Il carcere come paradigma del modello di sviluppo occidentale

a cura di AnOK4u del collettivo Il Mondo Capovolto

 

 

Sommario:

 

L'istituzione carceraria pre-capitalista

 

Nella società feudale il carcere inteso come pena, nella forma della privazione della libertà, non esiste.

Il carcere medievale, punitivo e privatistico si fonda sulla categoria etico-giuridica del "taglione", a cui si associa il concetto di “espiatio”, forma di vendetta basata sul criterio di pareggiare i danni derivati dal "reato".

La prigione, o meglio la detenzione, era solo un passaggio temporaneo nell’attesa dell’applicazione della pena reale, cioè la privazione nei riguardi del “colpevole” di quei beni riconosciuti universalmente come valori sociali: la vita, l’integrità fisica, il denaro.

La crudeltà e la spettacolarità assolvevano la funzione di deterrente nei confronti di coloro che intendevano trasgredire le regole imposte dal "signore". Si vedano in proposito i roghi dell’inquisizione della “santa romana chiesa”.

In alcuni casi la pena veniva sanzionata secondo criteri più “umani”, in uso anche presso altre civiltà, soprattutto di origine tribale: l’allontanamento dalla comunità (temporaneo o definitivo) o il concetto di “compensazione” (il colpevole veniva costretto a compensare in qualche modo, ad esempio attraverso un lavoro di “utilità sociale”, il danno recato alla comunità o a individui).

La "privazione della libertà" come sanzione penale si affermerà solo quando tutte le forme della ricchezza verranno ridotte alla forma più semplice ed astratta: il lavoro umano misurato nel tempo.

Quindi con la rivoluzione francese, l’avvento del dominio della borghesia e del capitalismo diffuso. Dunque è necessario che si affermi il lavoro salariato e che il valore di scambio diventi un valore dominante. Sarà altresì necessario che si compia il processo che porterà la borghesia (mercantile prima e poi capitalistica) al ruolo di classe dominante e, dall’altra parte, che cresca a dismisura quel fenomeno di masse di vagabondi, mendicanti e sradicati dalle campagne, nei confronti dei quali la borghesia, arrogante e spregiudicata, si porrà il problema del controllo sociale e dell’imposizione dell’ideologia del lavoro coatto con i mezzi più terribili conosciuti dall’umanità.

Vale la pena ricordare che fabbriche, banche, carceri ed orologi, nonché ospedali e manicomi, si sviluppano nella loro concezione “moderna” e si diffondono tutte nello stesso periodo storico, fra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800, ovvero con l’avvento della rivoluzione industriale e, di conseguenza, col passaggio dalla società feudale alla società disciplinare.

 

Oggigiorno, con l’avvento della rivoluzione tecnologica, assistiamo ad un ulteriore passaggio del modello societario umano, dalla società disciplinare alla società di controllo, il cosiddetto “carcere immateriale”, ovvero carcere globale. In questo nuovo tipo di società, caratterizzata dalla perdita di ogni diritto acquisito, forte pressione migratoria, squilibrio sempre maggiore nella distribuzione delle ricchezze, e soprattutto nuova concezione del lavoro, basata su flessibilità e precarietà, emerge un potenziamento senza precedenti delle strutture segregative, carceri, comunità, ospedali e cliniche psichiatriche (manicomi), affiancate a nuovi strumenti di controllo (strutture e “servizi” socio-assistenziali, videosorveglianza, tecnosorveglianza, farmacosorveglianza).

 

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La nascita dell'istituzione carceraria moderna

 

L’avvio del processo di accumulazione capitalistica porta alla dissoluzione della società rurale ed alla nascita del futuro proletariato industriale.

Il processo che porterà al dominio borghese ed alla società industriale, inizia però almeno due secoli prima, con il lento ma progressivo sradicamento della cultura popolare, con l’apparizione dei primi luoghi di concentramento di lavoro forzato (fabbriche, officine, miniere), e con il progressivo mutamento degli assetti e dei rapporti sociali, dovuto alla crescente poderosa pressione della borghesia su un’aristocrazia indebolita ed in declino e su un proletariato povero, incolto, confuso e disorientato.

Già nella sua prima fase questo passaggio costringe i più, per sopravvivere, a trasformarsi in barboni, mendicanti, vagabondi, briganti. Una massa di non occupati (quello che Marx più tardi chiamerà "l’esercito industriale di riserva") che vive di espedienti e contro di cui, sin dal secolo XVI e XVII, si svilupperà, in tutta Europa, una legislazione sociale fortemente repressiva, caratterizzata da durissime pene corporali: un vero e proprio sterminio della massa dei disoccupati per attenuare la pressione sociale che essi esercitavano.

Al contempo si assiste ad un progressivo e sostanziale cambiamento del concetto di pena e si forma il nucleo dell’ideologia penale pre-illuminista. A poco a poco in Inghilterra i ladri e le prostitute, insieme ai vagabondi, ai poveri e ai ragazzi abbandonati anziché essere sottoposti alle comuni sanzioni dell’epoca vengono raccolti nel palazzo di Bridewell (concesso dal sovrano) e obbligati a "riformarsi" attraverso il lavoro e la disciplina. Nasceva così nel 1557 la prima house of correction o workhouse (concetti e pratiche tornati prepotentemente alla ribalta oggigiorno), caratterizzata dall’organizzazione rigida del tempo strutturato in gesti sempre uguali e ripetitivi.

