Anselmo Morelli  

 

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    Anselmo Morelli  “ricevitor postale” e poeta popolare “di frontiera”

 

   Sembrerebbe sussistere un dato “oggettivo” da cui partire per un’esegesi della produzione poetica di Anselmo Morelli, un dato che sarebbe nelle cose, e che parrebbe addirittura inscritto nel titolo da lui stesso voluto per la raccolta delle sue liriche: “poesie popolari”. Il condizionale è però d’obbligo, perché, come vedremo, le cose non sono poi così semplici come potrebbero apparire a prima vista,

     Non si conoscono, e probabilmente non si sapranno mai, le ragioni per le quali un ufficiale, un “professore di italiano” (V. la poesia omonima, “Ad un professore d’Italiano”), nel corso della “Grande guerra”, si mostrò insensibile e indifferente di fronte alle poesie di Morelli, il quale lo aveva pregato di esprimere un giudizio su di esse. Forse l’ufficiale pensò che non fosse quello il momento opportuno per dedicarsi a faccende minime, come la raccolta di poesie di un suo subalterno, ma, trattandosi di un “professore di italiano”, è molto probabile che un qualche cosa di “molesto” gli fosse scattato nella mente alla lettura del titolo delle liriche di Morelli: “poesie popolari”, che era come dire, per un borghese colto del tempo,  e per di più  letterato,  “cose da nulla”.

      In effetti la poesia popolare non godeva di buone credenziali tra gli addetti ai lavori tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, ed era a tutti gli effetti considerata “poesia inferiore”, nonostante, a onor del vero, in Italia si fossero avviati sin dalla metà dell’Ottocento studi appassionati sulla letteratura popolare, con esiti davvero eccellenti, grazie a studiosi come il Pitré, Alessandro D’Ancona, il Barbi, il Santoli, il Nigra e, per l’area ferrarese, Giuseppe Ferraro. E’ da cinquant’anni a questa parte che, sull’onda delle problematiche suscitate dall’ intervento di Benedetto Croce su Poesia popolare e poesia d’arte, la letteratura popolare è stata rivalutata in tutti i suoi aspetti, conseguendo alla fine un proprio statuto autonomo, che non solo le ha permesso di superare il confine che la divideva dalla poesia “alta”, ma di assumerne del pari eguale dignità letteraria e scientifica. (1)

    Tuttavia, e in via preliminare, occorre intendersi allorché si discute di “poesia popolare” o di letteratura popolare in senso lato.

   La nozione di “poesia popolare” o di letteratura popolare non è poi così limpida e chiara come potrebbe apparire. Quando poc’anzi si alludeva agli studi sulla letteratura popolare, ci si riferiva alla produzione popolare in senso stretto, di natura eminentemente folclorica e spesso in dialetto.  Nel caso delle “poesie popolari” di Morelli le cose cambiano, e di molto. Si Accennerà qui brevemente, rimandando il lettore agli approfondimenti successivi, agli aspetti effettivamente “popolari” delle poesie di Morelli, distinguendoli da quelli che egli credeva fossero tali.

   Nel senso appena indicato, il caso più macroscopico è costituito dalle poesie di guerra, che  sono solo latamente “popolari”, e non tanto per la metrica, che riflette le forme della più genuina tradizione popolare, o per il tema in sé, largamente presente nella “cultura” del popolo, quanto per il fatto che esse non sono alternative rispetto all’ideologia della classe dirigente dell’epoca, e anzi ne rispecchiano fedelmente il punto di vista. Un dato basilare da cui partire è la constatazione che le poesie di guerra effettivamente popolari in special modo relative alla prima guerra mondiale sono sempre “di protesta”, e mai accondiscendono a giustificazioni di essa.  Una poesia che potrebbe avere le carte in regola, pur riferendosi a eventi precedenti la “Grande Guerra”, per essere accostata al canto popolare vero e proprio potrebbe essere, per esempio, quella di Ulisse Barbieri (Mantova, 1842 - S. Benedetto Po, 1899), il quale così criticava l’intenzione del governo di inviare ancora soldati in Abissinia dopo la sconfitta di Dogali (1877): “No, non è patriottismo, no, per Dio!!!/Al massacro mandar nuovi soldati,/Nel tener … quei che si son mandati/Perché dei vostri error paghino il fio!/Ma non capite… o branco di cretini…/Che i patriotti… sono gli Abissini?”. (Le sottolineature nel testo sono dello stesso Barbieri).(2)   Sulle ragioni per le quali Morelli “vedeva” le proprie poesie di guerra come espressione dell’animo popolare si ragionerà fra breve.

   Possono, al contrario, essere inscritti entro un ambito schiettamente “popolare” certi ritratti che egli ci consegna di se stesso,  che, povero “ricevitor postale”, sa vedersi realisticamente al di fuori di ogni mascheramento ideologico, perché l’animus popolare si evidenzia laddove c’è protesta morale per l’ingiustizia patita o per la condizione esistenziale precaria; oppure nelle “cronache” ch’egli sa fare della vita di paese, o ancora nel reiterato gusto per la sentenza gnomica, greve di un pessimismo profondo per come vanno le cose di questo mondo. E infine, Morelli può a giusta causa dare il titolo di “popolare” al suo canzoniere, sia pure con i distinguo proposti, perché esso è il frutto maturo di un uomo di estrazione popolare, un contadino, “un figlio del popolo”, per sua stessa definizione.

   Ma torniamo al motivo per cui Morelli riteneva “popolari” le sue canzoni di guerra. Morelli era profondamente convinto  che la sua poesia confluisse nell’alveo del grande fiume della “poesia popolare”, senza però sospettare che “quel tipo” di produzione  rispecchiava semplicemente il concetto di “popolarità” così come l’intendevano i romantici, e in particolare Berchet, che ne fu il divulgatore e il più acceso sostenitore. Per Berchet “la poesia deve essere popolare”, e, per essere funzionale a tale fine, deve essere educativa,  per vari versi sentimentale, ma, soprattutto, radicare nell’animo dei lettori l’amore per la patria. (3) Attraverso l’Ottocento,  il “verbo” romantico trovò una folta schiera di interpreti, che, in versi rapidi, di facile memorizzazione, diffusero la morale patriottica e civile.  Anche quelle ariette, che correvano sulla bocca di tutti, come la famosa “Addio, mia bella, addio,/l’armata se ne va”, di Carlo Alberto Bosi (1813-1886), o quell’altra di Arnaldo Fusinato (1817-1889) (“Il morbo infuria, il pan ci manca,/Sul ponte sventola/Bandiera bianca”), o “La spigolatrice di Sapri” di Luigi Mercantini (1821-1872) (“Eran trecento, eran giovani e forti,/E sono morti”), erano “popolari” nel senso che correvano sulla bocca del popolo, ma non erano composte da personaggi di estrazione popolare: Bosi e Fusinato erano avvocati, Mercantini era insegnante. (4) Morelli era un poeta semicolto, e quello che non poteva sapere era il fatto che la poesia “patriottica” propugnata da Berchet e da una folla innumerevole di epigoni non era fatta dal popolo, ma per il popolo, ovvero per veicolare nel “ceto medio” i valori della classe dirigente del tempo.  Morelli testimonia che l’operazione è perfettamente riuscita.

   Tale eredità fu poi raccolta da Carducci, il quale metteva “l’Italia sopra tutto” e “sognava, sopra tutto, un’Italia guerriera”. (5) Come vedremo, la poesia “di guerra” di Morelli ha in questi ideali i suoi principi ispiratori, che poi ebbero modo di manifestarsi in pieno quando scoppiò la prima guerra mondiale. Nato nel 1879, cominciò probabilmente a scrivere poesia agli inizi del Novecento: la sua prima lirica datata risale infatti al 1903. Poiché aveva la licenza elementare, è probabile che la sua formazione culturale sia stata quella dell’autodidatta, con scarsi strumenti formativi a disposizione. Ma è altrettanto probabile che sia l’aula scolastica sia le successive letture lo abbiano messo in rapporto con il concetto di “poesia popolare” così come l’intendevano i romantici.   A livello  tematico, si dice, la “poesia popolare” è tipica, anzi, la “tipicità” ne costituisce l’essenza. Ora, uno dei temi canonici della poesia popolare agli inizi del Novecento fu quello della “Grande Guerra”: un evento epocale, che significò, soprattutto, un patimento collettivo di popolo cui mai fosse stato dato di assistere in Europa. Un evento talmente apocalittico che, ricorda Isnenghi, il reduce della “Grande Guerra”, in una qualsiasi discussione, prima o poi, tornava a parlare della sua “ossessione”, ovvero di “quella guerra”. (6)

   E’ un fatto che la poesia popolare ci ha tramandato canti  di guerra che, ancora oggi, molti conoscono a memoria. Infatti, il “popolare” è dato soprattutto dalla vastità e dall’intensità della tradizione, nonché dalle varie elaborazioni cui è stato sottoposto il tema. In questo senso, una cultura veramente “popolare” la si osserva, rileva De Mauro, durante la prima guerra mondiale, quando il canto di guerra, di dissenso e di protesta, diviene canonico e generalizzato.  Le canzoni dei soldati, sottolinea ancora De Mauro, “raramente sono ispirate a odio per il nemico”, ma essenzialmente alla “disperazione per la partenza”, alla “sofferenza per la lontananza” e, infine, alle “privazioni”. Alcuni esempi: “ E’ col cifolo del vapore/la partenza del mio amore./E’ la partenza de lo mio amore/chi sa quando ritornerà”.

“Se avete fame guardate lontano/ se avete sete la tazza  alla mano/se avete sete la tazza alla mano/ che ci rinfresca la neve ci sarà”. E infine: “ Monte Nero monte rosso/traditore della vita mia/ ho lasciato la mamma mia/ per venirti a conquistar./ Per venirti a conquistare/ ho perduto tanti compagni/ tutti giovani sui vent’anni/ la sua vita non torna più./ Colonnello che piangeva/ a veder tanto macello/”Fatti coraggio alpino bello/ che l’onore sarà per te”.

   Il canto popolare dei soldati, dunque, era “di protesta”: si denunciavano gli inutili spargimenti di sangue, la rigidità della disciplina, la lontananza da casa protratta per molti mesi, e il morire per  “l’onore” non faceva parte di una categoria morale sentita a livello di popolo. Quasi una “summa” del modo di sentire le guerra da parte della poesia popolare è “Gorizia”:

 La mattina del cinque di agosto

Si movevano le truppe italiane

Per Gorizia, le terre lontane,

e dolente ognun si partì.

Sotto l’acqua che cadeva al rovescio

Grandinavan le palle nemiche;

su quei monti, colline, gran valli

si moriva dicendo così:

“O Gorizia tu sei maledetta

per ogni cuore che sente coscienza;

dolorosa ci fu la partenza

e il ritorno per molti non fu, ecc. (7)

 

 

   E’ pertanto un dato di fatto che nella poesia “di guerra” di Morelli c’è un’evidente  dissonanza rispetto al tono dei “canti” popolari dello stesso genere. E in effetti la sua produzione relativa alla guerra non si può  davvero inquadrare nel solco della poesia popolare “di protesta”, ma, al contrario, lo si ribadisce, la sua voce fece eco a quella dei tanti “letterati”, che esaltarono la forza e il coraggio dell’Italia carduccianamente “guerriera”.  Il che non significa che Morelli non sentisse profondamente il senso d’angoscia che accomunava tutti i soldati; solo che in lui, accanto al  senso di raccapriccio, alla denuncia dei disagi per la lontananza dalla casa e dalla famiglia, c’è qualcosa in più, ovvero la ricerca di una giustificazione, o, per meglio dire, delle ragioni, quasi sempre  patriottiche, della grande guerra. Voglio qui dire subito che personalmente credo nella sincerità del sentimento patriottico di Morelli, che anzi lo sostiene anche nei momenti più duri del distacco dai figli e dalla famiglia, tanto più amaro perché, al momento del richiamo alle armi, egli era già “un vecchio del ’79”. A intendere le ragioni del sostanziale “consenso” di Morelli alla guerra, è necessario in via preliminare esplorarne ulteriormente le matrici sociali e la formazione culturale.

