CAPITOLO 1 - ARABI ED EBREI NELLA STORIA. PASSATO E PRESENTE

Intorno al 1880, data alla quale può essere fissato l'inizio del conflitto tra arabi ed ebrei, che ha dominato e continua a dominare tuttora la storia e la vita del Vicino Oriente, la Palestina era ormai da secoli un territorio esclusivamente arabo. Su una popolazione di circa mezzo milione di abitanti, gli ebrei erano circa 24.000, cioè appena il 4,8 per cento. Benché non esistessero ancora limitazioni al loro insediamento in Palestina, la stragrande maggioranza degli ebrei residenti nell'Impero Ottomano preferivano vivere al di fuori della Terra Santa, nelle altre regioni dell'impero, in particolare nella capitale Costantinopoli, dove, già nel 1844, il numero degli ebrei era superiore a quello che sarebbe stato raggiunto in tutta la Palestina quarant'anni dopo. La maggioranza degli ebrei residenti in Palestina vivevano a Gerusalemme che, dopo la guerra di Crimea, era divenuta la più grande città della Palestina con una popolazione di circa 25.000 abitanti, almeno la metà dei quali ebrei. Poiché la Città Vecchia, stretta nelle sue mura, non era più in grado di accogliere nuovi venuti, a partire dal 1861 gli ebrei costruirono fuori delle mura nuovi quartieri, tra i quali quelli di Nahalat Shiva (1869) e Me'ah She'arim (1872) che, sarebbero divenuti il nucleo della Città Nuova.

1.Gli ebrei e la Palestina

Gruppi molto piccoli di ebrei avevano continuato a vivere in Palestina anche dopo che la maggioranza della popolazione ebraica aveva abbandonato il paese disperdendosi ai quattro angoli della Terra. Gaza, Hebron, Gerusalemme, Nablus, Haifa, Shafer Am, Tiberiade e, soprattutto Safed e la zona circostante sono località nelle quali è accertata la presenza di nuclei di ebrei ininterrottamente almeno dal XIII secolo, cioè dall'epoca immediatamente successiva alla fine delle crociate.

Dagli inizi del XIX secolo la popolazione ebraica della Palestina era più che raddoppiata, passando da circa 10.000 invidui nel 1800 a 24.000 nel 1880. Tuttavia, questi ebrei si accontentavano di vivere in sostanziale buona armonia con la popolazione araba e non pensavano affatto a creare nel paese un loro Stato, tutto ed esclusivamente ebraico. Per loro il vivere in Palestina era una scelta religiosa positiva e qualsiasi idea di restaurazione di uno Stato ebraico era considerata con estremo sospetto come una manifestazione di pseudo-messianismo sacrilego.

Nel generale quadro di arretratezza del paese, gli ebrei palestinesi non rappresentavano certo un elemento sociale economicamente e culturalmente attivo e avanzato. Negli anni precedenti il periodo delle riforme del Tanzimat, essi costituivano "la comunità più depressa in Siria e in Palestina". Gli ebrei palestinesi formavano un gruppo umano amorfo, miserabile ancor più che povero, nemico di ogni progresso, chiuso al nuovo, tutto teso a salvaguardare e perpetuare gelosamente la propria ebraicità, intesa in un senso molto angusto e limitato.

Si trattava di un gruppo umano vivente in un quadro sociologico ancora medievale, caratterizzato da un estremo sottosviluppo culturale e intellettuale oltre che economico. La principale risorsa economica di questi ebrei palestinesi erano le misere sovvenzioni inviate dai loro correligionari europei e da qualche ricco filantropo, che consideravano un pio dovere l'assistere materialmente i loro fratelli in Terra Santa. Questo aiuto non aveva solo carattere caritatevole ma simbolizzava anche un legame, esprimeva anche simpatia e autoidentificazíone con quanti avevano deciso di passare la loro vita in Palestina dedicandosi allo studio e alla devozione. Tuttavia, questa carità soffocava ogni spirito di iniziativa e favoriva un modo di vita improduttivo e parassitario. Ai nativi del luogo si aggiungevano di tanto in tanto ebrei provenienti da paesi diversi e lontani, attratti a Gerusalemme, come scriveva Marx nel 1854, "solo dal desiderio di abitare nella valle di Giosafat e di morire nel luogo dove è atteso il redentore".

Sulla condizione degli ebrei in Palestina prima dell'inizio dell'immigrazione degli anni 80, esiste una preziosa testimonianza di Charles Netter, sotto forma di un rapporto sulla situazione degli israeliti d'Oriente presentato al Comitato centrale dell'Alliance israélite universelle nella seduta dell'11 gennaio 1869. Secondo la valutazione del Netter, la popolazione ebraica della Palestina era allora (1868) di circa 13.000 persone. I nove decimi di questi ebrei vivevano concentrati a Gerusalemme, Hebron, Safed e Tiberiade. Piccolissimi gruppi risiedevano a Giaffa, Haifa, Acri, Nablus e Ramleh. Complessivamente meno di 400 persone (il 15 per cento dei circa 2500 maschi adulti) erano impegnate in attività produttive (commercio e artigianato), mentre considerevole era il numero di coloro che si dedicavano all'insegnamento o allo studio del Talmud (si trattava di gente, come notava Netter, che aveva risolto "il problema di passare la vita studiando e di morire senza aver nulla appreso").

Le attività artigiane esercitate erano quelle di sarto, ciabattino, lattoniere, intarsiatore, legatore, orefice e orologiaio. Il commercio consisteva nell'importazione e nella vendita di oggetti comuni di consumo locale. In tutta la Palestina, Netter aveva avuto notizia di due soli ebrei agricoltori che, del resto, nei loro appezzamenti di terra impiegavano manodopera araba. La maggior parte degli ebrei di Palestina erano nati nel paese. Tuttavia era in aumento il numero di quelli che venivano da fuori, sia per sottrarsi alle persecuzioni antíebraiche, sia per finire i loro giorni nella Terra Santa.

Come ricordato, la principale risorsa economica di questa gente miserabile erano le sovvenzioni mandate dai loro correligionari europei, soprattutto polacchi. Il livello culturale corrispondeva alla disastrosa realtà economico-sociale. Grazie ai sussidi europei, a Gerusalemme funzionavano tre scuole (due maschili, una femminile) in cui alcuni volonterosi maestri locali insegnavano l'ebraico e le quattro operazioni a circa centosessanta bambini (alcuni dei quali già sposati). Va sottolineato il fatto che questi scolari ricevevano dalla scuola il vestiario, e i loro genitori sussidi in denaro, per cui è lecito ritenere che questi stimoli materiali non fossero del tutto estranei alla decisione di mandare i bambini a scuola. Nelle altre città della Palestina non c'era nemmeno questa parodia di istruzione.

Il quadro sociologico in cui vivevano gli ebrei palestinesi (gente chiusa e ignorante che si rifiutava ostinatamente a ogni rapporto non superficiale con il mondo circostante) era, come già detto, ancora sostanzialmente medievale. "Ma -si chiedeva Netter- se l'insegnamento in queste scuole fosse meno esclusivamente ebraico; più complesso sotto il rapporto della religione e della morale, se le scienze profane vi trovassero uno spazio maggiore, se istituzioni di questo genere fossero diffuse nel paese, tutto ciò cambierebbe la situazione dal punto di vista materiale? Verrebbe sanata questa piaga del pauperismo favorito da duemíla anni da una carità più attiva che intelligente? Questi affamati vengono a chiederci pane, vestiti. Non il pane dell'elemosina ma quello del lavoro! ".

Netter rilevava la volontà di questi ebrei di dedicarsi a un lavoro, ma registrava anche il fallimento dei tentativi fatti negli anni precedenti da sir Moses Montefiore sia nel campo dell'industria sia in quello dell'agricoltura. Le cause di quei fallimenti andavano ricercate sia nelle condizioni economiche generali del paese, di cui non si era tenuto adeguato conto, sia nell'inettitudine di quanti si erano improvvisati agricoltori. Dal canto suo, Netter riteneva che il riscatto economico e sociale degli ebrei palestinesi passasse attraverso il lavoro della terra e che le associazioni come l'Alliance israélite universelle dovessero preparare il quadro generale di questa trasformazione degli ebrei di Palestina in agricoltori, creando un'istituzione nella quale la futura generazione avrebbe dovuto essere addestrata al lavoro della terra. Quanto alla generazione presente, le sue sofferenze avrebbero dovuto essere alleviate con opportune iniziative filantropiche.

Gli ebrei palestinesi vivevano chiusi nel loro anacronistico mondo di miseria e di ignoranza senza essere eccessivamente importunati dalla popolazione araba musulmana. Come è stato rilevato, "malgrado la decadenza generale dell'Impero Ottomano nel XIX secolo, la Turchia restava fedele al suo atteggiamento liberale nei confronti degli ebrei i quali non avevano di che lamentarsi né del governo, né della popolazione musulmana".