A tal scopo vennero approvati (dapprima in Inghilterra e successivamente in tutta Europa) una serie di istituti, come quello del 1601 che riduceva il rifiuto del lavoro ad atto criminale, ed altri con i quali veniva stabilita l’obbligatorietà del lavoratore ad accettare la prima offerta di lavoro che gli venisse rivolta e contemporaneamente gli veniva vietato di contrattare col proprio padrone. E’ il periodo delle house of correction in Inghilterra, delle rasp-huis nei Paesi Bassi e dell’ hòpital in Francia.

Questa situazione europea dura fino alla chiave di volta rappresentata dalla rivoluzione francese.

Successivamente, le nuove teorie rivoluzionarie borghesi, politiche e sociali, favoriscono l’affermarsi di una nuova struttura giuridico-normativa (in Francia il codice rivoluzionario del 1791 e in Germania il codice bavarese del 1813) che stabilisce un’equivalenza tra delitto e pena cercando di sottrarre quest’ultima all’arbitrio.

In questo clima vengono accolte con favore le teorie di alcuni "riformatori" inglesi tra cui spicca Jeremy Bentham, che assegna al carcere, prioritariamente, un carattere intimidatorio e di totale controllo al fine di realizzare il ruolo produttivo e risocializzante. E’ il progetto Panopticon basato sul “principio ispettivo” che i pochi (carcerieri) possano controllare i molti (detenuti), e il controllo possa essere esercitato su tutti gli atti del carcerato nell’arco delle 24 ore giornaliere.

Nasce così la nuova struttura architettonica del carcere moderno (carcere Benthaniano), fatta di “bracci” (o “raggi”) e rotonde, costruito cioè in modo che i carcerieri stando fermi nel posto di guardia posto sulla rotonda possano avere la visuale piena su un intero braccio di celle, o su più bracci (struttura a raggiera). Al contempo ogni detenuto sa che ogni suo movimento è controllato “a vista” con estrema facilità.

E’ il risvolto carcerario della pretesa della ricca borghesia in ascesa di riuscire a controllare totalmente le classi subordinate.

Sul piano pratico vengono introdotte, dapprima in Inghilterra (legge del 1810 e il Goal Act del 1823) e poi in tutta Europa, alcune innovazioni: separazione tra i sessi, isolamento notturno e lavoro diurno in comune. Le condizioni di vita nelle carceri peggiorano, così come peggiorano le modalità di vita e lavoro per i poveri nelle workhouses.

 

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Il carcere in America

 

Lo sviluppo dell’istituzione carceraria americana avrà notevole influenza in Europa.

Già prima dell’indipendenza, in America vengono compiuti esperimenti innovatori che avranno successo anche secoli dopo: a Geat Law, nella Pennsylvania, regione quacchera già dal 1628 venne costruito un carcere in cui il trattamento, davvero “innovativo”,  non era incentrato sul lavoro e sulle pene corporali allora in voga, ma sul pentimento imposto col condizionamento sensoriale (isolamento e silenzio) che il più delle volte portava alla perdita delle facoltà mentali dei detenuti.

Per ottenere la disciplina, il sistema si fondava su un meccanismo di alternanza privilegi/punizioni.

 

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Il carcere in Italia

 

Nella seconda metà del XVII secolo si realizza una delle prime esperienze carcerarie moderne: a Firenze all’interno dell’Ospizio del S. Filippo Neri per giovani abbandonati viene istituita una sezione destinata fondamentalmente a giovani di buona famiglia con problemi di disadattamento. E’ il primo caso di isolamento cellulare a scopo correzionale: la sezione era infatti composta da otto cellette singole in cui i giovani erano rinchiusi in isolamento giorno e notte.

A Milano alla fine del XVII secolo vengono realizzati una "Casa di Correzione" e un "Ergastolo".

A Napoli è in funzione la Vicaria: vi sono rinchiusi un migliaio di prigionieri in condizioni terribili, molto al di sotto dei livelli di sopravvivenza. Altrettanto aberranti sono le condizioni della Casa dei poveri, il cosiddetto "Serraglio". A Roma nel 1770 viene realizzato il carcere cellulare del San Michele (prigione vaticana).

Nel 1811 in tutti i paesi italiani sottomessi alla dominazione napoleonica, viene introdotto il codice penale francese del 1810 il cui nucleo fondamentale è rappresentato dalla difesa della proprietà privata e dell’autorità dello Stato. Si diffondono anche nel nostro paese i principi della pena detentiva e del lavoro forzato.

Nel 1839 vengono approvati, in vari Stati italiani, nuovi codici penali e riforme dell’istituzione carceraria maggiormente rispondenti al momento storico di un paese che si avvia all’unificazione, ad una presenza considerevole di proletariato e sottoproletariato la cui potenzialità di ribellione alle regole della borghesia capitalistica spinge il potere statuale a realizzare una gestione del carcere di tipo terroristico-ideologico come strumento per il controllo sociale.

Nel 1889 viene emanato il codice penale Zanardelli, entrato in vigore nel ’90, che sostituisce il codice sardo del 1859: viene abolita la pena di morte (sostituita con l’ergastolo) ma restano severissime le pene per i reati contro la proprietà. Nel 1891 viene approvato il nuovo regolamento generale per gli istituti carcerari.

