere
prevalentemente geometrico e più raramente naturalistico, la grotta dell'Acqua
Fitusa (Agrigento), la grotta di Cala dei Genovesi a Levanzo e i livelli basali
della grotta dell'Uzzo (Trapani). A questa fase sono attribuite le raffigurazioni
di animali incise nella grotta di Cala dei Genovesi; la scena complessa con
personaggi umani e alcuni animali incisa su un masso di una delle grotte dell'Addaura
(Palermo), di difficile datazione, è stato ritenuto attribuibile al Mesolitico
o al Paleolitico inferiore. Altre raffigurazioni di animali (cervidi, equidi
e bovidi), pressappoco coeve a quelle citate, sono note in diverse altre grotte
(Niscemi, Za Minica, Puntali, Racchio). Il Mesolitico è infine soprattutto
attestato alla grotta dell'Uzzo, dove sono state rinvenute, tra l'altro, una
decina di sepolture doppie e singole, di neonati, bambini e adulti, datate con
metodi radiometrici a un periodo compreso tra l'8000 e il 7300 a. C. circa.
Copiosissimi sono i resti appartenenti al Neolitico, che dimostrano l'importante
ruolo avuto in tale periodo dalla Sicilia per la sua posizione al centro del
Mediterraneo; le principali sono le culture neolitiche di Stentinello e di Diana.
A partire dal terzo millennio a. C. si diversificarono gli aspetti culturali
delle Eolie e della Sicilia nordorientale, della Sicilia sudorientale e di quella
occidentale. Un fenomeno particolarmente importante è costituito dal
manifestarsi di influenze della facies del bicchiere campaniforme, soprattutto
nella zona della Conca d'Oro. Con la facies eoliana di Capo Graziano iniziano
a essere attestati contatti stabili con il mondo egeo, particolarmente ricchi
anche nella facies isolana di Castelluccio. Molto importanti sono i villaggi
con architettura evoluta del successivo periodo di Thapsos (1400 a. C.) e, nel
Bronzo tardo, l'imponente “megaron” di Pantalica (1250 a. C.). Con
l'Età del Ferro lo sviluppo autonomo verso forme complesse di organizzazione
sociopolitica viene interrotto dalla fondazione di colonie greche nella parte
orientale e fenicie in quella occidentale dell'isola.
Storia: il periodo greco e romano
Abitata anticamente da Siculi, Sicani ed Elimi (rispettivamente nelle zone orientale,
occidentale e nordoccidentale), la Sicilia si aprì presto a insediamenti
di coloni fenici (IX sec. a. C.) e, più tardi, dal 734 a. C. in poi secondo
Tucidide, anche greci, attratti dai suoi porti , dalle sue miniere e dalla fertilità
del suo territorio. I Fenici, soprattutto cartaginesi, si stabilirono nella
parte occidentale dove fondarono Panormo, Solunto e Mozia che, in un primo momento,
furono sostanzialmente empori commerciali: ciò permise una stretta alleanza
tra i Cartaginesi e gli indigeni Elimi, i cui centri principali erano invece
Segesta, Erice ed Entella. Vere città, e subito molto popolose, divennero
invece gli insediamenti coloniali dei Greci nella parte orientale, tra cui notevoli
furono Nasso, Lentini e Catania fondate dai Calcidesi, Siracusa fondata dai
Corinzi (ca. 734 a. C.), Megara Iblea fondata dai Megaresi e Gela fondata da
Rodiesi e Cretesi (ca. 690). Megara Iblea e Gela a loro volta crearono poi,
rispettivamente, Selinunte e (ca. 582) Agrigento. Le colonie greche non costituirono
mai un'unità politica e anzi furono spesso in guerra tra loro: tuttavia
divennero subito molto prospere e stabilirono intense relazioni commerciali
con le città dell'Italia meridionale, con Cartagine e, dal sec. VI a.
C., anche con Roma. La struttura sociale di ciascuna città, che favoriva
la classe dei proprietari terrieri (discendenti degli antichi colonizzatori),
a danno del proletariato (composto invece dai gruppi indigeni e dagli immigrati
recenti), fu però causa di lunghe lotte intestine risolte, all'inizio
del sec. VI a. C., con l'avvento di regimi tirannici, il primo dei quali fu
quello di Panezio a Lentini (ca. 608). Importanti furono la tirannide di Falaride
ad Agrigento, e, soprattutto, quella di Ippocrate (498-491), a Gela, che costituì
un forte stato nella zona occidentale dell'isola in cui il suo successore, Gelone,
incluse anche Siracusa: città, da questo momento, divenne la più
importante dell'Occidente greco. Nel 480 Gelone, anche con forze navali di Agrigento,
bloccò a Imera un tentativo di espansione dei Cartaginesi, che furono
esclusi per lungo tempo dall'isola. Nel 474 Gerone, suo fratello e successore,
sconfisse gli Etruschi nelle acque di Cuma ed estese poi la sua influenza anche
sul mondo greco dell'Italia meridionale. L'espansionismo siracusano fu però
fermato da un moto insurrezionale dei Siculi guidato da Ducezio (450), e, più
tardi (415-413), dalla spedizione promossa da Atene, che vedeva i propri commerci
con gli Etruschi minacciati dal rapido sviluppo della potenza siracusana. L'impresa
si risolse per Atene con un disastro, ma anche Siracusa ne uscì indebolita:
ne approfittò Cartagine, che riprese i tentativi di penetrazione nell'isola
aggredendo, tra il 408 e il 405, città fiorenti come Selinunte, Imera,
Agrigento, Gela che vennero in parte distrutte. L'avvento alla tirannide di
Siracusa di Dionisio I (405) rafforzò la potenza della città;
dopo una lotta durata, con varie vicende (tra cui la spedizione in Africa di
Agatocle, tiranno di Siracusa, nel 310 e l'intervento di Pirro nel 278) quasi
due secoli, i Cartaginesi furono ridotti al possesso della sola area occidentale
dell'isola. Durante il regno di Gerone II (265-215) si combattè la prima
guerra punica, in cui Siracusa fu alleata di Roma contro Cartagine. Solo dopo
la morte del tiranno la città ruppe l'alleanza con Roma per appoggiare
Cartagine: nel 212 a. C. la città fu conquistata dal console Marcello,
e Roma entrò in possesso dell'intera isola, cui venne attribuito lo status
di provincia. Le città siciliane, a esclusione della fedele Messina,
furono sottoposte al pagamento di un tributo, ma mantennero una notevole autonomia
interna. Roma favorì e sfruttò la produzione siciliana del grano,
che importava in conto tributo per le proprie necessità alimentari. Sulle
estese tenute lavoravano masse di schiavi che si ribellarono in due occasioni,
nel 140-132 e nel 104-99 a. C. e furono a stento domate (guerre servili ). Nel
73-71 a. C. l'isola subì le ruberie e le malversazioni del propretore
Verre; Cesare concesse il diritto latino alla provincia, mentre Augusto, che
la annoverò tra le province senatorie, vi rafforzò il dominio
romano ricolonizzando numerose città e ne risollevò le condizioni
economiche gravemente compromesse durante la guerra civile. In età imperiale
le città restarono attive nell'artigianato e nei commerci, ma non recuperarono
più lo splendore di un tempo. Con la Constitutio Antoniniana del 212
d. C. anche i Siciliani ottennero la cittadinanza romana al pari di tutti gli
abitanti dell'Impero. Nella suddivisione in diocesi e province operata da Diocleziano,
la Sicilia fu attribuita alla diocesi italiciana e costituì provincia
a sé.
Storia: dai Bizantini agli Arabi
La generale decadenza dell'Occidente romano colpì a fondo l'isola e la
espose a una serie di rovinose incursioni e all'occupazione, dapprima parziale
(Lilibeo, 440), poi totale (468), da parte dei Vandali stanziati in Africa dopo
la conquista di Cartagine. La dominazione vandalica, duramente vessatoria (anche
in campo religioso, i Vandali ariani perseguitarono i cattolici, provocando
la rovina di un'ormai antica élite culturale), fu abbattuta da Odoacre
tra il 476 e il 486. Nel 491 ebbe inizio la dominazione degli Ostrogoti di Teodorico,
che tuttavia concesse al re dei Vandali Guntamondo, suo genero, la base di Lilibeo.
L'età ostrogotica (491-535) riportò nell'isola una relativa tranquillità,
effetto della politica conciliativa di Teodorico; militarmente presidiata ma
non colonizzata, la Sicilia riassunse il suo antico ruolo di grande riserva
di grano e di chiave del commercio mediterraneo, da cui trassero beneficio soprattutto
i latifondisti (laici ed ecclesiastici). Dalla Sicilia ebbe inizio la riconquista
imperiale dell'Italia promossa da Giustiniano (535), che già aveva abbattuto
il regno dei Vandali in Africa; Belisario la occupò in sette mesi con
poche forze e senza incontrare serie resistenze e di là, passato lo stretto
di Messina, proseguì l'avanzata lungo la penisola. Durante la guerra
greco-gotica (535-553) l'isola divenne un valido baluardo militare (che Totila
cercò invano di espugnare verso il 550), e come tale fu governata durante
i tre secoli e più del dominio bizantino. Staccata dal resto dell'Italia,
fu sottoposta direttamente all'imperatore, che nominava un unico governatore
militare, lo stratego del tema di Sicilia. La militarizzazione, sempre più
accentuata da Bisanzio per esigenze di difesa in rapporto alla progressiva avanzata
degli Arabi in Africa nel sec. VI, incise profondamente sulle condizioni generali
dell'isola: mortificò l'economia cittadina e rurale, sconvolse la distribuzione
demografica, aggravò la pressione dell'autorità bizantina col
suo rigore fiscale e la sua intolleranza religiosa (eresia monotelita nel sec.
VII e quella iconoclastica nel sec. VIII misero a dura prova i cattolici, raccolti
intorno al vescovo di Siracusa). Lingua, cultura, costumi greci penetrarono
largamente: a questa seconda ellenizzazione della Sicilia si connette il progetto
di Costante II di fare dell'isola il centro dell'impero, col breve trasferimento
della capitale da Costantinopoli a Siracusa (663-668). I siciliani reagirono
a più riprese a questa politica ora passivamente ora sostenendo vari
tentativi di governatori bizantini di sottrarsi al potere imperiale; fu appunto
la secessione d'un ufficiale bizantino, Eufemio, che provocò l'intervento
degli Arabi (827) e la loro progressiva occupazione. Già apparsi più
volte in incursioni sin dalla metà del sec. VII, gli Arabi intrapresero
l'invasione della Sicilia per iniziativa dell'emiro aghlabita di Kairuan (Tunisi),
Ziadet Allah, sollecitato dal ribelle Eufemio, dando all'impresa carattere di
guerra santa. Aspramente contrastati, completarono la conquista solo agli inizi
del sec. X, conquistando via via Mazara (827), Palermo (832), Messina (842),
Enna (859), Siracusa (878) e Taormina (902). L'isola fu sottoposta al governo
di un emiro, rappresentante degli Aghlabiti di Kairuan poi (dal 910) dei Fatimiti
del Cairo e infine dagli Ziriti loro vassalli in Tunisia; ma già verso
la metà del sec. X l'emirato divenne un principato ereditario e di fatto
indipendente, e per circa un secolo, sotto i Kalbiti, la Sicilia risorse dalla
sua lunga decadenza. La popolazione cristiana ed ebraica ebbe il consueto statuto
imposto dagli Arabi nei Paesi conquistati: libertà religiosa, ma a prezzo
di una speciale tassazione (non troppo gravosa, ma non sopportabile da gruppi
economicamente più deboli, che passarono perciò all'islamismo).
La colonizzazione, più attiva all'ovest (Val di Mazara) che a sud-est
(Val di Noto) e a nord-est (Val Demone), si stabilì con metodi e risultati
diversi da luogo a luogo e gravò in misura diversa sugli isolani. Non
mancarono, specie nella Val Demone, rivolte che, non appoggiate adeguatamente
da interventi bizantini, furono tutte represse. Gli Arabi diedero uno straordinario
impulso all'agricoltura (frazionamento di latifondi, introduzione di nuove colture
quali gelso, cotone, arancio, dattero e canna da zucchero), all'artigianato
(tessuti di seta e di cotone), al commercio (con base a Palermo), e la Sicilia,
come la Spagna, divenne un centro d'irradiazione della civiltà intellettuale
e artistica islamica, che diede tuttavia i suoi frutti più cospicui solo
dopo la fine della dominazione.
Storia: dalla riconquista normanna agli Svevi
A indebolire la dominazione araba contribuirono soprattutto le croniche rivalità
tra i vari signori locali, delle quali seppero approfittare nella prima metà
del sec. XI i Bizantini (spedizione di Giorgio Maniace nella Sicilia orientale,
1038-40) e nella seconda metà i Normanni già affermati nell'Italia
meridionale e sorretti nella loro iniziativa antimusulmana dal patrocinio della
Chiesa romana. L'intervento normanno fu agevolato dall'appello del signore di
Catania Ibn ath-Thumna in contesa col signore di Agrigento; la riconquista cristiana
dell'isola, a opera di Ruggero I d'Altavilla (col concorso, discontinuo, del
fratello Roberto il Guiscardo), si iniziò con la presa di Messina (1061)
e si concluse con quella di Noto (1091). Catania cadde nel 1071, Palermo nel
1072, Trapani nel 1077, Taormina nel 1079. Una vigorosa controffensiva dell'emiro
Ben Avert, contemporanea all'azione che impegnava i Normanni del Guiscardo contro
i Bizantini, ritardò di alcuni anni la conclusione dell'impresa: Siracusa
fu conquistata solo nel 1085, seguita da Agrigento e infine da Noto. Ruggero,
che aveva preso il titolo di gran conte di Sicilia, s'impadronì anche
di Malta e, mentre, dopo la morte del Guiscardo, riuscì a imporsi anche
sui domini normanni del continente. Vassallo del papa e legato apostolico (1098),
Ruggero andava preparando la riorganizzazione della Sicilia, quando morì
(1101) e la sua opera fu continuata dalla vedova Adelaide prima per il primogenito
Simone (morto fanciullo nel 1105), poi per il cadetto Ruggero II finché
ebbe l'età per governare personalmente (1113). Questo principe orientalizzante,
tra il basileus bizantino e il sultano, animato da forti ambizioni e dotato
di insigni qualità politiche e militari, riuscì a realizzare l'unità
dei domini normanni insulari e continentali, a fondare uno stato fortemente
accentrato e a ottenere dall'antipapa Anacleto II il titolo di re di Sicilia
(1130); nel 1139 fu incoronato da papa Innocenzo II re del Regno di Sicilia
e Puglia. Ruggero II introdusse in Sicilia il regime feudale, ma istituzionalizzò
sui signori feudali e sulle comunità autonome il superiore potere del
re, esercitato da una gerarchia di funzionari (iusticiarii e camerarii) e temperato
dal consiglio della Magna Curia. Analogamente, garantì la libertà
religiosa e le consuetudini proprie dei gruppi latini, arabi, bizantini, ebraici
esistenti nel regno, tenendo però ben fermo il principio che sovrastava
su tutti l'assoluta sovranità del re. La tolleranza religiosa consentì
al re e ai suoi successori di scegliere collaboratori qualificati d'ogni nazione
e religione. L'isola conobbe allora una vigorosa ripresa economica, agricola,
artigianale e commerciale, frutto del concorso di esperienze diverse; lo stato
normanno di Sicilia e la sua capitale Palermo divennero il centro di un vero
e proprio impero che si estendeva dalla Campania e dall'Abruzzo all'Africa settentrionale
e aveva un ruolo primario nel Mediterraneo. Ruolo anche culturale, poiché
nel regno fiorivano tra l'altro la scuola medica di Salerno, il monastero benedettino
latino di Montecassino e monasteri basiliani greci, sorgevano monumenti espressivi
di un'originale sintesi stilistica; per Ruggero II lavorava inoltre uno dei
maggiori geografi medievali, al-Idrisi (Edrisi). Sotto il figlio e successore
di Ruggero II, Guglielmo I (1154-66), molto inferiore sotto ogni aspetto al
padre, il regno attraversò periodi di crisi, scontrandosi col papato,
con l'imperatore bizantino Manuele I Comneno, con Federico Barbarossa e subendo
rivolte baronali. Ne uscì salvo grazie alla solidità delle proprie
strutture e alla leale opera di governo di ministri quali Maione di Bari, Matteo
d'Aiello e l'inglese Riccardo Palmer, vescovo di Siracusa. Alla morte di Guglielmo
I, durante il quinquennio di reggenza per il figlio Guglielmo II (1166-1189),
la vedova Margherita di Navarra parve abbandonare la politica di equanimità
nei confronti dei diversi elementi etnici e religiosi per imporre la supremazia
di nuovi elementi francesi. Con l'avvento del governo personale di Guglielmo
II tuttavia, e grazie alla collaborazione di Matteo d'Aiello e di Gualtiero
Ophtamil (inglese, arcivescovo di Palermo) ritornò la pace e la Sicilia
rifiorì. Il re, mosso da inattuabili ambizioni, vide però fallire
le sue temerarie iniziative di conquista in Egitto contro il Saladino e nella
Grecia bizantina contro Andronico I Comneno e Alessio II Angelo (1185). Guglielmo
II morì mentre la sua flotta partecipava brillantemente alla terza crociata.