Una preziosa testimonianza in merito ci è stata lasciata nella sua corrispondenza diplomatica dal ministro degli Stati Uniti a Costantinopoli, Horace Maynard. Nel 1877, Maynard ordinava ai consoli statunitensi nell'Impero Ottomano di "osservare attentamente la condizione degli ebrei all'interno dei loro distretti consolari e di riferire senza ritardo alla legazione ogni caso di persecuzione o di altro maltrattamento, richiamando su di essi in forma non ufficiale l'attenzione dei governatori o di altre autorità ottomane".

In un dispaccio del 27 giugno 1877 al segretario di Stato William M. Evarts, Maynard faceva quella che è stata definita "un'accurata descrizione della situazione degli ebrei in Turchia, prima della (prima) guerra mondiale": "Giustizia nei confronti dei turchi vuole che io dica che essi hanno trattato gli ebrei molto meglio di quanto non li abbiano trattati alcune potenze occidentali dell’Europa. Quando furono espulsi dalla Spagna essi trovarono asilo in primo luogo in Turchia, dove i loro discendenti vivono tutt’ora, distinguendosi dai loro correligionari per l'uso della lingua spagnola. Prevale l'impressione che sotto il governo turco il trattamento degli ebrei sia migliore di quello dei cristiani. Essi sono riconosciuti come una comunita religiosa indipendente, con il privilegio di avere le loro proprie leggi ecclesiastiche, e il loro rabbino capo (Hakham bashi) gode, grazie alle sue funzioni, di grande influenza. " Ieri, durante il mio incontro settimanale con il ministro degli affari esteri [Mehmet Esat Saffet Pascià], ho introdotto questo argomento. Sua eccellenza ha protestato che dove prevale la legge turca gli israeliti hanno sempre goduto di tutti i privilegi e le immunità accordati dalle leggi ai sudditi ottomani". Come è stato osservato, "in Palestina i dominatori ottomani trattavano gli ebrei con tolleranza e benevolenza".

Prima dell’Hatti Sherif di Gulhane – il rescritto imperiale del 3 novembre 1839 con il quale il sultano Abdulmecit I inaugurava il periodo delle riforme nell’Impero Ottomano (Tanzimat) – gli ebrei (come del resto i cristiani, sia pure in misura minore perché protetti dalle potenze europee), pur godendo di una certa autonomia all’interno della loro comunità e pur non incontrando sostanzialmente ostacoli nella pratica della loro religione, erano considerati e trattati come sudditi di seconda categoria e non godevano della pienezza dei diritti riconosciuti ai musulmani. Nulla comunque di paragonabile alle discriminazioni e interdizioni che colpivano gli ebrei nei paesi europei. Innanzitutto dovevano pagare una speciale tassa (cizye o harac; in arabo: Jiziah o kharaj ra’asi) per la protezione (zimmet; in arabo: dhimmet) concessa loro dal potere ottomano e per l'esenzione dal servizio militare. In secondo luogo godevano di una tutela limitata rispetto ai musulmani da parte dei tribunali. Inoltre, non erano eleggibili alle più alte cariche amministrative, non potevano portare armi, andare a cavallo nei centri abitati, indossare abiti musulmani. Nella sfera religiosa non potevano fare opera di proselitismo fra i musulmani né edificare nuovi luoghi di culto.

Queste limitazioni erano state eliminate di fatto nel periodo in cui (1831-1841) la Palestina e la Siria erano state governate da Ibrahim Pascià, figlio del vali d’Egitto, Mohammed Ali. Con l'Hatti Sherif di Gulhane, che estendeva le riforme del Tanzimat senza eccezione a tutti i sudditi della Porta, "a qualsiasi religione o setta essi appartengano", gli ebrei ottomani avevano ottenuto l'uguaglianza giuridica con gli altri abitanti dell’impero. L'Hatti Humayun promulgato dal sultano Abdulmecit I nel febbraio 1856 (alla vigilia della conferenza di Parigi che avrebbe messo fine alla guerra di Crimea e avrebbe riconosciuto – articolo 7 del trattato sottoscritto a conclusione della conferenza – "la Sublime Porta ammessa a partecipare ai vantaggi del diritto pubblico e del concerto europeo"), pose su basi giuridiche ancor più salde l'emancipazione della popolazione non musulmana. L'Islahat Fermani (decreto di riforma) del febbraio 1856 concedeva per la prima volta e in modo espresso e categorico piena eguaglianza giuridica alle "comunità cristiane e agli altri sudditi non musulmani". Le norme del decreto garantivano una completa libertà religiosa e l'eguaglianza di fronte alla legge e al fisco. In particolare, venivano abrogate le due maggiori misure discriminatorie che per secoli avevano indicato l'inferiorità dei non musulmani: la tassa per la protezione e il divieto di portare armi. Queste importanti riforme incontrarono l'aspra reazione della popolazione musulmana che si scatenò con violenza inaudita contro i cristiani. L'agitazione anticristiana, caratterizzata da violenze d’ogni genere e da omicidi, culminò nei massacri di Aleppo (1850), Nablus (1856) e Damasco (1860). Va però rilevato che gli "umili e discreti ebrei", che avevano avuto la prudenza di non ostentare l'ottenuta eguaglianza in modo da provocare la suscettibilità dei musulmani, non vennero coinvolti nemmeno marginalmente in questi tragici disordini. Certo, non bisogna farsi un quadro troppo idilliaco dei rapporti tra arabi ed ebrei. Va rilevato, tuttavia, che le prime significative manifestazioni di ostilità antiebraica (o, più esattamente, antisionista) si avranno in Palestina solo a partire dagli anni 80 del XIX secolo, quando avra inizio l'immigrazione sionista nel paese.

Fino a questa data, anche se non mancheranno episodi circoscritti di violenza individuale, gli ebrei subiranno quasi esclusivamente le molestie dei numerosissimi missionari delle varie confessioni cristiane (verso la fine del secolo a Gerusalemme la loro percentuale rispetto alla popolazione totale era incomparabilmente più elevata che in qualsiasi altra citta del mondo), che, essendo proibito per legge far opera di proselitismo tra i musulmani, avevano scelto come campo di evangelizzazione la comunità dei seguaci della religione mosaica e suscitavano con il loro comportamento invadente aspre e interminabili dispute religiose. Come scriveva Marx in un articolo del 1854, "per rendere ancora più infelici questi ebrei, nel 1840 [in realta nel 1841], Inghilterra e Prussia hanno nominato a Gerusalemme un vescovo anglicano, con il compito apertamente dichiarato di convertirli. Nel 1845 costui è stato bastonato di santa ragione e decisamente, in egual misura da ebrei, cristiani e turchi [cioe musulmani]. Si può ben dire che egli è divenuto nei fatti la prima e unica occasione di un accordo fra tutte le religioni a Gerusalemme".

Gli ebrei palestinesi, in prevalenza sefarditi, originari cioè del bacino del Mediterraneo, non costituivano un gruppo sociale omogeneo, ma erano frazionati sulla base della diversa origine nazionale, della lingua (se ne parlavano un vero mosaico: yiddish, arabo, ladino, tedesco, francese, inglese, persiano, georgiano) e delle congregazioni di carità di appartenenza. I vari gruppi conservavano la lingua e i costumi dei paesi d’origine, e poiché non comprendevano la lingua gli uni degli altri, per intendersi tra di loro erano costretti a parlare l'ebraico biblico, prima ancora che Eliezer Ben Yehuda resuscitasse la lingua ebraica dopo oltre duemila anni di letargo .

Gli ebrei palestinesi vivevano del tutto isolati da quelli della diaspora e questi ultimi non avevano nessun rapporto con la "terra dei padri". Secondo una leggenda saldamente consolidata e ampiamente accettata, e perciò tanto più dura a essere sfatata, gli ebrei, scacciati definitivamente dalla loro "patria storica" dalle legioni romane, per quasi duemila anni non avrebbero avuto altra aspirazione, altro scopo nella vita, che tornare in Palestina per rifondarvi il loro Stato nazionale. Nulla di più falso. Già dopo l'esilio babilonese, che coinvolse oltre al re di Giuda Ioiachin e al profeta Ezechiele circa 10.000 dei più importanti ebrei, nonostante l'autorizzazione concessa nel 538 a.C. dal re di Persia Ciro a tornare nella terra dalla quale erano stati deportati, solo una parte degli ebrei optarono per il rimpatrio in Palestina: 42.360 secondo Esdra. E' vero che in un salmo spesso citato per dimostrare "l'esistenza di un attaccamento di quasi 40 secoli dell'anima ebraica alla Palestina", è detto: "Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto al ricordo di Sion " (Salmo 137, 1-2), ma non è men vero che la maggior parte degli ebrei preferirono continuare a piangere e a sedere in Mesopotamia. "Solo una piccola minoranza approfittò della concessione del permesso di tornare (in Palestina) e di ricostruire il Tempio e la città di Gerusalemme. La maggior parte, certamente i più ricchi e le famiglie piu influenti, furono riluttanti ad abbandonare le loro case e istituzioni per partire verso nuove avventure. Durante l'intero periodo successivo ebrei vissero in gran numero in tutta la Babilonia, a sud come a nord, sotto i loro dominatori persiani".