Si vanno diffondendo frattanto una serie di concezioni portate avanti da alcuni intellettuali (Lombroso, Ferri, Garofalo, ecc.) che considerano il reato come "fatto umano individuale" causalmente determinato. La misura della pena risponde quindi al principio della "pericolosità sociale", non più alla gravità del reato; ma i vari governi che si succedono si oppongono a questo concetto e si attestano su una linea conservatrice.

Le forti mobilitazioni sociali successive alla prima guerra mondiale che oltre alla classe operaia urbana coinvolsero anche le campagne e il proletariato contadino, creò un forte stato di allarme tra le classi dominanti. Queste, agitando lo spettro della rivoluzione bolscevica attraverso i media del tempo con toni fortemente demagogici, riuscirono a mobilitare i settori della piccola borghesia (rovinata dalla guerra) che vedeva i suoi privilegi residui minacciati dalle richieste popolari. Così si spianò la strada al fascismo.

La repressione per il fascismo era un’esigenza di politica economico-sociale (come del resto lo è per i governi odierni).

L’azione di intimidazione e di repressione nei confronti del proletariato urbano e rurale superò di gran lunga ciò che era consentito dalla pur durissima “repressione legale” dei paesi a regime formalmente democratico.

Gli accordi del fascismo con la Chiesa cattolica (Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929) rivestirono la pena di caratteristiche moralizzatrici come era secoli addietro, considerando il reo come “peccatore che deve compiere un percorso di espiazione e rimorso”.

Nel 1926 viene approvata la nuova legge di Pubblica Sicurezza (si introduce il confino di polizia). Nel 1930 è approvato il codice Rocco. Nel 1931 è approvato il Regolamento carcerario che rimarrà in vigore fino alla riforma del 1975. Nel 1934 vengono approvate altre leggi (n.1404 e n.1579) che regolamentano il funzionamento del Tribunale dei minorenni e delle Case di rieducazione per minorenni e che istituiscono i Centri di Osservazione, con lo scopo di “fare l’esame scientifico del minorenne, stabilirne la vera personalità, e segnalare i mezzi più idonei per assicurare il recupero alla vita sociale”.

Nel 1930 venne anche approvato il codice di procedura penale dove, nel famigerato art.16, si garantiva l’impunità agli agenti di pubblica sicurezza “per fatti compiuti in servizio e relativo all’uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica”. Una licenza di uccidere che ricomparirà, con l’accordo di quasi tutte le forze politiche negli anni ’70 e che perdura tuttora.

Un altro elemento caratteristico dell’ideologia che ispira il codice Rocco è quello che pone a carico dell’accusato l’onere di dimostrare la propria innocenza e non all’accusatore dar prova dell’accusa, stravolgendo anche le basi del diritto romano: alla faccia di tutti gli stupidi simboli e riti che tentavano di stabilire un legame proprio con la romanità.

Il Regolamento carcerario del 1931 si fonda sostanzialmente su questo assunto:

Lo Stato incarna il bene comune, lo Stato è al centro della vita del cittadino, il delinquente è un nemico del popolo, quindi dello Stato, poiché offende la dignità dello Stato e si contrappone ai sentimenti popolari e alle pubbliche virtù. La pena dunque deve avere una funzione afflittivo-punitiva e deve essere esemplare. Il carcere di conseguenza sarà inflessibile e distruttivo nei confronti degli "incorreggibili", flessibile e attenuato per gli altri:

"Occorre stabilire norme di vita carceraria che siano bensì idonee ad emendare il condannato, ma non tolgano alla pena il carattere afflittivo ed intimidativo ... E perché la pratica resti ferma ed ossequiente al pensiero del legislatore, ho riconosciuto la necessità non solo di dettare i precetti positivi, ma di formulare altresì una disposizione, che implica il divieto di ogni giuoco, festa o altra forma di divertimento che a quell’austerità [del carcere] possa recare offesa..." (Relazione di presentazione al nuovo regolamento per gli Istituti di Prevenzione e Pena).

Lo stesso Mussolini intervenendo nel dibattito parlamentare sulla presentazione del nuovo Regolamento penitenziario ci tenne a dire la sua mettendo in guardia coloro che studiano le carceri dal “vedere questa umanità sotto un aspetto forse eccessivamente simpatico ... Credo che sia prematuro abolire la parola pena e credo che non sia nelle intenzioni di alcuno convertire le carceri in collegi ricreativi piacevoli, dove non sarebbe tanto ingrato il soggiorno”. E’ questa l’essenza dell’ideologia fascista della punizione espressa dal duce del fascismo che però oggi ritroviamo tranquillamente espressa, e senza vergogna, dalla gran parte delle forze politiche che si autodefiniscono, bontà loro, democratiche.

 

Negli anni successivi al secondo dopoguerra rimase in vigore il regolamento penitenziario fascista del 1931, fino alla riforma del 1975, che sotto moltissimi aspetti avrà caratteri fortemente peggiorativi data la situazione di lotte e rivolte all’interno delle carceri che hanno caratterizzato gli anni ’70.

Con un semplice decreto ministeriale, il n. 450 del maggio 1977, vengono istituite le carceri speciali  e di “massima sicurezza”, per rispondere alle lotte che si erano sviluppate e continuavano a realizzarsi nel circuito carcerario, per cercare di ostacolare i livelli di aggregazione in continua crescita ed anche per tentare di frenare il movimento di evasioni creatosi in quegli anni.