   Morelli, già l’abbiamo notato, era nato nel 1879 e aveva fatto le elementari. Si era affacciato al mondo della scuola intorno alla metà degli anni ’80, proprio in uno dei momenti cruciali dell’impegno della classe dirigente di allora verso quella che veniva definito il problema “dell’istruzione popolare”. Il tema era a dir poco lacerante e dalla sua soluzione dipendeva il controllo di una società che dava sempre più marcatamente segni di insofferenza. Dei primi anni ‘80  è lo scoppio della protesta rivoluzionaria della “Boje”; socialisti e anarchici sembrano mettere a prova durissima gli apparati di controllo, prefetti e polizia. Gli scioperi si susseguono a un ritmo sempre più incalzante, con adesioni sempre più massicce di contadini e operai. La scuola è chiamata, sin dagli albori dell’Unificazione, a svolgere un ruolo di coesione sociale attraverso la trasmissione di valori forti, che si potrebbero riassumere in alcuni punti di fondo: istruzione religiosa al primo posto, poi, a seguire, esaltazione della casa regnante; quindi, a creare, come si diceva, “uomini operosi, intelligenti, sobrii, amanti del lavoro e del risparmio”. Si diffuse in Italia, attraverso un’editoria popolare in fortissimo incremento, il cosiddetto “smilismo”, da Samuel Smiles, fautore dell’etica del “self-help”, in cui “si enunciava le tavole di valori a cui era indotto a uniformarsi nella sua quotidianità l’italiano medio”, nel tentativo “di propagare una “forma mentis” adatta all’industrialismo, fondata sull’etica del lavoro, del sacrificio, del risparmio, della perseveranza e della previdenza”. Michele Lessona propagandò tali idee nei manualetti popolari Hoepli, traducendo efficacemente l’ “help-self” inglese con un “Volere è potere”, pubblicato a Firenze nel 1869. Il libro avanzava per proverbi: “ Chi tempo ha e tempo spetta, tempo perde”, “Chi non s’avventura, non ha ventura”, e via di questo passo. (8)

    Dal 1886, anno in cui Morelli iniziava la scuola, circolava nelle aule un libretto la cui lettura fu canonica fin oltre la metà degli anni ’50 del Novecento: Cuore, di De Amicis. Ricordo brevemente com’è strutturato il libro, scandito opportunamente in “letture mensili”: Il piccolo patriota padovano, Il piccolo scrivano fiorentino, Il tamburino sardo, Sangue romagnolo, Valore civile, Dagli Appennini alle Ande. Ma soprattutto, ciò che veniva veicolato nelle menti dei giovani scolari erano alcuni valori che dovevano diventare un patrimonio non soltanto dei ceti borghesi, ma di tutti:  il merito, lo studio e il lavoro, l’assoluto rispetto del potere e della gerarchia, patria e onore ( due parole chiave di Morelli). Queste sono le “fonti” della cultura di Anselmo Morelli, che tornano martellanti e insistenti nella sua poesia. Ma vediamo un po’ più da vicino cosa prevedeva la legge Casati del 13 novembre 1859, n° 3725, all’art. 315, per l’istruzione elementare inferiore. Anzitutto, la legge raccomandava soprattutto la lettura. E così proseguiva: “ L’istruzione del grado inferiore comprende: l’insegnamento religioso, la lettura, la scrittura, l’aritmetica elementare, la lingua italiana, nozioni elementari sul sistema metrico”. Il manuale più diffuso nelle scuole elementari era quello di Giovanni Scavia, improntato in larga parte sul concetto di “dovere”: Libro del popolo, ossia trattatello d’igiene, esposizione dei doveri dell’uomo…, esempi di lettere, conti, suppliche, ad uso delle scuole rurali e serali. Pubblicato nel 1860, nel giro di cinque sei anni ebbe ben cinque edizioni. Nella Parte Seconda, relativa ai “doveri dell’uomo”, al capo I, si leggeva: “Doveri verso Dio. Della fede. Della Speranza. Della carità. Del culto dovuto a Dio”. Nel capo II erano illustrati i “doveri verso di noi”, nel III i “doveri verso il prossimo” e nel IV i “doveri d’urbanità”. Tra i “doveri del cittadino” ce n’erano alcuni interessanti, relativi al concetto di “economia”, ma che in pratica riguardavano il rapporto ricchi-poveri, ponendo l’accento sul concetto del “risparmio” e del, diciamo così, “sapersi accontentare”. Sentiamo Scavia: “E qui pure cadono in acconcio alcune massime di economia domestica, quanto comuni, altrettanto utili ai padri di famiglia. Se un uomo non sa fare un po’ di risparmio a misura che guadagna, morrà povero dopo di avere logorato la vita nel lavoro… Il povero che vuole passare per ricco finisce a somiglianza della rana, che voleva diventar grossa come il bue. A forza di gonfiare scoppiò”. Per quanto riguardava lo studio della lingua italiana, la legge Casati prevedeva il seguente programma: “ Figure grammaticali. Norme intorno ai principali generi di componimento. Racconti morali e storici ritratti specialmente dalla storia patria (corsivo mio). Descrizioni. Favole. Lettere ed altri scritti di più comune uso. Esercizi progressivi di calligrafia”. Dall’esempio di una pagina  di manoscritto riportato da Raminelli nella sua silloge, curata in modo encomiabile, in effetti si può affermare che Morelli aveva una grafia molto bella, e si nota che dietro di essa c’è della “scuola”. Sempre per la lingua italiana si prevedevano: “Esercizi di scrittura sotto dettatura. Studio della prima parte della grammatica. Racconti, lettere e altri scritti semplici e di uso pratico aiutati anche da una traccia”. In genere gli esempi e le “poesie da mandare a memoria”, la cosa era molto raccomandata, erano di autori “classici”: Petrarca, Boccaccio, Annibal Caro,  Gaspare Gozzi, Redi, ecc. (9)   E’ evidente che, con tutta quella sequenza ininterrotta di “doveri”, per Morelli il senso della gerarchia assumeva un valore quasi metafisico. Infatti, anche di fronte a palesi ingiustizie perpetrate dai superiori in lui non c’è mai lo scatto rabbioso della rivolta, ma, al massimo, la rampogna di carattere morale, e poi la rassegnazione.   Quindi era con questa formazione che Morelli si affacciava al grande evento della prima guerra mondiale. Ma c’è ancora qualcos’altro da considerare. La licenza elementare offriva a Morelli l’ opportunità di accedere ai pubblici uffici, tanto è vero che egli diventò “ricevitor postale”. Si trattava di un impiego non ben remunerato e faticoso, ma socialmente più che rispettabile, che tra l’altro letteralmente lo sottraeva alla condizione contadina e popolare di partenza, inserendolo a stretto contatto con la borghesia colta di Serravalle: i suoi rapporti di sostanziale amicizia, mista a una sorta di timore reverenziale con il medico del paese, “uomo colto” e anche con i vari sacerdoti succedutisi a Serravalle lo ammettevano fra coloro che “sapevan di latino”. Ma il suo lavoro quotidiano lo poneva a contatto soprattutto col popolo, al servizio del quale egli spendeva quasi tutte le sue energie, in una stanzetta d’ufficio angusta e fredda, tanto che la nebbia vi penetrava all’interno, gelando d’inverno “ufficio e ufficiale”.

In tal senso, Morelli in effetti è un uomo “di frontiera”, a metà strada tra la cultura borghese, in mezzo alla quale era stato cooptato in forza della professione, e il popolo, in cui affondavano le sue radici sociali e culturali. (10)  Proprio in virtù di questa sorta di dimidiazione, la sua “poesia popolare” risente delle spinte ideologiche di entrambe le culture , anche se quella “borghese”, specie nelle poesie di guerra, ha una presenza estremamente forte, soprattutto perché verso la fine dell’Ottocento le armi dell’ideologia e della propaganda si fecero sempre più insistenti e raffinate, proprio in quanto rivolte a un ceto medio impiegatizio a cui Morelli può e deve essere ascritto. In una società come quella italiana tra fine Ottocento e inizi del Novecento il ceto dei “semicolti” diventa la cerniera di congiunzione tra la classe dirigente, e i suoi valori, e il popolo: esso funge, come osserva acutamente Ernesto Ragionieri, da vero e proprio “mediatore del potere”. (11) Si trattava dunque di persone “acculturate”, che sapevano leggere i giornali, ma che non disponevano di ulteriori strumenti critici di verifica, per cui erano destinate a diventare le prime vittime incolpevoli della propaganda. Non è per attenuare la posizione di Morelli, ma in effetti erano ben pochi, nell’Italia liberale, che potevano vantarsi di conoscere “come stavano le cose”, specie in materia di politica internazionale. Fu solo durante il fascismo che fu fondato l’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) che, pur tra mille precauzioni, aveva un suo bollettino scientifico abbastanza diffuso, la “Rassegna di politica internazionale”, letta dagli addetti ai lavori del Ministero degli Esteri, ma abbastanza conosciuta anche nelle scuole superiori e rivolta a insegnanti e studenti. Con tutto ciò, la “Rassegna” e la biblioteca dell’ISPI erano comunque per pochi privilegiati, e la grande massa della popolazione era più che altro debitrice delle sue “conoscenze” di politica estera a una stampa controllata. “ E’ sbalorditivo”, commentava incredulo Gioacchino Volpe, nazionalista e storico del fascismo, e pertanto non sospetto di partigianeria, “è sbalorditivo … che delle migliaia e decine di migliaia di italiani abbiano invocato la guerra, abbiano fatto la guerra, avendo in tasca due o tre formulette: “libertà e giustizia”, “principio di nazionalità” e simili…”. (12) Poco prima dell’intervento dell’Italia in guerra il Ministero dell’Interno emanò una circolare “riservatissima” ai prefetti del Regno, con lo scopo di sondare quali fossero gli umori dell’opinione pubblica rispetto a un probabile intervento dell’Italia. Da Nord a Sud le risposte dei prefetti furono inequivocabili: lo “spirito pubblico” era contrario alla guerra.  “Propende la maggioranza per la neutralità” (Regia Prefettura di Torino); “la grandissima maggioranza della popolazione… non invoca né desidera la guerra” (Regia Prefettura di Cuneo); “ La grande popolazione  di questa provincia è contraria a una eventuale entrata in guerra” (Regia prefettura di Roma); “la gran maggioranza della popolazione concepisce la guerra non altrimenti che come un malanno a somiglianza della siccità, della carestia, della peste” (Regia prefettura di Taranto); e così via anche per le “Regie prefetture” di Caserta, di Bari, di Cosenza, di Catanzaro, di Palermo.     Ma  l’idea di una facile guerra di conquista allettava le menti di molti esponenti del governo, da Salandra a Sonnino, in quanto all’inizio del 1915 l’Austria sembrava già in crisi a causa de dei rovesci sul fronte orientale e serbo. Il famoso “Patto di Londra” prometteva all’Italia, in caso di sconfitta dell’Austria, ricompense territoriali di tutto rispetto, dal Trentino al Tirolo, da Trieste a Gorizia e molto altro ancora. Il problema più delicato da risolvere consisteva nell’individuazione dei modi attraverso cui convincere l’opinione pubblica della necessità della guerra. Si puntò allora sul concetto di “libertà dei popoli” dal dominio della “piovra” austro-ungarica. E infatti su vari giornali dell’epoca l’impero austriaco, che diventa “l’impero della preda ossia la Piovra d’Absburgo”,  è rappresentato appunto “graficamente” come una possente piovra che stritola nelle sue spire la Boemia,  “regno indipendente violentemente assoggettato dall’Austria nel 1627”; la Galizia, “strappata alla Polonia nello smembramento del 1772”; il Trentino, “strappato al Regno italiano nel 1815, per garantirsi la strada verso la valle del Po”; l’Istria, “ terre della Repubblica Veneta fino al 1797 sacrificate all’Austria”. E così la “piovra” va a stritolare Croazia e Slavonia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia ed Ungheria. Le maggiori testate giornalistiche, a partire dal “Corriere della Sera”, che già dalla guerra di Libia aveva raggiunto il mezzo milione di copie, spingono per la guerra, esasperando il patriottismo, e coinvolgendo un sempre maggior numero di persone. (13) La cosa fu notata all’epoca dal nostro ambasciatore a Berlino, Riccardo Bollati, che nel 1914, alla vigilia del nostro intervento, riguardo alla feroce campagna antiaustriaca dei giornali, scrisse fuori dei denti: “ … Un centinaio di giornalisti si trascinano dietro una massa di brave persone e ignoranti (corsivo mio), le quali credono di avere compiuto il loro dovere verso la patria gridando: Abbasso l’Austria! Questi giornalisti, gli uni per infame avidità di lucro, gli altri per vanità e debolezza, si addossano una immane responsabilità”. (14) Ma cosa intendeva il nostro ambasciatore a Berlino allorché riconosceva amaramente che la politica estera italiana era stata gestita in modo dilettantesco lasciandola in mano a una stampa più o meno “avida di lucro” o “debole”? Stigmatizzava essenzialmente il fatto che  fossero rimaste inascoltate le voci dei veri “competenti” di politica internazionale, ovvero quella sua e di altri ambasciatori, i quali erano giunti, attraverso un lungo lavorìo, e con l’appoggio tedesco, a far sì che l’Austria fosse disponibile a una cessione del Trentino in cambio della neutralità. E poi, si faceva notare, nessuno in Europa tra le maggiori potenze, dalla Germania alla Francia e all’Inghilterra, aveva un reale interesse alla dissoluzione dell’impero austro-ungarico, ritenuto un “tampone” indispensabile in funzione anti-russa. “Per avere in Europa centrale un tampone assolutamente necessario – sosteneva il barone Battaglia – contro l’avanzata russa verso occidente… e contro quella tedesca verso il Sud, non era forse necessario conservare l’Austria-Ungheria, anche mutilata?”. (15) Il neutralismo fu invece messo in crisi sia dai nazionalisti sia dai cattolici, con ovvia esclusione del Vaticano, che però lasciò larga autonomia decisionale alle organizzazioni cattoliche. In questo senso, studi molto approfonditi sul comportamento dei cattolici tra guerra e neutralismo hanno portato a conclusioni per cui “ il presunto neutralismo cattolico viene fuori drasticamente ridimensionato ai soli gruppi di Miglioli e dell’ “Unità Cattolica”. Per le altre componenti si va da un atteggiamento “salandrino” al più sfrenato lirismo bellicista…”. (16) L’osservazione è storicamente giusta, ma va attenuata  con i rilievi di  Scoppola, il quale osservò che era pur vero che  molti giovani delle associazioni cattoliche erano diventati interventisti, ma rifacendosi al solito leit-motiv largamente diffuso nell’Italia di allora, ovvero che essi “si rifanno al motivo delle libere nazionalità oppresse dall’Impero austro-ungarico, si rifanno alla tradizione mazziniana del nostro Risorgimento, Si tratta dunque di un interventismo che ha motivazioni opposte a quelle prevalenti nell’opinione pubblica italiana…. di tipo nazionalista”. (17) Il che costituisce un’ulteriore riprova del fatto che quasi nessuno in Italia sapeva come stavano effettivamente le cose in politica estera, e che  “ignoranti” erano quasi tutti gli italiani. Le voci del buon senso dei nostri diplomatici, voci invero flebili e un po’ troppo chiuse dentro il “Palazzo”, erano sommerse dai clamori della propaganda interventista.