La piu importante comunità ebraica rimase, dalla seconda metà del primo millennio a.C., quella della Mesopotamia con le sue Accademie che hanno prodotto il Talmud di Babilonia e con il suo esiliarcato (governo dell’esilio) che continuò a esistere, sia pure con alterna fortuna ma senza soluzione di continuita, a partire da Ioiachin, ultimo re di Giuda, fino al 1058 quando Yehizkiyyahu, 1’ultimo " Rashe Galuyyoth " (capo dell’esilio, esiliarca) morì sotto la tortura a Baghdad nel mezzo della scintillante civiltà del califfato abbasside.

A dispetto di tutte le costruzioni fantastiche che sono state fatte in merito dai suoi apologeti, il sionismo è un fenomeno moderno che non affonda affatto le sue radici nella millenaria storia ebraica: il sionismo, naturalmente, inteso come aspirazione politica al ritorno a Sion, nella "terra dei padri", dove solo avrebbe potuto realizzarsi il "destino" del popolo ebraico.

Dopo la prima dispersione (cattività babilonese), che era stata parziale e dalla quale, come si è visto, erano tornati solo una parte degli esiliati e dei loro discendenti, gli ebrei non furono più espulsi o deportati in massa dalla Palestina ma se ne andarono spontaneamente. Contrariamente a quanto è stato sostenuto e si continua a sostenere, la conquista romana di Gerusalemme nel 70 non ebbe come conseguenza l'esilio dalla Palestina degli ebrei, che continuarono a costituire la maggioranza della popolazione in Giudea e in Galilea. Nemmeno la rivolta antiromana di Bar Kokhba del 132-135 ebbe come conseguenza la cacciata dalla Palestina degli ebrei, che per tutto il II secolo continuarono a vivere in Galilea, in altre regioni della Palestina e nell’attuale Transgiordania. Ancora al tempo della conquista musulmana vivevano in Palestina consistenti gruppi di ebrei che ebbero una parte nel successo arabo contro i bizantini, così come, pochi anni prima, avevano favorito la conquista sassanide della Siria-Palestina.

Gli ebrei, quindi, non sono stati scacciati con la forza dalla Palestina, ma se ne sono andati spontaneamente per motivi economici o di altro tipo, finendo col fondersi con i popoli del bacino del Mediterraneo. "Non di rado l'emigrazione era il risultato di cause economiche come, ad esempio, i movimenti degli ebrei dalla Palestina verso l'Egitto a causa della carestia, o l'emigrazione moderna dall’Europa orientale verso l'America a causa delle difficili condizioni economiche [...]. La tendenza generale del movimento ebraico fino al secolo XIX fu pressappoco la seguente: nella prima metà di questo periodo gli ebrei si spostarono dai paesi di cultura economica inferiore verso paesi di alta cultura economica, come l'Egitto e la Babilonia, mentre nella seconda metà di questo periodo emigrarono da paesi di alta cultura economica verso quelli di cultura economica bassa, come l'Europa orientale " o l'Impero Ottomano, dove però erano al riparo dalle persecuzioni.

Dal canto loro, gli ebrei rimasti in Palestina si sono fusi con le altre popolazioni del paese finendo con l'arabizzarsi. Le ricerche etnologiche dimostrano, con buona pace dei sostenitori della "purezza" del popolo ebraico, che gli ebrei contemporanei discendono solo in minima parte dagli antichi ebrei e sono nella stragrande maggioranza elementi giudaizzati, spesso nemmeno di origine semitica, originari del bacino del Mediterraneo e delle regioni meridionali dell'attuale Unione Sovietica, per non parlare degli ebrei neri d'Etiopia, i falascià, solo di recente riconosciuti come ebrei a tutti gli effetti dalle autorità civili e religiose israeliane.

Per 18 secoli la storia della Palestina è rimasta estranea agli ebrei, non per una sorta di coatta cattività, ma per la sostanziale estraneità degli ebrei a questa terra. Una significativa riprova di ciò si trova nella cosiddetta "Corrispondenza Khazara", uno scambio di lettere avvenuto dopo il 954 e prima del 961 tra Hasdai Ibn Shaprut, probabilmente la più rappresentativa figura dell' "eta d'oro" degli ebrei spagnoli (900-1200), primo ministro del califfo di Cordova, e il re dei khazari, Giuseppe.

Al sovrano del regno ebraico dei khazari, Ibn Shaprut scriveva: "Sento il bisogno di conoscere la verità, se esiste realmente in questa terra un luogo in cui il tormentato Israele puo governare se stesso, in cui non è assoggettato a nessuno. Se venissi a sapere che le cose stanno davvero così, non esiterei a rinunciare a tutti gli onori, a dimettermi dal mio elevato incarico, ad abbandonare la mia famiglia, e a viaggiare per monti e pianure, per terra e per mare, finché non giungessi nel luogo dove regna il mio signore, il re [ebreo]. [...] Ho anche un’altra richiesta: essere informato se siete a conoscenza della [possibile data] del Miracolo Finale [la venuta del Messia] che, errando di paese in paese, stiamo aspettando. Disonorati e umiliati nella nostra dispersione, abbiamo ascoltato in silenzio coloro che dicono: Ogni nazione ha la propria terra; solo voi [ebrei] non possedete nemmeno un’ombra di un paese su questa terra".

Questa lettera, considerata come una delle più antiche manifestazioni del sionismo, è interessante sotto due aspetti. Da una parte perché testimonia quanto fosse sentita dagli ebrei la menomazione per il fatto che solo Israele, fra le nazioni, non avesse una terra, uno Stato propri, e quanto profonda fosse l'aspirazione alla restaurazione di uno Stato ebraico; dall’altra, però, perché mostra anche che la rinascita nazionale ebraica non era per nulla collegata alla "terra dei padri". Anche l'invocazione rituale "l'anno prossimo a Gerusalemme" che per secoli ha continuato a riecheggiare nelle preghiere degli ebrei per la Pasqua e per il giorno del Grande Perdono (Yom Kippur), è sempre stata rivolta a un'ideale città celeste, che ha un suo proprio posto solo nell'ufficio divino e nelle aspirazioni ultraterrene, piuttosto che alla concreta e reale citta di Gerusalemme.

Nemmeno la cronica e bestiale persecuzione a cui gli ebrei sono stati sottoposti nel corso dei secoli ha mai suscitato, fino ai giorni nostri, un moto politico di rimpatrio e di restaurazione della patria ebraica in Palestina. E' vero che falsi profeti, falsi messia e sedicenti illuminati -si pensi, per esempio, al "messia" di Smirne Sabbatai Zvi, che nella seconda metà del XVII secolo suscitò un'immensa speranza di redenzione nei ghetti dell'Europa orientale e occidentale- sfruttarono di tanto in tanto la nostalgia tenuta debolmente accesa da una rigida tradizione religiosa, e tentarono di realizzare il sogno del ritorno a Sion; ma tutti i loro tentativi mistico-religiosi, utopistici quando non semplicemente truffaldini, fallirono miseramente, spesso in un clima farsesco come, appunto, nel caso di Sabbatai Zvi che, messo dopo varie peripezie di fronte alla scelta tra il martirio e la conversione all’Islam, si affrettò a farsi musulmano.

Beniamino di Tudela, che visitò la Palestina nel 1170, stimò che la popolazione ebraica vi fosse di 1440 persone. Secondo un viaggiatore italiano di Livorno, nel 1523 erano circa 3700 divisi tra Gerusalemme (1500), Safed (1500) e altre località (700). Nel XIV secolo, quando vi fu un limitato movimento immigratorio di ebrei dalla Germania, gli ebrei palestinesi li accolsero con ostilità e distrussero la sede che i nuovi arrivati avevano creato per la loro comunità. Gli ebrei scacciati dalla Spagna e dal Portogallo alla fine del XV secolo non emigrarono in Palestina, ma preferirono riversarsi in Olanda, in Gran Bretagna, in Italia e in Germania. Anche quando, nel XVI secolo, dopo aver conquistato la Palestina, il sultano ottomano Selim I Yavuz (il Crudele) permise e favorì l'afflusso di ebrei nel paese, non più di 10.000 nel corso di una generazione vi si stabilirono. Ancora all’inizio del XIX secolo, in tutta la Palestina si contavano non più di 10.000 ebrei, 2-3000 dei quali vivevano, secondo Seetzen, a Gerusalemme, in buona armonia con gli arabi, anzi in gran parte arabizzati.

2. Gli arabi e la Palestina

Nel 1880 la Palestina era una regione dell'Impero Ottomano ed era generalmente considerata una parte della Grande Siria. Con la riforma provinciale del 1864, l'Impero Ottomano era stato diviso in vilayet (province) governati da vali. Ogni vilayet era diviso in sanjak (sangiaccati) amministrati da mutasarrif. Il sangiaccato era diviso in kaza (distretti) amministrati da kaymakam. Il kaza era infine suddiviso in nahiye (unione di villaggi adiacenti con una popo1azione complessiva da 5000 a 10.000 abitanti) affidati alla responsabilita di mudir.