L’istituzione della carceri speciali spianerà la strada all’introduzione di una stretta repressiva inaudita ed allucinante: il famigerato articolo 90 e i “braccetti di massimo isolamento” (Braccetti della morte). E’ il Decreto Ministeriale 22.12.1982 che tra le altre cose decreta:

- è sospeso il diritto dei detenuti di corrispondere con altre persone detenute, anche ove trattasi di congiunti. La corrispondenza indirizzata a persone non detenute o proveniente dall’esterno è sempre sottoposta a visto di controllo;

- è sospesa la partecipazione dei detenuti al controllo delle tabelle e della preparazione del vitto, alla gestione del servizio di biblioteca, alla organizzazione delle attività culturali, ricreative e sportive;

- è sospesa la corrispondenza telefonica dei detenuti con i propri familiari, conviventi e terzi;

- è sospeso il diritto dei detenuti a ricevere generi alimentari ed oggetti contenuti in pacchi - salvo quelli contenenti biancheria ed indumenti intimi- provenienti dall’esterno;

- è sospesa la possibilità in questi reparti di avere colloqui tra detenuti, familiari, conviventi e terzi fuori dei limiti e della durata stabilita nel 7° comma dell’art 35 e nella prima parte del 9° comma dello stesso articolo (ossia non più di un’ora di colloquio al mese con i familiari stretti);

- ai soggetti anzidetti è consentito di permanere all’aperto da soli per sei ore non consecutive a settimana;

- non potranno utilizzare le attrezzature di lavoro, di istruzione e di ricreazione, nonché la biblioteca dell’istituto;

- non potranno ricevere quotidiani, periodici, libri, non potranno avvalersi della televisione.

 

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Il carcere dal dopoguerra ai giorni nostri

 

Cosa succede dunque nelle carceri dall’immediato secondo dopoguerra ai giorni nostri?

Nel 1945 viene emanato un decreto per rendere più rigido e severo il controllo nelle carceri, frustrando le aspettative di chi sperava nella “liberazione dal fascismo" un clima nuovo e più libero anche nelle galere.

Viene investito di enorme importanza l’istituto del manicomio criminale che altro non è che un prolungamento del carcere punitivo, ultimo stadio della devastazione mentale e dell’annientamento dei comportamenti non-compatibili.

L’Italia, forcaiola e sostanzialmente ancora succube dell’ideologia fascista soprattutto per quanto attiene ai concetti di punizione e pena bene incarnati dai settori reazionari della piccola borghesia, spregiudicati soltanto nel togliersi di dosso rapidamente l’orbace per indossare la croce, perse un’altra occasione per portarsi su un terreno che avesse un minimo di “civiltà giuridica”, alla faccia dei valori espressi dalla resistenza.

Terreno che ha ulteriormente perso negli anni ‘80 e nei ‘90 e continua a perdere in preda ad una ossessione punitiva stretta tra l’incapacità di operare sul terreno politico-sociale per contenere i problemi della non-integrazione e una sottocultura totalitaria che ha bisogno del “nemico” per canalizzare le ansie e le frustrazioni di massa.

Una situazione di abbruttimento e sottomissione coatta, di disumanizzazione e criminalità istituzionale. Una delle peggiori pagine della storia del nostro paese, un universo abbandonato e sconfitto che ritroverà un minimo quanto parziale riscatto quando, sul finire degli anni ‘60, il proletariato delle carceri riuscirà a stabilire un contatto con la realtà esterna in grande fermento; riuscirà a prendere insegnamento dall’immensa ricchezza di nuova cultura e progettualità antagonista che caratterizzò il 68 e 69 ed attuerà anche nelle carceri una stagione di lotte e rivendicazioni tra le più significative nella storia delle carceri di tutti i paesi, perché acquisirà la coscienza di essere una frazione del proletariato sfruttato che solo nella lotta collettiva può trovare il suo riscatto.

E’ una fase che si concluderà anche questa sul finire degli anni ’70, con l’ennesima vittoria (anche e soprattutto militare) della borghesia sul proletariato.

Così, rapidamente come era cresciuto, il livello di coscienza del proletariato detenuto è sceso di nuovo ai livelli pre-rivolte. Dagli anni ’80 in poi sono di nuovo ricomparsi i poteri dei boss mafiosi, di nuovo l’individualismo e l’assenza di solidarietà, di nuovo la mortifera alleanza tra boss e custodia, in assenza di mobilitazione e coscienza da parte dei detenuti.

Chi ha contribuito al degrado delle carceri, a riportarle ai livelli degli anni 50 ed anche prima?

Lo Stato in primo luogo: i suoi solerti funzionari negli anni ’60 e ’70 si sono spaventati, temendo che le lotte dei detenuti impedissero (e spesso hanno realmente impedito) gli intrallazzi e i ricchi imbrogli tra sistema carcere e malavita organizzata; un interesse economico miserabile da una parte, ma anche la mentalità reazionaria e del tutto priva di cultura giuridica della grandissima parte di chi opera nel sistema carcere a livelli alti di responsabilità; quei pochi operatori capaci, sensibili e colti in un ambiente come l’istituzione carceraria in cui vige il sistema mafioso e clientelare per avanzare nella carriera, non arrivano mai ad alti livelli. Corruzione, ignoranza, metodi mafiosi, traffici illeciti, totale illegalità delle istituzioni ... tutto questo ha operato pesantemente perché finisse la stagione di lotta nelle carceri italiane. Ma anche i partiti -tutti- soprattutto quelli di sinistra che avevano nel proprio codice genetico la critica radicale del carcere e di ogni altra istituzione totale, anch’essi, per accattonare qualche voto dal ceto medio reazionario hanno buttato via un patrimonio storico-culturale di valore inestimabile.