Ed ecco che anche Anselmo Morelli vede nella “Grande guerra” la risposta giusta alla tirannia austriaca, che tiene sotto il tacco i popoli, invadendo impunemente paesi liberi come il Belgio. L’Italia vede, e chiama a raccolta i suoi figli, segnando a dito  “il vile oprar” del “barbaro selvaggio”, che aveva impunemente infranto il diritto delle genti:

 

 

 

 

“Grido di guerra” (1917)

 

 

Sentisti, o patria! Disperato il grido

Appellator della sorella Belga,

che lacerando l’aria

dall’una all’altra terra,

tutta la sfera avvolse.

   Brandisti allor fremente

L’arme temprate al fuoco

Sui campi libici…

   Fremesti! E tutti i figli tuoi chiamasti;

e tendendo la destra man segnasti

il vile oprar del barbaro selvaggio

ch’aveva il dritto delle genti infranto.

   L’anima tua gentil pianse di sdegno,

e non curando l’aspro e duro impegno,

contro l’usurpator, nembi d’armati

a vendicar spingesti. (“Grido di guerra”, 1917. Non antologizzata)

 

Nell’ultima quartina v’è la pezza giustificativa della necessità dell’intervento in guerra: non si può rimanere inerti di fronte all’ “usurpator”, per cui l’Italia scaglia contro di esso, incurante di ogni sacrificio, “nembi d’armati”, vendicatori del diritto delle genti, infranto dal “barbaro”. Morelli tornerà ancora, con argomentazioni simili, in un’altra lirica di guerra, cercando di far riflettere le mogli e le madri che hanno perduto rispettivamente i mariti e i figli. Egli, nel suo tentativo “consolatorio”, cerca di far “ragionare” le vedove e le madri, facendo loro notare le “reali” ragioni del conflitto. Morelli, tra l’altro, conosceva molto bene i motivi per i quali circolava tra il popolo un’avversione profonda al concetto di “patria” e del conseguente “morire per la patria”. Ma quale “patria” hanno i miseri braccianti, osserva Morelli facendosi apparentemente interprete della protesta popolare, non cittadini ma “servi”, che non possiedono nulla, né il campo sul quale faticano né la casa in cui riposano stanchi la sera? E’ questa la “traduzione” poetica di un sentimento diffuso tra il fante-contadino della “grande guerra”,  un tema ripreso da un canto contadino, del 1919, di area meridionale:

 

 

Sta campagna nun è nosta

Comm’è nosta sta fatica…

 

 

 

 

 

 

Di quale patria fu l’estinto servo?

E da qual legge si lasciò sedurre

Contento ad inchinar al suol protervo

L’umile corpo e come agnel condurre?

   Se il fruttifero campo suo non era

Né il frutto delle membra faticate

Nemmen la casa che l’albergava a sera

Di quale patria allor voi mi parlate? (“Il pianto”, del 1917, non antologizzata)

 

 

   Nella “risposta” a una simile domanda, Morelli si mostra un vero e proprio “mediatore del potere”, in quanto si fa portavoce delle promesse, che furono tante, specie dopo Caporetto, di nuove riforme sociali, tra le quali campeggiava quella della “terra ai contadini”. Infatti, dice Morelli, ci sarà una nuova età dell’oro, perché “l’antica servitù è finita”: gli “ordigni” di guerra saranno tramutati in macchine utili a spianare i monti e a solcare i mari, e tutti saranno affratellati in un’unica grande nazione, “sotto una sol bandiera”. Ma poi, prosegue ancora Morelli, voi vedove e voi madri vi siete mai chieste di chi fu la colpa di “ un sì vasto eccidio”?

 

Ma la gran colpa d’un sì vasto eccidio

Non lo pensasti mai, né lo chiedesti…

E ritorna la risposta di sempre: la colpa fu dell’ “usurpator”, che pretendeva di farla da padrone in casa altrui. Nessuno, nemmeno il più pavido, poteva rimanere “inerte” di fronte a un simile sopruso.

 

Quando v’è chi al debol dettar vuol legge,

Chi altro insensibil può restare inerte?

Nemmen il debole si tien l’oltraggio

Quando del forte quello vien frequente,

E trova dall’offeso onor, coraggio,

Che spesse volte il vincitor si pente.

 

   In conclusione, di fronte alle “ideali ragioni” del conflitto, qualsiasi sacrificio doveva essere accettato, anche se ciò comportava “La terra coperta/ di corpi nel sangue”. Morelli è perfettamente allineato alla severa disciplina di Cadorna, egli anzi è “seguace di Cadorna”. E mentre i canti di guerra dei soldati stigmatizzavano la proterva pretesa del Comandante in capo (“Maledetto sia Cadorna/prepotente…) di prendere Trieste, ad onta di qualsiasi sacrificio di vite, e cantavano ironici:

 

Il general Cadorna ha scritto alla regina:

“Se vuoi veder Trieste te la mando in cartolina”.

   Bom bom bom

   Al rombo del cannon…;

 

Morelli, in “Italia”, dipingeva epicamente la patria come “terra di forti”, pronti a morire per rompere il “giogo servile”, perché è meglio “la morte/Piuttosto che schiavi”:

 

Dall’urne rideste

La voce gridò:

Prendete Trieste

E il rombo tuonò.

 

 Come pertanto si è cercato di dimostrare, le poesie di guerra, con le quali s’inizia quindi il “canzoniere”, si possono considerare “popolari” essenzialmente per il tema, non per la tonalità, che riflette invece l’ideologia della classe dirigente. Scrive infatti Pasolini che la vera poesia popolare di guerra, “ e quando il tono popolare è accertato, esso sarà sempre caratterizzato da un’aria profondamente triste, funerea. E’ una guerra dominata dalla “bandiera nera” del lutto, della morte inutile”. (18) Nelle poesie di guerra di Morelli scorre invece un’altra linfa, che è quella del Carducci “guerriero” ed esaltatore della “bella morte” in battaglia. Abbiamo già detto le ragioni di tale atteggiamento: uomo “di frontiera”, a mezzo tra popolo e borghesia, Morelli rientra in quella categoria di poeti popolari che vengono “assimilati” al potere. “Poiché, scrive ancora Pasolini, non bisogna dimenticare che le armi di diffusione dell’ideologia della classe al potere… è di [condurre il poeta] a prendere l’abito mentale e ideologico di quella classe: ad assimilarlo”. (19)

 E, a ben guardare, l’ “assimilazione” di Morelli fu molto profonda. Egli, come abbiamo visto, secondo l’etica trasmessagli dalla scuola post-unitaria, denota un “senso del dovere” che a volte rasenta l’irrazionalità, come dimostra il seguente episodio, evocato in “Guardiano dei sacchi sporchi”. Durante la prima guerra mondiale il comandante probabilmente  cercò, anche in forza dell’età di Morelli, che, con i suoi 37-38 anni allo scoppio del conflitto, era infatti “un vecchio” del Settantanove, di salvaguardarlo, relegandolo a qualche incarico di minore importanza, come quello di “guardiano dei sacchi sporchi”. Ebbene, Morelli riuscì a vanificare le buone intenzioni del suo capitano, rischiando la pelle per un sacco di biancheria sporca: “Allor più del coraggio/Forte il dover m’impose/ Con impeto selvaggio/ Gettar nell’impetuose” (corsivo mio). Nonostante l’ironia cosparsa abbondantemente  sull’ “impresa” compiuta, che traspare qua e là, la poesia è comunque sintomatica di un certo modo di guardare alle cose del mondo.

   Quando però, deposta la toga del vate popolare, Morelli ritorna soldato fra i soldati, immerso “nella calda vita di tutti” avrebbe detto Saba, la sua poesia consegue esiti realistici molto convincenti;  l’ anima popolare gli si espande ed egli trova la sua autentica dimensione poetica, fatta di cose semplici e caserecce, come il “minestrone”, o il cappone, cui la moglie tira il collo in suo onore. E’ felice, perché vede “spuntar vicino/il dì del [suo] ritorno”:

 

 

Poi mentre il cor sospira

Pensando al minestrone,

Mia moglie il collo tira

All’ultimo cappone.

 

   E quando, finita la licenza, è tempo di tornare al fronte, nota, seduto al focolare, un’ “ombra cupa” attraversare il volto della moglie. Il Morelli poeta popolare patisce infine la “vera” condizione del soldato in guerra:

 

Ma un’ombra cupa ripassò d’un tratto

Su quella venerata fronte ardita,

E il pianto giunse e ‘l viso fe’ contratto

Poi disse: la licenza ecco è finita.

 

   In “Ripartendo soldato” (1918) Morelli ci dà un qualcosa di più di una semplice pittura di sentimenti forti, che si concretizzano nel dolore violentissimo nel vedere “la moglie afflitta” per la sua partenza, e la figlioletta che lo saluta con la “manina”, mentre il figlio più grandicello lo segue “a lato”. Morelli riflette se tutto ciò sia giusto. Ecco allora comparire  di nuovo l’animo “popolare” di Morelli, la riflessione morale su quanto gli sta accadendo: lui, uomo ormai di una certa età e padre di tre bambini piccoli, deve abbandonare la famiglia a se stessa per il fronte. Un soldato condannato dal tribunale militare scriveva a casa la seguente riflessione: “ … Qui ai [=(h)ai] anche i vecchi del Settantanove (corsivo mio) che hanno cinque o sei figli ma son tutti contadini, tutti per far la guerra…”. (20) Morelli, ragionando, osserva:

 

E nel seguir la traccia

Di praticar giustizia,

Mi trovo faccia a faccia

Con sempre l’ingiustizia.

 

Se il reggitor ragiona:

Quel ch’è sommesso è servo?

 

  Coloro che ci reggono e comandano dovrebbero chiedersi: chi è sottoposto è anche un servo, senza alcun diritto e potere decisionale? Egli, nel corso della vita, pur ispirandosi sempre al criterio di giustizia, come gli era stato a suo tempo insegnato, si è sempre dovuto scontrare con l’ingiustizia, spesso durante la dura vita del fante in trincea e anche dopo, finita la guerra, quando, reduce e fiero del suo passato, si mette in cerca di lavoro.