La Palestina, che faceva parte del vilayet di Sham (Siria), era stata divisa nei tre sangiaccati di: Acri, con cinque kaza (Acri, Haifa, Safed, Nazareth, Tiberiade); Nablus -fino al 1888 chiamato Belqa- con tre kaza (Nablus, Jenin, Tulkarem); Gerusalemme con cinque kaza (Gerusalemme, Giaffa, Gaza, Hebron, Beersheba). Nel 1887 il sangiaccato di Gerusalemme, in quanto sede dei Luoghi Santi, divenne un mutasarriflik indipendente il cui mutasarrif era responsabile direttamente nei confronti del governo centrale di Costantinopoli, dei suoi ministeri e dipartimenti di Stato. Nel 1888, quando venne creato il vilayet di Beirut, gli altri due sangiaccati palestinesi vennero compresi nel suo territorio. Quindi, nel periodo che ci interessa, la Palestina meridionale e centrale era governata da Gerusalemme e quella settentrionale da Beirut.

Secondo il geografo francese Vital Cuinet, i tre quarti della popolazione palestinese erano concentrati nel mutasarriflik di Gerusalemme, dove c'era più terra arabile che nell'aspro e montagnoso nord del paese. La maggioranza della popolazione era costituita da musulmani sunniti. Circa il 16 per cento della popolazione totale era costituito da arabi cristiani, molti dei quali vivevano a Gerusalemme, Betlemme, Giaffa, Nazareth e Haifa. Nelle zone settentrionali del paese vivevano anche piccoli gruppi di drusi e di musulmani sciiti. In vari punti del paese vivevano gruppi di nomadi beduini.

La popolazione araba della Palestina non aveva allora un atteggiamento diverso da quello degli abitanti degli altri territori arabi dell’Asia turca. I palestinesi, come i siriani e come gli abitanti della Mesopotamia, aspiravano ancora solo a un'autonomia locale nel quadro dell’Impero Ottomano e non avevano specifiche aspirazioni e rivendicazioni nazionali. Il loro nascente nazionalismo si confondeva con il nascente nazionalismo arabo.

Va tuttavia rilevato il fatto che, al di là delle vicende storiche, politiche e amministrative che ne avevano caratterizzato la vita, la Palestina aveva mantenuto ininterrottamente, dai tempi dell’occupazione romana, una sostanziale unità e caratteri specifici che ne facevano un'entità per certi aspetti distinta dagli altri paesi arabi limitrofi. Anche quando era scomparsa la vecchia unita della Filastin come divisione amministrativa, il nome era rimasto a indicare non solo il territorio dello Jund Filastin, ma quello più ampio della Palestina moderna e della Transgiordania.

Dopo lo schiacciamento dell'ultima rivolta ebraica, quella capitanata da Bar Kokhba nel 132-135, i romani avevano ribattezzato la provincia di Giudea (che comprendeva la regione costiera da Cesarea a Rafa, 1’Idumea, la Giudea propriamente detta, la Samaria, la Perea in Transgiordania, la Galilea, e la Decapoli eccetto le città di Damasco e Canatha) con il nome di Syria Palaestina. Alla fine del IV secolo il territorio della Palestina venne diviso in Palaestina Prima, con capitale a Cesarea, comprendente la regione costiera, la Giudea, la Samaria, l'Idumea e la Perea (a est del Giordano); Palaestina Secunda, con capitale a Scythopolis (Bet-Shean), comprendente la Galilea centrale e orientale e la parte settentrionale dei territori a est del Giordano (Decapoli); Palaestina Tertia, con capitale a Petra, comprendente i territori meridionali dell'attuale Transgiordania, il Negev e il Sinai.

I conquistatori musu1mani mantennero questa divisione cambiando solo i nomi e le capitali: la Palaestina Prima divenne Jund Filastin, cioè distretto militare della Palestina, con capitale a Ramleh; e la Palaestina Secunda, alla quale venne annessa la Galilea occidentale, Jund al-Urdun, distretto militare del Giordano, con capitale a Tiberiade (Tabariyyah) ; la Palaestina Tertia venne assorbita parte nello Jund Dimashk (distretto militare di Damasco) e parte nello Jund Filastin. Nel X secolo lo Jund Filastin venne ampliato fino ad Amman a est e fino al golfo di Aqaba a sud. Nel XII-XIII secolo venne abbandonato il nome ufficiale di Filastin per quello di al-Quds-Sahil (cioè La Santa [nome arabo di Gerusalemme] - Territori costieri). Tuttavia, la vecchia divisione territoriale restò in vigore fino all'invasione mongola del XIII secolo. Sotto il dominio dei mamelucchi (1239-1516) il territorio della Palestina venne suddiviso in una serie di distretti inclusi nella grande provincia (Niaba) di Damasco. Scompariva così la vecchia unità della Filastin come divisione amministrativa. Tuttavia, il nome continuava a indicare il territorio del vecchio Jund Filastin. Gli ottomani non ristabilirono l'unità amministrativa della Filastin, che venne suddivisa nei tre sangiaccati di Gerusalemme, Gaza e Nablus che facevano capo al pascialik (provincia) di Damasco. Per molti aspetti, però, i tre sangiaccati continuarono a essere considerati come qualcosa di unitario, e a più riprese vennero anche fusi di nuovo insieme (così, nel periodo in cui fece parte dell’Egitto di Mohammed Ali, dal 1831 al 1841, l'intera Palestina tornò a costituire un unico distretto).

La giurisdizione del Qadi (giudice religioso e civile musulmano) di Gerusalemme si estendeva agli altri due sangiaccati. Sul piano militare, le truppe dei tre sangiaccati palestinesi avevano in comune, oltre agli ordinari compiti imperiali, quello specifico di proteggere i pellegrini che visitavano la Terra Santa. Sul piano religioso e specificamente palestinese la celebrazione musulmana di al-Nebi Musa (Mosé) che ogni anno faceva affluire pellegrini da tutta la Palestina alla moschea fatta edificare dal sultano mamelucco Baybars nei pressi di Gerico, sul luogo dove, secondo la tradizione musulmana palestinese, sorgerebbe la tomba di Mosé.

La giurisdizione del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme, capo della più venerabile e autorevole istituzione cristiana del paese, si è estesa ininterrottamente sul territorio della Palestina e della Transgiordania, anche se dal tempo delle crociate al 1867 il patriarca risiedette a Costantinopoli. Esercitavano la loro autorità su tutta la Palestina anche il vescovado anglicano di Gerusalemme, creato nel 1841, e il patriarcato latino di Gerusalemme, ristabilito nel 1847, dopo che, per un periodo di 556 anni (dal 1291, quando la fortezza di Acri era stata occupata dai musulmani), la dignità di patriarca latino di Gerusalemme era stata un titolo meramente onorifico.

Risulta chiaro da quanto precede una specificita della Palestina, all'interno della grande regione siriana, che si è mantenuta nel corso dei secoli. Questa specificità è confermata dalla persistenza nel tempo del concetto di Filastin come territorio a sé, non facente parte della Siria. Come ha rilevato il Rodinson, "la coscienza di una certa specificità del territorio meridionale dell'insieme siriano, come il ricordo del nome che lo aveva designato all’epoca greco-romana sono sopravvissuti durante tutto il periodo in cui esso non corrisponde più a un'unica circoscrizione amministrativa".

Il concetto di Filastin si è consolidato nella misura in cui si veniva precisando il pericolo sionista. L'ostilità nei confronti del sionismo, sviluppatasi in mezzo alla popolazione palestinese, "ha influito profondamente sullo sviluppo della coscienza della specifica identità della Filastin anche precedentemente, ma soprattutto dopo la prima guerra mondiale". Appaiono quindi del tutto infondate sul piano storico e inaccettabili su quello politico affermazioni come quella secondo cui "non era come se ci fosse stato in Palestina un popolo palestinese che si considerava esso stesso come un popolo palestinese, e come se noi [ebrei] fossimo venuti e lo avessimo buttato fuori e ci fossimo impadroniti del suo paese. [Questo popolo] non esisteva".

Affermazioni del genere, la cui inconsistenza storica appare a prima vista, non vogliono avere un carattere accademicamente sociologico o storico, ma sono le premesse (errate) di (errate e funeste) conclusioni immediatamente politiche. Come è stato osservato, il significato di affermazioni del genere vuol essere che "non c'è nazionalismo autentico senza autentica nazione; ciò che non esisteva ieri (almeno nella stessa forma) non può esistere oggi e non ha diritto di esistere domani; le persone che vi si riferiscono non costituiscono una forza o una struttura politica nei cui confronti sia possibile applicare le normali regole della guerra e della pace; non si tratta, né si fa una guerra normale con un'accozzaglia di individui disparati, un insieme di cricche, bande di terroristi, eccetera".

