ANTONIO DE MENNA

 

Abbiamo accettato volentieri di presentare questo testo che parla dei nostri luoghi e delle nostre tradizioni.
Non senza un certo timore, però. Quando si parla del passato, spesso si corre il rischio di ridurlo a favola, bella e attraente sì, ma lontana e irreale.
Noi vogliamo, invece, che la nostra storia sia ancora viva, sia utile a noi e ai nostri figli.
Pensiamo che in questo modo si offra un servizio culturale a tutti i nostri concittadini ed ai lettori in genere.
Molti, è probabile, in queste pagine ritroveranno fatti, sentimenti, amicizie, fatiche, speranze, anche dolori, e le parole e le immagini si riempiranno di spessore, diventeranno vive.
Agli altri, a chi non ha vissuto direttamente questa esperienza, resterà la testimonianza di un modo di vita semplice e profondamente umana.

Luglio 1983

 

IL SINDACO

Ing. Sante Di Giuseppe

 

IL PRESIDENTE DELLA PRO LOCO

Pasquale Di Giuseppe

 

 

A mio nonno,
Giovanni De Vitis
pastore fedele della Maiella

 

 

INTRODUZIONE

Avevo cinque anni e mezzo quando mio padre mi portò per la prima volta sui nostri monti per curare, con l'altitudine, una persistente tosse convulsa.
Ricordo distintamente il percorso lungo la "Valle", le soste nelle varie grotte, la colazione a base di cagliata e "fallucca" (1) offertaci da un pastore del luogo, prima di arrivare alla grotta Ravagliosa, dove mio nonno aveva il ricovero provvisorio del suo gregge. E ricordo altresì con chiarezza una giornata passata all'ombra di un pino mugo sul pianoro del Morione, mentre una ventina di persone si dilettava al gioco delle bocce che mio cugino, Antonio Odorisio, aveva pazientemente ricavate dal legno del pino mugo. In palio per i vincitori: fichi "fioroni" che l'allora guardia campestre, Pietro Aquilante, aveva portato dalla valle.
E ricordo ancora le sere passate a discorrere a distanza con i pastori degli stazzi vicini e le poche notti trascorse sui giacigli duri come…. i sassi con cui erano costruiti.
La seconda volta che ritornai sui monti fu all'età di tredici-quattordici anni quando mio padre mi affidò due pecore da portare "alla fida" di mio zio che stanziava con il suo gregge presso la grotta "Cavute".

Non avrei mai immaginato che ripercorrendo oggi quei luoghi, dopo circa vent'anni, avrei trovato il deserto. Neanche una voce o l'abbaiare di un cane, né il suono dei campanacci del gregge al pascolo, né il trillo dei rondoni di montagna che nidificavano nelle volte delle grotte. Solo stazzi quasi tutti diroccati e i resti dei giacigli, testimoni silenziosi di un passato pieno di disagi e di gioie, di speranze e di attese, di silenzi spezzati solo dalla voce della poiana volteggiante o dall'aquila reale. Solo il tenue ricordo di quel lavoro paziente della mungitura e della preparazione del formaggio e della ricotta che, all'occhio del profano e del bambino, assumeva la forma di un rito antico.
Ripercorriamo insieme le orme dei nostri pastori. Perché?
Siamo dentro una realtà socialmente lacerata che uccide i valori e sradica le identità culturali del nostro paese. Questo colpisce soprattutto i giovani che, privati dell'identità culturale e messi nell'impossibilità di ottenere una identità sociale, sono sempre più in balia di qualsiasi processo di disgregazione della società.
Ripercorrere questo cammino significa, pertanto e prima di tutto, riappropriarsi della propria radice culturale: e l'identità culturale si ottiene dentro un popolo, un gruppo, dentro una storia, una storia che continua: quella della nostra terra.
Una storia che bisogna imparare a leggere, perché nessuno ci ha insegnato a farlo, né la scuola, né l'università, né i giornali che leggiamo.
Anche i nostri padri, purtroppo, stanno disimparando a raccontare.
Chi pensa di costruire nella dimenticanza di una tradizione e di una identità culturale passata, ma presente dentro ciascuno di noi, costruisce sul vuoto delle ideologie e sarà sbattuto dal vento di ogni dottrina.
Recuperiamo, quindi, la nostra tradizione per vivere con più intensità e impegno il presente.