   La protesta “moral-popolare” di Morelli ha modo di traboccare quasi inconsciamente al fronte, quando egli vede trattar male un commilitone ferito di recente, e pur tuttavia costretto dai superiori a fatiche esorbitanti le sue forze. Pur rendendosi conto, fatalisticamente, che la sua “protesta” non troverà ascolto, il comandante dovrà prendere atto comunque del malumore dei suoi soldati: “Ogni atto a te d’intorno, il ver dimostra”. Sarà un caso, ma probabilmente non lo è perché, come vedremo, Morelli era un buon conoscitore di metri popolari,  ma la vibrata Protesta (1917) di Morelli contro il suo comandante mi sembra prendere, per la struttura strofica di dieci versi endecasillabi, le forme di un metro tra i più “popolari” della nostra tradizione poetica, lo strambotto. Nella tradizione lo strambotto si presenta costituito di otto versi endecasillabi (oppure di ottonari nei testi più antichi), ma abbiamo anche numerosi esempi di strambotti di dieci endecasillabi. Molto simile al sonetto, lo strambotto è usato a segnalare un traboccare di sentimenti forti. Un manualetto  di metrica del 1909, di stampo molto divulgativo, edito dal solito Hoepli, così spiegava la “materia” dello strambotto: “E’ cosa evidente che quando il popolo, tocco da una passione, vuole esprimere l’impressione soggettiva subita… si contenta di affermarla in poco giro di parole, con uno slancio di affetto o con un’imprecazione… o con un cenno di disprezzo, secondo l’impressione che ne ha ricevuto”. (21)

“Protesta” quindi è uno strambotto di dieci versi endecasillabi, sostanzialmente canonico nei primi quattro versi (ABAB), quartina di endecasillabi piani, e negli ultimi due, che devono essere a rima baciata: quello di Morelli finisce con la rima EE. Lo strambotto, comunque, subì nel corso dei secoli e a seconda delle zone geografiche modificazioni costanti, per cui è letteralmente impossibile ricavarne uno schema fisso, e per il suo riconoscimento occorre più che altro basarsi sul soggetto, sul numero dei versi, da otto a dieci, e sulla presenza della rima baciata finale. Lo schema di “Protesta” è  il seguente: ABAB CDCD EE.

   Dopo la guerra Morelli subisce profondi disinganni, che lo fanno gridare all’ingiustizia.  Deve sopportare infatti l’umiliazione di non trovare lavoro perché, prima di lui in graduatoria alle Poste, ci sono “tante fanciulle”. Morelli allora s’arrabbia, e poi sbotta, indignato di fronte a tanta ingiustizia:

 

Che c’entra la fanciulla

Col reduce che torna,

Che forse non son nulla?

Seguace di Cadorna!

   Al reduce soldato

Dal campo dell’onor,

Neppur gli viene dato

Un poco di lavor. (“Dopo il congedo”, 1917, non antologizzata)

 

   Ma poi, bene o male, la Direzione delle Poste ci ripensa, e Morelli inizia la sua carriera di “ricevitor postale”. La guerra è finita, e per gli appartenenti al “ceto di frontiera”, che adesso servono molto meno alla classe dirigente, s’inizia la grama vita del travet , a stipendi da fame. Ed è qui, in questo realismo quasi involontario, che la poesia di Morelli assume accenti popolari toccanti:

 

La mia retribuzione

E’ suffic[i]ente appena

Per fare colazione

E per saltar la cena;

E’ questa la mia storia:

Ricevitor postale,

Lavoro senza gloria

E son trattato male.

 

   Gli anni del fascismo hanno scarsa consistenza numerica nel “canzoniere popolare” di Morelli, ma le tre-quattro liriche presenti possiedono un eccezionale valore emblematico. Il fascismo aveva di fatto rivalutato il ceto medio “di frontiera”, se non a livello economico, almeno sotto il profilo dell’immagine sociale. Molti fra gli ex combattenti, fra cui certamente Morelli, non potevano non risentire a livello individuale dell’aura che il fascismo aveva saputo creare nel tessuto sociale italiano. Basti solo pensare all’attenzione tutta particolare per gli ex combattenti, concretizzatasi nella creazione dell’Associazione Nazionale Combattenti e reduci (1923) e dell’Associazione nazionale famiglie dei caduti e dispersi in guerra (1924). Esaltazione e protezione, quindi, dei combattenti della “Grande Guerra”, nonché riproposizione di  modelli che esaltavano il lavoro, il duro impegno: tutti valori sui quali Morelli si era formato da bambino, e che gli erano stati trasmessi dal padre e dalla scuola. Così il padre è dipinto tutto “Patria e famiglia”, “nemico alle discordie insane” , dei vizi e dell’ozio, “fonte di miserie umane”. “Solo il lavor di cento aspri mestieri/T’era compagno sulla via del mondo”. Una cosa comunque è sicura: il fascismo intorno agli anni ’30 possedeva una macchina del consenso ben lubrificata. Impossibile sottrarsi alla propaganda, specie per il “ceto di frontiera”.

   Vediamo una poesia il cui contenuto rimanda a un evento bellico preparato con estrema cura dalla propaganda, la guerra d’Africa del 1936. Nell’ambito del colonialismo europeo quello italiano ebbe sin dagli inizi  caratteri “atipici”. Le grandi potenze europee ed extraeuropee puntarono su regioni sottosviluppate da sfruttare “attraverso il rastrellamento delle materie prime e la vendita in condizioni di monopolio di prodotti industriali”. Sin dalla guerra di Libia, al contrario, l’atipico colonialismo italiano “ fu indirizzato- osserva ancora Rochat- verso regioni tra le più povere dell’Africa che non potevano fornire materie prime di qualche valore che in misura appena rilevante”. (22)  Al di là però della questione delle “materie prime” o dell’individuazione della mera “politica di potenza” per difendere “l’immagine interna e internazionale dell’Italia come potenza di primo rango”, che furono poi i cavalli di battaglia del socialismo anticolonialista di Andrea Costa, che lanciò il famoso slogan “né un uomo, né un soldo” per la guerra africana dopo Dogali (1887), nemmeno i socialisti avevano le idee chiare su chi spingesse effettivamente per un nostro forte impegno colonialista. Il fatto è, rileva C. Dota, che per i socialisti di allora la borghesia industriale è “indifferenziata”.  Non riescono quindi a “vedere” quali settori dell’industria erano responsabili di tanto “impegno colonialista” da parte dello Stato. Ma ora è ormai noto, prosegue Dota, “che il blocco di interessi siderurgico-armatoriale-cantieristico preme in senso protezionista. Espansionista ed interventista. Le industrie cosiddette pesanti si sviluppano grazie all’intervento dello Stato, alle sue leggi protezionistiche, alle sue commesse. Le spese militari straordinarie diventano lo strumento con il quale lo Stato promuove la formazione e la crescita dell’industria pesante, e rivitalizza una marina prostrata dalla concorrenza internazionale. Questi settori industriali sono interessati all’intervento statale, ad una politica di armamenti e di espansione coloniale”, (23) in perfetta sintonia con la politica di Depretis e Crispi, che si mostrano sensibili anche, e soprattutto, ai mugugni che venivano dalle alte sfere militari sia dell’esercito sia della marina, come dimostra la recente “riscoperta” di un lunghissimo discorso parlamentare dell’allora colonnello d’artiglieria Luigi Pelloux, il quale accusava il governo Sella, di  eccessive “economie sulle spese militari”, pretendendo, per “eccessiva tenerezza verso le finanze”, di mantenere in piedi gli “eserciti senza spesa”. (24)

Nell’imminenza dell’attacco all’Etiopia,  per venire al periodo che ci interessa, che comportò la formazione dell’impero nel 1936, il terreno fu preparato con estrema cura, si diceva, a tutti i livelli. A livello “alto” L’Istituto Nazionale Fascista di  Cultura promosse conferenze e lezioni su tutto il territorio nazionale, soprattutto rivolte a studenti su temi come: “Trilogie imperiali (Vespasiano, Traiano, Diocleziano)”; “Navigatori ed esploratori italiani nel mondo”. Le pubblicazioni degli storici più qualificati si moltiplicarono. B, Pace pubblicava la Storia della politica coloniale italiana, R. Sertoli Salis, Etiopia. Aspetti economici. (25) L’avventura etiopica,  pur tra vari altri e complessi motivi, presenta sullo sfondo protagonisti già visti al tempo della guerra libica, certo non “promotori”, ma in qualche modo “assecondatori” del fenomeno, quegli “apparati industriali pre-bellici (in particolare il settore navale, chimico, siderurgico, ecc.) [che] avevano intravisto nel dinamismo della politica estera fascista sul versante del Mediterraneo e dell’Africa la possibilità di prolungare il boom dell’industria pesante degli anni della guerra, ritardando il più possibile il processo di riconversione. Da questi ultimi, com’è ovvio, veniva un sostegno incondizionato e convinto a tutte le imprese di dominio”. (26) Se le interpretazioni testé esposte sono, non dico la “realtà”, ma almeno un lodevole tentativo di approssimazione ad essa,  ben diverse, fantastiche e fantasiose “ragioni” erano per converso ammannite alla pubblica opinione.    A livelli medi, sulla stampa nazionale  si aprì la stura a tutta una propaganda mistificante, in cui la conquista dell’Africa venne presentata, dal fascismo, secondo una formula già collaudata da Crispi e Giolitti, si noti, “come rivendicazione dell’eredità imperiale romana”. Si tratta di una tesi, avverte Rochat, demagogica fin che si vuole, ma più diffusa un tempo di quanto si possa credere.

 Ora, una propaganda del genere trovava  terreno fertile fra il popolo “leggente”. L’impegno italiano in Africa del 1936 viene magnificato da Morelli in base agli stereotipi trasmessi dalla propaganda. La poesia, del 1936, è sin dal titolo emblematica:

 

“Orme di Roma in Africa”

 

  Sepolte da secoli

Viventi nella storia,

Di Roma in Africa

Son l’orme di gloria.

   Tra le sabbie mobili

Avvolti nel mistero

Affiorano i ruderi

Avanzi dell’impero.

    Son là che dormono

Al vento ed al sole,

Ma al mondo parlano

Con mute parole;

    Nel sonno letargico

Sognan antichi allori

Quando un tempo vissero

I grandi imperatori.

     Quand’ecco si destano

Dal sonno profondo,

Gettando un fremito

Intorno pel mondo;

   Son l’orme che sorgono

Perché Iddio lo vuole,

Nel cuore dell’Africa

Alla luce del sole,

   Sfidando i secoli

Come una forza indoma,

Che impone ai popoli

La civiltà di Roma. (“Orme di Roma in Africa”, 1936. Non antologizzata)

    

   Il patriottismo e parallelamente il “reducismo” costituiscono pertanto il filo conduttore della poesia di Morelli anche durante il fascismo. Così, ad esempio, allorché nel 1931 fu insediato a Berra il primo podestà, egli scrisse un sonetto in onore di Luciano Sgobbi, ma il suo plauso era dovuto soprattutto al fatto che la scelta era stata secondo lui quanto mai azzeccata, poiché era caduta su un reduce della grande guerra, che viene esaltato in quanto “Podestà soldato”. Si fa notare di scorcio che a partire dal 1926 i vertici del fascismo perseguirono scientemente la politica di nominare podestà soprattutto dei militari, anche per superare, come allora si diceva, il “beghismo locale”, in quanto la carica di podestà era molto ambita, cosa che  apriva spesso la stura a vere e proprie campagne elettorali senza esclusione di colpi. Poiché i prefetti denunciavano spesso la “mancanza di persone adatte”, si puntò sui militari, specie se ufficiali in pensione, che, proprio “per le loro caratteristiche di militari”, caratterizzate da una certa “fermezza”, davano maggiori garanzie per “un’amministrazione disinteressata, austera e ricca di prestigio degli affari del comune”. (27) Insomma, il patriottismo di Morelli, formatosi alla fine dell’Ottocento e rinsaldatosi prima e durante la guerra è qualcosa di inossidabile, profondamente sentito, un presupposto culturale  che resiste in tutte le stagioni, e che egli semina a piene mani nel suo canzoniere.

 

Tutta intessuta di riferimenti patriottici è, ovviamente, “Patria”.

 

Patria! Che hai il sen costrutto

Di tanta gloria antica,

Degl’avi nostri è frutto

D’un’immortal fatica,

E’ vanto di tue genti

Un radicato ardir.

Patria! Il tuo nome è grande

Per tutto il mondo intero,

La gloria che si spande

Ovunque in suol straniero,

Più largo spazio gira

Quella divien maggior.