Storia: gli Svevi
A Guglielmo II succedette la zia Costanza, figlia di Ruggero II e dal 1186 moglie
di Enrico VI di Svevia, figlio ed erede di Federico Barbarossa. Ciò significava
consegnare il regno all'impero germanico e rompere il tradizionale vincolo col
papato, irriducibile avversario degli Svevi e intollerante della loro egemonia
in Italia. La successione venne contrastata da una parte della popolazione,
che portò al trono un cugino di Guglielmo, Tancredi conte di Lecce (1189-94);
ma quando Enrico VI succedette al Barbarossa (1190) e intraprese la conquista
del regno della moglie, Tancredi, nonostante alcuni successi, andò perdendo
terreno e alla sua morte l'imperatore (sostenuto dai Genovesi e dai Pisani e
da alcuni baroni siciliani) stroncò la resistenza raccolta intorno alla
vedova e al figlio di Tancredi Guglielmo III, e fu incoronato re a Palermo (Natale
1194); seguì poco dopo un'altra insurrezione, che Enrico VI represse
ferocemente, poco prima della sua prematura morte (Messina, 1197). Nell'età
normanna era maturata in SicIlia una cultura composita ed originale, alla quale
avevano portato i propri contributi, stimolate dalla monarchia, le diverse comunità,
romana, araba e bizantina, ciascuna secondo il proprio genio; allora come non
mai l'isola apparve il luogo ideale d'incontro e intesa tra le grandi tradizioni
civili del Mediterraneo; il duomo di Monreale rappresenta forse con maggiore
e più immediata evidenza questa sintesi di valori. L'età degli
Svevi, iniziata da Enrico VI sotto il segno della violenza, proseguì
nell'incertezza, con vistosi episodi di anarchia durante l'infanzia e l'adolescenza
dell'erede di Enrico VI e di Costanza, Federico II (1194-1250); l'aspirazione
di papa Innocenzo III, che il giovane svevo dovesse avere, come i re normanni,
soltanto il regno di Sicilia e non l'impero, apparve presto irrealizzabile e
Federico II riunì sul proprio capo le corone di Sicilia, di Germania,
d'Italia e dell'impero (e, con la sua crociata, di Gerusalemme). Malgrado la
molteplicità e la complessità dei problemi che la sua posizione
gli imponeva, Federico II dedicò la massima cura al regno di Sicilia,
che considerava il cardine dell'impero. Piegate le resistenze baronali e cittadine,
domata una ribellione di Arabi (che cessarono da allora di essere una comunità
influente), con le Costituzioni di Melfi (1231) portò a compimento l'ordinamento
assolutistico, centralizzato e burocratico del regno instaurato dai re normanni.
Palermo divenne un'ancor più splendida capitale, residenza prediletta
dell'imperatore e centro culturale eminente, mentre l'isola, nonostante l'intensa
attività economica (in particolare mercantile e marinara) fu sottoposta
a vessazioni fiscali per sostenere le spese di magnificenza e soprattutto quelle
per la guerra logorante di Federico II contro il papato e i comuni. Scomparso
Federico II, la continuazione della dinastia sveva nel regno, impersonata da
Manfredi, figlio naturale dell'imperatore e reggente prima per l'erede legittimo
Corrado IV, poi per il figlio di questo Corradino e infine egli stesso re (1258),
incontrò l'implacabile opposizione del papato, finché Urbano IV
investì del regno Carlo d'Angiò, fratello di Luigi IX di Francia
e conte di Provenza (1265), che con l'appoggio di tutta l'Italia guelfa conquistò
con le armi il regno, auspice Clemente IV. Manfredi morì nella decisiva
battaglia di Benevento (1266); Corradino, sconfitto a Tagliacozzo, fu giustiziato
(1268).
Storia: Angioini e Aragonesi
La catastrofe degli Svevi provocò una sollevazione antifrancese e un'effimera
resistenza all'occupazione di Carlo d'Angiò, per cui questi mantenne
nei confronti dei siciliani un atteggiamento di severa diffidenza. Stabilì
il governo a Napoli, anteponendola a Palermo, distribuì un gran numero
di feudi a signori francesi, favorì mercanti e banchieri stranieri (molti
fiorentini, i grandi sostenitori del guelfismo). A questi motivi di risentimento
si accompagnava l'azione segreta di una fazione filosveva (o ghibellina), che
faceva capo a Pietro III re d'Aragona il quale, avendo sposato Costanza figlia
di Manfredi, rivendicava i diritti di questa al regno. In questo quadro il 31
marzo 1282 a Palermo scoppiò l'insurrezione dei Vespri, che divampò
in breve in tutta l'isola, e poco dopo Pietro III, sbarcato con forze aragonesi
a Trapani, portò a termine la liberazione della Sicilia dai Francesi.
Ma prima che il distacco della Sicilia, dominio aragonese, dal Mezzogiorno della
penisola, dominio angioino, fosse definitivamente compiuto e riconosciuto, si
combatté la ventennale guerra (detta dei Vespri, 1282-1302), conclusa
con una pace di compromesso (Caltabellotta, 1302: Carlo II d'Angiò riconobbe
a Federico II, fratello di Giacomo II re d'Aragona, la sovranità sulla
Sicilia, ma a titolo vitalizio e col nome di re di Trinacria). Rotto il compromesso,
le ostilità si riaprirono e continuarono a intermittenze fino al 1372,
quando Giovanna I d'Angiò, regina di Napoli, rinunciò a ogni rivendicazione
sull'isola a favore di Federico III d'Aragona (1355-77). La questione della
Sicilia trascendeva gli interessi italiani: il suo possesso, nel mezzo del Mediterraneo,
costituiva la base di una egemonia mercantile ed economico-politica, ambita,
disputata e parzialmente ottenuta da Bizantini, Arabi, Normanni, Svevi, Angioini
e infine Aragonesi; e il papato, a sua volta avverso a ogni egemonia che potesse
compromettere la sua libertà, non poteva non vigilare sulla sorte dell'isola
(per di più formalmente sotto la sua alta sovranità). Perciò
la guerra dei Vespri e i suoi strascichi ebbero riflessi in Oriente, in tutta
l'Italia, in Francia, nella Penisola Iberica. Sotto la dinastia aragonese sopravvissero
le istituzioni di Federico II di Svevia, ma venne dato un ruolo più rilevante
al Parlamento (diviso in tre bracci: ecclesiastico, militare o feudale, demaniale
o rappresentante delle città libere, direttamente dipendenti dal re).
Dal punto di vista economico, sociale e culturale vi fu una graduale recessione:
ricostituzione di latifondi a beneficio di grandi signori, decadimento dei ceti
rurali più modesti e della borghesia delle città, insicurezza
per continue guerre, deterioramento dell'ordine pubblico. A ciò si aggiunse
come aggravante una progressiva perdita dell'indipendenza: le corone d'Aragona
e di Sicilia, tradizionalmente separate anche se talvolta cinte dalla stessa
persona, furono definitivamente unite a partire dal regno di Martino I (1409-10),
malgrado l'unanime opposizione dei due partiti nobiliari (i Latini e i Catalani),
che dagli scorci del sec. XIV tenevano l'isola sotto l'incubo delle loro lotte
e i sovrani, Maria e Martino il Giovane, sotto una ricattatoria tutela. L'unione
delle corone instaurò in Sicilia il governo dei viceré, il primo
dei quali fu l'infante Giovanni di Penafiel (1415-16), figlio di Giovanni re
di Castiglia, d'Aragona e di Sardegna, che fu invitato, invano, alla secessione
e al trono. La Sicilia costituì una valida base per Alfonso V il Magnanimo
nella sua conquista del regno di Napoli contro l'angioino Renato (1435-42);
sotto quel re, che fino alla sua morte (1458) ricompose l'antica unità
del Mezzogiorno insulare e continentale d'Italia, l'isola ebbe qualche beneficio
economico e culturale (come l'Università di Catania). Fu trascurata completamente
dai suoi successori Giovanni II (1458-79) e Ferdinando il Cattolico (1479-1516),
che col compimento dell'unità spagnola e con la conquista del Napoletano
realizzava un grande impero mediterraneo. Ma ormai l'importanza del Mediterraneo
stesso era alla vigilia del suo declino.
Storia: da vicereame all'unione allo Stato italiano
Scaduta a vicereame la Sicilia reagì. Nel 1516 Palermo insorse contro
il viceré Hugo de Moncada, nel 1517 fu scoperta la congiura di Gian Luca
Gian Luca Squarcialupo e nel 1523 si ebbe la cospirazione capeggiata dai fratelli
Imperatore. Ma dopo che con la vittoria di Pavia la potenza della Spagna dilagò
in tutta Italia, anche la nobiltà siciliana, così fieramente gelosa
della propria indipendenza, finì col piegarsi e assumere un atteggiamento
filospagnolo. D'altra parte, se alla lunga il dominio spagnolo fu causa di conseguenze
negative per l'isola (introduzione dell'Inquisizione, diminuzione delle autonomie
locali, eccessivo fiscalismo), servì anche a frenare, almeno in parte,
lo strapotere baronale e a combattere il brigantaggio. Con l'aggravarsi delle
condizioni interne della Spagna peggiorarono anche le condizioni della Sicilia.
La decadenza economica si accrebbe e scoppiarono nuove rivolte: tra le molte,
quella di Palermo (1647), capeggiata da Giuseppe d'Alessi che riuscì
a far sollevare il popolo e a cacciare per qualche tempo il viceré, e
quella di Messina (1674), dove la cittadinanza costrinse alla fuga la guarnigione
spagnola e resistette (con l'aiuto della Francia) sino al 1678, quando Luigi
XIV, accordatosi con Carlo II nella Pace di Nimega, abbandonò la rivolta
alla dura repressione spagnola. Con la Pace di Utrecht (1713 a conclusione della
guerra di successione spagnola) la Sicilia passò, con titolo regio, a
Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, ma poco dopo (1718) fu assegnata all'Austria
in cambio della Sardegna e in tal modo riunita al Napoletano. Nel 1734, infine,
ebbe con Carlo III di Borbone un nuovo autonomo sovrano che ricostituì
il Regno delle Due Sicilie mantenendo però ordinamenti separati nelle
due diverse regioni. Iniziò allora un periodo di riforme che vide in
Domenico Caracciolo, viceré dal 1781 al 1786, il suo più illuminato
rappresentante: fu abolita l'Inquisizione e vennero attuati provvedimenti miranti
a estendere la piccola proprietà terriera e a diminuire lo strapotere
dei baroni.. Ma il programma di unificazione politica e amministrativa, che
urtava contro i privilegi del baronaggio e del Parlamento, fu considerato un
attentato alle libertà dell'isola e finì col suscitare opposizione
anche tra la gente comune. L'isola rimase comunque ai Borbone anche nei periodi
in cui essi perdettero il continente (1799 e 1806-15) per l'intervento delle
armi francesi (Repubblica Napoletana) e nel 1811, auspice lord W. Bentinck,
ebbe una sua Costituzione liberale che aboliva i diritti feudali. Quando però
Ferdinando I riprese l'antico disegno di dare effettiva unità al regno
abolendo (1815) la Costituzione appena concessa e le libertà e franchigie
più antiche, l'ostilità verso la monarchia riprese più
aperta e decisa. Di qui il moto separatista del 1820, la sollevazione di Palermo
del 1831 e l'insurrezione del 1848 nell'intera isola, che proclamò la
decadenza dei Borbone e fu domata solo nel maggio 1849. Di qui, anche, l'accoglienza
che trovò G. Garibaldi, preceduto da una nuova insurrezione a Palermo,
e la sua rapida liberazione dell'isola, conclusa col plebiscito del 21 ottobre
1860: con 432.000 voti favorevoli contro 600 fu proclamata l'unione al regno
d'Italia. La difficoltà delle condizioni economiche e sociali dell'isola
causò gravi agitazioni, come l'insurrezione di Palermo (1866), soffocata
con la forza tramite l'intervento dell'esercito e della flotta. Nel 1886 il
"Rapporto Jacini sullo stato dell'agricoltura italiana" rilevò
la limitatezza di risorse dell'isola, in cui la scarsità di alimenti
si sommava a un aumento della popolazione: iniziarono in quegli anni, protraendosi
fino allo scoppio della prima guerra mondiale, le emigrazioni dalla Sicilia
agli Stati Uniti d'America. Nel 1894, in seguito a una annata di cattivi raccolti
che esasperarono la situazione, scoppiarono i moti dei fasci siciliani, repressi
dal governo Crispi con lo stato d'assedio e l'imposizione della legge marziale.
Dopo la prima guerra mondiale la situazione peggiorò e il malcontento
portò la popolazione ad accogliere con favore il sistema autarchico fascista:
nel 1925 il governo estese anche all'isola la "battaglia del grano",
che mirava all'autarchia nella produzione cerealicola. Durante la seconda guerra
mondiale l'isola fu il punto di partenza della liberazione dell'Italia ad opera
delle forze alleate (campagna di Sicilia). Con la ripresa della vita politica
dell'intero Paese la Sicilia, fidando nella collocazione geografica che le avrebbe
concesso privilegi nei rapporti internazionali, scelse la via del separatismo.
Il 15 maggio 1946 fu promulgato un decreto reale che sanciva l'autonomia siciliana;
il 26 febbraio l'Assemblea Costituente convertì lo Statuto in legge costituzionale.
Nel 1947 i separatisti, che alle precedenti elezioni avevano raccolto solo il
10% dei voti, organizzarono l'Esercito Volontario per l'Indipendenza Siciliana,
affidato a S. Giuliano; il primo maggio dello stesso anno a Portella delle Ginestre
l' Esercito Volontario per l'Indipendenza Siciliana fece fuoco su una manifestazione
di lavoratori, causando numerose morti; l'episodio suscitò forte indignazione
nella nazione, e contribuì alla scomparsa ufficiale delle liste del movimento
separatista nelle elezioni successive (1951). Nel 1950 fu attuata, dopo aspre
lotte, la riforma agraria, che ripartì le terre dei latifondi (115.000
ettari) a oltre 18.000 contadini. Il fenomeno mafioso ha trovato nelle difficoltà
economiche e sociali dell'isola un buon terreno di diffusione, avvalendosi di
una potente organizzazione terroristica rivolta contro enti e persone, e ramificata
in gran parte della penisola (responsabile, tra gli altri, degli attentati contro
il quotidiano L'Ora, 1958, dell' assassinio di C.A.Dalla Chiesa, 1982, G. Falcone
e P.Borsellino, 1992). La regione ha seguito la storia della nazione, pur mantenendo
una specificità caratteristica, che l'autonomia di governo ha contribuito
ad accentuare. Il recupero del disagio socioeconomico, la lotta al fenomeno
mafioso e la ricerca di potenziamento dei settori economici meno redditizi hanno
costituito il principale obiettivo della legislazione regionale.
Archeologia
Oltre alle evidenze relative agli insediamenti pre e protostorici, già
citate nella sezione dedicata alla preistoria dell'isola, la Sicilia conserva
imponenti resti del proprio passato di colonia greca e fenicia. I centri archeologici
più importanti sono Siracusa, Agrigento e Selinunte, i cui numerosi templi
dei sec. VI e V a. C. si differenziano per qualche aspetto, e anzitutto per
la maggiore grandiosità, da quelli della Grecia vera e propria; alcuni,
come l'Olympieion di Agrigento dai caratteristici telamoni, hanno forme particolari.
I templi più arcaici erano rivestiti di terracotte policrome (Siracusa);
alcuni templi di Selinunte erano ornati di metope a rilievo (Palermo, Museo),
che consentono di seguire la plastica locale (influenzata da diverse scuole
artistiche greche) dagli inizi del sec. VI alla metà del V a. C. I monumenti
principali di Siracusa costituiscono un parco monumentale nella zona del teatro
greco e delle latomie, mentre nell'isola di Ortigia si sono trovati i resti
di un tempio arcaico ionico – l'unico che si conosca nella città
dorica – allineato col vicino Athenaion, oggi incorporato nel Duomo. Ad
Agrigento si è identificata la topografia urbana di tipo ippodameo e
si è messo in luce un quartiere ellenistico-romano; a Selinunte si è
ricostruito il tempio E. Importanti contributi alla conoscenza della Sicilia
greca vengono inoltre dalle ricerche compiute in altri centri: Megara Iblea,
dove si è messa in luce notevole parte della città antica; Nasso,
dove si sono scavate le mura, tratti urbani, resti del tempio di Afrodite; Gelacon
gli scavi dell'acropoli, le imponenti mura in blocchi di calcare e mattoni crudi
e il vicino santuario di Bitalemi; Eraclea Minoa, con le mura, il teatro, l'interessante
impianto urbano; Imera, con i santuari arcaici e il tempio dorico detto "della
Vittoria", in riferimento alla vittoria del 480 a. C. sui Cartaginesi;
Lentini, con complesse fortificazioni ed edifici sacri e profani; Adrano, con
mura del sec. IV e resti di un'antica città indigena; Eloro, piccola
ma ben fortificata cittadina alle foci del fiume Tellaro; Camarina, di cui si
è riconosciuto lo schema ippodameo; Akrai, poco a ovest di Palazzolo
Acreide, con un piccolo ma ben conservato teatro ellenistico e il cosiddetto
bouleutérion; Tindari, con le sue fortificazioni e il teatro ellenistico;
Morgantina, con monumenti soprattutto ellenistici e romani. Particolare interesse
per l'incontro della civiltà greca con quella indigena hanno le scoperte
di numerosi centri archeologici dell'interno (soprattutto del retroterra agrigentino
e gelese) come Monte Sabucina, Monte Bubbonia, Butera, Monte Saraceno presso
Ravanusa, Vassallaggi, Monte Raffe, Monte Desusino. Le necropoli più
antiche hanno spesso ceramica corinzia e attica importata dalla Grecia; nel
sec. IV a. C. si svilupparono fabbriche locali di vasi imitanti quelli greci
(ceramica siceliota); di tarda età ellenistica è la ceramica detta
di Centuripe, a colori sovrapposti su fondo chiaro. Ricca è anche la
produzione coroplastica, con immagini di divinità per offerte votive
nei santuari e, in età ellenistica, con eleganti figurine per i corredi
tombali. Bellissima infine è la monetazione greca delle città
principali, dalla testa di Dioniso e dal Sileno accosciato di Nasso alla testa
di Apollo di Catania, dalla testa di Eracle di Camarina all'aquila e al granchio
di Agrigento o al toro con volto umano di Gela, infine agli eccezionali tetradrammi
e decadrammi di Siracusa. Nell'area occidentale dell'isola è ben documentata
la civiltà punica. Delle tre città in cui, secondo Tucidide, si
concentrarono i Fenici all'arrivo dei coloni greci, se Palermo punica è
ancora poco nota, e le necropoli mostrano notevoli influssi greci, Mozia è
stata scavata più estesamente (mura, porto, tophet, santuario in località
Cappidazzu, necropoli sia nell'isola sia a Birgi sulla terraferma), mentre Solunto
si presenta come una città ellenistico-romana, se pur con diverse presenze
puniche; la Solunto più antica era probabilmente in località Cannita
a ca. 10 km da Palermo sulla strada per Misilmeri, da cui vengono sarcofagi
antropoidi. Resti delle necropoli con belle stele dipinte si sono trovati a
Lilibeo, oggi Marsala, che fu l'ultimo baluardo cartaginese in Sicilia, mentre
a Selinunte è punica la sistemazione urbanistica dell'acropoli; a Erice
si è osservata una fase punica delle mura, preceduta da una fase elima.