Oggi il carcere, come era un tempo, è tornato ad essere il luogo del più sfrenato individualismo, dell’assenza di ogni solidarietà sincera e costruttiva; è di nuovo il luogo dove alligna e cresce il mito dell’uomo forte e violento, del prevaricatore, del protetto e del raccomandato. Oggi il carcere è il luogo più diseducativo esistente sulla terra; questa sola ragione dovrebbe bastare per decretarne la chiusura permanente.

Purtroppo è il modo stesso di vita dominante in questa società che ha assimilato i “valori negativi” del “vecchio” carcere prevaricatore: una società proiettata anch’essa verso l’individualismo, il carrierismo e l’ignoranza assoluta e tracotante, condita coi miti del superman, della debordante idiozia massmediatica. Oggi più che mai la società, il cittadino medio, il borghese piccolo-piccolo, perfino il proletario confuso, disorientato, stordito e spersonalizzato, ha bisogno del carcere. Ne ha bisogno perché là dentro, oltre quei muri oscuri, ritrova la rappresentazione del suo nemico principale: le proprie frustrazioni, le voglie represse, le paure ancestrali; ritrova, per odiare, il ribelle incatenato, il randagio addomesticato, il diverso rinchiuso: rivede il viaggio che avrebbe voluto fare ma che ha sempre avuto il terrore di iniziare... la paura di osare.

Che cosa resta a lui se non ... il bisogno ansioso e frustrante di ordine, ordine.. ordine .. ordine .. totalizzante e rassicurante?

Lascia comunque sgomenti il fatto che una società che è diventata essa stessa un enorme carcere, abbia bisogno proprio delle galere come valvola di sfogo delle proprie frustrazioni e perversioni.

 

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Il carcere del presente e quello che si prospetta per il futuro

 

Come abbiamo già accennato in precedenza la rivoluzione tecnologica, col passaggio dalla società disciplinare a quella del controllo globale ha stravolto alcuni vecchi schemi.

Ciò che caratterizza questa fase di transizione è un potenziamento delle strutture segregative tradizionali (carceri e istituzioni totali) e un affiancamento di nuove strutture di controllo rivolte a intere categorie di soggetti (migranti, tossicodipendenti, tifosi, squatter, autonomi …) il cui allarme sociale è alimentato da continue campagne emergenziali.

Il modello penitenziario statunitense, rispetto cui l'Italia e L’Europa presentano sempre più analogie, vede una crescita esponenziale del sistema di controllo caratterizzata dalla incarcerazione di un numero sempre crescente di persone (2 milioni di persone, con un tasso di 600 persone incarcerate ogni 100.000 abitanti), la costruzione di nuove prigioni, il fiorire di carceri e polizie private, la creazione della potente lobby della polizia penitenziaria, in grado di influenzare le dinamiche economiche e politiche dei diversi stati e

contee americane.

Il carcere USA non solo si è espanso e riempito, ma ha svolto una funzione di agenzia di controllo diffuso. Nei confronti di intere categorie di persone (proletariato nero e ispanico, microcriminalità femminile e minorile, …) si è assistito a un uso massificato del carcere senza un incremento dei reati, ma in base a considerazioni sull'allarme sociale suscitato.

Dunque appare che nella società di controllo il carcere cresce e aumenta la sua funzione di contenitore segregativo per intere fasce di popolazione. In questo modo amplifica ulteriormente la differenziazione tra le persone detenute. Si va dal carcere di massima sicurezza, per i “nemici dello stato”, a quello puramente contenitivo, passando per i diversi gradi del trattamento.

Le nuove strutture di controllo che affiancano il carcere si aggiungono ad esso affiancandolo senza sostituirlo.

I ghetti metropolitani, la detenzione amministrativa e preventiva, le terapie coatte in comunità, le strutture ospedaliere e psichiatriche, l’affidamento ai servizi socio assistenziali, i sistemi diffusi di videosorveglianza e tecnosorveglianza hanno lo scopo di costruire attorno al carcere in espansione un cerchio ancora più grande e crescente di soggetti sottoposti a forte controllo sociale. Il modello statunitense insegna che a fronte di 2 milioni di persone incarcerate ve ne sono più del doppio in libertà vigilata e le metropoli USA si ristrutturano secondo un’urbanistica del controllo, così come d’altronde accade anche in Europa.

 

La direzione che va prendendo il carcere odierno si orienta su due livelli:

 

Il primo è la sua funzione “classica” di contenimento ed attenuazione dell’enorme pressione sociale determinata dalla nuova massa sempre crescente di poveri, disgraziati e diseredati che il neoliberismo sta generando, e qui l’espressione più visibile e lampante è l’istituzione dei lager per gli immigrati, luoghi questi, dove la gente viene rinchiusa senza aver commesso alcun reato, ma semplicemente per il fatto di essere sprovvista del “permesso di soggiorno”.

E’ chiaro ancora una volta come il capitale abbia bisogno di controllo sociale totale sul suo esercito industriale di riserva, e di deterrenza verso qualsiasi azione insurrezionale o rivendicativa. A tal scopo, all’istituzione carceraria viene affiancata una sempre più massiccia militarizzazione del territorio, accompagnata e giustificata da incessanti e martellanti campagne massmediatiche tese a creare in sequenza “emergenze” inesistenti o mistificatorie al fine di disorientare, confondere e impaurire (terrorizzare) la popolazione, e creare consenso al regime militar-carcerario (stato di polizia).