 

E se un vicin geloso

Al tuo bel sen fa danno

Dall’Alpe al mar ascoso

Col suo più vile inganno,

Difender noi sapremo

La terra dell’Amor. (“Patria”, 1918. Non antologizzata)

 

Allorché egli loda l’opera di Don Minguzzi, che attraverso un interesse costante era riuscito a rinnovare il “tempio” “nell’anno sesto del poter fascista” (1928), ciò che egli evidenzia in modo particolare è la posa della lapide a ricordo dei caduti della grande guerra, per mostrare

 

al cittadin Cristiano od empio

A pro de’ morti eroi la fronte in vista;

Per quei che morti son per dar l’esempio:

Per la Patria morir onor s’acquista. (corsivo mio)

 

   Cenni ulteriori che evidenziano una sostanziale adesione ai valori propugnati dal fascismo, specie in materia di agricoltura, si hanno in una lirica non datata, ma che, da alcuni  riscontri interni, in cui si fa cenno “alle vicende belliche/ di Spagna e del Giappone”, quasi sicuramente è stata scritta tra il 1936 e il 1937, in quanto si fa riferimento alla guerra di Spagna (1936) e probabilmente al fatto che l’Italia aderì al patto anti - Comintern, insieme con Germania e Giappone nel 1937.  Prendendo spunto dalla“lotta autarchica”, che prese il via attorno al 1934, Morelli si congratula con una coppia contadina di sposi, che avevano lavorato all’estero e, dopo essere stati  ricevuti a Roma,  erano tornati a casa “carchi di gloria, e prosperi/ Col portafoglio pieno”. Poi prosegue:

 

Alzate signori un brindisi

A questi agricoli pionieri

Che nella lotta autarchica

D’Italia son guerrieri

Che san mostrare all’estero

I frutti di saggi agricoltor. (“In onore degli sposi che tornano da Roma coi rurali”, (s.d., ma 1936-’37. Non antologizzata)

 

   Un’altra lirica, sempre del ’36,  dipinge in modo idillico una società agraria laboriosa e felice, con un contadino che canta allegramente “Faccetta nera”, mentre tutt’intorno le donne chiacchierano e si spandono nell’aria gli aromi della cucina. Ancora una volta, quella di Morelli è un’adesione spontanea all’etica del lavoro propugnata dal fascismo sin dai primi anni Venti. “ In un discorso agli operai di Dalmine del 20 marzo 1919 Benito Mussolini – scrive Asor Rosa – innalzava l’elogio del concetto etico di lavoro, collegandone la consacrazione al ruolo svolto da operai e contadini nel corso della guerra patriottica: E’ il lavoro che parla in voi… E’ il lavoro, che nelle trincee ha consacrato il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande, entro e oltre i confini…”. (28) Concetti che sono tutti propri anche di Morelli.     Simpatie per uomini legati al fascismo s’intravedono nella poesia in cui Morelli parla di una corsa in automobile con il Dottor Carinci, che si era recato a un “raduno” del partito a tenervi un discorso, insieme con altre persone: “Odo la voce limpida e possente/Di Carinci, alle masse del partito/Infondere la fede ch’egli sente”. (“Ritornando dai raduni in macchina”, 1937, non antologizzata)

   Certo è che, con simili idee in testa, la vita di Morelli non dev’essere stata tutta in discesa durante il fascismo, specie nei rapporti con il “popolo” in senso stretto. Non si deve dimenticare infatti che, nonostante il fascismo avesse ottenuto una vittoria rapidissima nel ferrarese, l’ “animus” popolare contadino, non scolarizzato e pertanto per nulla assimilato ai codici borghesi come quello di Morelli, affondava le proprie radici nella  cultura socialista e anarchica, che aveva dato ottima ed efficace prova di sé sin dagli inizi del Novecento: basti pensare che la provincia di Ferrara, durante gli scioperi del 1901, fu la prima in Italia per aderenti (72.000). (29) Sta di fatto che l’ironia popolare aveva modo di dispiegarsi a piene mani nei confronti delle ideologie che promanavano dal potere. Così, ad esempio, i ragazzini riottosi e poco disponibili alla disciplina, venivano chiamati scherzevolmente Menelik , (30) a ricordo appunto dell’impresa africana del nostro colonialismo. Per quanto riguarda la prima guerra mondiale, in riferimento ai continui e sanguinosi tentativi di Cadorna di prendere Trieste, circolava tra il popolo la canzonetta già menzionata (“Il general Cadorna/ha scritto alla regina/ se vuol veder Trieste: la guardi in cartolina”). Allo stesso modo le “canzoni patriottiche” erano definite, nel ferrarese, “la [solita] boèm”. Poiché fra i piccoli e medi gerarchi e anche tra il personale impiegatizio di ruolo si era soliti portare sul berretto un fregio rappresentante l’aquila romana “appollaiata” sul fascio littorio, essi erano fatti segno dal popolo di epiteti vari: “quelli da la galinèla in spìngull”, ovvero “quelli dalla gallinella sull’altalena, sul dondolo”; i capi erano detti “quelli da la galinaza o galinazz”; o, con tono ancora più ironico, sgrasa galinn (sgrassa galline), perché, mentre la gente comune faceva la fame, loro, nella “Casa magna” (sede del fascio) se la spassavano facendo sganzèga (baldoria). Di colui che sosteneva la guerra d’Africa del fascismo si diceva: l’è ‘n legionari oppure ‘n Kolòno, o anche Facéta nera, perché pretendeva “di scaldare gli animi di romano entusiasmo”. (31) Se tanto mi dà tanto, è difficile che Morelli abbia potuto sottrarsi a questi epiteti, anche vi sono attestazioni di generale simpatia intorno alla sua persona, di cui si sapeva l’umiltà e, forse, anche la sostanziale ingenuità: Morelli era un “vincénz” (ingenuo), cosa di cui per altro egli stesso era consapevole: “Altro io non son che un sognator soltanto” (Corsivo mio).

   Qualcosa comunque deve essersi incrinato nelle convinzioni di Morelli con lo scoppio della seconda guerra mondiale. L’intervento in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale non trova in lui accenti di consenso, e anzi la guerra non pare più avere ai suoi occhi nessun tipo di giustificazione: essa è vista solo come un errore gravissimo, portatore di lutti, e quindi osserva, con rassegnata protesta senile, da “vero uomo del popolo”, che guarda fuori di sé con l’animo sgombro da infingimenti illusori e mistificatori :

 

La guerra continua

Ma chi l’ha voluta?

Ma chi l’ha sentita?

La guerra è dannosa

Distrugge il diritto,

diritto alla vita

La guerra: tremenda

Parola di morte,

sia storia o leggenda

a tutte le porte

s’addentra e colpisce

nel vivo del cuore… 

 

   Ma se tenace è il patriottismo, non meno forte e radicato è il sentimento religioso di Morelli, che, non solo per l’educazione scolastica, ma per la sua estrazione popolare (egli stesso si definisce “amante contadino”, e “figlio del popolo”),  appare emblematico di un ceto sociale ove la religione è straordinariamente radicata e attiva. Non è qui il caso di affrontare un tema, quello della religiosità delle classi popolari, così vasto e complesso,  ma è un dato di fatto che la civiltà contadina espresse nei secoli, a qualsiasi latitudine, una fede religiosa a tutta prova. Anche se nel ferrarese il movimento socialista fu diffusissimo tra il ceto rurale e il sentimento anticlericale estremamente radicato nel popolo ( l’epiteto fàza da prett la dice lunga), (32) esso trovò un avversario di tutto rispetto nelle Unioni Professionali cattoliche, che si posero in “insidiosa concorrenza” con le Camere del lavoro socialiste. La classe rurale di Ferrara e della Provincia, tra cui la più disagiata e “ai limiti delle denutrizione” faceva capo ad alcuni paesi come Berra e Serravalle, si trovò pertanto spaccata in due tra aderenti al partito socialista da un lato e leghe cattoliche dall’altro. (33) Non appena Morelli ottiene una licenza, nel luglio del 1918 , il primo edificio che incontra, benaugurante, è la chiesa del suo amato paese:

 

Alfine già stanco

Del lungo cammino

Un tempio di fianco

Si vede vicino;

   Conosce la chiesa

Del proprio paese,

E su per l’ascesa

Il passo riprese…

 

   L’ammirazione per don Minguzzi, di cui riconosce “il merto e talento”, è profonda e sincera; così come la simpatia per don Ludovico, per il quale scrive uno “stornello” per la prima messa. La lirica, letta fra “sacerdoti e gran dottori”, i quali “sanno tutti quel che sanno” (ironia?), “ed han franca la parola”, gli mettono soggezione, tanto che “almeno per un anno” vorrebbe “da uno d’essi andare a scuola”. Con tono scherzevole e sorridente Morelli si confessa, e fa capire di soffrire un senso d’inferiorità in mezzo a tanti “gran dottori”, lui, “figlio del popolo”. E’ il suo destino: uomo e poeta “di frontiera” sa di appartenere solo tangenzialmente a quella classe dirigente che, egli lo sente, lo accetta ai conviti solo in virtù delle sue ben note capacità poetiche, ma che, in fondo, lo tratta dall’alto in basso. Come quando, a Marrara, nel 1934,  “alcuni giovani d’alto rango”  lo “ chiamarono in loro compagnia per andare a trovare Ralfo, un giovanotto pure lui.” Morelli ricorda amareggiato l’episodio in cui la madre di Ralfo offrì un fiore a tutti, tranne che a lui, perché, spiega, “ ero un figlio del popolo, cioè di povera gente”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le “poesie popolari” di Morelli come

“cronache di vita”

 

 

      Se le poesie di guerra o comunque legate alla storia del nostro Paese hanno una notevole consistenza numerica, la maggior parte del “canzoniere popolare” di Morelli  s’incentra  pressoché tutto sulla cronaca delle proprie vicende esistenziali, legate per tutta la vita a Marrara, il paese natale, a Serravalle, paese d’adozione, e, per qualche verso, anche a Ferrara. Morelli, lo abbiamo visto, definì la propria produzione poetica con il titolo di “poesie popolari”.

   Gia abbiamo parlato di alcuni caratteri precipui di tale popolarità. Proseguiamo con un ulteriore dato, stavolta inconfutabile, costituito dalla metrica delle sue liriche.

   Sotto il profilo strettamente metrico, la sua è una poesia assolutamente “popolare”, frutto di quella semplificazione metrica che fu efficacemente perseguita dai poeti “popolari” di matrice romantica. La raccolta curata da Giovanni Raminelli ci dice che Morelli non usciva, se non rarissimamente, da tre schemi metrici fondamentali: la quartina di endecasillabi, la canzonetta e il sonetto, usati rispettivamente per 12, 19 e 7 volte. Per quanto riguarda la quartina di endecasillabi, dallo schema piuttosto vario (AABB, ABAB, ABBA), essa, secondo Pasolini, rappresenta “effettivamente la durata tipica, la monade, della poesia popolare”. (34) La quartina, secondo gli studiosi di metrica, sarebbe una variante di un altro tipico metro popolare, lo strambotto, normalmente di otto versi endecasillabi, ma che può raggiungere anche i dieci. In Romagna era diffusissima nella poesia popolare in dialetto, e aveva il tipico nome di “romanella”. (35) Intorno al sonetto sono sorte nel corso del tempo accese discussioni tra i sostenitori dell’origine popolare di esso, ossia dal doppio strambotto, e coloro che lo vedevano di origine dotta, ovvero come “stanza” di una canzone. L’ipotesi oggi maggiormente accreditata presso gli studiosi, Fubini in testa fra i contemporanei, è però quella dell’origine popolare di questo metro, usato sistematicamente sia nella lirica popolare sia in quella alta. (36) Anche la canzonetta è un metro tipicamente popolare, sia per il ritmo vivace sia per la brevità del verso. Morelli fa uso  normalmente  del senario e del settenario; l’ottonario è usato due volte (“Alla prima messa di don Lodovico” e in “L’anno nuovo”).

La competenza metrica di Morelli, a uno sguardo complessivo, è più che dignitosa, e dev’essere il risultato di molta applicazione personale. Nei versi brevi, senario e settenario, il rispetto delle regole è pressoché totale. Il senario viene trattato in tutte e due le forme, piano e sdrucciolo, ma con una spiccata predilezione per il primo tipo:

 

Italia gentìle

Oh terra di fòrti

Nel giogo servìle

I vecchi son mòrti. (“Italia”) (senario piano, accento fisso sulla penultima).

 

Nell’esempio che seguirà il senario piano si accompagna a quello sdrucciolo, secondo una norma largamente invalsa anche nella poesia alta:

 

Seduto al tàvolo (sdrucc.)

Del nostro Dottòre (piano)

Guardando spléndere (sdrucc.)

Un rosso liquòre (piano), ecc. (“Con alcuni amici”)

 

Il settenario è anch’esso prediletto da Morelli perché gli permette molta libertà: a parte l’accento fisso di sesta, gli accenti precedenti possono cadere liberamente sulle prime quattro sillabe. Morelli comunque preferisce sempre le cadenze regolari, e spesso opta per un  accento fisso sulla sesta sillaba e uno sulla seconda:  “Perché [2^] tu non rispòndi [6^]/Al suòn [2^] de’ miei sospìri? [6^]/Che fòrse [2^] ti confòndi? [6^]/Che fòrse [2^] tu delìri…[6^] (“Ad un professore d’italiano”). E’ prediletto il settenario piano, lo sdrucciolo non è mai usato. Ovvio che la canzonetta di settenari è la più frequentata sia per ragioni storiche, essendo metro popolare per eccellenza,  sia per l’agilità del verso,   privo di pause e quindi di particolari difficoltà tecniche. L’ottonario, come si diceva, è pochissimo frequentato da Morelli, che lo usa  nelle quartine per la “Prima messa di don Lodovico”, e in “L’anno nuovo”, ove l’ottonario è usufruito, con tecnica molto popolare, in distici a rima baciata (“Passa l’anno a mezzanotte/Tra le genti al vizio rotte”). Anche l’ottonario è verso molto regolare, con accenti fissi di terza e settima:

 

 

Son venùto in questo asìlo

Mentre spùnta primavéra,

Per sentìre un po’ per fìlo

Una stòria proprio véra.