A quest'ultima civiltà, ancora poco nota, sembra appartenere il grande
tempio dorico di Segesta, di cui resta quasi intatta la peristasi, mentre manca
completamente la copertura. Dopo la conquista romana alcuni centri interni furono
abbandonati, ma le città più importanti si arricchirono di nuovi
monumenti, soprattutto a Siracusa (anfiteatro), a Taormina (il teatro detto
“greco” è di età ellenistica, ricostruito in età
romana), a Tindari (grandioso propileo chiamato comunemente "basilica");
cospicui anche i resti di Termini Imerese, l'antica Thermae Himerenses. Di età
tardoromana è la grandiosa villa di Piazza Armerina, i cui mosaici testimoniano
i contatti della Sicilia con l'Africa, e quella scoperta presso il fiume Tellaro
non lontano da Eloro, con mosaici altrettanto interessanti. I reperti archeologici
sono raccolti nei grandi musei archeologici di Siracusa (con reperti che risalgono
alla preistoria e alla protostoria dell'isola), di Palermo, di Agrigento, di
Gela, oltre che in numerosi musei locali, tra cui anzitutto il Museo Archeologico
Eoliano a Lipari.
Arte: dall'arte paleocristiana a quella normanna
Pochi e alterati sono gli edifici paleocristiani a noi pervenuti: S. Pietro
a Siracusa, S. Foca a Priolo Gargallo, la chiesa di Palagonia. Sembra che nelle
più antiche costruzioni cristiane in Sicilia fosse diffuso il tipo della
chiesa “discoperta”, divisa cioè in un santuario e in una
struttura colonnare, senza pareti laterali. Il più notevole esempio di
questa tipologia, probabilmente derivata dai luoghi di culto dei martiri, era
la chiesa palermitana di S. Maria della Pinta, distrutta nel sec. XVII. Praticamente
nulla resta del periodo bizantino (sec. VI-IX). Scarsi sono anche i resti dell'età
araba (sec. IX-XI), che pure fece dell'isola un centro culturale di altissimo
livello: tratti di fortificazione, i bagni di Cefalà Diana, una moschea
incorporata in S. Giovanni degli Eremiti a Palermo. Di ben maggiore importanza
il periodo normanno, iniziato nella seconda metà del sec. XI. Le prime
opere, probabilmente dovute a monaci cluniacensi, sono vicine a stilemi borgognoni:
così il presbiterio della cattedrale di Catania e la chiesa del priorato
di S. Andrea, presso Piazza Armerina. Tuttavia già sul finire del sec.
XI la chiesa di S. Giovanni dei Lebbrosi, a Palermo, mostra evidente l'influsso
della cultura araba. E a iniziare dal regno di Ruggero II si sviluppò
in Sicilia quella cultura normanna che, fondendo elementi francesi, bizantini
e arabi, realizzò alcune fra le massime manifestazioni artistiche dell'Europa
medievale. A Palermo, la chiesa di S. Giovanni degli Eremiti (ca. 1132), ad
aula unica con cupole, è di gusto decisamente arabeggiante, alla pari
della chiesa di S. Cataldo e di palazzi e costruzioni civili, come la Zisa,
la Cuba e la Cubula, la villa di Favara; a schemi bizantini si rifanno invece
la chiesa di S. Maria dell'Ammiraglio, o Martorana, a croce greca con volte
a botte, e la cappella palatina del Palazzo Reale, di tipo basilicale. Esempio
di compenetrazione di stili diversi è la cattedrale di Cefalù
(1131-66), voluta da Ruggero II. La struttura esterna, con due torri in facciata,
è di derivazione nordica, ma ricoperta di decorazioni arabeggianti, mentre
l'interno si rifà evidentemente alla tradizione basilicale bizantina.
Di impronta analoga, pur nella maggiore monumentalità e fasto, è
il duomo di Monreale (iniziato nel 1174), con facciata di tipo normanno, struttura
di derivazione paleocristiana, elementi decorativi moreschi e bizantini. Altri
monumenti del sec. XII sono il duomo di Palermo, le chiese del Vespro e della
Magione, pure a Palermo, quella dei SS. Pietro e Paolo a Forza d'Agrò,
il duomo di Agrigento, la parrocchiale di Caltabellotta. Anche nel campo del
mosaico l'età normanna giunse ad altissimi risultati. I più antichi
(ca. 1143) sono quelli della Martorana, opera probabilmente di maestranze bizantine
il cui stile appare vicino a quello di Dafnì; di poco posteriori i bellissimi
mosaici della cappella palatina, tra i maggiori della pittura bizantina insieme
a quelli del duomo di Cefalù (1148). Durante il regno di Guglielmo I
venne completata la decorazione della cappella palatina, a opera di artisti
locali, che interpretarono con sensibilità occidentale i motivi bizantini.
Poco invece è rimasto delle decorazioni della Zisa e del Palazzo Reale.
La decorazione del duomo di Monreale, infine, ripresa dai modelli di Cefalù
per la parte absidale, è dovuta probabilmente a mosaicisti veneziani
nelle navate. Di minor importanza, rispetto alle altre arti, la scultura del
sec. XII. I telamoni dell'arca di re Ruggero nel duomo di Palermo (1145), i
capitelli dei chiostri di Cefalù e Monreale, il candelabro pasquale della
cappella palatina sono tutti chiaramente influenzati dalla scultura provenzale.
Arte: dal periodo svevo al sec. XVI
Alla prima metà del sec. XIII risalgono gli imponenti castelli federiciani
di Milazzo, Siracusa (Castel Maniace), Catania (castello Ursino) e la severa
chiesa di S. Nicola di Agrigento, di stile ormai pienamente gotico. Il nuovo
gusto si affermò pienamente con la dominazione angioina e successivamente
nel sec. XIV, con le chiese di S. Francesco a Messina e Palermo, il duomo di
Palermo, il convento di S. Spirito a Caltanissetta, la chiesa dell'Annunziata
a Trapani e quella di S. Giorgio ad Agrigento. Di notevole livello anche l'architettura
civile, con il palazzo Chiaramonte a Palermo (1307), il palazzo di S. Stefano
e la Badia Vecchia a Taormina. Più modeste, in questo periodo, le arti
figurative, d'influsso pisano, senese o genovese e, successivamente, spagnolo.
Notevole, però, la decorazione della sala grande di palazzo Chiaramonte
(Simone da Corleone, Cecco di Naro e Dareno da Palermo). L'architettura del
sec. XV vide il prevalere di forme gotiche catalane, interpretate con gusto
sobrio (palazzo Corvaia a Taormina, palazzo Bellomo a Siracusa). Notevoli le
personalità di A. Gambara e M. Carnelivari, massimo architetto del secolo
sull'isola (S. Maria della Catena e palazzo Aiutamicristo a Palermo). Nel secolo
successivo influssi rinascimentali vennero importati dai Gagini (S. Maria di
Portosalvo a Palermo, di A. Gagini) e da scultori-architetti toscani. Poco resta
delle loro realizzazioni a Messina, mentre maggiori testimonianze si conservano
a Palermo (S. Giorgio dei Genovesi, di Giorgio di Facco, 1591). La scultura
rinascimentale in Sicilia ebbe inizio con l'opera di D. Gagini e F. Laurana,
continuò poi con l'attività della bottega gaginesca, attiva in
Palermo. Solo verso la metà del sec. XVI la presenza nell'isola di A.
Montorsoli, A. Calamech e C. Camilliani importò più mature forme
del manierismo toscano. Nel campo della pittura, la figura di Antonello da Messina
è dominante e trascende l'ambito regionale. Tra gli altri artisti, possono
essere ricordati in particolare A. Giuffrè (sec. XV), R. Quartararo (notizie
1484-1501) e il misterioso autore, che è stato identificato, tra gli
altri, con Pisanello, del Trionfo della Morte, grande affresco eseguito per
il palazzo Sclafani a Palermo e ora conservato nella Galleria Regionale della
Sicilia della stessa città.
Arte: dal sec. XVII a oggi
Di elevato livello appare l'architettura siciliana dei sec. XVII-XVIII, sebbene
non manchino goffe ripetizioni dei motivi del barocco spagnolo. Fra i maggiori
esponenti, P. e G. Amato, attivi a Palermo (SS. Salvatore e Paolo), vicini in
parte al gusto manieristico. Notevole, dopo il terremoto del 1693, fu l'opera
di ricostruzione nella Sicilia orientale, con la costituzione di organismi urbani
spesso di notevole gusto e imponenza (Noto, Grammichele, Avola, Ragusa, Modica).
Si distingue in questo ambito l'opera di G. B. Vaccarini (1702-1769), cui si
deve la ricostruzione di Catania; suoi capolavori sono il collegio Cutelli e
la chiesa di S. Agata, borrominiana. Notevole, a Siracusa, l'opera di G. Vermexio
e A. Palma. Importante esponente della scultura fu G. Serpotta (1656-1732),
abilissimo stuccatore, autore di mirabili decorazioni in chiese e oratori, specie
di Palermo. Di minore importanza la pittura, influenzata dal passaggio di Caravaggio
e di A. Van Dyck; le maggiori figure sia del sec. XVII (P. Novelli) sia del
XVIII (F. Randazzo, O. Sozzi, V. d'Anna) non superarono in genere l'ambito locale.
Il fiammingo M. Stomer, particolarmente influenzato da Gherardo delle Notti,
ne divulgò in Sicilia i modi e la tipica tecnica luministica. Di qualche
rilievo, all'inizio del sec. XIX, le realizzazioni neoclassiche degli architetti
V. Marvuglia a Palermo e G. Minutoli a Messina, mentre alla fine dell'Ottocento
creazioni di una certa originalità si devono a E. Basile (villa Igea
a Palermo), architetto aperto alle esperienze dell'Art Nouveau. Successivamente
l'arte siciliana si è assimilata con le varie correnti italiane e internazionali.
Per ciò che riguarda la pittura bisogna ricordare R. Guttuso, la cui
opera, pur trascendendo l'ambito regionale, rappresenta una significativa e
profondamente radicata testimonianza della vicenda artistica e della storia
siciliana. Altri pittori siciliani contemporanei di fama internazionale sono
F. Pirandello, P. Consagra, E. Greco e S. Fiume. I lavori di ricostruzione successivi
al terremoto del 1968 nella valle del Belice hanno ospitato opere di artisti
contemporanei, che hanno realizzato opere del tutto svincolate dalla tradizione
locale e dalle realtà preeesistenti, dando luogo in alcuni casi (una
per tutte, la "stella" di Gibellina) a critiche e polemiche sull'utilizzo
dei fondi pubblici.
Arte: le arti minori
Di grande importanza fu l'arte tessile che, affidata alla fabbrica reale palermitana,
si valse dapprima di operai arabi, ai quali si devono probabilmente i paramenti
per l'incoronazione di Ruggero I (1130), fra cui il famoso manto del Tesoro
di Vienna, di seta purpurea ricamato in oro, perle e smalti, con il motivo orientale
dei cammelli araldici azzannati dai leoni. Con l'arrivo dei prigionieri tebani
e corinzi che insegnarono ai siciliani l'arte della seta bizantina, le due tradizioni
si fusero e nacque un'arte palermitana del tessuto, spesso impreziosito da ricami
(broccato della tomba di Enrico VI, 1197, Londra, Victoria and Albert Museum).
Fiorente fu anche l'arte della ceramica, che prosegue ancora soprattutto nei
centri di Palermo, Sciacca, Trapani e Caltagirone e, nell'ambito dell'arte popolare,
la produzione dei famosi “pupi”, degli ex voto, dei tipici carretti
adorni di pitture.
Teatro
Al sec. XV risale il più antico testo che ci sia pervenuto, una Resurrectio
Christi del siracusano Marco De Grandi, dove parlano in dialetto tutti i quarantadue
personaggi, compreso Gesù. Allo stesso secolo risalgono anche farse che
attestano l'esistenza di un teatro profano, tollerato dalle autorità
ecclesiastiche solo a carnevale. Nel Cinquecento i buffi delle farse siciliane
s'inserirono anche nella commedia erudita in lingua, mentre nel secolo successivo
comparvero copioni di modesto interesse (come La Dalila, 1630, di Vincenzo Galati)
scritti interamente in vernacolo. Più significativa fu la vastasata (da
vastasi, facchini), un genere teatrale nato verso la fine del Settecento e destinato
alle piazze: fatti del giorno e temi della vita quotidiana furono i temi di
questi canovacci affidati soprattutto all'improvvisazione degli attori. Protagonista
era la maschera di Nofriu, resa illustre dall'attore Giuseppe Marotta. Alla
vastasata seguì nell'Ottocento la pasquinata, imperniata sul personaggio
di Pasquino (massimo interprete Giuseppe Colombo), che diede spazio sia alla
satira politica, sia, per la prima volta, ai temi della passione e della gelosia.
Ma il teatro siciliano moderno ebbe inizio nel 1863, anno in cui al teatro Sant'Anna
di Palermo l'attore Giuseppe Rizzotto mise in scena il dramma I mafiusi di la
Vicaria, scritto con il maestro elementare Gaspare Mosca, che, nonostante un
moralismo di superficie, mostrava spiccate simpatie per l'“onorata società”
e ottenne consensi non solo sull'isola ma sul continente e nelle Americhe. Poi
nel 1880 il puparo A. Grasso, che dirigeva il teatro Machiavelli di Catania,
tentò senza molta fortuna di recitare “in persona”. Ne seguì
l'esempio il figlio Giovanni, che alternò dapprima le rappresentazioni
dei pupi a farse (nelle quali interpretava ancora il personaggio di Nofriu)
e a riduzioni sceniche di novelle popolari, e formò poi (1899) una propria
compagnia, patrocinata dal commediografo N. Martoglio, che in breve tempo trionfò
sui palcoscenici d'Italia, d'Europa e d'America, in un repertorio violentemente
realistico – Otello e La morte civile di P. Giacometti, Malia di L. Capuana
e Cavalleria rusticana di G. Verga, La zolfara di G. Giusti e Sinopoli e La
figlia di Iorio di G. D'Annunzio, tradotta in siciliano da G.A. Borgese –
nel quale Giovanni Grasso ottenne i consensi anche degli spettatori più
esigenti. Le sue primattrici furono Mimi Aguglia, Marinella Bragaglia e Virginia
Balistrieri. Tra i suoi attori, con il figlio Giovanni jr. che ne riprese poi
i successi, fu anche il giovane A. Musco. Fu poi quest'ultimo a impersonare
l'altro filone del teatro siciliano, quello caricaturale e buffonesco, con strade
aperte verso il grottesco e verso un delirio al limite della tragicità.
Scrissero tra gli altri per la sua compagnia, costituitasi nel 1914 e acclamata
per oltre un ventennio, Capuana (Il paraninfo), Martoglio (San Giuvanni decullato,
L'aria del continente) e L. Pirandello ai suoi primi approcci con il teatro
(Lumie di Sicilia, Liolà, Pensaci Giacomino, Il berretto a sonagli, La
giara). Morto Musco nel 1937, quando ormai da un quindicennio recitava soprattutto
modesti copioni costruiti sulla sua misura, ne hanno ereditato il repertorio
prima Michele Abbruzzo, in coppia con Rosina Anselmi già primattrice
di Musco, poi Turi Ferro, eccellente attore anche in lingua.
