Le medicine della "formagia".

 

Anche il nostro piccolo villaggio, nonostante gli abitanti 

fossero sempre in buona salute, non era totalmente immune alle malattie, 

soprattutto quelle di origine virale che dalla metà degli anni sessanta 

cominciarono ad infierire sulla popolazione italiana 

e che venivano chiamate con appellativi a dir poco esotici: 

l’Asiatica, la Spaziale e in seguito tante altre che costrinsero a letto 

famiglie intere di nonni, padri, madri e figli. 

Si era colpiti dai sintomi più disparati, 

a cominciare da quelli respiratori, con tutto il corollario 

di fazzoletti da lavare (ancora non si conoscevano i kleenex) 

fino a quelli  (più sconvenienti per non dire imbarazzanti)  

intestinali con le relative fughe alla ricerca dell’unico gabinetto 

del paese perennemente intasato di gente ed altro.

Naturalmente ognuno aveva il rimedio migliore per non essere colpito 

dai terribili virus: c’era chi beveva litri e litri di vino per uccide 

i perfidi piccoli ospiti indesiderati, chi invece fumava il sigaro toscano 

considerandolo un perfetto antibiotico naturale 

e chi si abbuffava di cipolle in tutte le salse, 

rischiando di uccidere per asfissia non solo i virus 

ma anche i parenti che con lui coabitavano.

Le poche medicine che potevano servire allo scopo 

e che non tutti si fidavano ciecamente di assumere, 

venivano comprate nella  “formagia” (come la chiamava l’Esterina) 

del vicino paese di Casinina, dove, una volta alla settimana, 

un abitante a turno si recava per comprare soprattutto  

aspirine e sciroppi espettoranti, vomitevolmente dolci e profumati di fragola.

La prima influenza di cui ho memoria fu la tremenda Asiatica, 

che costrinse a letto l’80 % della     mia famiglia; 

ci salvammo dal contagio solamente io e la nonna 

e per una decina di giorni la nostra sola mansione 

fu quella di dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati 

e pulire i fazzoletti dei raffreddati. 

Dovemmo ricorrere a tutte le scorte di borse dell’acqua calda 

che avevamo, per limitare i brividi sussultori dei malati 

che si accalcavano nei letti di casa: la zia Dina, lo zio Gennaro 

e due dei tre figli in una camera, mia mamma in un’altra, 

il nonno Arturo  lo zio Carlo e il terzo nipote in un’altra ancora, 

e noi due, io e la nonna, gli unici superstiti, a correre su e giù per le scale 

con minestrine e supposte, termometro e coperte, pillole e vin brulè .

Chi non riusciva a respirare, chi non dormiva per il mal di testa, 

chi non voleva mangiare per la nausea e chi aveva più fame 

perché si sentiva tremendamente debole. 

Il rimedio panacea della nonna, per risollevare dalle tremende 

mazzate del virus, era il classico “ovetto sbattuto”, 

magari con un poco di vino santo in mezzo che non faceva mai male. 

Consumammo così tante uova in quei giorni che, presumo, 

che le nostre galline, cominciarono a pensare 

di essere state condannate ai lavori forzati.

Nelle case dei vicini la situazione non era certamente 

più rosea della nostra, praticamente tutti in paese contrassero 

il virus quasi nello stesso momento e il risultato fu che 

Case Nuove si era trasformata, in due giorni, 

in un piccolo Cottolengo o meglio ancora, un paese fantasma, 

dato che le uniche persone che si muovevano fuori delle case, 

erano quelle che transitavano sulla strada provinciale, 

all’interno delle poche macchine che passavano di là.

Quello fu un periodo di grandissimo lavoro per il dottore 

di famiglia, che poi era lo stesso per tutti gli abitanti del paese 

e, presumo, anche per le borgate vicine, finchè poi, 

alla fine, si ammalò anche lui  e la sanità locale, 

rischiò una delle prime paralisi totale.

Ma come tutti i virus anche quello passò, senza d'altronde portare 

con se nemmeno un abitante del paese; l’unica a lasciarci 

fu la gatta di una vicina, che arrivata alla veneranda età di 24 anni 

decise che quello fosse il periodo migliore per tirare le cuoia e 

scelse di passare a miglior vita.

Io e la nonna restammo indelebilmente scritti negli annali 

dei ricordi del paese, per la nostra strenua resistenza al virus 

e la profonda abnegazione con cui ci adoperammo per alleviare 

le sofferenze dei sofferenti parenti. 

Per me fu una bella soddisfazione: avevo all’ora soltanto 9 anni  

e quella fu la prima e l’ultima volta che non mi ammalai di influenza. 

Durante tutti gli inverni successivi infatti, bastava che leggessi 

qualche cosa che parlava di epidemia virale o quardassi in televisione 

un servizio sul virus di turno, che immediatamente piombavo a letto,  

sperimentando così anch’io, sulla mia pelle, l’assistenza domiciliare parentale.