 

 

   Ma anche l’endecasillabo dei sonetti e delle quartine è trattato da Morelli con una certa naturalezza, anche se egli mostra di preferire endecasillabi estremamente “regolari”, con gli “ictus” che cadono sempre nella stessa posizione, e ciò naturalmente per ragioni di semplicità, essendo l’endecasillabo un verso con variabili prosodiche molto accentuate, basti pensare che possiede circa dodici forme. Nella generalità, però, se ne usano sostanzialmente tre, e, a parte l’accento fisso sulla decima sillaba, le varianti sono di sesta e di decima; di quarta, settima e decima, oppure di quarta, ottava e decima. Da una indagine sia pur rapida, emerge che Morelli predilige la costante di quarta,  ottava e decima, con, ogni tanto, qualche irruzione in quella di sesta e decima. La variante di quarta, settima e decima non è mai praticata. L’endecasillabo è quindi trattato con una certa monotonia, ma questa è una caratteristica peculiare della poesia popolare. La “popolarità” e la monotonia dei suoi sonetti si riflette anche a livello di schema metrico; egli, per esempio, predilige la forma più arcaica  di tale schema, soprattutto nelle terzine. (37) Lo schema quindi adottato per tutti i sonetti è il seguente: ABAB ABAB CDC DCD.   Ciò, come s’è detto, crea una certa monotonia, ma la cosa semplifica molto la vita a Morelli, che non è poeta di professione e pertanto deve sapersi districare abilmente in una serie di problemi non sempre facili a risolversi. Più sotto si danno alcuni esempi della competenza metrica di Morelli, che non è davvero cosa di poco momento, se si tiene conto degli studi e delle difficoltà intrinseche della materia. Si noterà che conosce bene l’uso della sinalefe, ovvero della “fusione” delle vocali per l’individuazione del numero delle sillabe. Per i problemi di cesura interna del verso endecasillabo (pause) sa scegliere tecniche molto pratiche ed efficaci, come per esempio l’uso di parole tronche per marcare la pausa: “ciel”, “far”, “recar”, “sol”, “pensier”, “son”, “morir”, ecc. (Nell’ esempio sotto riportato la pausa è indicata con una stanghetta; le elisioni (“fusioni”) tra vocali sono segnate tra parentesi. Vengono evidenziati gli accenti):

 

 

 

 

 

 

 Nel sonetto per don Minguzzi, tutti gli endecasillabi sono di quarta e ottava, tranne due soli versi (4° e 11°):

                                                                                                   Schema

 

 

A

B

A

B

A

B

A

B

C

D

C

D

C

D

Con genio spìrt(o e)/ con volér tenàce (4-8-10)                   

Minguzz(i il )pàrroco/ compì l’imprèsa, (4-8-10-)                

Mostrando ché mai/ l’opra ch(e à) lui piàce (4-8-10)          

Nel dir quanto nel fàr/ riman sospésa, (6-10)                       

Quando ancòr/ l’altrui concòrso tàce, (4-8-10)                     

Certo recàr/ a sé medésm(o o)ffésa (4-8-10),                         

Segue da sòl/ l’opr(a a ) compìr che giàce (4-8-10)              

Nel suo pensiér/ finché la mét(a è) présa. (4-8-10)               

Così risòrs(e in)/ Serravàll(e il) témpio (4-8-10)                    

Nell’anno sésto/ del potér fascista, (4-8-10)                            

Mostrand(o al) cittadìn/ Cristian(o od) émpio (6-10)             

A pro de’ mòrt(i e)roi/ la frònt(e in) vìsta; (4-8-10)               

Per quei che mòrti son/ nel dàr l’esémpio (4-8-10)               

Per la patria morìr/ onor s’acquìsta. (6-10)                             

 

 

Il periodo, come si può notare, si snoda, abbastanza fluido, con vari enjambement (Es: vv.1-2; vv. 6-7; vv.7-8) , ben oltre  i confini del verso,  fluendo in quelli successivi. Il sonetto è in pratica costituito da due grandi periodi: il primo, che illustra il carattere volitivo di don Minguzzi, si conclude con il punto, al termine delle due quartine iniziali (“presa”); il secondo si sviluppa nelle due terzine successive, che spiegano il valore sacrale e patriottico del restauro della chiesa. La tendenza a “enjamber” è frequente nei sonetti ma anche in tutta la produzione poetica di Morelli, che dimostra così una buona padronanza della sintassi. Morelli, in definitiva, non conclude la frase nel verso, facendo quindi della rima il confine metrico e anche di “senso” del periodo, com’è antica consuetudine della produzione poetica popolare dagli inizi romanzi, ma sviluppa periodi ariosi, che spesso vanno a coincidere con una quartina, o anche con due, come nell’esempio proposto. Tale padronanza della sintassi, e il fatto di  non sentire il  bisogno assoluto  della rima in fin di verso per marcare il senso, gli permette anche di affrontare esperimenti come il verso libero, usato in strofe di varia lunghezza. La raccolta di Giovanni Raminelli porta questo esempio (“Tramonto estivo”):

 

 

Il sole reclinava

Già dietro le piante

Dilungando l’ombre

Su l’arida terra,

quando tornava il contadin dal campo,

rinfrescato dall’ombra

seduto sul carro

dalle ruote cigolanti

e rotolanti

sopra lo stradale sconvolto

dal carreggio continuo.

 

Si osserverà che il periodo, con la descrizione del contadino che, al tramonto, torna a casa sul carro cigolante trascinato dai buoi lungo una strada disagevole, occupa un’intera strofa di 10 versi. La tradizione non è però completamente dimenticata, perché è tutto un susseguirsi di senari, settenari, ottonari e un endecasillabo. Il che significa che non siamo in presenza di una dissoluzione del verso regolare, ma di “polimetria”, non infrequente nella tradizione:  una mescidanza di vari versi largamente presenti nel canzoniere di Morelli. (38) Il quale non dimentica neppure la vecchia rima, che fa comunque capolino ai vv. 8-9 (“Cigolanti”- “rotolanti”), a dimostrare che aveva ragione Montale, quando notava: “Le rime sono più noiose delle/donne di San Vincenzo: battono alla porta/ e insistono. Respingerle è impossibile…” (“Satura”). Quali influssi possano aver pesato sul gusto polimetrico di Morelli è difficile dire, ma, conoscendone la formazione scolastica, azzarderei il nome di Francesco Redi (1627-1678), che nel suo “Bacco in Toscana” fece appunto uso del polimetro, al di fuori di ogni schema e con versi che andavano da quattro a undici sillabe:

 

Dell’Indico Oriente

Domator glorioso, il dio del vino

Fermato avea l’allegro suo soggiorno

Ai colli Etruschi intorno;

e colà dove imperial palagio

l’augusta fronte in vèr le nubi innalza, ecc. ( Dal “Ditirambo Bacco in Toscana”, IV, “Bevute e capogiri”.

 

Penso al Redi perché non solo il suo ditirambo era molto famoso, ma perché fu anche autore di “lettere” che costituivano “esempi da imitarsi” per i bambini delle elementari, e il suo nome era contemplato nel famosissimo manuale dello Scavia, di cui abbiamo parlato in precedenza. Non impossibile comunque anche l’influsso di un famoso  e popolare poeta contemporaneo di Morelli, Aldo Palazzeschi, che già dal 1909 scriveva versi polimetri:

 

In basso

Si segue la ridda

Dei piccoli punti

Di dadi danzanti;

Due dadi grandissimi, in fondo,

rimangono fermi, ecc. (da “Poesie”, in “Opere giovanili”, Milano, Mondadori, 1958).

 

   Io non so se a Morelli fosse mai venuto l’estro di scrivere le sue “poesie popolari” in dialetto, ma sono convinto che l’idea non deve averlo minimamente sfiorato, per molte ragioni, anche se, tutto sommato, il dialetto lo doveva conoscere molto bene.  La scelta della lingua italiana dev’essere comunque stata un atto del tutto consapevole, e, a mio avviso, anche “coerente” sia con molta parte dei temi sviluppati nel “canzoniere” sia con quel ruolo di “mediatore sociale” di cui abbiamo precedentemente discusso. A una vena patriottica così pronunciata e inneggiante ai valori della patria come quella di Morelli, non poteva in effetti corrispondere un registro stilistico improntato all’uso del dialetto, che rimanda sia a un ristretto regionalismo sia a un concetto sociopolitico legato alla inferiorità e alla subordinazione dei dialetti rispetto alla poesia in lingua, che tra l’altro, proprio perché in lingua, può contare, almeno potenzialmente, su una più vasta cerchia di lettori. A monte ci potrebbero essere ulteriori ragioni di carattere culturale e storico, in quanto in Emilia  “esiste nei parlanti, e non solo nei poetanti, la convivenza del dialetto con la lingua…”. (39) Forse ancora più probabile, a una lettura attenta dei testi, l’influenza soprattutto di  Carducci, che era assolutamente contrario all’uso, non dico dei dialetti, ma anche soltanto a coloro che tentassero di “modernizzare” un po’ troppo la lingua della poesia andando, per esempio, a pescare voci un po’ troppo popolari, anche se toscane. E questo deve aver pesato molto su Morelli che, come vedremo, aveva in Carducci non un, ma il Maestro. Il quale, in “Davanti San Guido”, aveva stigmatizzato la tendenza dei “manzoniani” a rifarsi, anziché alla lingua dotta toscana, ai dialetti: “La favella toscana, ch’è sì sciocca/Nel manzonismo de gli stenterelli”. Ove la “favella toscana” diventa “sciocca”, ovvero scipita, fra questi scrittori popolareggianti, che Carducci chiama “stenterelli”, in ricordo appunto di Stenterello, la maschera “popolare” di Firenze, simbolo stesso della città.

    La questione appena posta ci introduce al discorso intorno alla “lingua poetica” di Anselmo Morelli. Una lingua improntata alla fedeltà assoluta alla tradizione italiana, con un occhio di particolare riguardo a Carducci e Pascoli. La lingua della poesia di Morelli passa dal lessico aulico a quello quotidiano, per cui il  noto“salame di casa”, il “cappone”, la “cantina” e la “cuoca” coesistono benissimo  accanto agli aulicissimi “dritto”, “cor”, “alma”, “fia”, “riedo”, “opra”, “aer”, “duol”, “speme”. Il fenomeno è meno raro di quanto si possa credere sia nella poesia popolare sia in quella alta. Tullio de Mauro faceva notare che anche nei canti popolari di più stretta osservanza, la mescidanza tra lessico aulico e quotidiano fosse cosa normale, anche perché la cultura popolare idolatrava l’opera lirica, e si sa come i libretti d’opera siano infarciti di termini consunti e ormai largamente desueti. (40) Ciò premesso, da uno spoglio anche sommario della lirica di Morelli, compaiono evidenti quelle che potremmo definire “spie” del linguaggio dei classici del nostro Ottocento, che testimoniano della indubbia frequentazione di poeti come Leopardi, per esempio. E’ difficile non vedere Leopardi in versi come questo: “Su l’arida china…”(“L’Assalto”) che rimanda al noto “incipit” della “Ginestra”: “ Su l’arida schiena…”. Il pendio diventa “china” in Morelli, mentre è “schiena” in Leopardi: il resto è uguale. O come questo: “ Dentro uno spalto nebuloso e nudo/ l’aer imbrunendo, ogni rumor cessava” (“L’ultimo giorno della licenza invernale”): che ricorda famosissimi “passaggi” leopardiani: “Ma nebuloso e tremulo dal pianto” e “ già tutta l’aria imbruna”. Per non parlare poi dei particolari contesti in cui la luna è sempre, leopardianamente,  “indifferente” a quanto succede sulla terra ( “Assalto”): “Fra nebbia fuggente/La luna compare, smorfiosa e lucente/ Di sbieco a guardare/La terra coperta/Di campi nel sangue/Che stesi sull’erta/Nessuno più langue”); oppure di titoli, come la lirica “Amore e morte”, tutta in sintonia col verso leopardiano “Amore e morte ingenerò la sorte”. Di matrice sicuramente leopardiana sono poi alcuni passi filosofico-raziocinanti su temi come il destino e la funzione dell’essere umano sulla terra: “ Il corpo è materia/e viene distrutto/entrando a far parte/d’uguale sostanza;/Lo spirito resta/perché immortale…”. (“L’ombra”)

   Fondamentale è la presenza di Carducci, a livello tematico e lessicale. Sul secondo versante, Carducci costituisce un vero e proprio serbatoio a cui attingere a piene mani termini quali “spirto” e “alma”, “aere” e “nembi”, “opra” e “urna”, nonché il classico e notissimo “pio”. Così, in “Italia”, i versi, nonché lo stesso titolo della lirica, “Dall’urne rideste/La voce Gridò:/Prendete Trieste/ ecc.” sembrano presi di peso da “Piemonte”, ove “ Italia Italia – rispondeano l’urneItalia Italia – E il popolo de’ morti/surse cantando a chiedere la guerra…”.  Non meno presenti sono certe situazioni pascoliane. Così, in “Amore nella tempesta”, si legge:

Un rumore lontano crescente

Dall’immense fiammate nel cielo,

Una nube copriva ponente

Tutta l’aria imbrunendo d’un velo…

“Un rumore lontano” rimanda la memoria al ben più famoso


 

“bubbolìo lontano” di Pascoli in “Temporale”.