Folclore
La complessità e la ricchezza del folclore siciliano sono testimoniate
dalla Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, la monumentale opera in
25 volumi di G. Pitré; dedicato allo studioso, il museo Pitré
di Palermo ospita i costumi e gli strumenti di lavoro del passato, gli oggetti
magici, non del tutto scomparsi (dai nodi per legare a sé la persona
amata alle forbici per tagliare la strada ai malefizi), gli ex voto dipinti
sul vetro, i “pupi”con tanto di elmo e corazza e gli ornamenti dei
famosi carretti. Il culto delle acque, tipico di una popolazione legata alla
terra, caratterizza la civiltà dei Sicani e dei Siculi: il ribollire
dei crateri sorgenti presso il tempio dei Palici, tra Mineo e Palagonia, era
considerato un fenomeno sacro per eccellenza, e pertanto in quel luogo si facevano
i giuramenti e si condannavano gli spergiuri: di qui discende la forza etica
che assume, nelle tradizioni popolari siciliane, il giuramento, sempre accompagnato
con una sanzione (tipica la frase: privu di la vista di l'occhi!, che io possa
perdere la vista degli occhi). La formazione del patrimonio folcloristico siciliano
porta però, soprattutto, un'impronta greca e la mitologia greca sopravvive,
in Sicilia, nei miti popolari: la ninfa Ciane, fedele compagna di Proserpina,
trasformata in sorgente limpida come le sue lacrime per la perdita dell'amica,
è divenuta a Modica la “monachella della fontana” e ha un
posto tra gli esseri mitici che accompagnano la vita popolare; come le donni
di notti, geni dalle chiome nerissime che abitano, come le ninfe greche, i giardini,
le macchie, i boschi dei Nebrodi. Dopo la dominazione romana, si deve agli Arabi
l'arricchimento del patrimonio linguistico e poetico siciliano. Molte parole
siciliane sono di origine araba (si pensi a gibel, montagna, donde Mongibello,
Gibellina, ecc.), come arabe sono le immagini che hanno dato ai canti popolari
siciliani un tono esotico, nettamente orientale. È merito dei Normanni
l'ulteriore arricchimento del mondo poetico siciliano. Con il re Ruggero entrano
a Palermo i guerrieri del ciclo carolingio, che passeranno, nell'Ottocento,
nel teatro dei pupi e sulle fiancate dei carretti. Mentre in Francia, patria
d'origine della tradizione epico-cavalleresca, il mondo leggendario dei paladini
è scomparso, esso si è mantenuto in Sicilia, anche se oggi il
teatro dei pupi è in declino. Per mezzo dei cantastorie la tradizione
ha conservato racconti in ottave ispirati all'epica medievale, a episodi storici
divenuti leggendari, e anche a episodi di cronaca nera. Ma il repertorio dei
cantastorie si è rinnovato, grazie ai testi di un autentico poeta come
I. Buttitta e alle interpretazioni di un geniale cantastorie, Ciccio Busacca.
Al patrimonio mitico dei cantastorie si lega il mondo delle credenze e delle
leggende: nel Messinese è viva la figura di un fantastico personaggio
marino, Colapesce, un pescatore divenuto mezzo uomo e mezzo pesce, mentre a
Modica è celebre la leggenda della sirena che, nella notte del 24 gennaio,
emerge dal fondo marino, cantando dolcemente. Innumerevoli sono le leggende
che riguardano le truvaturi, cioè i tesori nascosti da forze occulte
per attirare gli uomini più audaci. Per il ciclo della vita umana è
da mettere in risalto la grande importanza data ai segni del lutto. Prima della
sepoltura il rèpitu o pianto funebre veniva eseguito da prefiche o donne
della famiglia, davanti al cadavere, e dopo il seppellimento al cimitero aveva
luogo lu cunsulu, banchetto funebre con vivande fornite da amici ai parenti
del defunto; il suo significato è appunto la ripresa del ritmo consueto
della vita che si era interrotto per la morte. Per quanto riguarda le usanze
relative al lavoro ricordiamo l'uccisione dei tonni della tonnara , chiamata
mattanza, dallo spagnolo matar. Accanto alla pesca del tonno è altrettanto
celebre la pesca del pesce spada, per la quale Messina vanta peculiari forme
di folclore marinaro. Per la pesca del pesce spada muovono di buon mattino due
barche, una piccola e una più grande (feluca) munita di un'altissima
antenna (ca. 22 metri) in cima alla quale sta 'u'ntinnaru, un uomo legato per
la cintola all'estremità dell'antenna. Questa vedetta avvista per prima
il pesce spada e lo segnala agli altri pescatori: Va iusu! grida se il pesce
spada si muove in direzione della città; Va susu! se invece si muove
verso il capo Faro; Va intra! se verso la costa sicula; Va fora! se invece prende
il largo. Appena la preda è scorta, i pescatori fanno forza coi remi
nella direzione indicata e, quando giungono a tiro, un pescatore lancia un arpione
dotato di una punta speciale che si apre quando è penetrata nel corpo
del pesce. Anche la vita agricola è ricca di folclore in Sicilia. Lungo
il tratto compreso tra Altavilla e Cefalù, gli olivi sono così
antichi che i contadini li fanno risalire all'epoca degli Arabi (Saraceni),
fino a chiamare ogni grande olivo, più brevemente, saracinu. Antichi
riti sopravvivono ancora nella vita dei contadini nella piana di Catania. In
certe zone la trebbiatura viene compiuta ancora facendo battere le spighe del
grano sull'aia da una coppia di mule, guidate dal caccianti; gli altri lavoranti
(turnanti) risospingono verso il centro le spighe che le mule fanno saltare
correndo. La sera dell'Ascensione, s'innalzano verso il cielo 'i vamparigghi,
i falò purificatori degli antichi culti. A Trapani sono tipiche le cantilene
intonate dai salinari, alcune delle quali assolvono anche la funzione di indicare
al “segnalatore” il numero delle carteddi, delle ceste di sale portate.
A Marsala, infine, sono caratteristici i canti della vendemmia; al tramonto,
i vendemmiatori iniziano la loro festa: pifferi, cornamuse, violini, accompagnati
dal flautare orientale del taballe. Innumerevoli sono le feste religiose e non
è possibile pertanto un loro esame analitico. Si accenna soltanto alle
più importanti, a cominciare dal celeberrimo fistìnu di Santa
Rosalia a Palermo, che culmina il 15 luglio con la processione dell'urna della
santa. A Catania, il 3 febbraio, si svolge la festa di Sant'Agata con la processione
delle cannaroli, grandi ceri di legno dorato e dipinto, alti circa sei metri,
portati dagli appartenenti alle antiche corporazioni; segue nei due giorni successivi
la processione dello scrigno con le reliquie della santa, fra canti e fuochi
artificiali. Per la Settimana Santa, particolari forme drammatiche assume a
Caltanissetta la processione dei misteri, 16 gruppi artistici in legno (li variceddi),
rappresentanti i vari momenti e personaggi della Passione. A Caltagirone il
giorno di Pasqua ha luogo la “giunta”, cioè la processione
con l'incontro delle statue della Madonna e di Gesù. A Messina, il 14
agosto, si svolge la passeggiata dei “giganti”, due grandissime
statue lignee, raffiguranti un guerriero moro e la gigantessa adorna di una
corona turrita: vengono chiamati anche Cam e Rea, mitici fondatori di Messina.
Il giorno seguente, festa dell'Assunta, si porta in processione la vara, grande
carro sormontato da una piramide di angeli, con in cima la Madonna. Le feste
sono spesso accompagnate dalle danze, come le tarantelle in costume e l'antica
siciliana, ormai entrata nell'ambito della musica colta. Quanto ai costumi,
è d'obbligo ricordare i pittoreschi e vistosi costumi di Piana degli
Albanesi. Nel campo dell'arte popolare, s'impone naturalmente il carretto siciliano,
per la sua decorazione, specie nelle fiancate, dipinte con arte naïve,
espressiva per intensità di colori e per il valore sintetico dei gesti;
tutta la struttura del carretto richiama spunti architettonici arabo-normanni.
Sempre nel campo dell'arte popolare, la ceramica ha il suo centro principale
a Caltagirone: le lucerne a olio riproducono fedelmente forme antichissime;
le graste, vasi per erbe odorose e fiori, erano già usate nel Trecento
e una è ricordata da G. Boccaccio; lo ziro (dall'arabo zir), grande orcio
di terra, viene fabbricato a Partinico, a Salemi, a Marsala; le giare sono grandi
vasi per acqua la cui forma ovoidale si riallaccia ai prototipi greci. Si ricorda
inoltre il rutilante mercato di Palermo, illustrato dall'arte di R. Guttuso
con La vuccirìa.
Gastronomia
La cucina siciliana, tipicamente mediterranea, deriva la sua particolarità
dall'attaccamento alle tradizioni e ai costumi del passato, dall'apporto arabo,
riconoscibile nell'uso di prodotti prima sconosciuti (agrumi, riso, droghe)
e dall'accostamento di elementi disparati. Quest'ultima caratteristica fa sì
che molte specialità possano essere realizzate in parecchie versioni,
dalla più semplice alla più ricca; esempio tipico la caponatina,
che da una base di verdure fritte separatamente può arrivare a includere
gli elementi più disparati: mandorle, polpi, bottarga, coda d'aragosta,
ecc. Piatto forte di questa cucina è senz'altro la pasta (si sostiene
anzi da alcuni che la pasta sia una creazione siciliana), condita in vari modi:
gli ingredienti sono verdure (broccoli, melanzane, pomodori, ecc.) e pesce (acciughe,
tonno, seppie e soprattutto sarde). Di largo consumo sono anche pizze e focacce
in numerose varianti (sfinciuni, scacciata, 'mpanata), frittelle (crispeddi,
panelle), pagnotte variamente imbottite e passate in forno caldo (caciottu,
guastiedda, 'mmiscata). Il riso viene per lo più consumato sotto forma
di arancini. La scarsa disponibilità di bestiame bovino ha ridotto a
poche le specialità a base di carne, di solito unita a spezie e salse
(farsumagru, involtini di vitello, e soprattutto polpette), mentre si fa molto
consumo di salsicce di maiale. Il pesce invece entra di frequente nell'alimentazione
dei siciliani: acciughe, orate, spigole, triglie e soprattutto sarde, tonno
e pesce spada, elaborati nei modi più diversi, sempre con l'aggiunta
di erbe aromatiche e sapori piccanti. La gastronomia siciliana si avvale in
abbondanza di erbe e verdure domestiche e selvatiche, dai broccoli neri o verdi
ai finocchietti, dagli asparagi alle bietole e ai caliceddi (erbe amare), dai
carciofi alle melanzane, che hanno un posto preminente sia da sole (alla parmigiana,
ripiene) sia come accompagnamento alla pasta o ad altre verdure (con i peperoni,
in caponatina ecc.). La produzione di latticini è abbondante; si ricordano
il canestrato, che fresco prende il nome di tuma, e di primu sali quando viene
salato, il piacintinu, reso piccante da pepe in grani, il caciocavallo, la ricotta.
La pasticceria, influenzata dal contatto arabo, è dominata da tre ingredienti:
mandorle, pistacchi e miele, che insieme sono la base di uno squisito torrone.
La pasta di mandorle (o pasta reale) è la materia prima della frutta
alla martorana (dal monastero omonimo), dei cardinali, dei dolci di Riposto,
ecc. Altre notissime specialità sono la cassata, la frutta candita, i
cannoli, i mostaccioli, le ossa di morto, ecc. I più noti vini siciliani
sono i bianchi e i rossi dell'Etna, il faro messinese, il corvo, ma soprattutto
i vini da dessert: dal marsala (il più diffuso nel mondo) al moscato
di Pantelleria e di Siracusa, dal passito alla malvasia di Lipari e di Milazzo.
Omnia Storia Panorama- © 2003 Istituto Geografico De Agostini
Sìria
Generalità
(Al-Jumhuriya al-!Arabiya as-Suriya). Stato dell'Asia occidentale, affacciato
a NW sul mar Mediterraneo e confinante con la Turchia a N, con l'Iraq a E, con
la Giordania a S, con Israele e il Libano a SW. La Siria è il Paese arabo
che più d'ogni altro ha conservato le tracce del mondo preislamico. Essa
infatti ha conosciuto tutte le esperienze culturali che hanno preceduto l'affermazione
araba: da quelle delle varie civiltà semitiche, incentrate nella Mesopotamia
(alla civiltà assirica rimanda, con un legame di tre millenni, il nome
attuale), alle successive culture indotte dalle civiltà mediterranee:
fenicia, greca, romana. L'affermazione araba non ha cancellato i valori preesistenti:
li ha assimilati o li ha lasciati sopravvivere. Tuttavia proprio qui l'Islam
ha attuato alcune delle sue esperienze più alte e di ciò bisogna
tener conto per comprendere la Siria d'oggi. Infatti, malgrado i diversi secoli
di dominio turco, durante il quale la Siria conobbe una generale decadenza di
cui il Paese porta segni ancora marcati (situazione che perdurò anche
durante il successivo mandato francese), i siriani non hanno mai perduto la
consapevolezza del proprio passato e dei propri valori. Socialmente incentivati
da una borghesia preparata, disincantata dalle esperienze mercantili e dall'emigrazione,
culturalmente sensibili ai valori tradizionali del mondo arabo ma al tempo stesso
aperti alle esigenze di progresso, orgogliosi e nazionalisti, essi hanno attivamente
partecipato negli ultimi decenni ai movimenti arabi nel tentativo di affermarsi
come potenza leader dell'area mediorientale; in questa prospettiva hanno aderito
alla proposta progressista e panaraba dell'Egitto nasseriano, entrando nell'effimera
benché velleitaria Repubblica Araba Unita dal 1958 al 1961; hanno contrastato
l'espansionismo israeliano; sono intervenuti nel Libano e si sono schierati
con le potenze occidentali e contro l'Iraq nella guerra del Golfo. La Siria
mantiene il suo protettorato di fatto sul Libano ed esercita ancora un ruolo
determinante nei delicati equilibri dell'area mediorientale.
Lo Stato
In base alla Costituzione, approvata per referendum il 12 marzo 1973, la Siria
è una Repubblica popolare, democratica e socialista. I massimi poteri
spettano al presidente della Repubblica, eletto a suffragio universale e diretto
per sette anni; egli esercita il potere esecutivo con l'ausilio del primo ministro
e degli altri membri del governo, che egli nomina e revoca. Il potere legislativo
spetta all’Assemblea popolare (Majlis al Sha’ab), i cui 250 deputati
vengono eletti a suffragio universale e diretto. Amministrativamente il Paese,
che si estende per 185.180 km2 e ha una popolazione di 16.125.000 ab. (stima
2000), si divide in 14 distretti (mohafazat) compreso il municipio di Damasco,
che è la capitale (1.489.000 ab. nel 1995). Lingua ufficiale è
l'arabo. La maggioranza della popolazione è musulmana di rito sunnita
(86%), con gruppi minori di sciiti e ismailiti; dei cristiani (9%), ripartiti
in numerosissime chiese, prevalgono i greco-ortodossi. La densità siriana
è di 87 ab./km2. L'indice di sviluppo umano (ISU) è pari a 0,663
e pone il Paese al 111° posto della graduatoria mondiale.
Geomorfologia
Il territorio siriano corrisponde solo in parte alla Siria antica, storica,
che all'incirca comprendeva la fascia costiera occupata dai rilievi del Libano
e dell'Antilibano: verso E infatti si spinge, con un caratteristico “becco
d'anatra”, fino all'alta Mesopotamia, toccando il Tigri e includendo una
buona parte del corso medio dell'Eufrate, mentre verso W la sua apertura al
Mediterraneo è limitata dalla presenza del Libano e dall'appendice turca
corrispondente al vecchio sangiaccato di Alessandretta (passato alla Turchia
nel 1939), sicché si affaccia al mare per appena 183 km. Strutturalmente
il territorio è formato da distese tabulari che rappresentano la sezione
settentrionale del grande altopiano siro-arabico. Su queste superfici cristalline,
paleozoiche, che affiorano in diversi punti del Paese, si sono sovrapposte coltri
sedimentarie del Mesozoico, con prevalenza di arenarie e calcari del Cretaceo,
che hanno oggi una notevole estensione, benché in parte incise e smantellate
dall'erosione. Nella sezione occidentale però i tavolati sono stati interessati
nel Miocene dalle fratture e dai perturbamenti tettonici che rappresentano la
continuazione dei movimenti cratogeni che hanno separato l'Africa dall'Asia
formando la gigantesca fossa siro-africana: a essi si deve la formazione del
Gebel Aansarîyé (o Catena Alauita), che domina la costa siriana,
e di El Ghâb, la depressione percorsa dal fiume Oronte. Più a S
gli stessi perturbamenti hanno originato la catena del Libano (compresa nello
stato omonimo) e dell'Antilibano, di cui appartiene alla Siria il solo versante
orientale. A queste dislocazioni tettoniche si devono le manifestazioni vulcaniche
che hanno formato vaste e impressionanti superfici basaltiche o rilievi di una
certa imponenza, come l'isolato Gebel ed-Drouz, o Gebel Druso (1800 m). Infine
la regione posta alla sinistra dell'Eufrate, l'Al Jazira (l'isola), costituisce
una sezione del grande bacino sedimentario dell'Iraq; è una vasta pianura,
formata da potenti strati sedimentari, che quasi insensibilmente declina verso
il massiccio del Tauro, le cui acque ne hanno reso fertile la parte settentrionale.
Nonostante non manchino, nella Siria occidentale, zone accidentate e montagnose,
il territorio ha sostanzialmente distese piane.
Idrografia
L'idrografia è povera. Il fiume più importante nella sezione mediterranea
è l'Oronte (El Aâssi) che nasce dalla catena del Libano. Entrato
in Siria raccoglie le acque di El Ghâb, trasformando la depressione in
una fertile oasi e sfocia a valle di Antiochia (Antakya) in Turchia. L'Eufrate
(Al Furat) nasce nella lontana Armenia, in Turchia, solca la catena del Tauro
attraversando poi per oltre 650 km la sezione più interna del territorio
siriano (dove però è arricchito dall'apporto del Khâboûr)
e ha quindi una posizione marginale; esso tuttavia scorre lungo una sottile
ma lunga fascia di terre oasiche che rappresentano una componente importante
della geografia umana della Siria. Verso l'Eufrate sono diretti i numerosi uidian
che scendono dall'Antilibano e in particolare l'Uadi el Heil, costellato di
pozzi e antica direttrice carovaniera. I larghi letti degli uidian portano acqua
solamente dopo i brevi acquazzoni, originando specchi lacustri incrostati di
depositi salini (Sabkhel Moûh, Sabkhel ej Jabboul ecc.). L'Eufrate, soggetto
a un regime di tipo pluvio-nivale, ha piene considerevoli nel periodo delle
piogge (dicembre-febbraio) e dello scioglimento delle nevi (aprile-maggio),
giungendo sino a una portata di 8500 m3/s, contro i 150 m3/s dei periodi di
magra.
Clima
Il Paese è in gran parte arido. Solo la fascia prossima al mare gode
di un clima mediterraneo, con precipitazioni invernali consistenti (860 mm annui
a Latakia), temperature mitigate (nella stessa località si registrano
11 ºC in gennaio e 26 ºC in luglio). Gradatamente verso l'interno
questi valori mutano, il clima si fa più continentale, arido e ingrato.
A Damasco, posta ai piedi dell'Antilibano, in una località quindi già
piuttosto esclusa dagli influssi mediterranei, cadono non più di 200
mm annui di pioggia e le temperature di gennaio e di luglio passano dai 6-7
ºC ai 27 ºC. Procedendo verso E si entra in un ambiente desertico,
con precipitazioni scarsissime (meno di 100 mm annui) e forti escursioni termiche
le quali, nonostante l'elevata temperatura estiva, mantengono la media annua
sui 18-20 ºC. Il paesaggio della Siria interna settentrionale, in corrispondenza
dell'ampio massiccio del Tauro, al confine con la Turchia, è steppico,
con villaggi d'oasi orlati da pioppi lungo i corsi d'acqua temporanei; a S,
al di là dell'Eufrate, si hanno distese desertiche, con hamada di rocce
gessose o arenacee, oppure con superfici di ciottoli lavici. Sui versanti dell'Antilibano
i suoli rossi, d'origine calcarea, ospitano una vegetazione arborea mediterranea
(querce e piante di coltivazione come mandorli, carrubi ecc.) che si fa ricca
nel Gebel Aansarîyé. In tutta la sezione occidentale macchie di
vegetazione riparia, di pioppi, olmi, alberi da frutto si raccolgono lungo i
corsi d'acqua e i canali d'irrigazione, mentre per il resto si hanno estese
colture legnose mediterranee, tra cui spiccano gli olivi.