I soggetti meno compatibili a questo modello di “sviluppo” sociale, finiscono quasi inevitabilmente nel circuito carcerario, che nella fase di detenzione sperimenta nuove tecniche di contenimento ed annientamento della personalità: controllo fisico e psicologico, deprivazioni sensoriali, metodi di tortura sempre più raffinati, sperimentazioni selvagge (farmaci, esperimenti da laboratorio…), meccanismi premianti, inasprimento delle pene e delle condizioni di vita, pene “alternative” spesso peggiori della detenzione stessa.

Le cosiddette “pene alternative”, che sempre più spesso costituiscono la prosecuzione della “normale” fase di detenzione, mirano appunto a proseguire indefinitamente il controllo e la perseguibilità degli individui. E’ il caso ad esempio degli affidamenti in prova ai servizi socio-assistenziali o delle “case di lavoro” e “colonie agricole”. E’ il carcere immateriale, invisibile, l’ergastolo bianco. Per anni un soggetto è costretto a strettissimi controlli da parte dell’apparato poliziesco-giudiziario e/o medico-sanitario, e per qualsiasi minima mancanza a questo regime riparte l’iter carcere-misure alternative in una spirale che può perdurare all’infinito.

Quindi la fase di reclusione serve a frantumare la personalità e l’identità dell’individuo, le “pene alternative” a proseguirne il controllo e verificarne costantemente la “pericolosità”.

Il successo delle tecniche di annientamento della personalità e di “riconversione” degli individui nel periodo di reclusione vengono poi testati attraverso cosiddetti “meccanismi premianti” che possono portare a: permessi, semilibertà, piccoli privilegi, lavoro all’esterno delle mura del carcere, ecc., prima di essere commutati definitivamente in misure alternative al carcere.

I meccanismi premianti ormai non si sogna più nessuno di metterli in discussione: l'efficacia con cui essi mettono a tacere ogni forma di conflittualità all'interno delle carceri va mantenuta, soprattutto in vista del peggioramento delle condizioni di vita e di sovraffollamento.

Il livello di detenzione “attenuato” consentito dalle misure alternative ha infine il compito di reinserire i soggetti meno refrattari nel circuito produttivo, o in altri istituti di controllo (comunità terapeutiche, ospedali, servizi sociali, privato sociale) e sostituisce le vecchie strutture dello stato sociale con il Terzo Settore.

Va sottolineato come per raggiungere gli obiettivi che il periodo di reclusione si prefigge, tra le altre cose le autorità carcerarie usino sempre di più droghe e farmaci. Questi contenimenti chimici sono costituiti principalmente da droghe psicotiche come antidepressivi, sedativi, tranquillanti, con potere ipnotico. Droghe come il Valium, il Tavor o il Serenase offrono l'equivalente chimico di una camicia di forza e il loro uso sta diventando sempre più massiccio con l’aumento della popolazione carceraria e con un sempre maggior numero di prigionieri "trattati".

In USA questa tendenza è diventata un “percorso terapeutico” che raggiunge la sua apoteosi con le “modificazioni del comportamento”, ed all’interno del quale l’uso di meccanismi di ricompensa e punizione è la prassi per condizionare il comportamento.

Ma anche l’Europa sta raggiungendo rapidamente gli stessi livelli.

Droghe come l'Acnetine (un derivato del curaro) che produce sia paura che panico sono usate in terapie di avversione al sistema dominante. In carcere le possibilità per testare le nuove droghe del controllo sociale sono enormi, i controlli praticamente nulli.

Nella fase successiva alla reclusione vengono poi sperimentati nuovi strumenti tecnologici di controllo e repressione quali braccialetti elettronici, chips sottocutanei, controllo satellitare, e quant’altro.

E’ ancora da notare come questi strumenti tecnologici vengano pubblicizzati dalle case produttrici come mezzi “per la totale supremazia psicologica dei carcerati potenzialmente fastidiosi”.

 

Il secondo livello su cui si sta orientando il carcere odierno è quello di convertire progressivamente la struttura carceraria alle regole del mercato globale, alle speculazioni finanziarie e di borsa. Renderla sempre più produttiva e redditizia, sempre più affine al modello di “sviluppo” mercantil-tecnologico-ipercapitalista che la borghesia imperialista impone.

Perché limitarsi a sorvegliare e punire, quando questo può diventare anche un lucroso affare?

Abbiamo già visto come il carcere sia uno straordinario laboratorio di sperimentazione ed investimento per il capitale. E come sempre più spesso si affianchi al concetto di pena ed espiazione, quello della “rieducazione” attraverso il lavoro forzato.

A fianco del carcere pubblico prende sempre più piede l’istituzione di carceri private, gestite da aziende.

Negli Stati Uniti il carcere privato non è una novità. In pratica, senza dilungarsi troppo, è sempre esistito.

Ma oggigiorno, con la popolazione carceraria che aumenta continuamente dato il progressivo immiserimento degli strati più deboli della società, ed a fronte delle sempre crescenti ondate di immigrazione dal sud verso il nord del mondo, le prigioni, sia pubbliche che private, negli Stati Uniti ed ora anche in Europa si stanno rivelando vere e proprie miniere di forza lavoro.