 

  Gran parte della lirica di Morelli risente infatti dell’aura pascoliana, sia per le riprese tematiche, come nella “Miniera”, dove già l’ “incipit” (“Dorme un bimbo nella culla/ Mentre un altro si trastulla”) rinvia ai “Due fanciulli” di Pascoli, sia per l’acquisizione di determinati stilemi, come l’onomatopea relativa alle voci degli animali, così cara al Pascoli. In “Primavera”, per esempio, Morelli, con tecnica prettamente pascoliana imita il verso alle ranocchie: “ Mentre laggiù sentivo/In fondo al fosso re/Un ranocchiel giulivo/Rauco gridar cré cré ”. Il Pascoli, inoltre, è il poeta della chiusa cerchia della provincia, del “nido” familiare, e ciò non poteva non renderlo consentaneo all’animo di Morelli, la cui poesia si snoda tutta appunto, con movenze cronachistico-affettive, dentro lo stretto circuito della provincia rurale, tra Marrara, Serravalle e Ferrara.

   Le “poesie popolari” di Anselmo Morelli si sviluppano quindi secondo  tre paradigmi di fondo: la spinta che  proviene  loro dal “tono” della poesia popolare di matrice romantica; da  evidenti apporti, non solo stilistici ma anche di “poetica”, di Carducci, Vate della patria ma anche del sentimento malinconico, per cui “Esce la poesia/o piccola Maria/quando malinconia/batte del cor la porta”, e infine dal fascino della lirica pascoliana, fortemente connotata in senso “rurale”, sia per le descrizioni di vita contadina sia per l’attenzione posta al mondo della natura, piante e animali, ai paesaggi campestri e agli effetti che il mutare  delle stagioni producono sulla campagna e sulla vita quotidiana delle famiglie contadine. In questo territorio provinciale e rurale si dispiega l’autentica vena popolare di Morelli.

   Quando pertanto Morelli dismette l’abito del vate popolare, dimenticando il Carducci “guerriero”, ed entra nella “cronaca” della sua esistenza provinciale e per vari versi reietta, allora egli, finalmente, “supera la frontiera” ed entra nelle regioni che veramente sono sue, ovvero nel territorio della “tipica” poesia popolare: ed ecco allora apparire, nostalgicamente descritto, il paese natìo, Marrara, terra edenica, alla quale spera di tornare dopo la pensione (“Oh mio villaggio! Come ti riveggo/bello nei tuoi costumi,/perfin la notte quando stanco ho chiuso/ i sonnolenti lumi” (“Dopo il tramonto”). E ancora: “Oh mio villaggio dove sono nato!/Quanti ricordi m’hai serbato in core,/Là dove son cresciuto e maturato/La giovinezza mia, il mio primo amore”. Il ritratto di Marrara sembra un po’ di maniera, però il sentimento è vero, e la nostalgia tanta: “E più divento vecchio in cor io provo/La grande nostalgia di te, o Marrara” (“Nostalgia”). Vivace e felicemente descritta è la vita semplice della comunità popolare di Serravalle, della “gente nata a faticar la vita”, che “ Si unisce in piazza a ragionar compatta/ Che oltre il lavor, il corpo invita/ Al canto e al ber dall’arruffata Gatta” (“Serravalle”). L’ “arruffata Gatta”, spiega G. Raminelli, era la signora Lavinia Onorina Marchiori, che viene rappresentata da Morelli con un gusto veramente degno del migliore realismo popolare, con la brava ostessa tutta sudata e rossa in viso per il gran lavorare. Poi, stroncata dalla fatica, quando di clienti ce ne son pochi, si accascia sul focolare, sfinita, a schiacciare un pisolino: “… Lieta e rossa a cucinar si mostra/Ogni qualvolta il proprio bar infuria,/ O sonnolenta al focolar si prostra/Cacciando un pisolin se v’è penuria…”. Altro quadretto, molto realistico invero della quieta e pigra vita della provincia, è “L’arrivo della corriera a Serravalle”. La notte è giunta, e  il campanaro, “l’uom di sacristia/Va a suonar l’Ave Maria”. Le donne sono in casa, a cucinare quello che c’è  sul focolare, ; i buoi nella stalla mangiano tranquilli in un ambiente caldo e vaporoso. Poi, tutt’a un tratto la sonnolenta vita di Serravalle è rotta: “Rimbombante nella sera/Giunge in piazza la corriera”. E, francamente, non si capisce bene se l’improvviso irrompere della “modernità” con il fragoroso rumore della corriera sia considerato un bene o un male da Morelli. Per lui era sicuramente “almeno” un fastidio: con la corriera arrivava anche la posta, e lui era costretto probabilmente a stare in ufficio fino a tarda ora ad attendere la consegna dei dispacci. E da quello che sappiamo, a parte la “gran fatica”, l’ambiente era angusto e freddo: “ Nella stanzetta ingombra d’ogni cosa/Che appena appena mi rivolto a stento,/Conduco un’esistenza laboriosa/Facendo sì che altrui resti contento” (“Stando in ufficio”). Qui sì, quando parla del suo lavoro, Morelli raggiunge il massimo del “realismo popolare”, che porta con sé la “protesta” per un’attività svolta per molte ore, in modo “vigile” e onestamente, ma sottopagata e protratta in un ambiente di cui tutto si poteva dire, tranne che fosse colmo di comfort: “Nell’Ufficio Postal senza portiera/Entra la nebbia al libero passaggio/… Prende i dispacci il vigile impiegato,/ E poi si chiude senza foco acceso/Battendo i pié per non restar gelato/…”  (“L’Ufficio Postale di Serravalle”). Quindi, dopo il lavoro, Morelli si concede, insieme con l’amico dottor Capatti,  la solita partita a carte di Quartilio. L’evento pressoché quotidiano assume connotati  scherzevolmente epici, con accenti fortemente ironici molto simili a quelli usati dal Parini nel “Giorno”. Il confronto vede “quattro eroi” a contendersi la vittoria: “ Quando sul medico il primato pende/Col gioco ch’esso tra le mani serra,/Sorge tosto il vicin postal che prende/ Con l’asso terzo e la vittoria afferra” (“I quattro giocatori da Quartilio”). Sì. Perché Morelli riusciva quasi sempre a vincere le partite con il dottor Capatti, che amichevolmente viene preso un po’ in giro, perché “Si crede professore/Ma raro è vincitor/”(“Brindisi per San Martino”). Gli incontri conviviali con il simpatico dottor Capatti, a base di buon salame, mettono allegria: “ Mi sento un fremito,/Afferro il bicchiere,/E senza scrupoli/Mi vuoto da bere/Alzando un brindisi/Che vien dal cuore/Mandando in estasi/Il nostro dottore, Che seppe vincere/Le nostre brame/ Col suo più splendido/E vecchio salame” ( “Con alcuni amici”). I brindisi vengono reiterati per San Martino, quando tutti gli amici si trovano insieme a casa di Capatti e “ Vuotando bicchieri/ In questa bell’ora,/I tristi pensieri/Mandiamo in malora” (“Per San Martino”,1931). Alla festa di San Martino Morelli aveva dedicato una poesia nel 1930, e ne farà seguire una terza nel 1934.  Ancora una volta ciò che viene posto in luce è l’occasione per incontrarsi tra amici in un ambiente caldo e confortevole, mentre “La nebbia da lontano/S’avanza lenta lenta./E’notte: al club Unione/Nell’aria riscaldata,/Le solite persone/Si godon la serata” (Per San Martino, 1930). La festa di San Martino era stata il soggetto di una felicissima poesia dell’amato Carducci: “San Martino”. Però,  in questo motivo reiterato tre-quattro volte, Morelli è in perfetta sintonia anche con le tradizioni popolari. Infatti era costume ritrovarsi tra amici la sera del 10 novembre, con abbondanza in tavola di marroni arrostiti, abbondantemente innaffiati di vino vecchio e nuovo. Durante le serate si recitavano le “zirundele”, filastrocche, spiega M. Roffi, “il cui tema prevalente sono le pesanti allusioni alle sventure coniugali… San Martino, infatti, nella sua infinita bontà, è protettore dei mariti sfortunati”, per i quali valeva un impietoso detto popolare: “Se tutt i becch i purtass al lampion/O mama mia che illuminazion!”, che non credo abbia bisogno di traduzione. (41)

Altra festa popolare particolarmente sentita è il Capodanno, che Morelli canta con cadenza ritmica allegramente rapida: “Tutti fan dell’allegria/Per quest’anno che va via, /Ricevendo con dolcezza,/Braccia aperte e tenerezza/L’anno nuovo appena nato/Per saper cos’ha portato;/Sarà tutta roba buona/Se il novello ce la dona…/ (“L’anno nuovo”). M. Roffi riporta un antico canto di Mesola che diceva, più o meno, le stesse cose: “ E l’anno vecchio è già passato,/ E’ stato ingrato – pien di viltà;/ Ma l’anno nuovo, l’anno novello/Che sarà quello – pien di bontà”. A Pontelagoscuro il popolo era un po’ più malizioso: “A son gnu a dar al bon an/ S’a sì becch l’è vostar dann”. La “crapula” con il Dottor Capatti sembra non avere mai fine: ogni occasione è buona per incontrarsi e per magnificare l’ospitalità di qualcuno; in questo caso “la cucina” del dottor Carinci, “Che vale un tesor./ E grido con enfasi/Con tutto il mio cuore, Alzando il calice/Di biondo liquore,/Evviva la cuoca/Del nostro dottore” (“A pranzo dal dottor Carinci col dottor Capatti”). Accanto all’osteria con i suoi personaggi tipici, alla festa paesana con la ricorrenza di San Martino, alle abbuffate di salame annaffiate di buon vino con gli amici, non mancano però gli affetti familiari, come il  doloroso e struggente ricordo della madre, che, attraverso i “proverbi”, frutto di una secolare esperienza del popolo, cercava d’istillargli nella mente il buon senso:  “Ricordo ancora mamma i tuoi proverbi/… Ed or che tu sei morta come un fiore/Troncato dalla bruma al freddo sole,/Povera mamma mia sento nel core/Che non son spese invan le tue parole (“Mamma”, 1937)”. Di fatto, il sentenziare gnomico è sparso qua e là nella poesia di Morelli, sempre venato di quel pessimismo popolare che ne costituisce l’ingrediente più evidente. Qualche rapido esempio: “Soltanto l’opra resta a dar l’esempio”(“Il pianto”), che è poi la parafrasi dell’epitaffio che egli scrisse per la sua tomba: “In questa tomba giace/e dorme eterno in pace/colui che in terra visse/e qualche cosa scrisse”. “Color che stanno in terra/Ch’han forza natural, Al debol fan la guerra/Se pur di sangue ugual;/Così il soggetto umano/Che vanta di virtù,/ Quand’ha la forza in mano/Tien l’altro in servitù.”(“Ricordo”).

   A conclusione di questa rapida  ricognizione sulla poesia di Morelli, voglio ricordare una lirica, del 1938, per un altro dei suoi “amori”, Ferrara, che, tra l’altro,  è in versi sciolti:

 

Io t’amo Ferrara!

Entro le mura chiusa

Conservi come una perenne sfida

Al tempestar del tempo

Ancora i segni intatti

D’una grandezza antica

Che i secoli passando

Lustro maggior t’han dato… (“Io t’amo Ferrara”, 1938. Non antologizzata)

 

Morelli sembra cogliere gli aspetti più tipici di questa città, che fu veramente grande nel Rinascimento, con una Corte splendida e una Università illustre, tanto da gareggiare per sfarzo e cultura con i maggiori centri italiani dell’epoca. Diciamo che fin qui Morelli resta dentro i canoni piuttosto ovvi di un’esaltazione della “grandezza antica” di Ferrara. A partire dalla terza strofa, però, c’è un qualcosa che scatta nella fantasia del poeta. Egli, come ipnotizzato dal fascino di Ferrara, prende a “sognare” ad occhi aperti; “la mente divaga”, “il presente fugge”, e gli pare quasi di rivivere nella città rinascimentale: “ E allora…/un zoccolar pesante/di cavalli frementi/irrompere impetuoso/sopra una piazza ruvida di sassi…/osservo quel passaggio/di cavalieri armati/scintillanti coperti/di colori vivaci/adorni di piume/svolazzanti al vento/madonne appese/ai cavalli sbuffanti/sventagliando l’aria/con le vesti di seta…”. Ora, quel che parrebbe un’invenzione poetica estremamente felice, si rivela invece il frutto della “lezione” del “Maestro” di Morelli: Carducci, che spesso si lasciava vincere  dal sonno e dal sogno: “Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti/ la calda ora mi vinse: chinòmmisi il capo tra il sonno in riva di Scamandro… sognai…”. Ma, a parte l’incoercibile coazione a ripetere la “siesta” nei caldi del “meriggio”, Carducci non solo aveva cantato Ferrara, posta sull’ “ondìsona riviera” del Po in un sonetto famoso di “Rime e Ritmi” (“Momento Epico”), ma aveva anche scritto una lirica particolare in onore della città estense: “L’Ode a Ferrara”. Quest’ode, tra l’altro, fu molto criticata da Thovez, ma trovò un valido difensore in Benedetto Croce che, grande ammiratore di Carducci, lo difese a spada tratta.