Geografia umana
Il primo popolamento del territorio siriano rimanda a epoche paleozoiche. Nel
III millennio a. C. il Paese entrò nella sfera della civiltà sumerica
e – in quanto parte del grande arco di terre conosciuto come il Crescente
(o Mezzaluna) Fertile – fu sempre successivamente interessato agli sviluppi
culturali del mondo mesopotamico. Geograficamente il ruolo che ebbe la Siria
fu, sia all'epoca dei Babilonesi sia in quelle successive degli Assiri, dei
Greci, dei Romani e poi degli Arabi, di punto d'arrivo dei traffici carovanieri
che dall'interno dell'Asia si spingevano verso il Mediterraneo. A questa funzione
si collega l'antico e sviluppato urbanesimo del Paese, esemplificato da una
città come Palmira, poi irrimediabilmente decaduta, e più ancora
da Damasco, floridissima sotto gli Omayyadi e che ha mantenuto intatta nel tempo
la sua importanza. Sempre alla sua posizione tra Mediterraneo e Asia più
interna, arabo-mesopotamica, si deve se la Siria fu in ogni epoca coinvolta
nelle vicende storiche di tale vasta area, le quali, anziché omogeneizzare
il Paese, determinarono delle stratificazioni etniche e culturali favorite anche
dalla presenza di aree montagnose conservative: basti pensare al Gebel Druso
e alla Catena Alauita, che tuttora ospitano i seguaci delle rispettive sette
religiose. La decadenza della Siria sotto il dominio ottomano e la concomitante,
progressiva desertificazione del territorio, portarono a una cristallizzazione
delle genti e dei loro patrimoni culturali. Tra questi spiccano quelli religiosi.
In Siria, Paese per gran parte popolato di genti semitiche, oltre ai musulmani
sunniti, che sono la maggioranza (75%), si trovano infatti rappresentanti delle
fedi più disparate. Numerose sono sia le sette musulmane (oltre a quelle
ufficialmente riconosciute, come la sciita e l'ismailita, talune sono considerate
eretiche, come l'alauita, la drusa, la yazida ecc.), sia le chiese cristiane:
ortodosse (greco-ortodossi, armeno-ortodossi, siro-ortodossi), cattoliche (greco-cattolici,
armeno-cattolici, siro-cattolici, romano-cattolici), maronita, nestoriana, protestante
ecc. I gruppi religiosi spesso si distinguono anche per le attività che
svolgono e la loro particolare posizione sociale; è in corso peraltro
un inevitabile processo di attenuazione dei contrasti religiosi. Tra le popolazioni
d'origine non semitica vi sono i Curdi che in luogo dell'arabo, pressoché
universalmente parlato, sono rimasti fedeli alla loro lingua. Ca. 140.000 sono
ancora i cammellieri nomadi, i cui gruppi principali sono gli Anezeh e gli Shammar,
che sfruttano le zone interne con migrazioni pendolari da S a N, dai deserti
siro-arabici alle pianure steppiche; ai loro spostamenti si adeguano i Sulaib,
nomadi artigiani e commercianti. L'antica, nobilissima “aristocrazia del
deserto” è però avviata a una progressiva sedentarizzazione.
La popolazione è insediata per il 70% nella Siria occidentale e si condensa
soprattutto nell'Antilibano, nella valle dell'Oronte e lungo la zona costiera
(120 ab./km2). Popolosa è anche tutta la fascia settentrionale, mentre
nella sezione orientale, semidesertica, gli abitanti si concentrano quasi unicamente
lungo il corso dell'Eufrate. Pertanto la densità media del Paese, di
87 ab./km2, ha poco significato. La Siria ospita oggi una popolazione che è
il doppio di quella che aveva al momento dell'indipendenza: se si pensa che,
secondo varie stime, all'epoca romana contava ben 8 milioni di ab., si può
avere un'idea dello spaventoso regresso rappresentato, in ogni ambito, dal lungo
dominio ottomano. Il ritmo di incremento demografico è stato molto elevato
negli ultimi anni, raggiungendo il 2,6% di crescita annua nel periodo dal 1994
al 1999. La mortalità molto bassa e la forte natalità spiegano
tale indice, cui contribuisce anche una certa immigrazione di ritorno di siriani
dall'estero. Già a partire dal secolo scorso, la Siria aveva infatti
promosso correnti migratorie verso l'Africa e l'America, dove i siriani, perpetuando
un'antica tradizione mercantile legata ai famosi bazar, si sono inseriti nell'economia
di molti Paesi con le loro attività commerciali. Si calcola in 300.000
il numero di siriani all'estero; l’emigrazione è attualmente attenuata.
Nel Paese vivono però numerosi profughi palestinesi. Gli abitanti risiedono
per gran parte in villaggi la cui ubicazione è in genere dettata dalla
presenza dell'acqua; sono costituiti da case di fango che nel Nord assumono
la tipica forma ad alveare (tetto a ogiva); villaggi compatti con abitazioni
in pietra si trovano sui rilievi, rifugio di antiche comunità religiose.
La popolazione urbana è tuttavia oggi relativamente elevata per effetto
di un'immigrazione dalle campagne e come conseguenza di trasformazioni sostanziose,
anche se non radicali. L'urbanesimo, come già detto, ha origini antichissime
e ha conservato certi aspetti caratteristici del passato. Le città siriane
sono per lo più centrate su un tell, un'altura su cui si trovano le tracce
di antichi insediamenti o i resti di vecchie fortezze islamiche o crociate (è
qui il famosissimo e poderoso castello fortificato noto come “Krak dei
Cavalieri”) ; alla base è il suq, il bazar, secondo una tradizione
che risale all'epoca dei traffici carovanieri, cui Greci, Romani e soprattutto
gli Arabi diedero splendidi impulsi, e attorno i vari quartieri abitativi. Tutte
le grandi città siriane sono nate come centri carovanieri; così
l'antica Palmira, così Damasco, Aleppo, Homs, Hama ecc. La capitale,
Damasco, centro preistorico già menzionato in epoca sumerica, è
stata privilegiata non solo dalla posizione nodale tra le direttrici trasversali
e longitudinali, ma anche dalla felice ubicazione topografica, ai piedi dell'Antilibano,
su un fertile conoide di terre irrigue. Essa ha funzioni molteplici: finanziarie,
culturali, commerciali ed è anche sede di attività industriali.
Fu sempre importante, pur inevitabilmente con fasi alterne, raggiungendo il
massimo splendore sotto gli Arabi. Segue Aleppo, nella Siria settentrionale,
sull'asse ferroviario proveniente dalla Turchia e che porta in Iraq; è
anch'essa antica di origine e nobile di tradizioni culturali, oggi attiva in
vari settori industriali. Altre città importanti sono Homs e Hama, nella
fertile e popolata valle dell'Oronte, e Latakia, l'antica Laodicea, massimo
centro costiero.
Economia: generalità
La Siria presenta un'economia strutturalmente fragile. Le possibilità
agricole sono limitate dalle non favorevoli condizioni climatiche; inoltre,
se si eccettuano giacimenti petroliferi non certo di particolare rilievo, il
Paese ha ben modeste risorse minerarie. Non sono mancate varie iniziative del
governo volte a modernizzare le tradizionali attività agricole e a dare
avvio all'industrializzazione del Paese, ma tali iniziative hanno trovato sul
loro cammino ostacoli assai ardui. Alle difficoltà politiche d'ordine
interno, espresse da forti tensioni nell'ambito dello stesso partito al potere,
il Ba!th, si sono infatti aggiunte quelle, enormi, d'ordine internazionale.
La Siria infatti è forse lo stato arabo che più drasticamente
ha subito le ripercussioni del lungo e travagliato conflitto con Israele; inoltre
il diretto intervento siriano nel Libano dal 1976 – conseguenza del coinvolgimento
della Siria nella complessa crisi mediorientale – ha causato un ulteriore
aggravio per l'economia e la stabilità del Paese. Nella seconda metà
degli anni Ottanta ed ancor più all'inizio del decennio seguente il Paese
ha sperimentato infine una discreta ripresa economica, favorita dall'incremento
dell'estrazione petrolifera, dalla promulgazione di una nuova legge sugli investimenti,
da ulteriori misure di liberalizzazione e dalla concessione di aiuti e crediti
da parte dei Paesi occidentali. Negli anni Novanta il crollo dei regimi comunisti
dell’Europa dell’Est e la conseguente interruzione dei rapporti
privilegiati che la Siria intratteneva con essi, hanno reso necessaria una riforma
dell’economia siriana, fino ad allora racchiusa entro gli schemi della
pianificazione centralizzata. La decisione di mutare il modello di sviluppo
economico e di concedere, sia pure in misura limitata, l’apertura all’economia
di mercato non è però derivata esclusivamente da fattori extra-economici
esterni, bensì è stata adottata per controbilanciare la recessione
affermatasi sul finire degli anni Ottanta, quando si è registrata una
drastica riduzione del PIL pro capite. Ridotte le esportazioni verso i Paesi
dell’Europa dell’Est dal 40% al 5%, la Siria ha accresciuto in maniera
progressiva, la quota di esportazioni dirette verso l’UE, nella prospettiva
di un accordo di associazione la cui concreta realizzazione è stata ostacolata
dal pesante debito che ha contratto nei confronti di alcuni Paesi dell’UE
(Germania e Francia in particolare). Questo indebitamento ha compromesso l’erogazione
di altri investimenti da parte europea, proprio nel momento in cui anche i Paesi
arabi hanno notevolmente ridotto il flusso dei loro finanziamenti. La difficoltà
di reperire fondi per sostenere la crescita economica, aggravata dalla prospettiva
dell’esaurimento delle riserve petrolifere entro il secondo decennio del
Duemila, hanno spinto il governo a varare una serie di riforme nell’ambito
petrolifero per incentivare, da parte delle imprese straniere, l’attività
di ricerca di nuovi giacimenti. Malgrado le difficoltà incontrate nell'ammodernamento,
la struttura economica è comunque oggi basata più che sul settore
primario su quello industriale, mentre il terziario manifesta una certa ipertrofia
dovuta all'eccessiva espansione del pubblico impiego. Ancora piuttosto basso
risulta però il PNL, che nel 1999 è stato di 15.172 milioni di
dollari USA (970 dollari USA il PNL pro capite).
Economia: agricoltura e allevamento
Il 24% della popolazione attiva è tuttora occupato nell'agricoltura,
che costituisce la base dell'economia del Paese; tuttavia nel suo complesso
non è un settore particolarmente fiorente, pur presentando aspetti in
vario modo differenziati in relazione all'ambiente naturale e alle trasformazioni
apportate dall'uomo. L'irrigazione soprattutto è valsa a rendere coltivabili
superfici discretamente vaste, aumentando così, a volte in modo anche
considerevole, talune produzioni; ma, globalmente intesa, l'agricoltura appare
poco modernizzata, attestata anzi su tecniche tradizionali scarsamente redditizie,
anche perché il prevalente regime di conduzione agraria – la piccola
proprietà – non facilita l'introduzione su vasta scala di nuovi
metodi colturali. L'abolizione dell'antico latifondo, spesso parassitario, è
stato pur sempre un sensibile progresso, ma la successiva frammentazione fondiaria
non ha sostanzialmente modificato il diffuso immobilismo del settore; più
economicamente e socialmente incisiva è stata la creazione di cooperative,
favorite mediante agevolazioni creditizie e assistenza tecnica. Comunque il
problema certamente più grave da risolvere per l'agricoltura siriana
è l'insufficienza della rete d'irrigazione, addirittura determinante
per un Paese che solo lungo la costa e nella fascia settentrionale ha precipitazioni
sufficientemente copiose (in tali aree anzi i rendimenti sono elevati e le colture
si praticano a rotazione). Il governo ha perciò da tempo in corso d'attuazione
un vasto programma d'irrigazione e ha già riscattato una parte del territorio
che altrimenti sarebbe rimasto inutilizzato. Ciò è stato reso
possibile mediante la realizzazione di una serie di dighe, atte anche a fornire
elettricità alle industrie; la più importante è quella
di Tabka sull'Eufrate (costruita con l'aiuto sovietico), che ha dato origine
al lago Assad. Il sistema d'irrigazione più antico è quello delle
norie: si tratta di ruote di legno spesso gigantesche (una, funzionante ad Hama,
sull'Oronte, sin da epoca medievale, ha il diametro di oltre 20 m), munite di
una serie di mastelli anch'essi in legno; quando i mastelli si trovano in basso,
si riempiono d'acqua e allorché giungono alla sommità la riversano
in un canaletto che convoglia l'acqua alla terra da irrigare. Ormai ca. il 28%
della superficie territoriale è coltivato; di esso la metà è
occupata da frumento e da orzo, cereali entrambi che resistono bene alla siccità
e che sono diffusi in tutta la fascia occidentale e settentrionale dai tipici
suoli rosso-bruni. Si coltivano anche, tutti destinati al consumo interno, mais
e miglio e in certe aree irrigue riso, quindi ortaggi, specie pomodori e cipolle,
poi ceci, fagioli, fave, lenticchie ecc., nonché patate. Massima coltura
commerciale del Paese, destinata in larga misura all'esportazione, è
quella del cotone che è diffusa soprattutto nella valle dell'Oronte;
discrete, specie nel distretto di Latakia, le coltivazioni del tabacco e della
barbabietola da zucchero. Più rilevanti sono però le tipiche colture
arboree mediterranee, come quelle della vite e dell'olivo; altre oleaginose
presenti sono il sesamo e le arachidi. Buoni raccolti danno infine i frutteti:
fichi, che ben si adattano alla siccità, agrumi, albicocche, pere, prugne,
pesche, arance ecc. Le foreste, estese nell'antichità, sono ormai pressoché
scomparse, ridotte a pochi lembi nei distretti di Latakia, Homs, Hama e Aleppo.
Prati e pascoli coprono invece quasi il 45% della superficie territoriale; sono
sfruttati sia dalla pastorizia stanziale sia da quella nomadica. Date le condizioni
climatiche e pedologiche, prevalgono gli ovini e i caprini; oltre alla lana
essi forniscono, come in tutti i Paesi arabi, l'alimento carneo fondamentale.
Diffuso è però anche l'allevamento dei volatili da cortile.
Economia: risorse minerarie e industrie
La Siria non è particolarmente fornita di risorse minerarie; confrontati
con l'enorme produzione di altri Paesi arabi, i quantitativi di petrolio estratti
nella Siria nordorientale non possono certo essere considerati elevati, tuttavia
rappresentano la principale fonte per il consumo interno. Per il resto, si hanno
solo modesti giacimenti di asfalto, fosfati, salgemma e gas naturale. È
in funzione un oleodotto di 650 km, che porta il petrolio greggio alla raffineria
di Homs e da qui al porto di Tartous; il Paese è inoltre attraversato
da due oleodotti: uno proviene da Kirkuk (Iraq) ed è diretto alla citata
raffineria di Homs, dove si biforca nei tronchi Homs-Banias e Homs-Tripoli (Libano),
l'altro, assai più breve, taglia l'estrema sezione sudoccidentale della
Siria provenendo dall'Arabia Saudita e porta il greggio a Saida, nel Libano
(entrambi questi oleodotti però sono stati interrotti a causa del conflitto
libanese e delle tensioni con l'Iraq). Modesta, anche se sensibilmente aumentata,
è la produzione di energia elettrica; un tempo essenzialmente di origine
termica, essa è oggi, grazie alla realizzazione di varie centrali idroelettriche,
per oltre la metà di origine idrica. In stretta relazione con l'incremento
della produzione d'energia è da porre lo sviluppo industriale. Benché
le ingentissime spese militari pongano un forte freno agli investimenti produttivi,
la Siria prosegue nel proprio intento di consolidare le strutture industriali.
I settori più sviluppati riguardano naturalmente la lavorazione dei prodotti
nazionali; presenta un certo rilievo l'industria tessile, specie la cotoniera,
con principali impianti a Damasco e ad Aleppo; si annoverano inoltre oleifici,
complessi molitori, zuccherifici, birrifici, tabacchifici, cementifici, concerie,
oltre alla citata raffineria di Homs.
Economia: comunicazioni e commercio
La Siria è stata sin dall'antichità un Paese di transito e molte
delle attuali strade si appoggiano sui tracciati delle vecchie carovaniere.
Le vie di comunicazione non sono comunque molto sviluppate nonostante i già
avviati programmi governativi, miranti al potenziamento sia della rete stradale
sia di quella ferroviaria. Quest'ultima risulta particolarmente deficitaria,
sviluppandosi per poco più di 2000 km; il tronco principale collega Aleppo
con Homs e Damasco; da esso si dipartono varie diramazioni che si raccordano
con le linee dei Paesi vicini: Turchia, Iraq, Libano e Giordania. La rete stradale
si aggira sui 30.200 km, quasi tutti asfaltati, e consente di raggiungere abbastanza
agevolmente tutti i maggiori centri del territorio. Modesti sono i servizi marittimi
(un discreto traffico svolge il porto di Latakia, seguito da quello eminentemente
petrolifero di Banias), mentre ben rappresentate sono le comunicazioni aeree,
che fanno capo soprattutto agli aeroporti internazionali di Damasco e di Aleppo;
compagnia di bandiera è la Syrian Arab Airlines. Abbastanza vivaci sono
i commerci specie quelli con l'estero; la Siria esporta prevalentemente petrolio;
seguono, a grande distanza, cotone, prodotti ortofrutticoli e asfalto, mentre
le importazioni sono essenzialmente costituite da macchinari e prodotti industriali.
L'interscambio si svolge soprattutto con vari Paesi europei, come la Francia,
l'Italia, la Germania, ma le esportazioni coprono appena la metà delle
importazioni. Un ruolo commerciale importante, prima del suo dissolvimento,
lo ha svolto l'URSS. Di importanza crescente si è rivelato il turismo
(1.267.000 visitatori nel 1998): le potenzialità di sviluppo fornite
dalla varietà delle regioni, dalla ricchezza di beni archeologici e dalla
buona infrastrutturazione trovano però ancora limitazioni nell'insufficienza
delle attrezzature ricettive e più in generale nelle condizioni politiche.