I palestinesi costituiscono, e non da ieri, un popolo con caratteri specifici, un territorio, una tradizione e una storia propri. Come è stato riconosciuto nel rapporto della Commissione reale per la Palestina presieduta da lord Peel, presentato al Parlamento britannico nel luglio 1937, "per quanto fossero poveri e trascurati, per gli arabi che vi vivevano la Palestina -o, più precisamente, la Siria di cui la Palestina ha fatto parte dai tempi di Nabucodonasor- era pacificamente il loro paese, la loro casa, la terra in cui il loro popolo era vissuto e aveva lasciato le sue tombe nei secoli passati".

All'origine del popolo palestinese troviamo le tribù autoctone, in particolare quelle dei filistei, dei cananei, dei moabiti, degli edomiti e degli ammoniti. La penetrazione in Palestina degli ebrei guidati da Giosuè non ebbe come conseguenza l'eliminazione delle tribu indigene. Contrariamente a quanto sostenuto in alcuni libri biblici (Numeri, Deutoronomio e Giosuè) non vi fu conquista totale e rapida della Palestina da parte delle tribù ebraiche con sterminio sacro (Hérem) delle popolazioni esistenti (a eccezione degli abitanti di Gabaon e di tre altre piccole citta che si sarebbero sottratti a questa orribile sorte con un sotterfugio) in conformità all’ordine di Mose (Deutoronomio, 7, 1-6), e susseguente spartizione del paese tra le tribù degli invasori. La sostituzione brusca e violenta della nuova popolazione a quella preesistente, soste- nuta in alcuni libri biblici, è solo un "pio desiderio", l'espressione, cioè, presentata come un fatto storico realmente avvenuto, del rimpianto per come si sarebbe voluto che fossero andate le cose per preservare il popolo di Israele dalla contaminazione con gli altri popoli.

L’insediamento degli ebrei in Palestina fu un processo lungo, lento e progressivo che lasciò sopravvivere accanto alle tribù israelite le vecchie popolazioni che non furono né sterminate né scacciate: "E avvenne che Israele, divenuto piu forte, rese tributari i cananei ma non riuscì a scacciarli" (Giudici, 1, 28). Tra le due popolazioni si ebbe, al contrario, un processo di fusione: "I figli di Israele abitavano dunque in mezzo ai cananei, agli etei, agli amorrei, ai ferezei, agli evei e ai gebusei. Presero anche per mogli le loro figlie e diedero ai loro figli le proprie figlie, servendo i loro dei" (Giudici, 3, 5-6).

Gli scavi archeologici "mostrano che non ci fu sostituzione di una nuova civiltà alla civiltà cananea che sarebbe stata annientata. Non ci sono state due civiltà, ce n'è stata solo una [...]. Gli israeliti hanno dunque adottato le tecniche dei cananei, le loro arti, le loro industrie: cosa che ha potuto realizzarsi solo nel corso di una lunga coesistenza pacifica". Se dopo l'insediamento delle tribù di Israele in Palestina vi fu ebraizzazione si tratta di un fenomeno superficiale che lasciò sostanzialmente sopravvivere le popolazioni locali accanto alle tribù degli ebrei.

Maggior influenza etnica ebbero invece la conquista assira e quella babilonese, che portarono nel paese nuovi gruppi umani che si mescolarono con quelli preesistenti. Ulteriori fusioni si ebbero con l'occupazione della Palestina da parte dei persiani, dei regni ellenistici e, soprattutto, dei romani. Come è stato rilevato, "nel corso del millennio che va dalla conquista da parte dei babilonesi dell'ultimo Stato ebraico, il piccolo regno di Giuda, nel 587 a.C., alla conquista araba del 634-640, la regione palestinese perse la forte specificità in precedenza assicurata dall'egemonia dell'etnia ebraica e dalla limitazione delle relazioni economiche e di altro genere".

Va tuttavia notato che, attraverso le successive fusioni, le vecchie popolazioni della Palestina continuavano a perpetuarsi senza soluzione di continuità sia pure dando vita a una nuova etnia, sostanzialmente identica a quella che si era venuta formando attraverso tanti apporti disparati in tutta la regione della Grande Siria. Il segno linguistico di questa unificazione etnica, economica e culturale è rappresentato dalla scomparsa delle varie lingue tribali (ebraico, fenicio e altre lingue semitiche della regione) come lingue parlate e dall'adozione di una sola di esse, l'aramaico. La specificità della popolazione palestinese era rappresentata dal maggior apporto dell'elemento ebraico e arabo.

Dopo la conquista musulmana ebbe inizio un doppio processo di arabizzazione (relativamente rapido) e di islamizzazione (mai compiuto del tutto, per la permanenza di un consistente elemento cristiano) che si è protratto per secoli. Agli elementi etnici della popolazione palestinese arabizzata si sono successivamente uniti altri elementi apportati da nuove migrazioni o invasioni (turchi, armeni, circassi, eccetera, e anche europei venuti con le crociate e in parte assimilatisi alla popolazione locale). A conclusione si può affermare che i palestinesi, come la maggior parte degli altri "arabi", sono soprattutto degli arabizzati, autoctoni che hanno adottato la lingua e i costumi arabi e, col tempo, hanno acquisito la convinzione di avere anche una comune origine araba.

3. La situazione economica

Sul piano economico, nella seconda metà del XIX secolo 1a Palestina era un paese prevalentemente agricolo, con una formazione economico-sociale di tipo ancora precapitalistico dominata dal latifondo, molto simile a quella esistente nei circostanti territori arabi. Simile a quella delle altre province arabe dell’Impero Ottomano era anche la struttura sociale della Palestina. La maggioranza della popolazione era formata da contadini poveri (fellahin) che vivevano nei villaggi e lavoravano la terra dei latifondisti e degli altri proprietari fondiari. La massa della popolazione era analfabeta, povera, ignorante e inerte sia socialmente sia politicamente.

Prima dell'inizio delle riforme del Tanzimat godevano di notevole potere e indipendenza gli sceicchi dei villaggi, soprattutto perché esercitavano la funzione di esattori delle tasse per conto delle autorità, in genere a titolo ereditario. Con il varo delle riforme fiscali e amministrative che modificavano il sistema di esazione delle tasse, questi sceicchi persero i tradizionali privilegi e la maggior parte, se non la totalità, del loro potere politico.

La decadenza dell'autorità degli sceicchi di villaggio portò al consolidamento delle già forti posizioni dell’élite urbana e al concentramento di tutto il potere politico e religioso nelle mani delle grandi famiglie musulmane che vivevano nelle maggiori citta. Le più influenti di queste famiglie di ricchi latifondisti erano quelle di Gerusalemme, non solo perché venivano dalla Città Santa, ma per il fatto che la loro città era il centro amministrativo di un mutasarriflik indipendente, che competeva con Damasco, mentre Nablus e Acri dipendevano da Beirut.

Le grandi famiglie di Gerusalemme e delle altre città palestinesi erano fortemente interessate al mantenimento dello stato di cose esistente e perciò erano particolarmente fedeli all’Impero Ottomano. Queste famiglie monopolizzavano le funzioni di esattori delle tasse, dominavano i consigli amministrativi e controllavano le cariche religiose più importanti. Inoltre costituivano l'élite intellettuale e condizionavano l'ideologia religiosa e laica e il livello di coscienza della popolazione. In breve dominavano tutti gli aspetti della vita politica, economica, religiosa e sociale della Palestina.

Il commercio rivestiva un carattere essenzialmente locale (le esportazioni non superavano il volume annuo di 10 milioni di franchi dell’epoca) e le prime timide forme di industria erano ancora di tipo artigianale. Il modo di produzione dominante nelle campagne era caratterizzato da un’articolazione dei modi tributario, comunitario a tendenza patriarcale e piccolo mercantile semplice. A differenza di altri territori dell’Impero Ottomano, in Palestina (come in Siria e nel Libano) una notevole parte delle terre era rimasta nelle mani dei latifondisti locali che si erano prontamente adattati al regime ottomano, accettando l'autorità del sultano e il versamento annuale delle tasse, in cambio del riconoscimento del diritto di continuare a sfruttare i contadini. Comunque, una parte importante delle terre non coltivate, già di proprietà delle tribù, era divenuta proprietà demaniale, mentre i grandi latifondisti avevano usurpato terre statali e comunitarie. La maggior parte delle terre appartenevano ai grandi proprietari fondiari (effendi), al demanio statale, alle istituzioni religiose islamiche e anche cristiane. Parte delle terre erano di proprietà comunitaria a base tribale e infine una parte era proprietà privata di piccoli e medi agricoltori. La grande proprietà fondiaria era di tipo assenteista. Gli effendi vivevano nelle città dove spendevano le rendite della terra che un ferreo sistema repressivo di sfruttamento costringeva i contadini a produrre.