Questo origina un meccanismo realmente terrificante. Il capitale si ristruttura e va ad investire nei paesi dove costi e manodopera hanno costi irrisori generando, di conseguenza, l’aumento di povertà all’interno dei paesi industrializzati. Sempre più gente per sopravvivere è costretta a “delinquere”, quindi si va costantemente ad ingrandire la massa della popolazione carcerata. Questa, messa al lavoro a regimi di sfruttamento elevatissimi, genera al contempo un esercito di manodopera a costi bassissimi. In tal modo le classi subalterne vengono ovunque costrette al lavoro e ad una condizione di vita ai limiti della sopravvivenza, il tutto a beneficio della piccola, media e grande borghesia internazionale.

Non è un caso che le società che gestiscono le carceri private siano ormai delle multinazionali quotate in borsa.

Ad esempio negli USA in base alla nuova legge le imprese private possono utilizzare a scopo di profitto il lavoro dei detenuti (ma questo accade anche in Inghilterra e nei paesi del nord Europa, e presto si estenderà a tutti quanti). Manufatti che prima erano prodotti all’esterno, vengono oggi lavorati dai carcerati che ricevono una paga pari il 20 per cento del salario minimo, a cui è impedito di aderire ai sindacati o di godere dei più elementari diritti riconosciuti a ogni lavoratore. La legge inoltre ha fatto decadere il principio in base al quale il lavoro in carcere dovrebbe essere volontario, facendo passare invece quello che sancisce il dovere del detenuto a lavorare per pagare la sua carcerazione (lavoro forzato). Come già detto la maggior parte dei paesi europei si sta allineando sulle stesse posizioni, con provvedimenti analoghi. Ad esempio il governo inglese sta letteralmente vendendo intere strutture carcerarie ad aziende private.

 

Il carcere si va dunque scindendo in pubblico e privato.

Quello privato per tutti quei soggetti che vanno a costituire la nuova miniera di forza lavoro e facili profitti per la borghesia imperialista, formata soprattutto da microcriminalità facilmente controllabile e ricattabile, con secondini altrettanto sfruttati e sottopagati.

Quello pubblico articolato su due livelli: carcere “ordinario” per i soggetti da avviare alle strutture di recupero sociale, supercarceri e massima sicurezza per gli individui “socialmente pericolosi”, non compatibili e/o irriducibili.

 

Per quanto riguarda il carcere pubblico, oltre ai programmi governativi su sicurezza-carcere-controllo, la voce da padrone in questa fase di ristrutturazione, la stanno facendo direttori e guardie penitenziarie. Entrambe le categorie vanno ad assumere nuove responsabilità all'interno di questo sistema e rivendicano la loro parte di potere.

Già negli anni passati è accaduto che fossero proprio funzionari penitenziari (medici, direttori, guardie) a far esasperare la situazione tra i detenuti dentro il carcere per portare avanti con più autorevolezza le proprie rivendicazioni.

Direttori e guardie penitenziarie si configurano come figure forti, che insieme a un massiccio ed efficiente apparato giudiziario possono gestire il nuovo sistema penale e carcerario. I primi vogliono riconosciuto un più alto livello dirigenziale, i secondi continuano a strappare aumenti di organico, di retribuzione e amnistie per i maltrattamenti ai detenuti, essendo riconosciuti come interlocutori privilegiati del mondo carcerario.

Ad un'analoga dinamica si è assistito anche in occasione della ristrutturazione del sistema sanitario carcerario in Italia, entrata in vigore all'inizio di quest’anno con il passaggio di competenze dal ministero di grazia e giustizia a quello della sanità. Lì fu la lobby dei medici penitenziari a sfruttare le drammatiche condizioni delle persone malate detenute per fare in modo che fossero quanto più mantenuti i privilegi acquisiti dalla loro categoria durante la gestione separata della sanità carceraria.

 

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Liberi tutti!

Abolire il carcere per liberare il mondo

 

Sfacciatamente, ancora oggigiorno, media e partiti politici ci propinato la vecchia manfrina secondo cui il carcere serve a rieducare, a istruire, a “recuperare” ai valori della cosiddetta “società civile”. Niente di più falso. E’ evidente che il carcere non assolve minimamente neanche una di queste funzioni: serve a privare della libertà e a tenere sotto controllo (o sedare definitivamente) soggetti che altrimenti non sono compatibili col modello di sviluppo borghese, punto e basta.

Di più. Il carcere odierno come tutti sanno è una scuola di “criminalità”, ovvero chi vi entra per qualsiasi ragione ne uscirà (se ne uscirà) più violento e rabbioso, e senz’altro più esperto nel continuare a “delinquere”. Questo passaggio sarà tra l’altro incentivato dal meccanismo che per un individuo il fatto di essere stato carcerato, comporta quasi inevitabilmente una serie di stigmatizzazioni sociali (difficoltà nel trovare un lavoro, perdita di quei pochi beni che possedeva prima della carcerazione, esclusione, emarginazione…).

Quindi il carcere moderno svolge anche la funzione di riprodurre se stesso all’infinito, ponendosi come una autentica fabbrica di soggetti incompatibili alla società e alle sue regole.

In ultima analisi un carcere esige altre nuove carceri, più polizia, più magistrati, più tribunali, più controllo, più allarme sociale, e via dicendo in una spirale perversa che si riproduce indefinitamente.