Istruzione
L'insegnamento pubblico è gratuito a tutti i livelli. L'istruzione elementare,
obbligatoria, ha la durata di quattro anni al termine dei quali gli alunni sostengono
un esame e ottengono il “certificato di studi siriano” il cui possesso
non è obbligatorio per coloro che intendono proseguire gli studi. Nella
scuola elementare l'istruzione religiosa è obbligatoria. L'istruzione
secondaria, della durata di sei anni, viene impartita nella scuola media, il
cui insegnamento ha carattere orientativo, e nella scuola secondaria superiore
o liceo con sezioni umanistiche e letterarie e sezioni di matematica. Al termine
degli studi secondari superiori, previo esame, si ottiene il “baccellierato
di 1º grado”. Per accedere all'università, tuttavia, è
necessario frequentare un corso complementare annuale al termine del quale si
ottiene il “baccellierato di 2º grado”. Particolarmente sviluppata,
proprio per le caratteristiche dell'economia siriana, è l'istruzione
agraria. L'istruzione superiore è impartita nelle università di
Aleppo (1960), di Damasco (1923), di Latakia (1971) e in diversi istituti superiori.
In base a recenti stime la percentuale di analfabeti è del 25,6% della
popolazione adulta (2000).
Preistoria
Il territorio siriano fu sicuramente abitato fin dai più remoti tempi
paleolitici: lo attestano soprattutto i resti dei livelli più bassi della
stratigrafia messa in evidenza nella località di Jabrud. Numerose sono
le testimonianze relative al Paleolitico inferiore, con diversi giacimenti in
cui è stato possibile stabilire una sequenza dell'evoluzione dell'Acheuleano,
in cui sono presenti complessi dell'Acheuleano antico, come a Sitt Markho nella
bassa valle del Nahr el Kebir; dell'Acheuleano medio, come a Berzine e a Latamne
a nord di Hama; dell'Acheuleano superiore e finale, come a Gharmachi e Douara,
non lontano dall'oasi di Palmira, a Abou Jamaa sull'Eufrate e in alcuni dei
ripari dell'Uadi Skifta, vicino a Jabrud. Seguono lo Jabrudiano, industria su
scheggia e bifacciali con datazioni comprese intorno a 150.000 anni da oggi,
noto in diverse località tra cui El Kowm, e lo Hummaliano, industria
su grandi lame datata intorno a 100.000 anni. Livelli musteriani, talvolta di
tecnica levallois, sono noti a Douara, El Kowm e nell'Uadi Skifta e in qualche
altra località. Nei due ultimi siti citati, sono stati studiati complessi
del Paleolitico superiore ed epipaleolitici (Kebariano geometrico), questi ultimi
datati tra circa 12.000 e 10.500 anni da oggi. Non meno copiose le testimonianze
risalenti a tempi neolitici, per i quali può distinguersi, oltre a una
ricca facies del Natufiano (IX-VIII millennio a. C.), individuata soprattutto
negli importanti scavi di Mureybet, un periodo preceramico, risalente agli inizi
del VII millennio a. C., messo in luce a Tel Ramad e a Ras Shamra, e un successivo
neolitico evidenziato in queste e in altre località, specialmente della
zona di Antiochia, in cui la varietà dei prodotti fittili consente la
distinzione di aspetti culturali diversi. Per il successivo periodo eneolitico
di particolare rilievo sono le scoperte fatte ad Halaf, un tell delle regioni
settentrionali. Nel IV millennio si nota, in tutta la regione, l'influenza della
cultura mesopotamica di Obeid.
Storia: dalle origini alla conquista romana
La storia della Siria è inizialmente la storia di un complesso di piccoli
territori e di stati, la maggior parte dei quali formati da una città
od oasi centrale: Damasco, Hama, Homs, Qatna, Aleppo, Karkemis, Palmira e sulla
costa Ugarit, Arwad, Byblos ecc. Il territorio costituiva un'importante zona
di incrocio con grandi strade carovaniere, quindi spesso soggette all'influsso
di genti straniere, innanzitutto Semiti (Cananei, Aramei e Arabi) ma anche Egiziani,
Hurriti e Ittiti, Urartei e Sciti, Macedoni e Greci. Con la conquista di Alessandro
Magno (332 a. C.) la Siria (che era stata una satrapia dell'Impero persiano
dalla conquista di Ciro, 538) divenne una satrapia dell'Impero greco-macedone.
Dopo le lotte tra i diadochi venne in possesso di Seleuco che iniziò
la dinastia dei Seleucidi, regnando sino al 64 a. C. su un territorio comprendente
la Sogdiana, la Battriana, l'Aracosia, la Geodrosia, la Mesopotamia, l'attuale
Siria e parte dell'attuale Turchia. Nell'organizzazione seleucidica il territorio
comprendeva la “terra regale” (basiliké chora), enorme latifondo
amministrato dal sovrano, e le città (poleis) con statuti particolari;
il territorio era amministrativamente diviso in satrapie ed eparchie. L'ellenizzazione
apparve ai Seleucidi lo strumento per rendere omogeneo un territorio che comprendeva
popoli molto diversi per lingua, religione, appartenenza etnica. L'ellenizzazione
voluta dai Seleucidi fu però spesso imposta con la forza causando gravi
lacerazioni come l'opposizione ebrea ad Antioco Epifane. Come Alessandro, infatti,
essi attuarono l'ellenizzazione attraverso la fondazione di città greche
(Antiochia, Laodicea, Seleucia) ma non riuscirono a integrare l'elemento agricolo
con l'elemento urbano ellenico o ellenizzato. Tutto ciò costituì
l'interiore fragilità di questo impero che si frantumò rapidamente
in seguito all'intervento romano, alla secessione della provincia partica (che
staccò la Mesopotamia) e alla riacquistata autonomia della Giudea. Infine
gli ultimi Seleucidi furono vittime di guerre civili e la Siria fu conquistata
da Tigrane di Armenia e subito dopo dai Romani comandati da Lucullo (69 a. C.).
Nel 63 a. C. nell'ambito del riordinamento dell'Asia Minore attuato da Pompeo,
la Siria divenne provincia romana e l'Eufrate fu stabilito come confine tra
i Romani e i Parti che spesso impegnarono militarmente i Romani. Nel 194 d.
C. Settimio Severo divise la Siria in due province (Coelesyria o Syria Maior
a Nord e Syria Phoenice a Sud). Nel 260 d. C. i Persiani conquistarono Antiochia
e lo stesso imperatore Valeriano fu catturato. Costanzo II creò nella
Coelesyria l'Augusta Euphratensis. Nel sec. V la Syria era divisa in cinque
territori.
Storia: dall'Impero d'Oriente alla prima guerra mondiale
Entrò quindi a far parte dell'Impero d'Oriente, non senza subire invasioni
sassanidi, l'ultima delle quali durò sino al 628. Già prima di
Maometto la Siria aveva subito qualche infiltrazione araba; ma solo dopo la
morte del Profeta gli Arabi ne iniziarono la conquista, non con un preciso scopo
politico, ma solo per impadronirsi di luoghi e beni più appetibili di
quelli del deserto. Le vittorie di Khalid ibn al-Walid ad Agnadayn (634) e Marg
as-Suffar (635) aprirono la via di Damasco, che si arrese nel settembre 635.
Un forte esercito bizantino, condotto dallo stesso fratello dell'imperatore
Eraclio, fu disfatto sullo Yarmuk (636) e la Siria fu definitivamente perduta
per Bisanzio, evento a cui la popolazione, vessata da un'avida amministrazione
e fedele a un credo monofisita che Bisanzio rifiutava, si rassegnò senza
drammi. Se da principio gli Arabi si accamparono in Siria come un esercito in
terra nemica, la situazione mutò quando un governatore arabo della Siria,
Mu!awiyah, divenne califfo e fondò una dinastia, detta degli Omayyadi.
Come il suo predecessore !Ali si era appoggiato alle forze dell'Iraq, così
Mu!awiyah stabilì in Siria la base del suo potere. A seguito di ciò,
non solo Damasco divenne la splendida capitale del nascente Impero islamico,
ma l'elemento siriano, più colto e più aperto dei dominatori,
fu portato ai vertici dell'amministrazione, divenendo la classe dominante dell'Impero.
Restò tale sino al califfato di Marwan (744-750), l'ultimo omayyade,
che trasferì la capitale a Harran in Mesopotamia. Quando poi gli Abbasidi
vollero governare il mondo islamico da Kufa e, successivamente, da Baghdad,
la Siria decadde a semplice provincia, invisa spesso ai califfi per il suo spirito
ribelle e per la continua attesa di un messia che la liberasse dal giogo iracheno.
Mentre l'Impero islamico tendeva a iranizzarsi sempre più, la Siria,
pur rimanendo in disparte, conservava in modo definitivo la lingua e la cultura
arabe; e intanto la religione di Maometto vi si diffondeva ampiamente senza
però distruggere un cristianesimo rimasto ben vivo. Il dominio di Baghdad
era più volte interrotto dal sorgere di dinastie di governatori resisi
autonomi, come i Tulunidi (fine sec. IX), gli Ikhsididi (metà sec. X),
gli Hamdanidi (seconda metà sec. X); veniva poi brutalmente scosso dalla
conquista, del resto precaria, dei Fatimiti d'Egitto (fine sec. X), e finiva
per sempre con l'avvento dei Turchi Selgiuchidi (sec. XI), che a loro volta,
discordi e disorganizzati, furono battuti dai crociati (fine sec. XI-prima metà
sec. XII). Il predominio delle nazioni latine durava poco più di un secolo,
duramente insidiato da Saladino e dai suoi successori: alla fine del sec. XIII
i sultani mamelucchi d'Egitto ne cancellavano le ultime tracce. Saccheggiata
dai Mongoli (1299-1303), invasa da Tamerlano (1399-1400), la Siria finiva sotto
lo scettro ottomano (1516); cominciava così un periodo di decadenza e
di sfruttamento senza contropartite. Solo nella seconda metà del sec.
XIX si ridestava in Siria un forte movimento nazionalistico: anche gli aspri
contrasti fra musulmani e cristiani si placavano dinanzi alla necessità
di una resistenza contro le repressioni di !Abd ül-Hamid II e poi dei Giovani
Turchi.
Storia: il Novecento
Sconfitta la Turchia nella prima guerra mondiale, l'emiro Faysal, figlio del
re del Higiaz, fidando nelle promesse inglesi, entrò in Damasco (ottobre
1918), e si proclamò (1920) re di Siria. Nello stesso anno la Francia,
già d'accordo con l'Inghilterra, cacciò Faysal e si fece affidare
dalla Società delle Nazioni la Siria e il Libano in “mandato”.
La tutela francese fu utile allo sviluppo economico e culturale del Paese; ma
gli incidenti, anche gravi, non mancarono. La seconda guerra mondiale segnò
la fine del predominio della Francia. I dirigenti della nuova Siria, reclutati
dai ranghi della borghesia nazionalista, non si rivelarono all'altezza della
difficile situazione interna e internazionale sviluppatasi dopo il 1945. Nel
1949 tre colpi di stato militari movimentarono le cronache. I regimi militari
che si susseguirono, in qualche caso sotto vesti civili, fino al 1954, furono
ispirati soprattutto da un riformismo paternalista poco al passo con i tempi
e si rivelarono dittature personali incapaci di creare partiti di massa. Nel
1954 una vasta campagna di manifestazioni popolari riportò la Siria alla
democrazia parlamentare. Seguirono quattro anni molto agitati: la Siria, che
era divenuta per gli Stati Uniti una pedina importante in un sistema mediorientale
in crisi, conobbe al suo interno l'emergenza di una forte corrente nazionalista
e socialista guidata dal partito Ba!th. Pressioni internazionali e movimenti
interni sfociarono nella decisione di fondere la Siria e l'Egitto nella Repubblica
Araba Unita (1958). L'unione siro-egiziana si spezzò nel 1961, dopo tre
anni di soffocante centralismo cairota. Dopo una parentesi moderata, nel 1963
il Ba!th, alleato dei nazionalisti filonasseriani, ritornò al potere.
Il fallimento dei negoziati per una federazione tripartita tra Siria, Egitto
e Iraq portò la Siria a una fase di isolamento. Lo stesso Ba!th fu travagliato
da lotte intestine tra moderati e progressisti, militari e “civili”.
L'“uomo forte” Amin el-Hafiz rimase al potere fino al 1966, quando
fu sostituito dall'ala di sinistra del partito. Nel 1967 la Siria s'impegnò
a fianco dell'Egitto in una sfortunata guerra contro Israele, che costò
la perdita delle alture del Golan. Nel 1970 il generale al-Assad Hafiz mise
da parte i progressisti, accusandoli di eccessivo dirigismo e di troppo spiccate
tendenze marxiste, e inaugurò una fase più liberale. Nel 1973
Assad si alleò con gli egiziani nel tentativo, fallito, di riprendere
il Golan. Intransigente oppositrice agli accordi di Camp David (vedi Egitto),
la Siria si inserì (1976), con l'invio di truppe, come decisiva forza
mediatrice nella guerra civile libanese. Mentre i legami con l'URSS (1980) diventavano
sempre più stretti, la Siria si ritrovò isolata dalla maggioranza
dei Paesi arabi per aver fatto fallire al vertice di Fès (1981) il progetto
di pace saudita per il Medio Oriente; rafforzò, invece, la propria posizione
nel Libano, specie dopo il ritiro del contingente di pace statunitense, britannico,
francese, italiano e – parzialmente – delle truppe israeliane. Sul
piano interno, dal 1979, attraverso azioni terroristiche da un lato e una non
meno violenta repressione dall'altro, si accentuavano i contrasti tra le organizzazioni
islamiche, soprattutto i “Fratelli musulmani”, e il regime di Assad,
espressione della setta degli Alawiti. La presenza in territorio libanese si
era quindi fatta più intensa nella seconda metà del decennio,
dando origine a violenti combattimenti con alcune delle fazioni in lotta (in
particolare contro gli sciiti filoiraniani di Hezbollah, nel 1987, e contro
le truppe cristiane del generale Aoun, nel 1989) nonché provocando forti
contrasti con l'Iraq, concorrente diretto della Siria per l'acquisizione del
ruolo di potenza regionale. Schierandosi con la coalizione internazionale intervenuta
contro l'invasione irachena del Kuwait (agosto 1990), la Siria trovava modo
di realizzare tali suoi obiettivi: l'interessato favore dei Paesi occidentali
le aveva infatti permesso di accrescere la propria influenza in Libano fino
a vincere le ultime resistenze e ad assoggettare lo stato alla propria tutela,
emblematizzata dalla firma di un trattato di fratellanza e cooperazione fra
i due governi (maggio 1991). Ne risultava accresciuto, di conseguenza, il ruolo
del Paese nel processo di pacificazione del Medio Oriente: una rappresentanza
della Siria aveva così attivamente partecipato alle fasi iniziali dell'apposita
conferenza internazionale, avviata a Madrid nell'ottobre 1991. Le trattative
dirette tra Siria e Israele rappresentavano un indubbio passo avanti nel processo
di distensione nell’area, ma esse segnavano il passo per la mancanza di
accordo sulle alture del Golan, territorio siriano, cui lo stato ebraico non
voleva rinunciare ritenendole essenziali alla sua sicurezza militare. Nonostante
la situazione di stallo, Assad ribadiva comunque al presidente statunitense
W. J. Clinton (gennaio 1994) la volontà della Siria di giungere a un
accordo di pace con Israele. Dopo l’assassinio del premier israeliano
Y. Rabin (novembre 1995) le delegazioni siriana e israeliana si incontravano
a Wye Plantation, nel Maryland (USA); al termine dei colloqui (dicembre 1995)
i diplomatici delle due parti dichiaravano la loro intenzione di proseguire
nei negoziati al fine di risolvere la questione del Golan e di riportare la
pace al confine meridionale del Libano, teatro di continui scontri tra i guerriglieri
islamici Hezbollah e le truppe di Tel Aviv. Nel 1997 Siria e Iraq annunciavano
la riapertura delle frontiere, chiuse dal 1982 per l’appoggio di Damasco
all’Iran nella guerra contro l’Iraq. Nel dicembre 1999 riprendevano
i negoziati tra Siria e Israele, con il summit di Washington, dove, nel gennaio
2000, grazie anche alla mediazione del presidente Clinton, il ministro degli
esteri, Farouk al Shara, incontrava il premier israeliano E. Barak con il quale
affrontava il problema del ritiro di Israele dalle alture del Golan, mentre
dal canto suo la Siria si impegnava ad allontanare le sue forze armate dal confine.
I negoziati però si interrompevano e, nel giugno 2000, il presidente
Assad, riconfermato attraverso un referendum per il quinto mandato, moriva.
Gli succedeva il figlio Bashar, nomina designata dal Parlamento e confermata,
formalmente, da successive elezioni presidenziali. Nell'aprile 2001, alcune
postazioni radar siriane in Libano venivano colpite dall'aviazione israeliana
e due mesi dopo, a seguito della crescente opposizione cristiano-maronita alla
presenza siriana nei dintorni di Beirut e anche in conseguenza del nuovo corso
politico intrapreso da Bashar, iniziava il ritiro dell'esercito siriano dal
Libano.
Letteratura
La letteratura siriaca si sviluppò parallelamente al cristianesimo e
dal sec. III al XIII fu una delle più ricche tra le cristiano-orientali.
Inizia con la traduzione della Bibbia e si afferma con l'opera di Afraate (sec.
IV) e di Efrem Siro (ca. 306-373). Nuovo impulso si ebbe nei sec. V e VI come
conseguenza dei contrasti religiosi tra nestoriani, monofisiti e ortodossi.
Tra i primi si mise in luce Babay il Grande (n. 540); tra i monofisiti si distinsero
Jacopo di Sarugh (451-521) e Giovanni da Efeso (506-585). Il mondo culturale
siriaco andava nel frattempo arricchendosi di nuove traduzioni che diffusero
la cultura greca. Con l'invasione araba (636) la lingua siriaca andò
declinando fino a restare circoscritta ad alcuni gruppi nestoriani e alla liturgia
cristiana. Con Abdhiso, metropolita di Nisibi (sec. XIV), la letteratura siriaca
concluse il suo ciclo; passarono quasi cinque secoli prima che si affermasse
la letteratura di lingua araba che aveva subito prima un lungo travaglio di
imbastardimento, poi di purificazione col movimento che ebbe il suo centro in
Aleppo e il suo maggior rappresentante nel vescovo Germanus Farhat (m. 1732).