Come ricordato, al vertice della piramide sociale c’era un ristretto numero di grandi famiglie, che monopolizzavano oltre alla terra anche le principali cariche nell’amministrazione civile e religiosa. Tra le più importanti famiglie c'erano quelle degli al-Husayni, degli al-Khalidi, dei Daganis, dei Tukan, degli Abd el-Hadis, dei Nashashibi e dei Sursuq. Queste famiglie, oltre ai latifondi, monopolizzavano anche l'amministrazione dei beni religiosi. Così, gli al-Husayni, che dalla metà del XIX secolo detenevano la carica di mufti di Gerusalemme, erano anche i tradizionali amministratori delle terre waqf della moschea di al-Nebi Musa (Mosé) nei pressi di Gerico. Molto estese erano le terre waqf, appartenenti alle istituzioni religiose e di beneficienza. Poiché queste terre erano esenti dalle imposte e dalla confisca, molti piccoli proprietari cedevano le loro terre alle istituzioni religiose conservandone l'uso a vita (il più delle volte a titolo ereditario per i loro discendenti): all'istituzione religiosa erano dovute da questi ex proprietari prestazioni in denaro e in natura. Le terre demaniali erano affittate a fittavoli che erano tenuti a versare annualmente una determinata somma di imposte in denaro o servizi e prestazioni in natura a profitto dell'amministrazione demaniale.

Diffusa era la forma arcaica di proprietà fondiaria con i suoi tre stadi: proprietà tribale, comunitaria e familiare indivisa. La proprietà tribale si era venuta modificando in seguito al graduale frazionamento delle tribù in piu rami ed era stata progressivamente sostituita dalla proprietà di vicinato, cioe comunitaria. La famiglia indivisa patriarcale (unione di persone e di beni), basata sui legami di sangue e sui principi che ne derivavano: l'indivisibilita e l'inalienabilità della proprieta fondiaria, rappresentava il terzo stadio della forma arcaica di proprietà fondiaria – risultato della disgregazione della proprieta tribale e di quella comunitaria (di villaggio) – che già si avviava a trasformarsi in proprieta privata commerciabile, all’epoca ancora un’eccezione anche se in passato era sempre limitatamente esistita come sopravvivenza del diritto romano. Oltre che dalla disgregazione della proprietà tribale, comunitaria e familiare, la formazione della proprietà privata fondiaria era favorita dalla vendita sul mercato pubblico delle terre confiscate.

Il latifondo era stato potentemente favorito dalla riforma fondiaria del 1858 (Arazi Kanunnamesi). La nuova legislazione, adottata nel quadro delle riforme del Tanzimat per consolidare in tutto l'Impero Ottomano i suoi successi sui vecchi detentori del potere, era stata concepita originariamente per riaffermare il diritto dello Stato sui possedimenti imperiali che, nel corso dei secoli, in un modo o nell'altro erano stati usurpati e sottratti al controllo governativo. La legislazione interessava non solo le terre demaniali sfruttate privatamente ma anche le terre che erano state esentate dalla tassazione in cambio di speciali prestazioni locali allo Stato e le aree divenute pascoli pubblici.

Tutte le imposte fondiarie vennero sostituite da un'unica tassa del 10 per cento di tutta la produzione. Le vecchie categorie islamiche di proprietà vennero sostituite da cinque nuove categorie che riflettevano i principali tipi più comuni di proprietà: 1. Proprietà privata (mulk), 2. proprietà statale (miri), 3. terre delle fondazioni religiose (waqf), 4. terre comunali o pubbliche (metruk), 5. terre aride o desertiche (mevat).

Per favorire l'applicazione della nuova legge fondiaria venne introdotto un nuovo regolamento catastale (Tapu Nizamnamesi), in base al quale tutte le terre e proprietà di ogni provincia dovevano essere esaminate per verificare che corrispondessero ai principi della riforma. Ogni persona o istituzione che rivendicava una determinata proprietà doveva essere in grado di esibire un titolo legale da registrare nei nuovi registri catastali. Praticamente non esistevano limiti all'estensione della proprietà e non venne creata un'organizzazione statale in grado di controllare e di assicurare che i proprietari, una volta affermato legalmente il loro titolo di proprietà, assolvessero gli obblighi ai quali erano tenuti.

La riforma del 1858 ebbe conseguenze profondamente negative in quanto da un lato favorì l'ulteriore sviluppo del latifondo e, dall'altro, ruppe il tradizionale equilibrio nelle campagne a danno esclusivo dei contadini (col pretesto che le loro terre erano incolte vennero letteralmente spogliati i nomadi beduini). I grandi proprietari accrebbero i loro possedimenti esibendo false documentazioni per provare i loro "diritti" sulle terre senza incontrare ostacoli, ma anzi trovando compiacenti complicità nel corrotto apparato amministrativo ottomano. Nello stesso tempo riuscirono a eludere l'obbligo, imposto dalla legge, di coltivare una data estensione della terra in proprietà. L’ingrandimento dei latifondi venne anche favorito, da una parte dal fatto che molti piccoli e medi proprietari e numerose collettività che detenevano la terra da tempo immemorabile non erano in grado di esibire la prescritta documentazione legale e quindi venivano privati dei loro diritti che passavano ai latifondisti grazie al diffuso impiego delle false documentazioni; dall'altra, dal fatto che "numerosi contadini, non volendo registrare la loro terra per timore che ciò avrebbe comportato una maggiore tassazione o coscrizione, la registravano a nome dei loro capi o potenti notabili urbani. Di conseguenza questi acquisirono l'assoluta proprietà delle terre con pieno diritto di cessione e successione confermato dal governo, mentre i contadini – i veri coltivatori – persero i loro reali diritti e divennero mezzadri o fittavoli alla mercé dei loro nuovi padroni".

Così, solo una piccola parte delle terre era nelle mani dei contadini: circa il 20 per cento in Galilea e circa il 50 per cento in Giudea. La piccola proprietà contadina superava raramente i 50 dunam . Di contro, 240 famiglie concentravano nelle loro mani proprietà per un'estensione di 4 milioni 143 mila dunam – all'incirca l'equivalente dell'intera area posseduta da tutti i contadini in Palestina – con una media di 16.572 dunam per famiglia. La proprieta piu vasta era quella della famiglia Sursuq che nella sola valle di Jezreel possedeva 230.000 dunam. Le terre demaniali (senza contare le dune, i terreni desertici, le riserve forestali, le paludi, eccetera) avevano un'estensione molto vicina al milione di dunam.

Secondo le varie stime, le terre delle istituzioni religiose musulmane (terre waqf) andavano da un minimo di 650.000 dunam a un massimo di un milione di dunam. Molto estese erano anche le proprietà delle diverse Chiese cristiane, in particolare di quella ortodossa, che l'Hatti Humayun (Rescritto imperiale) del 1856 aveva assimilato a tutti gli effetti alle proprietà waqf. A partire dal 1871 avevano cominciato a estendersi alcune colonie formate da immigrati europei, soprattutto tedeschi.

Quanto agli ebrei, il filantropo britannico sir Moses Montefiore aveva acquistato nel 1855 delle terre a Giaffa, Gerusalemme, Tiberiade e Safed, ma i tentativi di crearvi insediamenti agricoli ebraici erano falliti. Per iniziativa dell’Alliance Israélite Universelle, nel 1876 era stata creata, senza prospettive politiche, la scuola agricola sperimentale di Mikveh Israel, su un terreno concesso dal governo ottomano nei pressi di Giaffa. Nel 1878 un gruppo di ebrei di Gerusalemme aveva tentato di fondare una colonia agricola su un appezzamento di terra acquitrinosa acquistato nel luogo dove sarebbe sorta Petah Tiqvah, ma ben presto questi coloni avevano dovuto rinunciare all'impresa a causa di una devastatrice epidemia di malaria.

Come il resto dell'Impero Ottomano, anche la Palestina era scarsamente coltivata. Secondo una valutazione fatta nel 1895 da Vital Cuinet e confermata da Negib Azoury, non più del 10 per cento dell’intero territorio. L’estensione delle terre coltivate variava da distretto a distretto. Era massima in quelli di Gerusalemme (900 km su 2200, pari al 41 per cento) e Giaffa (900 km su 2600, pari al 35 per cento); minima in quelli di Hebron (200 km su 5800, pari al 3,5 per cento) e di Gaza (200 km su 11.400, pari all'1,8 per cento). Va inoltre rilevato che la coltivazione era di tipo estensivo e non intensivo.

A tutto ciò va aggiunta la sopravvivenza dell'antiquato sistema di conduzione detto della musha, secondo il quale le terre di proprietà collettiva dei villaggi ripartite tra i singoli coltivatori venivano ridistribuite ogni due anni. Questa precarietà della permanenza sui lotti di terra rappresentava un grave ostacolo a qualsiasi miglioria (la proporzione dei villaggi dove vigeva il sistema della masha era superiore al 50 per cento). La precarietà era il carattere dominante anche sulle terre dei latifondisti che venivano concesse in locazioni annuali revocabili ad arbitrio del proprietario. Altra causa di permanente crisi dell’agricoltura era la mancanza di capitali che non consentiva investimenti per la miglioria dei fondi, né, soprattutto, opere di irrigazione indispensabili in un paese dove le precipitazioni sono limitate a una stagione di breve durata. Conseguenza della mancanza di capitali era l'estrema diffusione della piaga dell'usura.

