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Rosa d'Autunno

Di: Flavia Villa

 

Sono uscito fuori il balcone che il cielo cominciava a colorarsi di rosa, all'orizzonte una striscia arancione lo faceva apparire incandescente. Improvvisamente si è affacciata alla mente un'altra immagine di un giorno di settembre del 1943: «correvo tra le querce, incurante dei carpini che mi tagliavano le gambe, ero felice, cantavo finanche. Quando mi trovai dall'altra parte del pendio uno sconfinato campo mi faceva prevedere raccolti di frumento o di granturco, e già sentivo il sapore delle pannocchie lesse o arrostite sulla brace del caminetto quando. un freddo gelido alla nuca mi fece voltare di scatto: un soldato tedesco mi teneva fermo dietro la nuca la bocca della canna del suo mitra; cominciai a pregare, lui gridava parole che non capivo con voce minacciosa e occhi incandescenti. Ancora oggi non so chi mi diede il coraggio (forse il sentirmi già morto) di girarmi di scatto scansando la canna del mitra, gridando con voce ferma: «Che cazzo vuoi? T'ho fatto qualcosa? (ovviamente lo dissi in dialetto)» Il soldato, un ragazzo di poco più anziano di me, abbassò l'arma e cadde seduto, piangendo disperatamente. Col suo stentato italiano mi fece capire che avrebbe voluto un vestito di mio padre per indossarlo e darsi alla macchia. Lo convinsi a venire con me dai Carabinieri, ma il maresciallo disse che non aveva ordini per iniziative di quel genere; in poche parole non volle farlo prigioniero. Il giorno dopo alle 16, il ragazzo che mi aveva fatto tremare per un attimo veniva falciato dai colpi della mitraglia di un caccia americano: si chiamava Franz, fu sepolto nel nostro cimitero, era il 21 settembre. Solo nel 1949 i genitori lo riportarono a casa».

A volte un verso ti apre un'immagine nella mente e ricordi forse mai sopiti, ripassano, come un film sullo schermo, dinanzi ai tuoi occhi.

Oggi ho deciso di parlarvi della poesia di Flavia Villa un poeta donna di cui non so niente di niente se non di uno squarcio della sua anima impressa in questa poesia: «Rosa d'Autunno»

«E con te sogno di volare/

vedere tutto il mondo dall'alto/

a tutta velocità/

e camminare per prati pieni di fiori e di sole/»

Sono questi i versi che da ieri sera hanno accompagnato il torpore che precede il sonno, e quelli che mi hanno dato il buongiorno al risveglio, facendomi rivivere quello che ho raccontato.

«sotto un cielo ricco di stelle;

vedo tramonti rossi di strane città/

e arcobaleni dopo un temporale.

Ecco,sento il cuore che batte/

e il respiro profondo dell'amore./»

L'atto del poetare di Flavia Villa proviene da un incanto di realtà e schiettissimo. C'è un contrassegno direi fatale e carnale, fra la realtà e il sogno: marchio autentico di genialità. Quelle che lei afferma sentire nel cuore essere il respiro profondo dell'amore, non sono altro che «le supreme commozioni della sua vita».

E procede, unendo al ritmo del verso andature corali, popolari.

«Sono gli anni giovani/

e un ragazzo mi tiene stretta al cuore;/

è sera, siamo solo noi.Abbiamo vinto noi:/

Forte profumo della sua pelle, i capelli./»

La sua sensibilità spasmodica, non gli preclude l'ispirazione, ed in parte il cammino, verso una forma classica della vita e dell'arte; verso l'idea d'una felicità, puramente mediterranea.

Forse nessuno di noi saprà, come Flavia Villa, nel rapido e largo stacco dei suoi versi, riesce a raggiungere quel modernissimo e, al tempo stesso, naturale, popolaresco, proprio quello che oggi i critici lamentano non esistere nella poesia contemporanea.

Ella ci racconta le sue ragioni formali, in una sfera vasta e calorosa, dando un esempio d'eroica fedeltà alla poesia: un esempio di poesia testimoniata davvero col sangue.

«Guardi lontano, begli occhi?/

Inizia a far freddo.Forse è già ottobre./

Mi sorridi. "Ti porto a casa..."""No..."/

(Portami via, lontano, con te)».

Sembra un avvertimento simbolico, una specie di profezia.

L'arte che, nell'errore, assume talvolta un che di romantico, sa ritrovare, come finestre di mare brillanti in fondo a cupi vicoli, aperture e certezze verso felicità dorate; delicatezze che illanguidiscono il lettore e lo rapiscono portandolo nelle alte sfere della sua stessa immaginazione, pur in qualche asprezza del verso, apparsa improvvisamente nella realizzazione di un contenuto patito, cosciente, in cui si sente l'alito metallizzato delle chitarre, nel sorriso che precede la partenza per un luogo che non sia più la sua casa; un luogo fatto di sorrisi e in quei sorrisi Viola mostra il corpo vulcanizzato dall'esperienza.

Ma sensazioni ed immagini di questo genere, pur bellissime, interessano soprattutto come punto di distacco, verso una sua natura più profonda. E la piena purezza delle attuazioni appare, in vere e proprie illuminazioni liriche, dove si astraggono in geometrie di colori e arabeschi musicali, con raccordi semplicissimi di parole facili e ritornanti, che limitano e spartiscono vasti e limpidi spazi.

Reno Bromuro

 

 

 

 

 

 

 

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