Fu il contatto con gli egiziani, nella breve parentesi del loro dominio che
tra il 1832 e il 1840 si sostituì a quello ottomano, a determinare un
fermento culturale, subito interrotto dal ritorno ottomano. Questo fu causa
della fuga in Egitto di molti intellettuali, non solo siriani, tanto da farlo
diventare il Paese guida della nuova letteratura araba, il simbolo stesso dell'idea
dell'affermazione dell'arabismo. Il siriano Sakib Arslan (1869-1946), giornalista,
uomo d'azione, poeta e narratore, saggista e traduttore, ne fu il massimo propugnatore
e a lui fece eco Nizar Qabbani (1923-1998), uno dei massimi poeti arabi contemporanei,
che pur professando la sua fede nel concetto dell'arte per l'arte si è
ispirato nei suoi versi alla realtà sociale del Paese, mentre svincolato
dalla realtà contingente e aderente ai temi eterni dell'uomo, è
il canto del più raffinato poeta arabo del nostro secolo, Adonis, pseudonimo
del poeta !Ali Ahmad Sa!id Isbir (n. 1930). Ma anche in Siria, come in altri
Paesi arabi, la narrativa ha assunto con il passare del tempo un ruolo sempre
più importante nella produzione letteraria contemporanea. Pionieri del
racconto breve sono !Abd as-Salam al-!Ugaili (n. 1918) e Zakariyya Tamir (n.
1931), che hanno contribuito a far conoscere la narrativa siriana in Occidente.
Autore soprattutto di romanzi è, invece, Hanna Mina che si può
considerare uno dei massimi scrittori arabi contemporanei. I suoi romanzi ash-Shira
wa al-!asifa (La vela e la tempesta) e al-Yatir (L'ancora), per lo più
ambientati nella Siria costiera, gli hanno fatto meritare l'appellativo di “Conrad
della letteratura araba”. Tra le scrittrici vanno ricordate Elfet al-Edelbi
(n. 1912), che si può considerare la prima autrice di un certo rilievo,
e Colette Khuri (n. 1937) che fece parlare di sé negli anni Sessanta
per un romanzo vagamente femminista. La letterata siriana più letta e
più affermata non solo in Siria ma in tutto il mondo arabo è senza
dubbio Ghada as Sammán (n. 1938), i cui scritti descrivono una certa
borghesia araba farcita di valori vacui e falsi, contestati con violenza dalla
scrittrice. I suoi romanzi Kawabis Beirut (Incubi di Beirut), Beirut 75, hanno
anche mostrato per la prima volta la ferocia della guerra civile libanese con
uno stile tanto particolare da rasentare la provocazione. Ma non si può
parlare di letteratura siriana senza citare uno dei maggiori drammaturghi di
tutto il mondo arabo, Sa!d Allah Wannus (1941-1997), cui si deve la teorizzazione
di un teatro fondato sulla realtà storico-politica. Punto focale delle
sue opere è la denuncia di ogni totalitarismo, male di cui hanno sofferto
e soffrono molti Paesi arabi. Tra le sue opere più significative ricordiamo:
Haflat samar agl 5 huzairan (Serata di gala per il 5 giugno), sulla guerra del
1967 contro Israele, seguito da al-Malik huwa al-malik (Il re è il re)
e al-Ightisab (Lo stupro), sulla questione palestinese.
Archeologia e arte
La Siria antica costituì il punto d'incontro di tutti i processi storico-artistici
della vasta regione compresa tra il Nilo e l'Eufrate. Le sue manifestazioni
artistiche più antiche, rappresentate dalle costruzioni di Ugarit e dai
disegni rupestri di Demir Kapu, risalgono al V millennio a. C. Al IV millennio
appartiene invece la ricca produzione ceramica di Tell Halaf e poi di el-Obeyd,
diffusa su un'area vastissima che va dalla Mesopotamia settentrionale al Mediterraneo.
Il fiorire della grande civiltà sumerica ebbe grande influenza sulla
produzione delle stele siriane di Gebelet el-Beyda, cui si affiancano la bellissima
produzione presargonica di Mari , che riecheggia influssi occidentali, e una
significativa produzione locale, come gli idoletti e le teste a grandi occhi
di Tell Brak, le sculture di Hama e Tell Nebi Mend. La vivace attività
politica del II millennio, che vide formarsi il regno di Mitanni e le città
autonome di Ugarit, Aleppo, Karkemis, corrispose al periodo di massima fioritura
artistica della Siria antica, in cui gli influssi mesopotamici furono integrati
con suggerimenti egizi (pitture di Mari) e micenei, nonché da vigorosi
apporti locali (piante dei palazzi di Mari e di Alalakh, templi di Ugarit),
che conferirono soprattutto alla statuaria, alla glittica, agli avori, alla
toreutica, un aspetto assai vivace e originale. Dopo un periodo di forti influssi
orientali dovuti alla conquista assira, iniziò la penetrazione prima
dell'ellenismo (che ispirò i grandiosi impianti urbanistici di Dûra
Europos, di Antiochia, oggi in Turchia, di Palmira, di Damasco) e poi della
cultura greco-romana, attestata dalle colossali architetture di Palmira, Apamea
ecc. Altri documenti dell'influenza greca e romana sono dati dai pavimenti in
mosaico (da Antiochia, Palmira ecc.), dalla scultura decorativa, dalla statuaria
e dalle pitture murali delle tombe. L'arte cristiana trovò in Siria una
precoce affermazione e la sua espressione monumentale, già attestata
dalle decorazioni dipinte dei santuari di Dûra Europos (sec. III), ebbe
straordinario sviluppo soprattutto nell'architettura della Siria settentrionale
(Qalb-loze, el-Bara), almeno fino al periodo in cui, con la dominazione araba,
la Siria divenne il centro dell'Impero islamico e si inserì in un diverso
e più vasto complesso culturale. La vicinanza dell'Arabia e i fruttuosi
contatti che si stabilirono tra i musulmani invasori e le popolazioni locali,
civilizzate da tempi molto antichi, fecero della Siria la culla della potenza
degli Omàyyadi. A Damasco fu infatti stabilita la capitale del califfato
e nella stessa città fu eretta la prima importante moschea congregazionale,
sui resti di un precedente tempio classico e di una chiesa cristiana. A Gerusalemme
fu eretta la splendida Cupola della Roccia, che rivela influssi della precedente
architettura cristiana, mentre caratteri più tipicamente orientali (iranico-mesopotamici)
si riscontrano nei resti dei castelli e palazzi omayyadi del deserto (sia nella
Siria moderna sia in Palestina), la cui decorazione (a stucco, a fresco, a mosaico)
mostra il confluire delle due correnti ellenistico-bizantina e iranico-mesopotamica,
dalle quali nacque appunto la più antica arte islamica siriana. Nei sec.
XII-XIII sorsero, per opera degli ordini crociati, vari castelli-fortezze (di
el-Mudin presso Laodicea, Bianco e Rosso presso Tartous, Krak dei Cavalieri
a Qal'at el-Hosn), spesso costruiti su precedenti fortezze arabe. Il più
ricco patrimonio islamico della Siria risale ai periodi dei Mamelucchi e dei
Selgiuchidi, quando sorsero in gran numero madrase, bagni, moschee , palazzi
in uno stile islamico composito che vide il trionfo dell'arte decorativa (ceramica,
toreutica, arte vetraria, con magnifici prodotti di vetro dorati e smaltati,
provenienti dalle officine di Aleppo, Damasco e Antiochia). Di scarsa originalità
le manifestazioni dell'epoca ottomana in cui si continuarono, fiaccamente, i
modelli architettonici e decorativi tradizionali o si imitarono quelli di Costantinopoli
e dell'Anatolia.
Musica
La Siria fu una delle fucine del canto liturgico cristiano, che venne sviluppandosi,
unitamente alle relative forme testuali, tra il III e il VII sec. Influenzato
da elementi di origine ellenica e soprattutto ebraica, ebbe tra le forme principali
la madrasha, ode composta di lunghe strofe intonate da un solista con un unico
intervento corale; la sogitha, un inno eseguito antifonicamente da due cori;
il kala, breve composizione in lingua aramaica sviluppata dai monofisiti in
Mesopotamia; la anjana, coro antifonico le cui strofe erano alternate a versetti
di salmi. La pratica del canto antifonale e l'inno (che ebbe in Efrem il suo
iniziatore) furono i due elementi che più direttamente influirono sul
canto cristiano d'Occidente; inoltre il repertorio liturgico siriano ebbe larga
parte nell'elaborazione della dottrina dell'oktoekos (il sistema degli otto
modi liturgici bizantini). A partire dal VII sec. la Siria risentì in
maniera determinante dell'influsso della musica araba, iraniana e turca.
Cinema
Risalgono agli anni Dieci del Novecento i primi approcci siriani al cinema attraverso
la dominazione turca, ma solo nel 1928, col film L'accusato innocente, ci furono
i primi timidi accenni d'una produzione locale, lasciata sempre all'iniziativa
individuale nei decenni successivi, e sempre regolarmente frustrata. Pochissimi
titoli, altrettanti fallimenti, nessuna struttura seria a sorreggere gli sforzi
tenaci di alcuni pionieri. Sul finire degli anni Cinquanta, su iniziativa del
nuovo ministero della Cultura, fu realizzata, con mezzi tecnici adeguati, una
bella serie di documentari informativi e illustrativi, mentre cominciavano a
espandersi nel Paese i nuclei di appassionati grazie anche all'opera meritoria
del critico e saggista Salah' D'ehny, poi direttore del Centro culturale arabo
a Damasco. Con la rivoluzione del 1963 si è giunti alla creazione di
un Organismo generale del cinema, che si è trovato di fronte a compiti
imponenti e difficili: accrescere il numero di sale anche in campagna, stabilire
rapporti dinamici col settore privato, sviluppare coproduzioni culturalmente
efficienti, costruire teatri di posa, modificare profondamente il mercato (importazione
e distribuzione). Alcuni risultati si sono visti, come l'ospitalità al
regista egiziano esule Tawfiq Salah per Le vittime (1972) e al regista libanese
Borhan Alaouye per Kafr Kassem (1974), entrambi dedicati al dramma palestinese;
la nascita di un regista siriano, Nabil al-Malih', rivelatosi in uno dei tre
episodi di Uomini sotto il sole (1970), nel film Il leopardo (1972) e nel cortometraggio
Napalm premiato nel 1974 a Tolone; la rivelazione, in quest'ultima sede, di
un cinema giovane con ambizioni artistiche anche col film Al-Yazirly (realizzato
dall'iracheno Qays Zubaydi ma prodotto in Siria) e col lungometraggio La vita
quotidiana in un villaggio siriano di Umar Amir'alay, in programma alla Mostra
di Pesaro del 1976. Una buona accoglienza è stata riservata nel 1983,
al “festival del cinema arabo” di Parigi, alla commedia L'incidente
del mezzometro (1982) di Samir Dhikra e, al festival di Cannes del 1984, a I
sogni della città (1983) di Mohammed Malass. Un'ulteriore opportunità
di promozione e diffusione è stata fornita dalla partecipazione di alcuni
registi e documentaristi siriani all'Arab Film Festival (organizzato negli Stati
Uniti a partire dal 1997).
Folclore
Costumi e tradizioni si ricollegano ovunque in Siria all'islamismo, ortodosso
o meno, giacché numerose sono le sette eretiche. Ne sono tipico esempio
i Drusi , gente di indole fiera e bellicosa che vive in casette cubiche arrampicate
sulle montagne. I Drusi o Muwahhidun (esattamente significa monoteisti), come
essi preferiscono chiamarsi, sono gelosissimi delle loro costumanze. Sono monogami
e conservano nel matrimonio un rito rigido. La futura sposa viene presentata
al fidanzato dalla madre di lei e la fanciulla regala al giovane una daga siriaca
(hangar) avvolta in una sciarpa di lana (kuffiye). La spada è il simbolo
della protezione che il marito deve alla sposa, la sciarpa quello della dedizione
che la moglie offre allo sposo. Altro ceppo siriano di origine musulmana, altrettanto
eretico di quello dei Drusi, è il ceppo Nusayriya o Nusayri detto anche
degli Alawiti. I Nusayriya vivono in case cubiche sulle montagne, come i Drusi,
e praticano la deformazione del cranio dei bambini. Costumi antichi si conservano
presso i nomadi del deserto, le tribù dei Beduini, gente fiera che coltiva
l'amicizia come cosa sacra. Il matrimonio avviene per vendita della donna. Le
beduine godono peraltro di una certa libertà; non portano il velo e possono
incontrarsi con giovani di altre famiglie senza difficoltà. L'arredamento
della tenda dei Beduini è tanto più ricco quanto più alto
è il ceto di appartenenza: tappeti, cuscini, vassoi di cuoio e di rame.
L'abbigliamento tradizionale dell'uomo non si differenzia molto da quello femminile:
lunga tunica e, sulla testa, un pezzo di stoffa rettangolare trattenuto da un
cordone di seta intorno alla fronte. Le donne usano l'izar, grande scialle a
colori vivaci, bianco per le più povere. Questi costumi ancora oggi sono
assai diffusi nonostante il dilagare, nelle città, della moda occidentale.
Il suq (mercato) è la grande mostra dell'artigianato nazionale: stoviglie
in terracotta, stoffe, tappeti, scimitarre, pugnali, fucili e rivoltelle con
manici incrostati d'oro e d'argento e merci di qualsiasi genere, dagli alimentari
ai mobili. Un cenno infine alla cucina siriana che si basa essenzialmente sul
montone e sul riso, cucinati in moltissimi modi. Il piatto più famoso
è il magribi, variante del cuscus marocchino.
ABBIAMO PRESO QUESTE INFORMAZIONI DA QUESTO SITO PER FAR CAPIRE L'ORIGINE DELLA
RELIGIONE ISLAMICA:
http://209.85.129.132/search?q=cache:hlU8J1b7i-MJ:www.islamhouse.com/files/it/ih_books/it_The_True_Religion_of_God.doc+religioni+false%3F&cd=10&hl=it&ct=clnk&gl=it
LA VERA
RELIGIONE
DI /ABU AMEENAH
BILAL PHILIPS
o L Islam
o Il messaggio dell’Islam
o Il messaggio delle false religioni
o L universalità dell'Islam
o Riconoscimento di Allah
Nel nome di Allàh il Misericordioso il Clementissimo
L Islam
La cosa che ognuno dovrebbe sapere e comprendere chiaramente sull’"Islam"
è:
Qual’ è il significato della parola "Islam" ?
"Islam" non si riferisce al nome di una persona, come nel caso del
Cristianesimo, dal nome di Gesù Cristo – pace su di lui –
Buddhismo, dal nome di Gotama Buddha, Confucianesimo, dal nome di Confucio e
Marxismo da Karl Marx. L’"Islam" non porta nemmeno il nome di
una tribù, come il Giudaismo, dal nome della tribù di Giuda e
l’Induismo dal nome degli Indù.
L’Islam è la vera religione di "Allàh" –
gloria a Lui L’Altissimo – e come tale, il suo nome rappresenta
il principio centrale della religione di Allah "Dio": la totale sottomissione
alla sua volontà.
La parola araba "Islam" significa sottomissione, o resa della volontà
della persona, al solo vero Dio degno di adorazione "Allàh"
e chiunque si comporta così è definito “musulmano”.
La parola implica anche “Pace”, che è la naturale conseguenza
della sottomissione alla volontà di "Allàh".
Quindi, non è una nuova religione portata dal Profeta Muhammad (pace
e benedizione su di lui) in Arabia agli inizi del VII secolo, ma soltanto la
vera religione di "Allàh" espressa nella sua forma definitiva.
L’"Islam" è la religione che fu data ad Adamo –
pace su di lui – il primo uomo, ma anche il primo Profeta di "Allàh".
L’"Islam" fu la religione di tutti i Profeti inviati da "Allàh"
all’umanità.
Il nome della religione di Dio l’"Islam", non è stato
deciso dalle ultime generazioni umane, ma è stato scelto da "Allàh"
stesso ed è menzionato chiaramente nella sua ultima rivelazione per il
genere umano.
Nel Sublime Corano, ultimo libro della rivelazione divina, "Allàh"
stabilisce quanto segue:
"Oggi, ho reso perfetta la vostra religione, ho completato per voi la Mia
grazia e Mi e` piaciuto darvi per religione l`Islam."
[Corano 5 : 3]
"Chi vuole una religione diversa dall`Islam, il suo culto non sara` accettato."
[Corano 3 : 85]
Ed afferma:
"Abramo non era ne' giudeo ne' nazareno, ma monoteista puro e musulmano"
[Corano 3 : 67]
In nessuna parte della Bibbia trovate che "Allàh" abbia detto
al popolo del Profeta Mosè – pace su di lui – o ai suoi discendenti,
che la loro religione fosse il Giudaismo, né ai seguaci di Gesù
Cristo che la loro religione fosse la Cristiana.
Per la verità “Cristo” non era nemmeno il suo nome, neanche
“Gesù”!
Il nome “Cristo” proviene dalla parola greca “Cristos”
che significa “Unto”. Così, “Cristo” è
la traduzione greca del titolo ebraico “Messiah”.
D’altra parte, il nome “Gesù ” è la versione
latinizzata del suo nome ebraico “Esaù “.
Comunque, per ragioni di semplicità, continuerò a riferirmi al
Profeta “Esaù” come “Gesù”. Quanto alla
sua religione, era quella che ordinò ai suoi discepoli di predicare.
Come i Profeti antecedenti a lui, Gesù ordinò ai suoi di sottomettere
la loro volontà alla volontà di "Allàh", cioè
di essere musulmani, mettendoli in guardia dai falsi dei, frutto della fantasia
umana.
Secondo il nuovo testamento, Gesù insegnò ai suoi discepoli quanto
segue: Sia fatta la Tua volontà, come in cielo, cosi in terra
Ciò significa chiaramente la sottomissione solo alla volontà di
Dio e a nessun altro.