Nel 1868 venne adottata una legge che concedeva agli stranieri il diritto alla proprietà immobiliare nell'impero. Aggiungendosi alle immunità e privilegi che risultavano dalle Capitolazioni, questa legge segnava una nuova tappa nel processo di colonizzazione economica dell’Impero Ottomano: esso aveva salvato per il momento la sua indipendenza, ma la penetrazione europea continuava. E la protezione delle popolazioni cristiane era ormai solo un pretesto per una politica d'intervento centrata sulla sola ricerca del profitto e di influenza negli affari interni dell’impero.

Nonostante la sua arretratezza, la Palestina non era un territorio desertico e abbandonato, "una terra senza popolo" secondo la formula sionista. Come scriveva Negib Azoury nel 1905, "grazie alla loro superiorità incontestabile, i prodotti della Palestina sono ricercati dovunque. Gli orzi di Bir-Sabeh, della piana di Saaron e della vallata del Giordano, sono molto apprezzati in Inghilterra per la fabbricazione della birra; le spedizioni da Gaza, che hanno luogo tutti gli anni nel mese di maggio, arrivano per prime a Londra e spuntano i prezzi più alti. I grani, teneri e duri, del Hauran e della Transgiordania sono molto apprezzati in Europa per la fabhricazione dell'amido e delle paste alimentari. Lo stesso è per gli altri prodotti palestinesi: arance e miele dal gusto dei fiori d'arancio di Giaffa, olio e sapone di Nablus, uve di Hebron, balsamo di Gerico e di Engaddi, celebri nell'antichita, eccetera eccetera".

L'industria, ancora di tipo artigianale, produceva sapone (a Nablus, Lydda, Gaza, Ramleh) che veniva esportato per un valore di 3 milioni di franchi francesi dell’epoca all'anno, oggetti di vetro (a Hebron) esportati soprattutto in Siria e in Egitto, corde e vasi di terracotta (a Gaza e Mejdel). Il paese era anche ricco di sorgenti di acque minerali e termali, e possedeva ricchezze minerali (pietre preziose, carbon fossile, sale, rame, ferro, marmo giallo e rosso, bitume, cloro, zolfo, fosforo, petrolio, sabbia per la fabbricazione del vetro, eccetera).

Come ha scritto il Rodinson, "malgrado l'imperizia e la corruzione dell'amministrazione ottomana, malgrado le turbolenze beduine, la Palestina araba era una regione sufficientemente vitale dal punto di vista economico. Nazareth, Betlemme e Gerusalemme beneficiavano dell’attività dovuta ai pellegrinaggi europei. Nablus era un importante centro in mezzo ai frutteti. Attivi erano soprattutto i porti di Haifa e di Giaffa. A Giaffa erano prosperi i giardini di alberi da frutto, soprattutto quelli di agrumi. Nel 1880, quando [la Palestina] era ancora totalmente in mani arabe, vi si raccoglievano trenta milioni di arance in parte esportate in Europa. Si esportavano anche sapone, sesamo, grano, eccetera. In Galilea e in Samaria venivano coltivati su vasta scala il grano, l'orzo, il granturco, i ceci, le fave. Agricoltura modesta del tipo mediorientale dell'epoca, industria o manifattura nascenti, ma niente affatto un deserto".

Il malgoverno e le esazioni dell'amministrazione ottomana rappresentavano però un grosso ostacolo allo sviluppo economico del paese. Annualmente il governo di Costantinopoli rastrellava in Palestina 30 milioni di franchi francesi. Di questa somma non più di 3 milioni venivano spesi nel paese, il resto prendeva la via della capitale dell'impero. A causa dell'oppressivo sistema ottomano, fattosi intollerabile soprattutto dopo l'avvento al trono di Abdulhamid II nel 1876, e del sistema agricolo dominato dal latifondo, in Palestina e Transgiordania si verificava il paradosso che le zone economicamente più sviluppate erano quelle montuose dell'interno, che godevano di un regime di semi-indipendenza e nelle quali gli esattori del sultano non osavano avventurarsi. Così, la Palestina, che ai tempi biblici "nutriva abbondantemente 15 milioni di persone governate da re e principi attorniati da corti brillanti e che vivevano in modo sontuoso, in grandi capitali come Gerusalemme, Tiro, Petra, Gerash, ora era appena in grado di provvedere a 300.000 disgraziati che vegetavano nella miseria, abitando in capanne infette, non cambiandosi quasi mai d’abito e consumando un solo miserabile pasto al giorno".

4. Le Potenze e la Palestina

Come si è già ricordato, la Palestina faceva parte integrante dell’Impero Ottomano. Tuttavia, nel 1880 anche in questo territorio ottomano l'influenza politica e la penetrazione economica e culturale delle potenze europee e degli Stati Uniti d’America avevano raggiunto dimensioni rilevanti e inquietanti. La Francia godeva tradizionalmente nel paese di una posizione di privilegio da quando, nel XVI secolo, il sultano Suleyman I Muhteshem (il Magnifico) aveva riconosciuto al governo di Parigi la funzione di protettore dei cattolici e dei Luoghi Santi cristiani. Questa posizione speciale era stata confermata e garantita formalmente dalle Capitolazioni del 28 maggio 1740 che agli articoli 33-36 e 82 facevano specifico ed esplicito accenno ai Luoghi Santi palestinesi e al ruolo che vi aveva la Francia.

Tuttavia, questa posizione era stata scalzata da quando, nella seconda metà del XVIII secolo, l'India era venuta assumendo un peso decisivo per la potenza britannica. Soprattutto al tempo della campagna napoleonica in Oriente, la Gran Bretagna aveva acquistato la coscienza acuta dell’importanza strategica decisiva che aveva per la sicurezza delle comunicazioni con l'India il controllo del Mediterraneo orientale e di paesi come l'Egitto e la Palestina. Dal canto suo, la Francia, come aveva mostrato la spedizione di Napoleone in Oriente, vedeva nel controllo del Mediterraneo orientale e della Palestina un mezzo per indebolire la potenza britannica e minacciare l'India. Quanto alla Russia, essa era interessata alla Palestina per indebolire l'Impero Ottomano e raggiungere quindi più facilmente l'obiettivo di assicurarsi l'accesso ai mari caldi attraverso il controllo degli Stretti.

Con l'acuirsi della rivalità tra le potenze europee, la Palestina divenne sempre più un punto focale della "Questione d’Oriente". Come scriveva nel 1841 il futuro maresciallo Helmuth von Moltke, che fu il primo tedesco a sostenere l'importanza della Palestina per gli interessi germanici, la Palestina era la porta dell’Oriente. Situata sulla principale via di comunicazione tra l'India e l'Europa, "i suoi porti e le sue strade sarebbero stati riempiti dei tesori dei due continenti", mentre, dal punto di vista strategico, la Palestina sarebbe stata "un bastione per la protezione della Siria contro l'Egitto [...] se quest’ultimo paese fosse stato governato da una dinastia ereditaria diversa da quella ottomana".

Non nutrendo eccessiva fiducia nella vitalità e nelle possibilità di sopravvivenza dell’Impero Ottomano, il von Moltke sosteneva che fosse indispensabile per gli interessi tedeschi che la Germania assumesse il controllo diretto della Palestina. Tuttavia, la politica suggerita dal von Moltke non trovò grande ascolto a Berlino. Bismarck riteneva che la Germania non avesse particolari interessi nello scacchiere mediorientale. Egli era convinto che la regione "non valesse le ossa di un solo granatiere di Pomerania". Cardine della sua politica era la ricerca di relazioni amichevoli sia con la Russia sia con l'Austria, entrambe estremamente interessate al Medio Oriente. Per evitare qualsiasi sospetto a Pietroburgo e a Vienna e inutili complicazioni con i due imperi amici egli dichiarò perciò che la Germania non nutriva interesse alcuno per questa regione.

Dal canto loro, gli inglesi, convinti che fosse essenziale per i loro interessi e per l'equilibrio tra le potenze mantenere in vita l'Impero Ottomano, ritenevano che fosse possibile assicurarsi la difesa delle vie di comunicazione con l'India, attraverso il controllo indiretto della Palestina da raggiungere promuovendo l'insediamento in Terra Santa degli ebrei sotto la sovranità formale e la protezione del sultano. Venuta meno la possibilità di un controllo diretto sulla Palestina, a causa dell'elevato numero di pretendenti che si neutralizzavano a vicenda, il pretesto religioso fu la leva usata dalle varie potenze per riuscire a penetrare e a insediarsi stabilmente nel paese.

Negli anni precedenti l'occupazione della Palestina da parte di Ibrahim Pascià, missionari protestanti britannici e statunitensi avevano cercato invano di ottenere l'autorizzazione a creare loro istituzioni regolari a Gerusalemme e in altri centri del paese. Desiderando mantenere buone relazioni con le Potenze, Ibrahim Pascià, una volta occupata la Palestina, concesse che venissero istituite non solo missioni ma anche scuole. Gli americani misero piede nel paese anche con il pretesto della ricerca geografica e archeologica biblica.

