La scuola elementare

 

L’edificio della scuola elementare, nel paese dove vivevo

era in posizione  dominante rispetto a tutte le altre case:

proprio a capo della fila di abitazioni per chi proveniva

da Sassocorvaro, di fianco comunque al gabinetto pubblico.

Era la gioia mia ed il terrore di mio cugino, che

non ha mai nascosto la sua scarsa affezione per quelle

quattro mura di intonaco e mattoncini rossi.

Le aule erano solamente due, al piano superiore e in quelle

contigue sottostanti si alternavano in base agli anni

o alle disponibilità finanziarie comunali: la mensa per gli alunni,

lo studio del medico del paese o la camera per la maestra

immigrata da Urbino ed impossibilitata, allora, a raggiungere

la sua vera abitazione a causa dei collegamenti pubblici inesistenti.

Naturalmente le aule erano pluriclasse, da una parte prima e seconda

elementare, e dall’altra le restanti tre classi e le maestre

erano addirittura due per un totale di 25 – 30 bambini.

Due piccole stufe fumose a legna provvedevano

al riscaldamento durante l’inverno, mentre i grandi finestroni

che davano sulla provinciale ci permettevano di scrutare dall’alto

il traffico di auto e di persone che si avvicendavano sulla strada.

La dotazione standard delle classi comprendeva oltre ai banchi,

ancora con il buco per il calamaio, anche alcune cartine geografiche

appese alle pareti, che mi hanno sempre affascinato, con tutti quei

colori dei vari paesi e regioni sia europei che mondiali, e che

mi hanno fatto nascere fin d’allora la voglia di vedere e di

conoscere il mondo.

La lavagna girevole era posta in un angolo delle aule, lontana dalle

teste dei bambini ma che comunque molte volte si trovavano in rotta

di collisione con il problema o il compito da ricopiare

scritto dalla maestra su ambedue le facciate.

La cosa più pittoresca era sicuramente la presenza degli scolari,

quella eterogenea accozzaglia di diavoletti che si paralizzava

immediatamente alla prima occhiataccia dell’Elvezia: allora

c’era un pochino più di rispetto nei confronti della maestra!

Molti di noi erano bravi scolaretti, qualcuno svogliato,

altri decisamente vagabondi; c’era chi non ci arrivava

nemmeno se studiava per una intera settimana, chi frignava in

continuazione, chi finiva in castigo fuori della porta oppure

in ginocchio in un angolino e, terrore totale, addirittura con

i ceci sotto le ginocchia.

Questo speciale supplizio a noi non è comunque mai capitato:

si vociferava che fosse in vigore

ancora fino a qualche anno prima, ma poi dall’abolizione

della santa inquisizione, fosse sparito anche dalle scuole pubbliche.

Bastava però il solo pensiero per tenerci calmi e tranquilli.

Le lezioni cominciavano alle otto, senza il suono della campanella,

perché non c’era; proseguivano indisturbate fino alle dieci

quando cominciava quella che per noi era la cosa più bella

della scuola: la ricreazione che durava ben più di 40 minuti.

Nelle belle giornate primaverili o di inizio estate, si poteva

giocare all’aperto, di fianco al gabinetto pubblico, e nella

maggior parte dei casi i giochi preferiti erano “Tana” ovvero

l’italianissimo “Nascondino” oppure “Fazzoletto” e qui succedeva

sempre che qualcuno si sbucciasse le ginocchia cadendo

rovinosamente sulla breccia o sull’asfalto.

C’era naturalmente anche il momento per gustare una squisita

merenda, consistente quasi sempre in una fetta di pane bagnato con

sopra dello zucchero, oppure con dell’olio e un pizzico di sale.

A volte poi si poteva comprare qualche biscotto o “mignino”

nell’attiguo negozio di alimentari gestito dalla Lena.

Un anno particolare, la merenda più gettonata erano le “cingomme”,

vendute sfuse a 10 lire l’una, perché in ogni pezzo si poteva

trovare un francobollo diverso, originale e timbrato, appartenente

a molti paesi europei: ricordo bellissimi quelli della Magjar Posta,

e la ricerca spasmodica del rarissimo “postiglione”

che nessuno mai è riuscito comunque a trovare.

Terminata la ricreazione si rientrava in aula e vi ci si rimaneva fino

a mezzogiorno e un quarto, minuto più minuto meno,

quando la maestra decideva che era arrivata l’ora di tornare a casa.

Tutti uscivamo urlando, felici e contenti ma prudenti per non finire

travolti dalle auto che transitavano proprio a tre metri dal portone

della scuola; e si tornava a casa a piedi, pian pianino, chi attraversando

il ponte per andare di là dal fiume, chi prendendo il sentiero di

campagna, chi facendo solo pochi metri come me, che abitavo

esattamente  a trenta metri dalla scuola.

Io comunque ho sempre pensato che i più fortunati, non eravamo noi

di Case Nuove, ma i bambini di Fontanelle, il paesino ad un chilometro

di distanza dove abitava a maestra: e questo perché quando era ora

di tornare a casa, questa bella comitiva formava una lunga fila ordinata

di grembiulini a scacchi azzurri e rosa che seguiva diligentemente

la “Signora Elvezia” proprio come una fila di pulcini corre

dietro alla mamma chioccia.

Era veramente uno spettacolo che non dimenticherò mai.