   “Ferrara, scrive Benedetto Croce, quale i principi estensi l’ampliarono e fecero bella e quale il visitatore la vedeva cinquant’anni or sono con le sue strade solitarie… parlava con la sua deserta grandezza alla fantasia di chi era pieno dei ricordi del suo passato…, e suggeriva a Carducci la spontanea e viva immagine delle strade aperte e preparate dai suoi principi per le Muse…”. (42) La pagina di Croce sembra scritta per la poesia di Morelli.

Quel che qui si vuol dire è che il “sogno” di Morelli fu del tutto simile a quello di Carducci, che, anch’egli soggiogato dalla vetustà di Ferrara, “sognava” del Tasso, il quale:  

 

D’Armida e di Rinaldo cantava: cantava Clorinda

con l’elmo e l’auree trecce, ed Erminia Soave.

Salgono su per l’aere dal canto le imagini; bionde

Maliarde sorprese dal lusingato amore;

vergini sospirose, che timide i ceruli sguardi

giran, chinando il viso pallido di desio.

 

 

E su questi versi del Carducci chiudo l’analisi su Anselmo Morelli, certo che l’accostamento con il “Maestro” non gli avrebbe fatto altro che piacere.

 

Enzo Sardellaro

 

 

 

 

 

 

Note

 

 

(1) Per un inquadramento d’insieme sulla poesia popolare cfr. l’articolo di G. Cocchiera, Dal Preromanticismo al Romanticismo. La scoperta della poesia popolare, in Cultura e Scuola, n° 12, pp. 13-19. Ottimi spunti di approfondimenti sono offerti anche nell’articolo di G.B. Bronzini, La raccolta di canti popolari pistoiesi/toscani (e italiani) di M. Barbi, in Cultura e Scuola, n° 117, pp.52-61. Per una visione ampia di testi popolari, si veda la raccolta, di facile reperibilità, curata da G. Vettori, I canti popolari italiani, Milano, Newton, 1995. Uno studio sempre attuale sulla poesia popolare è quello di P.P. Pasolini, La poesia popolare italiana, in Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1977.

Per i canti popolari ferraresi, cfr. G. Ferraro, Canti popolari piemontesi ed emiliani, Introduz. di R. Leydi,  Milano, Rizzoli, 1977, che riporta in appendice un importante e rarissimo saggio di D. Barella su Lo strambotto piemontese. Cfr. inoltre B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Bari, Laterza, 1933, pp. 1-64. Per la difesa dell’arte popolare, cfr. A.M. Cirese, Oggetti, segni, musei, Torino, Einaudi, 1977, in particolare il saggio Per una nozione di arte popolare: dislivelli, elaborazione, popolo-classi, pp. 105-118.

 

 

(2) Su U. Barbieri cfr. P. C. Masini, Poeti della rivolta, da Carducci a Lucini, Milano, Rizzoli, 1978, p. 273.

 

 

(3) Cfr. G. Berchet, Lettera semiseria. Poesie, a cura di A. Cadioli, Milano, Rizzoli, 1992, V. l’Introduzione, pp. 5-39, e in particolare le pp. 19-21.

 

 

(4) Su Bosi, Mercantini e Fusinato cfr. E. Janni, Poeti Minori dell’800, Milano, Rizzoli, 1955, pp. 75, 114, 100.

 

 

(5) Le espressioni sono di B. Croce, Le varie tendenze, armonie e disarmonie di Giosue Carducci, in La letteratura della nuova Italia, n° 2, Bari, Laterza, 1973, p. 36.

 

(6) M. Isnenghi, Valori popolari e valori “ufficiali” nella mentalità del soldato fra le due guerre, in Quaderni Storici, Maggio-Agosto 1978, n° 38, pp. 701-708.

 

 

(7) T. De Mauro, Per lo studio dell’italiano popolare unitario, in La lingua italiana oggi. Un problema scolastico e sociale, a c. di R. Renzi e M. Cortelazzo, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 156-160.

 

 

8) Per i nuovi modelli educativi di provenienza inglese, cfr. C. Giovannini, Pedagogia popolare nei manuali Hoepli, in Studi Storici, 1980, n° 1, pp.95-96.

 

 

(9) Brano a Brano, a cura di C. Ossola, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 47 n. 1, pp. 56-57 e 66-70.

 

(10) Per la nozione di “ceto di frontiera”, cfr. O. Macry, Sulla storia sociale dell’Italia liberale: per una ricerca sul “ceto di frontiera”, in Quaderni Storici,   Maggio-Agosto 1977, n° 35,  pp. 521-550.

 

 

(11) La definizione di Ragionieri in O. Macry, Sulla storia sociale…, art. cit., p. 548. 

 

 

(12) A. Montenegro, Politica estera e organizzazione del consenso. Note sull’ISPI: 1933-1943, in Studi Storici, 1978, n° 4, p. 778, 788

 

 

(13) Per le relazioni dei prefetti, e per l’effigie della “piovra” austro-ungarica, cfr. i documenti contenuti in M. Bontempelli-E. Bruni, Storia e coscienza storica, Il Novecento, Milano, Trevisini, 1998, vol. III, p. 99. Il documento è riprodotto dal volume di B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, Firenze, Vallecchi, 1969.

 

 

(14) P. Spriano, Storia d’Italia, I Documenti, Torino, Einaudi, 1973, Tomo II, pp. 1846-48.

 

 

(15) L. di Lembo, I polacchi d’Austria e Italia alla vigilia della grande guerra (maggio 1911-maggio1915), in Storia Contemporanea, 1979, n°6, p.1135.

 

16) L. di Lembo, I polacchi d’Austria…, art. cit., p. 1117, nota 88.

 

(17) P. Scoppola, La lega democratica nazionale, in Il cattolicesimo politico e sociale in Italia e Germania dal 1870 al 1914, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico, Bologna, Il Mulino, 1977, Quaderno 1, p. 119.

 

 

(18) P. P. Pasolini, La poesia popolare italiana, op. cit., p. 254.

 

 

(19) P.P. Pasolini, La poesia popolare italiana, op. cit., p. 259.

 

(20) Plotone di esecuzione, a c. di E. Forcella a A. Monticane, Bari, Laterza, 1072, p. 18.

 

(21) R. Munari, Ritmica e metrica razionale italiana, Milano, Hoepli, 1909. Ristampa anastatica dell’Istituto Editoriale Cisalpino-La Goliardica, Milano, 1985, p. 145. Sullo strambotto interessanti notazioni storiche in A.M. Cirese, Note per una nuova indagine sullo strambotto, in AA.VV. La Metrica, a c. di Cremante-Pazzaglia, Bologna, Il Mulino, pp. 339-348. Cfr. inoltre W. Th. Elwert, Versificazione italiana dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Le Monnier, 1989, pp. 148-49.

 

(22)  Cfr. A. Rochat, Colonialismo, in Storia d’Italia. Il mondo contemporaneo, a c. di N. Tranfaglia, Firenze, La Nuova Italia, 1980, vol. I, pp. 110-112.

 

(23) Cfr. C. Dota, Il dibattito sul problema coloniale nella stampa socialista, in Storia contemporanea, 1979, n° 6, p. 1079.

 

(24) F. Venturini, Militari e politici nell’Italia umbertina, in Storia contemporanea, 1982, n°2, p. 243.

 

25) Cfr. A. Vittoria, Totalitarismo e intellettuali. L’Istituto Nazionale fascista di cultura, in Studi Storici, 1982, n° 4, pp. 915-16

 

(26) Cfr. S. Sechi, Imperialismo e politica fascista, in Il regime fascista, a c, di Vernassa-Aquarone, Bologna, Il Mulino, 1974, p. 470.

 

 

(27) P. Morgan, I primi podestà fascisti, in Storia Contemporanea, 1978,, n° 3, pp.421-23.

 

 

(28) A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Torino, Einaudi, 1988, p. 81.

 

 

(29) A. Roveri, Una storia particolare (1861-1922) in AA.VV. Ferrara, Bologna, Ediz. Alfa, vol. II, pp. 109 sgg.

 

 

(30) I. Marighelli, Il linguaggio del dissenso fra le due guerre mondiali, in AA.VV., Ferrara, op. cit., vol. II, p. 264.

 

 

(31) I. Marighelli, Il linguaggio del dissenso…, art. cit., vol. II, pp. 271-74 e Glossario.  

 

 

(32) I. Marighelli, Il linguaggio…, in Ferrara, art. cit., vol. II, p. 264, colonna I.

   Inutile dire che la questione della religiosità popolare e in modo speciale di quella contadina ha una valenza, nel contesto di cui stiamo parlando, che va intesa nell’ottica degli studi che sono stati avviati a spiegare le ragioni profonde della tenace resistenza del fenomeno religioso specie negli ambienti rurali. Toccando sia pur marginalmente un tema di così complesse e vaste proporzioni, rilevo rapidamente che, avviatasi in età controriformistica, l’attività moralizzatrice della Chiesa nelle campagne si dispiegò in modo capillare, con l’intento di raddolcire i costumi particolarmente rozzi dei contadini, e predisponendo tutta una serie di strumenti per avvicinare il mondo contadino a quella che in quel tempo veniva definita la “creanza cristiana”. Tale precettistica religiosa, che si dispiegò nelle campagne emiliano-romagnole a opera del ferrarese Bartolomeo Frigerio, “erudito prete del XVII secolo”, e di Bernardino Carroli, “gentiluomo di campagna romagnolo”, attivo fin verso la seconda metà del ‘500, aveva come scopi precipui sia la correzione delle “malcreanze villanesche” sia, è doveroso sottolinearlo, un sostanziale controllo socio-culturale, tutto a favore della proprietà, dell’intera famiglia contadina,  dall’educazione morale-religiosa dei bambini a quella degli uomini adulti, delle ragazze e delle spose, non solo, diciamo, a livello di puro insegnamento catechistico, ma dettando tutta una puntuale precettistica comportamentale: in tal senso si trattò, evidentemente, di un vero e proprio indottrinamento perseguito da uomini che godevano di un fortissimo prestigio sociale e culturale. Si può quindi concludere dicendo che la religiosità di Morelli, vera, profonda e, oserei dire, atavica, affonda le sue radici in una tradizione educativa cattolica plurisecolare, costruita “ad hoc” soprattutto per le realtà rurali, e che fu rafforzata dalla scuola post-unitaria, ove la prima raccomandazione del Ministero fu relativa all’assoluta priorità dell’insegnamento religioso. Per quanto siamo andati dicendo sulla religione delle classi popolari, cfr. E. Casali, “Economica” e “creanza” cristiana in Religioni delle classi popolari, in Quaderni Storici, Maggio-Agosto 1979, pp. 555-583. Inoltre, sull’anticlericalismo in Emilia Romagna, cfr. C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, in Storia d’Italia, I caratteri originali, Torino, Einaudi, 1989, vol. II, pp- 669-70.

 

(33) A. Roveri, Una storia particolare…, art. cit., in Ferrara, vol. II, p. 109, col. 1.

 

 

(34) P. P. Pasolini, La poesia popolare italiana, op. cit., p. 177.

 

(35) W. Th. Elwert, Versificazione…, op. cit., p. 149.

 

(36) M. Fubini, Il sonetto, in Metrica e poesia, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 146-167.

 

(37) M. Fubini, Metrica e poesia, op. cit., p. 149.

 

(38) Brioschi-Di Girolamo, Elementi di teoria letteraria, Milano, Principato, 1984, p. 128.

 

(39) P. P  Pasolini, La poesia popolare italiana, op. cit., p. 182.

 

(40) T. De Mauro, Per lo studio dell’italiano popolare…, art. cit., p. 154.

 

(41) M. Roffi, La campagna “tiene” il folklore, in AA.VV., Ferrara, op. cit., vol. II, pp. 274-286.

 

(42) B. Croce, L’Ode a Ferrara, in La Letteratura della Nuova Italia, op. cit., pp. 399-400.


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