Il messaggio dell’Islam
Dal momento che la totale sottomissione della propria volontà a quella
di "Allàh" rappresenta l’essenza dell’adorazione,
il messaggio fondamentale della religione di "Allàh" l’"Islam"
è l’adorazione di Allàh soltanto e l’abolizione dell’adorazione
diretta o indiretta di altre persone, luoghi, o qualunque altra cosa invece
di "Allàh".
Siccome ogni cosa diversamente da"Allàh", il Creatore di tutte
le cose, è una creazione di "Allàh", si può dire,
in sostanza, che l’Islam distoglie l’uomo dall’adorazione
del creato e lo invita ad adorare soltanto il suo Creatore.
Egli – gloria a Lui l’Altissimo – è l’unico meritevole
dell’adorazione dell’uomo ed è per la Sua volontà
che le preghiere vengono esaudite.
Se un uomo pregasse una creatura di Dio, qualunque essa sia, e le sue preghiere
venissero esaudite, non è la creatura che avrebbe esaudito le sue preghiere,
ma è "Allàh" che ha permesso che sussistano i motivi
per cui si è pregato.
Uno può dire: “Questo è ovvio”, comunque, per gli
adoratori delle creature, la preghiera poteva non essere esaudita. Similmente,
le preghiere a Muhammad o Gesù – pace su entrambi – o a Buddha,
Krishna…, non sono esaudite da loro che sono creature, ma sono esaudite
dal loro Creatore "Allàh".
"Allàh" stabilisce nel Sublime Corano che Gesù figlio
della Vergine Maria – pace su entrambi – non disse assolutamente
ai suoi discepoli di adorarlo, ma di adorare solo e soltanto "Allàh",
suo Signore e Creatore:
"E quando Allàh dira`: O Gesù figlio di Maria, hai forse
detto alla gente: "Prendete me e mia madre come due divinità all`infuori
di Allah?", risponderà; " gloria a Te! Come potrei dire ciò
di cui non ho il diritto?" [corano 5:116]
Gesù, non adorava se stesso quando egli adorava, ma adorava "Allàh".
Questo principio fondamentale è custodito nel capitolo di apertura del
Sublime Corano conosciuto come “Al_Fàtihah” che significa
“l’Aprente”
" Te soltanto adoriamo e Te soltanto invochiamo in soccorso" [corano
1:5]
Ed ancora nel Corano, ultimo libro di rivelazione divina, "Allàh"
dice:
"il vostro Signore ha detto: " invocateMi, vi risponderò."
[corano 40:60]
Importante notare che il messaggio fondamentale dell’Islam è che
"Allàh" ed il suo creato sono entità distintamente differenti.
"Allàh", non è il suo creato o parte di esso e nemmeno
il creato è "Allàh" o parte di esso.Ciò, può
sembrare ovvio, ma l’adorazione dell’uomo per il creato invece del
Creatore, è basata in larga misura sull’ignoranza di questo concetto.
È la credenza – erratissima – che l’essenza di "Allàh",
è ovunque nel suo creato, o che la sua divinità sia o sia stata
presente in alcuni aspetti del suo creato, il che ha fornito la giustificazione
– erratissima – per l’adorazione del creato, benché
tale adorazione – deviatissima – fosse chiamata “l’adorazione
di Allàh attraverso il suo creato”.
Comunque, il messaggio dell’Islam, come è stato portato dai Profeti
di "Allàh", è di adorare solo e soltanto "Allàh"
e di evitare l’adorazione del suo creato sia direttamente che indirettamente.
Nel Sublime Corano, "Allàh" stabilisce con chiarezza:
"Ad ogni comunità inviammo un profeta [che dicesse]: "adorate
Allàh e fuggite il taghut*". [corano 16:36]
Quando si fa notare agli idolatri che “lui” o “lei”
si prosternano a degli idoli, creati dall’uomo, la replica invariabile,
è che loro realmente non adorano l’immagine di pietra, ma adorano
"Allàh", rappresentato in essa.
Loro asseriscono che l’idolo di pietra è soltanto il modo per avvicinarsi
ad "Allàh" e non è "Allàh" stesso!
Chiunque accettasse il concetto della presenza dell’essere divino nel
suo creato, in qualunque forma, sarà obbligato ad accettare questo ragionamento
d'idolatria.
Mentre, chiunque comprende il messaggio fondamentale dell’Islam e le sue
implicazioni, non ammetterà mai l’idolatria, non importa quanto
viene fatta sembrare razionale.
Coloro che attraverso i secoli, si sono proclamati divinità hanno spesso
basato le loro asserzioni sulla credenza – erratissima – che "Allàh"
fosse presente nell’uomo. Semplicemente, essi rivendicano che sebbene
"Allàh" sia presente in ognuno di noi, secondo le loro false
credenze, Egli è più presente in loro che negli altri uomini.
Da qui asseriscono che dobbiamo sottomettere la nostra volontà alla loro
e adorarli sia come Dio in persona, che come Dio concentrato nelle loro persone.
Similmente, coloro che hanno asserito la divinità di altri dopo la loro
morte, hanno trovato terreno fertile tra coloro che accettano la falsa credenza
della presenza di Dio nell’uomo.
Colui che afferra saldamente il messaggio dell’Islam e le sue implicazioni
non accetterà mai di adorare un altro essere umano, in nessuna forma
e in nessuna circostanza.
La religione di Dio nella sua essenza, è un chiaro richiamo all’adorazione
del Creatore ed il rigetto dell’adorazione del creato in qualunque forma.
Questo è il significato del motto dell’Islam:
Non c'e` dio all`infuori di Allah [corano 47:19]
La sua ripetizione porta automaticamente chi la pronuncia nell’ovile dell’Islam
e la sincera fede in essa gli garantisce il paradiso.
Così, l’ultimo Profeta dell’Islam disse:
Chiunque dice: “Nessuna divinità eccetto Allah, e muore mantenendo
fermamente questo (credo), entrerà in paradiso.".
[Riportato da Abu Dhar e raccolto da Al-Bukhari e Muslim].
Questo motto consiste nella sottomissione ad "Allàh" come unico
Dio, credendo a Lui, obbedendo ai suoi comandamenti e negando il politeismo
e i politeisti.
* Taghut: tutto ciò che viene adorato con o all’infuori di “Allàh”.
Il messaggio delle false religioni
Nel mondo ci sono tante sette, culti, religioni, filosofie e movimenti, ognuno
asserisce di essere la retta via o l‘unico vero sentiero verso "Allàh".
Come uno può determinare qual è quello corretto? Oppure sono tutti
veramente corretti?
Il metodo col quale si può trovare la risposta, è quello di togliere
completamente le superficiali differenze negli insegnamenti dei vari reclamanti,
giungendo alla verità ultima identificando l’obiettivo centrale
dell’adorazione al quale essi si richiamano, sia direttamente che indirettamente.
Tutte le false religioni hanno in comune un concetto basilare per quanto riguarda
"Allàh": asseriscono che tutti gli uomini sono dei, o che sono
in particolare "Allàh", o che la natura è "Allàh",
o che "Allàh" è un’invenzione dell’immaginazione
dell’uomo.
A questo modo, possiamo affermare che il messaggio basilare delle false religioni,
è che "Allàh" possa essere adorato sotto forma del suo
creato.
Le false religioni invitano l’uomo all’adorazione del creato, chiamando
il creato o qualche suo aspetto come Dio.
Per esempio, il Profeta di "Allàh", Gesù figlio di Maria
– pace su entrambi – invitò i suoi discepoli ad adorare "Allàh",
ma oggi, coloro che si proclamano essere suoi seguaci, chiamano il popolo ad
adorare Gesù, asserendo che Gesù sia "Allàh"!
Budda fu un riformatore, il quale introdusse un certo numero di principi umanistici
nella religione dell’India. Non si proclamò Dio, né suggerì
ai suoi seguaci di essere oggetto di adorazione.
Ancora oggi, la maggioranza dei buddisti che si trovano fuori dall’India,
l’hanno assunto come Dio e si prosternano a degli idoli fatti, secondo
il loro modo di vedere, a sua somiglianza.
Usando il principio dell’identificazione dell’oggetto di adorazione,
le false religioni diventano molto evidenti e diventa chiarissima la loro natura
inventata dall’uomo.
Infatti, "Allàh", l’Onnisciente – gloria a Lui
L’Altissimo – denuda la natura inventata delle false religioni,
affermando nel Sublime Corano quanto segue:
"Non adorate all'infuori di Lui altro che nomi che voi e i vostri avi avete
inventato, e a proposito dei quali Allah non ha fatto scendere nessuna prova.
In verità il giudizio appartiene solo ad Allah. Egli vi ha ordinato di
non adorare altri che Lui. Questa la religione immutabile, eppure la maggior
parte degli uomini lo ignora." [corano 12: 40]
Si può argomentare che le religioni insegnano cose buone, quindi, perché
dovrebbe interessare quale religione uno debba seguire?
La risposta è che le false religioni insegnano il più grave dei
mali, cioè l’adorazione del creato invece del Creatore.
L’adorazione del creato è il peccato più grande che l’uomo
possa commettere, perchè essa contraddice il vero scopo della sua creazione.
L’uomo è stato creato per adorare "Allàh", come
"Allàh" stabilisce esplicitamente nel Sublime Corano:
"E' solo perché Mi adorassero che ho creato i jinn* e gli uomini."
[corano 51:56]
Conseguentemente, l’adorazione del creato, che è l’essenza
dell'idolatria, è l’unico peccato imperdonabile. Uno che muore
in questo stato di idolatria, ha segnato il suo destino nell’altra vita.
Questa, non è un'opinione, ma è una certezza, rivelata da "Allàh",
nel Sublime Corano; ultima rivelazione per tutto il genere umano:
"In verità Allah non perdona che Gli si associ alcunché;
ma, all'infuori di ciò, perdona chi vuole. Ma chi attribuisce consimili
a Allah, commette un peccato immenso. " [corano 4:48 ]
* I Jinn: sono creature invisibili, non umane, create da “Allàh”.
L universalità dell'Islam
Poiché le conseguenze della falsa religione sono così gravi, la
vera religione di "Allàh" deve essere universalmente comprensibile
e realizzabile, non confinata in un popolo o in luogo o in un tempo.
Quindi, per un credente, non ci possono essere condizioni da superare per entrare
in paradiso, come il battesimo, o credere in un uomo creato da Dio come salvatore,
ecc…
Dentro il principio centrale dell’Islam e la sua definizione (la resa
della volontà della persona a Dio "Allah") si stendono le radici
dell'universalità dell’Islam. Ogniqualvolta uno raggiunge la realizzazione
che "Allàh" è Uno ed è distinto dal suo creato
e sottomette sé stesso ad "Allàh", egli diventa musulmano
nel corpo e nello spirito ed è eleggibile per il paradiso.Così
ognuno in qualunque momento e nelle regioni più remote del mondo può
diventare un musulmano, un seguace dell’Islam, la religione di "Allàh",
semplicemente rigettando l’adorazione del creato e ritornando ad "Allàh",
unico Dio.
Comunque, è noto che, il riconoscimento di "Allah" e la sottomissione
ad "Allàh" , richiedono che uno scelga tra giusto ed errato
e tale scelta implica un’assoluta e personale responsabilità. L’uomo
sarà ritenuto responsabile delle proprie scelte, e come tale, dovrebbe
provare fino allo stremo delle sue forze a fare il bene ed evitare il male;
essendo il bene principale, l’adorazione di "Allàh" solamente
ed il male principale, l’adorazione del suo creato, sia in associazione
che in sostituzione di "Allàh". Questa verità è
espressa nel Sublime Corano, come segue:
"In verità coloro che credono, siano essi giudei, nazareni o sabei,
tutti coloro che credono in Allah e nell'Ultimo Giorno e compiono il bene riceveranno
il compenso presso il loro Signore. Non avranno nulla da temere e non saranno
afflitti." [corano 2:62]
"Se avessero obbedito* alla Torâh e al Vangelo e a quello che scese
su di loro da parte del loro Signore, avrebbero certamente goduto di quello
che c'è sopra di loro e di quello che c'è ai loro piedi . Tra
loro c'è una comunità che segue una via di moderazione, ma ben
malvagio è quello che fanno molti di loro." [corano 5:66]
*si riferisce alla Gente della scrittura
Riconoscimento di Allah
La domanda che sorge qui è:
Come si può sperare che tutta la popolazione creda in "Allàh"
abbandonando le varie formazioni, società e culture?
Perché la gente sia responsabile nell’adorazione di "Allàh",
tutti devono avere accesso alla conoscenza di "Allàh".
L’ultima rivelazione “il Corano” insegna che tutto il genere
umano ha il riconoscimento di "Allàh" impresso nella sua anima:
è parte della sua stessa natura con la quale è stato creato.Nel
Corano "Allàh" chiarisce che quando Egli – gloria a Lui
l’Altissimo – creò Adamo causò anche l’esistenza
di tutti i suoi discendenti e prese da loro una solenne promessa dicendo: "non
sono forse io il vostro Signore?" dissero: "si! noi siamo testimoni!"
Quindi "Allàh" spiega perché ha fatto fare testimonianza
a tutto il genere umano, che Lui è il suo Creatore ed è l’Unico
vero Dio degno di adorazione.
Egli dice: " ciò affinché voi non possiate dire nel Giorno
della Resurrezione: "noi eravamo incoscienti di ciò!" [corano7:172]
Vale a dire, non abbiamo avuto idea che Tu "Allàh" fossi il
nostro Dio. Nessuno ci informò che noi dobbiamo adorare Te soltanto.
"Allàh" spiega:
" i nostri antenati erano associatori e noi siamo i loro discendenti: vorresti
annientarci per quello che facevano questi inventori di nullità? "
[corano 7:173]
Così ogni bambino nasce con una naturale fede in "Allàh".
Questa inclinazione innata ad adorare Lui solo, viene chiamata in Lingua Araba
“FITRAH”. Se il bambino venisse lasciato a sé adorerebbe
"Allàh" alla sua maniera, ma tutti i bambini sono influenzati
da tutto quanto li circonda, visibile ed invisibile.
Il Profeta Muhammad (pace e benedizione su di lui) riferisce il detto sacro
di "Allàh":
Ho creato i miei servi sulla retta religione, ma i diavoli li sviarono.
Il Profeta Muhammad (pace e benedizione su di Lui) disse ancora:
"Ogni bimbo nasce con la “Fitrah”, poi i suoi genitori lo “giudaizzano”
o lo “cristianizzano” o lo fanno diventare “zoroastriano”,
così come dal quadrupede nasce un altro quadrupede.Vedi forse un’incongruenza
in ciò?"
[Nelle collezioni di racconti del Profeta di Al-Bukhari e Muslim]
Come il bimbo è sottomesso alle leggi fisiche che "Allàh"
mise in natura, così anche la sua anima si sottomette in modo innato
al fatto che "Allàh" è il suo Signore e Creatore. Ma
i suoi genitori tentano di fargli seguire la loro strada ed il bimbo nella tenera
età non è sufficientemente forte per resistere od opporsi alla
volontà dei suoi genitori.
La religione che il bimbo segue in questo stadio della vita, fa parte del costume
di vita e di educazione ed "Allàh" non gli chiederà
di rendere conto né lo castigherà per questa religione, essendo
il bambino incapace.
Per tutta la durata della vita dell’uomo, dall’infanzia fino alla
morte, i segni sono ben visibili per lui anche nelle regioni più remote
della terra e nel profondo della sua anima, affinché si renda conto che
c’è UN SOLO VERO DIO "ALLÀH".
Se gli uomini fossero onesti con loro stessi, rigetterebbero i loro falsi dei
e cercherebbero "Allàh". La strada per loro sarebbe facilitata.
Ma se rigettano continuamente i segni di "Allàh" e continuano
ad adorare il creato, sarà più difficile per loro uscirne.
Per esempio, nella regione Sud–Est della giungla Amazzonica, in Brasile,
una tribù primitiva ha eretto una nuova capanna come dimora del loro
idolo principale “Skwatch”, che rappresenta per loro Iddio Supremo
di tutto il creato.
Il giorno seguente, un giovane entra nella capanna per fare omaggio all’idolo
e mentre è in prosternazione davanti a quello, che gli hanno insegnato
essere il suo creatore e sostenitore, un cane squallido pieno di pulci entra
nella capanna. Il giovane fa in tempo a sollevare la testa e vede il cane che
alza la zampa posteriore e sparge urina sull’idolo.
Oltraggiato in quello che ritiene sacro, il giovane caccia via il cane e si
rende conto che l’idolo non può essere il Signore dell’Universo,
"Allàh" deve essere altrove. Ora ha una scelta da fare in base
alla sua esperienza nella capanna: cercare "Allàh", oppure
proseguire in modo disonesto con la falsa credenza della sua tribù. Anche
se può sembrare strano, questo fatto è un segno di "Allàh"
per il giovane, questo segno contiene la guida divina che quello che sta adorando
non è affatto Dio.
Come è stato menzionato prima, i Profeti furono inviati ad ogni nazione
e tribù per rafforzare la fede naturale innata in "Allàh"
e l’inclinazione innata dell’uomo ad adorarLo e nello stesso tempo,
per rafforzare la verità divina nei segni quotidiani rivelati da "Allàh"
.
Sebbene, nella maggior parte dei casi, molti degli insegnamenti profetici siano
stati distorti, ciò che è rimasto mette in rilievo il giusto e
l’errato. Per esempio, i dieci comandamenti della Torà, la loro
conferma nei Vangeli e l’esistenza di leggi contro il delitto, il furto
e l’adulterio nella maggior parte delle società.
Conseguentemente, ogni anima renderà conto della sua fede in "Allàh"
e la sua accettazione o meno della religione dell’Islam, la totale sottomissione
alla volontà di "Allàh".
Preghiamo “Allàh” – il Solo che debba essere ringraziato
e lodato incessantemente – di conservarci sulla retta via sulla quale
Egli misericordiosamente ci ha guidato e di conferirci la sua benedizione. Egli
è il Misericordioso Clementissimo.
E la lode e la gratitudine appartengono ad "Allàh", Signore
dei mondi.
Voglia “Allàh” concedere la pace e la benedizione al suo
servo e messaggero il Profeta Muhammad ed alla sua stirpe ed ai suoi compagni
e a tutti coloro che li seguono sulla retta via.
Amin.