La retorica dei media funge da fabbrica del consenso, continuando a snocciolare concetti che si rincorrono in sequenza allucinante: criminalità, pericolo, emergenza, carcere, prigione, penitenziario, reato, colpa, pena, crimine, espiazione, colpevolezza, paura, misure di sicurezza…

Il risvolto tragico di questa faccenda è che tutto ciò è originato da null’altro che dalla divisione in classi di questa società (ricchi e poveri, potenti e sottomessi, sfruttatori e sfruttati, oppressori ed oppressi) e dall’esigenza spietata della borghesia di continuare ad accumulare redditi, profitti e proprietà, da difendere con ogni mezzo da una massa sempre più vasta di disgraziati, poveracci e diseredati che preme alle sue porte.

 

E’ urgente più che mai riaprire dal basso il discorso sul carcere in senso abolizionista.

Abolire il carcere è possibile? E’ un punto di partenza o un punto di arrivo? E’ un passaggio riformista o rivoluzionario?

Il discorso sull’abolizione del carcere appare assai complesso, perché va ad aprire un gioco di scatole cinesi: che ce ne facciamo poi delle leggi e dei codici (è evidente che leggi e codici sono pensate e studiate in funzione del carcere e non viceversa!)? E le classi dominanti come espleterebbero la loro necessità assoluta di controllo sociale? E quale provvedimento si potrebbe poi intraprendere nei confronti di chi palesemente ha sgarrato anche solo le regole dettate dal comune buon senso?

E’ evidente che non si può parlare di abolizione del carcere senza pensare alla liberazione globale del genere umano. Il problema è come arrivarci: attraverso una pressione sociale, una serie di lotte che induca il potere a intraprendere una serie di riforme volte ad umanizzare il concetto di pena-espiazione, fino ad arrivare alla progressiva abolizione del concetto di “privazione della libertà”, o attraverso un passaggio rivoluzionario che tutto di un colpo trasformi radicalmente la società umana e i suoi assetti?

Se l’obiettivo è stabilito, ovvero l’abolizione del carcere, possono andar bene sia l’uno che l’altro, dipenderà dal livello di coscienza acquisito dalla gente e dalla sua disponibilità alla lotta.

Ma in entrambi i casi non si può non tener conto che il concetto di abolizione del carcere implica anche necessariamente la soppressione di quelle forme di carcere diffuso, globale o immateriale che dir si voglia, che in un modo o nell’altro ci legano tutti, e che comunque rimandano alla prigionia sociale, al controllo sociale, a quella privazione della libertà che si espleta attraverso una serie infinita di obblighi, norme e divieti; che ci espropria di noi stessi, relegandoci in una sorta di megaprigione sociale, con comportamenti e percorsi autorizzati o vietati.

Il problema fondamentale è elaborare e diffondere coscienza e cultura abolizionista.

Che ognuno prenda coscienza e si adoperi e si impegni come meglio  può per un effettivo salto in avanti del genere umano.

Abolire il carcere non è un’utopia, è una necessità assoluta sulla strada di una società che si voglia minimamente dire “civile”.

Bisogna che ogni individuo si riappropri di tutto ciò che secoli di capitalismo, violenza di stato e narcosi mediatica gli hanno rubato: gioia di vivere e lottare, desiderio di libertà, solidarietà verso gli oppressi, rifiuto alla sottomissione.

Questo è il primo passo per avviarsi sulla strada dell’abolizione del carcere e verso una società che non abbia più bisogno di pene e punizioni per valutare l’operato degli individui, liberata per sempre dai fantasmi ossessivi che la perseguitano e alimentata dalla libertà di tutti, in assenza di discriminazioni e ingiustizie, di classi sociali, di mercificazione dell’esistente, di galere di ogni genere.

 

“Terra terra, là dove siamo e non abbiamo mai smesso di essere, è importante praticare una cultura abolizionista, esprimere ovunque l’importanza della libertà, battersi contro ogni forma di sopraffazione, di negazione, di morte annunciata e differita, nell’universale quanto nel particolare, e viceversa. Io diffido di chi vuole abolire le galere ma, intanto, non fa niente affinché chi ci sta dentro non ne sia strangolato o asfissiato: lì vedo avvoltoi alla ricerca di cadaveri da esibire come ridicoli simboli e poveri stendardi.

(…)

Mai nessuno mi vedrà in campo a favore delle “riforme”, ma sempre mi si vedrà in azione affinché le “riforme” già promulgate vengano estese al massimo.

Abolire il carcere è un processo nel quale l’astuzia, l’intelligenza, il realismo e l’utopismo vanno saviamente combinati, affinché siano un vero cocktail esplosivo.

Per concludere non posso non citare Jonathan Swift (I viaggi di Gulliver) verso il quale ho un perenne debito di intelligenza e di piacere.

<<Sempre era in me il presentimento che un giorno o l’altro avrei recuperato la mia libertà, sebbene mi fosse impossibile immaginare in che modo, né far progetti con la minima speranza di successo>>.”

 

(Riccardo d’Este – da “Abolire il carcere ovvero come sprigionarsi” – Ed. Nautilus – Torino 1990)

 

 

Collettivo Il Mondo Capovolto

imc@freemail.it

 

Maggio 2000

 

Un ringraziamento particolare ai compagni romani di Radio Onda Rossa, al cui ottimo lavoro sul carcere pubblicato sul sito internet Tactical Media Crew all’indirizzo http://www.tmcrew.org/detenuti/homecarc.htm è stato attinto a piene mani per la realizzazione della parte storica di questo documento.

 

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