Nel 1838 la Gran Bretagna ottenne l'autorizzazione ad aprire a Gerusalemme il primo consolato straniero (nel 1699-1700 e 1713-1715 erano stati aperti e poi chiusi effimeri consolati francesi). Negli anni successivi, tutti gli Stati europei di una certa importanza aprirono loro consolati nella Città Santa. L’importanza di questa svolta può essere valutata pienamente se si tiene conto che le varie potenze si autoproclamarono protettrici di questa o quella minoranza religiosa, arrogandosi così un diritto di ingerenza nella vita interna della Palestina, tanto più aperto e invadente quanto maggiore diveniva la dipendenza politica ed economica del governo di Costantinopoli da quelli delle Potenze.

Come si è visto, la Francia era tradizionale protettrice dei cattolici. Dopo la conclusione del trattato di Kucuk Kaynarca del 1774, l'Impero Russo pretese il diritto di proteggere i fedeli greco-ortodossi e mise sotto la sua ala protettrice il patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme. Non essendo ancora riconosciuto il protestantesimo come comunità religiosa separata (Millet) la Gran Bretagna approfittò della guerra turco-egiziana del 1839-1841 per proclamarsi protettrice degli ebrei e dei drusi. All’origine di questa tutela sugli ebrei troviamo il suggerimento avanzato nel dispaccio del 14 marzo 1839 al ministro degli esteri lord Palmerston dal console britannico a Gerusalemme, William Young: "Signore, ci sono qui, da tener presenti, due partiti che senza dubbio riterranno di aver diritto a dire la loro sulla futura sistemazione degli affari locali: il primo è quello degli ebrei ai quali originariamente Dio ha dato il possesso di questo paese; e l'altro quello dei cristiani protestanti, loro legittimi eredi. Vorrei umilmente suggerire che la Gran Bretagna appare il naturale tutore di entrambi. Costoro hanno cominciato a prendere qui la loro posizione tra gli altri pretendenti".

Quando nel 1850 i protestanti vennero riconosciuti ufficialmente come membri di un millet separato, la loro protezione venne assunta dagli Stati Uniti. Estranea ai giochi fu invece la creazione di colonie tedesche in Palestina da parte di un gruppo di templari avvenuta a partire dal 1868, nonostante l'opposizione del governo di Berlino che fino alla svolta dell’ultimo scorcio del XIX secolo ostenterà disinteresse per la Palestina.

Nei disegni di penetrazione colonialista in Palestina, un ruolo di grande importanza viene riservato agli ebrei. Appare estremamente ricco di significati e di conseguenze il fatto che molto prima che il movimento sionista cominciasse a perseguire le stesse idee come possibilità pratiche, politiche, vi siano stati numerosi progetti cristiani di insediare nuovamente gli ebrei in Palestina e di restaurare la loro sovranità sul paese. "In questo senso si può dire che i primi sionisti siano stati i cristiani sionisti. [...] Nel secolo o due precedenti la nascita del sionismo, gli storici del "protosionismo" registrano una considerevolmente maggior proporzione di cristiani che di ebrei tra i promotori e i sostenitori di tali progetti e fantasie millenaristici".

Va tuttavia rilevato che, mentre il sionismo è il movimento teorico e pratico che persegue la soluzione della questione ebraica nei suoi molteplici aspetti attraverso la restaurazione della sovranità ebraica in Palestina, il sionismo cristiano perseguiva obiettivi tutt’affatto differenti: in primo luogo il controllo della Palestina per i fini politici, economici, militari delle diverse potenze europee; in secondo luogo il desiderio, non sempre confessato, di deviare in Palestina il flusso della migrazione ebraica che altrimenti si sarebbe diretto dall'Europa orientale verso la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti. "L’idea politica di liberazione nazionale e, soprattutto, calcoli politici relativi all’importanza strategica della Palestina, furono un altro complesso di motivi [oltre a quelli religiosi] che guidarono i progetti e le idee cristiano-sionisti, prima che sorgesse il sionismo ebraico".

Per le principali potenze interessate alla "Questione d’Oriente", gli ebrei erano nient’altro che utili pedine nei piani per estromettere i turchi dalla Palestina. Durante la guerra russo-ottomana del 1768-74, la Russia appoggiò la rivolta di Ali Bey contro i turchi, e per sostenere il suo alleato fece ricorso agli ebrei. Ufficiali della marina zarista mediarono un tentativo di accordo tra lo shayk al-balad d’Egitto e gli ebrei di Livorno, dove era basata la flotta russa, per l'acquisto di Gerusalemme da parte di questi ultimi

Nel corso della sua campagna d’Oriente, il 20 aprile 1799 Napoleone rivolse agli ebrei d’Asia e d’Africa un proclama nel quale prometteva di "dar loro la Terra Santa" se si fossero schierati dalla sua parte contro il sultano. Un ebreo francese, Joseph Salvador, chiese pubblicamente la convocazione di un congresso europeo con l'obiettivo di reinsediare il popolo ebraico nella sua antica patria.

Nel suo romanzo The Wondrous Tale of Alroy, Disraeli mette in bocca al suo eroe queste battute: "Mi chiedete cosa voglio; la mia risposta è: la Terra Promessa. Mi chiedete cosa voglio; la mia risposta è: Gerusalemme. Mi chiedete cosa voglio; la mia risposta è: il Tempio, tutto ciò che abbiamo perso, tutto ciò che abbiamo bramato, tutto ciò per cui abbiamo combattuto, il nostro bel paese, il nostro santo credo, le nostre semplici maniere, le nostre antiche usanze".

Nel 1839 il "Globe" di Londra, portavoce del Foreign Office, pubblicò una serie di articoli, ispirati da Palmerston, nei quali si preconizzava la creazione di uno Stato tampone indipendente tra l'Egitto e la Turchia in Siria e in Palestina e una colonizzazione massiccia della regione da parte degli ebrei. Il 17 agosto 1840 il "Times", pur riconoscendo che la maggioranza degli ebrei europei non sarebbero emigrati in tempi brevi in Palestina, sosteneva che un afflusso di ebrei orientali nel paese non era un’illusione. Gli ebrei europei erano abbastanza ricchi per comprare il paese dal sultano e il nuovo Stato avrebbe dovuto essere garantito dalle grandi potenze.

Le finalità strategiche dell’interesse britannico per la Palestina erano ammesse apertamente nel 1852 nell’opuscolo di un certo Hollingsworth il quale sosteneva che la creazione di uno Stato ebraico in Palestina avrebbe consentito alla Gran Bretagna di difendere e tenere aperta la via dell’India. Va però rilevato che nel periodo 1840-1880 durante il quale esercitò un’influenza preponderante se non esclusiva sul governo di Costantinopoli e sugli affari interni dell’Impero Ottomano, la Gran Bretagna non sostenne apertamente l'idea di una sovranità ebraica sulla Palestina ma si limitò, per non irritare i turchi, a sostenere l'insediamento di colonie ebraiche in Terra Santa. Successivamente, a mano a mano che si veniva precisando la minaccia di una crescente penetrazione e influenza della Germania nell’Impero Ottomano, il governo di Londra, per non offrire pretesti ai circoli antibritannici di Costantinopoli, mise la sordina anche al suo appoggio agli ebrei e ai programmi sionisti. E proprio tenendo conto della preoccupazione di non irritare la suscettibilità della Porta che si spiega l'iniziativa britannica, di cui si parlerà piu avanti, di favorire la creazione di una sede nazionale ebraica, nella regione di el-Arish e, fallito questo progetto, in Uganda.

L’occasione favorevole per realizzare l'idea di uno Stato ebraico sembrò presentarsi con il Congresso di Berlino del 1878. Al principe Bismarck, presidente del congresso, venne presentato un memorandum che suggeriva la creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Ma la proposta venne scartata dal cancelliere tedesco come "un’idea folle". Anche se fosse stata posta all’ordine del giorno del congresso, la proposta non avrebbe avuto nessuna possibilita di successo in quanto, ancor prima dell’apertura del congresso, con la convenzione anglo-ottomana del 4 giugno 1878, la Gran Bretagna si era impegnata, in cambio dell’isola di Cipro e del diritto di interferire negli affari interni della Turchia, a difendere "con la forza delle armi" i territori asiatici dell’Impero Ottomano.

Le nascenti rivalità imperialistiche tra le potenze europee servono quindi, per il momento, a mantenere in vita "l'uomo malato", in quanto le ambizioni degli Stati che miravano a spartirsi la "carcassa del turco" si elidevano a vicenda e nessuno voleva o poteva assumersi la responsabilita di turbare un equilibrio già tanto fragile la cui rottura rischiava di scatenare un conflitto di incalcolabili proporzioni. Di questo rinvio beneficieranno i territori asiatici dell'Impero Ottomano, primo fra tutti la Palestina.