(1) - Formaggio appena formato

 

PASTORIZIA SULLA MAIELLA: BREVI CENI STORICI


"…eran con loro
Quei che pascon la Pianna (
attuale Pennapiedimonte n.d.r.) verdeggiante
Le cime del Fiscello, e le campagne
A rinverzir prontissime d'Avella
....D'una ronca armati
Son tutti, e di una fromba onde nel cielo
Colgon gli uccelli, e fanno corazza al petto
Delle pelli degli orsi uccisi in caccia
".
Così Silio Italico, nella rassegna degli eserciti alleati di Roma, nel libro VIII delle "Puniche", descrive gli abitanti del monte Maiella, chiamato dagli antichi monte Fiscello, evidentemente da fiscella, la caratteristica forma di giunchi che i pastori usavano per riporre e dar forma al formaggio e alla ricotta appena preparati.
Un dato storico, quindi, risalente al 200-140 a.C., a testimonianza dell'attività della pastorizia e della caccia cui erano dediti gli abitanti del luogo.

Presso gli antichi Peligni e Frentani l'allevamento degli ovini aveva già grande importanza, ma è quasi certo che la pastorizia veniva effettuata solamente in forma stanziale. La transumanza verso le terre di Puglia, incominciò solamente durante il dominio romano, favorita certamente dalla sicurezza degli itinerari tracciati dall'esercito romano anche come collegamento con la piccola città romana del "Piano la Roma".Con la fine dell'Impero Romano, la pastorizia subì una forte decadenza ed ebbe una ripresa solo sotto il dominio dei Normanni che favorirono gli allevatori con leggi e benefici particolari. Ma fu sotto il dominio degli Aragonesi che la pastorizia abruzzese divenne fiorente, grazie, prima di tutto, all'abolizione della tassa sugli animali
e poi alla creazione della "Dogana della mena delle pecore in Puglia" che prevedeva tra l'altro l'assegnazione di aree destinate a pascolo, appositamente espropriate. Gli ovili e i pascoli venivano assegnati in base al numero dei capi posseduti, e questo favorì certamente, per tantissimo tempo, i pastori abruzzesi che, in quel periodo, erano i maggiori allevatori di ovini.
"La conta delle pecore", ai fini dell'assegnazione dei pascoli e della riscossione del canone, veniva effettuata da funzionari del re in punti stabiliti lungo i tratturi.
I tratturi - dalla formula latina iter tractorium - erano gli itinerari obbligati per raggiungere le Puglie; erano larghe circa centodieci metri con a fianco alcune zone destinate a pascolo ed al riposo del gregge.
I tratturi erano salvaguardati da leggi speciali e rimasero in buono stato e attivi sino alla metà dell'ottocento, quando se ne iniziò la graduale sdemanializzazione.
Esistevano, e ne restano tutt'oggi alcune tracce, due piccoli tratturi che interessavano il territorio di Palombaro. Uno partiva dalla Piana delle Noci e, scendendo lungo il Colle Morgia e il Colle Forche, giungeva sino alle prime case del paese. Qui, nello spiazzo dove prima esisteva il vecchio campo sportivo (Colle Preite), avvenivano la conta delle pecore e la riscossione della fida da parte dei funzionari governativi. Poi proseguiva lungo "le Fessate", i "gironi" Menna fino a raggiungere la valle dell'Aventino.
L'altro partiva dalla Valle, scendeva lungo il fosso del Canale, giungeva allo spiazzo dell'Aracapanna, dove avvenivano la conta e la riscossione della fida, passava vicino alla contrada Vallebona, proseguiva verso la Cerretana e costeggiando il torrente Avello si immetteva nella valle dell'Aventino.
Presumibilmente, poi, i due tratturi andavano a ricongiungersi in Molise, con quello principale Castel di Sangro-Lucera, uno dei quattro tratturi più importanti che collegavano le montagne d'Abruzzo con le Puglie.
Sembra, comunque, che all'inizio del secolo questi due tratturi siano stati usati per lo più dai pastori pugliesi, i quali usufruivano dei nostri pascoli montani dalla fine di maggio ad ottobre. I nostri pastori riuscivano a svernare in loco nelle diverse stalle, "governando" con fieno e "fronda", dato l'esiguo numero dei capi posseduti pro-capite (100-150).
Il fieno veniva raccolto durante l'estate con l'aiuto "a giornate" delle donne del vicinato dietro compenso, quasi sempre, in natura: formaggio, ricotta, lana, ecc.
La "fronda", invece, era il derivato della potatura delle piante, per lo più querce e aceri, effettuata all'inizio di ottobre. Raccolta in fascine e messa a seccare al sole, costituiva un ottimo foraggio per i mesi invernali.
Il resto è storia dei nostri giorni.
Contornata in azzurro la zona di pascolo
dei pastori Palombaresi.

 

Continua......