Von Balthasar H. U - Ratzinger J., Perché sono ancora Cristiano. Perché sono ancora nella Chiesa, Collana: Meditazioni 182 Queriniana, Brescia 32005, pp. 102, € 6.00

 

Le domande di questo libro sono di grande attualità, soprattutto in questo tempo in cui la chiesa si interroga su come ri-annunciare il Vangelo, su come presentarsi a questo mondo in cui la sua realtà «si spegne nelle anime e si disgrega nelle comunità» (p. 75) e su quale sia l’unica identità del cristiano. Il saggio, diviso in due sezioni, presenta, nella prima, una riflessione del teologo e cardinale Hans Urs von Balthasar (Perché sono ancora Cristiano, p. 9-70), e, nella seconda, la riflessione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, oggi al “timone” di quella Chiesa su cui si interroga (Perché sono ancora nella Chiesa, p. 73-101).

Nella prima sessione, von Balthasar fa una panoramica introduttiva sulla situazione della Chiesa post-conciliare, approfondita successivamente dal Ratzinger. Anche nelle opere di san Tommaso d’Aquino, non si trovi un discorso ecclesiale (una chiesa che riflette su se stessa) approfondito in termini teologici. La chiesa, concentrata sulla sua attività missionaria, «continuava a essere la forma che trascendeva se stessa nella materia dell’umanità, così come nella parabola evangelica il lievito che da solo è immangiabile, rivela la propria utilità non appena è messo nelle tre misure di farina» (p. 9). Quest’essenza della vita ecclesiale, la sua vocazione apostolica, riemerge con il Concilio Vaticano II, dopo una lunga fase in cui la riflessione ecclesiologica aveva assunto un carattere per lo più istituzionale. I cristiani sono richiamati a riscoprire la necessità di un annuncio credibile, vivo per questo mondo. Realizzare la chiesa non è una “romantica avventura di sogno”, o almeno lo è come fu l’impresa dei primi cristiani che si preparavano ad affrontare la fiorente civiltà pagana, solidamente affermata in tutto il mondo politicamente e militarmente: eppure bastarono due secoli per realizzare quella che sembrava un’utopia.

L’autore, allora, si domanda: “Con quale forza di convinzione” oggi «il Concilio invia di nuovo i cristiani in mezzo al mondo? Anzi questa forza non dovrebbe essere più potente e concentrata, dal momento che questo mondo è più complesso, pluralistico e contraddittorio di qualsiasi civiltà antica?» (p. 11). La chiesa deve divenire una comunità dinamica dotata, allo stesso tempo, della forza dell’unità e della molteplicità per inserirsi nelle varie realtà mondane. Ai cristiani è proposto un progetto da superuomini, da santi, tanto più se si pensa che la loro forza è e rimane l’impotenza del Crocifisso: essi debbono «immedesimarsi intimamente con il Signore crocifisso e nello stesso tempo con gli uomini, di cui  Egli ha sopportato la miseria  e l’abbandono, fino ad identificarsi con loro» (p. 12).  Essi devono riscoprire e tornare ad annunciare la bellezza del Cristo, che irrompe nella storia con una “sconcertante provocazione”. La bellezza dell’essere cristiani è di avere un Dio che non può essere definito se non come “Amore”.

La necessità di ridare alla vita dei credenti una dimensione tutta cristologica, ritorna nell’intervento del Ratzinger, il quale afferma che la chiesa non è «soltanto una organizzazione che si può trasformare» (p. 77), un sistema che gli sforzi umani devono rendere più efficiente con le loro riforme: questo è lo sguardo riduttivo con cui oggi siamo soliti contemplarla. Nel suo significato originale, la riforma è un “processo spirituale”, e come si diventa cristiani attraverso la conversione, così «la chiesa rinnova la propria vita soltanto convertendosi continuamente al Signore, evitando di chiudersi in se stessa e nelle proprie care abitudini così facilmente contrarie alla verità» (p. 79). “La morte di Dio”, espressione cara al nostro tempo, «è un processo del tutto reale, che penetra oggi  profondamente all’interno della chiesa. Dio muore nella cristianità […] Infatti là dove la risurrezione diventa l’esperienza di una missione sentita come superata, Dio non è più presente con la sua opera» (p. 80).

Perché allora rimanere nella chiesa? Perché non si può credere da soli. La fede è possibile soltanto in comunione con altri credenti: «il suo modello è la Pentecoste, il miracolo di comprensione che si instaura fra uomini di provenienza e di storia diverse» (p. 92). 

«Credo che la fede sia una vera necessità per l’uomo e per il mondo. Dove non c’è Dio non c’è neppure la verità che è prima del mondo e dell’uomo. Ma in un mondo senza verità non si può vivere a lungo» (p. 94). Tanti sistemi di pensiero hanno cercato di rispondere a questo bisogno dell’uomo, che desidera un “mondo senza dolori, malattie e miserie” (la psicanalisi, il marxismo…), ma «soltanto sopportando se stesso e liberandosi dalla tirannide del proprio egoismo, l’uomo ritrova se stesso, la propria verità, la propria gioia, la propria felicità […] non si può diventare uomini senza il domino di sé, il dolore della rinuncia e la fatica del superamento, senza il sacrificio di mantenere gli impegni presi, né lo sforzo per soffrire con pazienza la tensione fra ciò che si dovrebbe essere e ciò che effettivamente si è» (p. 92). Le speranze del cristianesimo e la chance della fede dipendono dalla loro capacità di dire la verità, di combattere queste menzogne da cui deriva la crisi del nostro tempo.

La vera chiesa, scrive Ratzinger, è quella fatta da coloro che «credono con tutta semplicità e che, anche in questo momento di confusione, realizzano la vera missione della chiesa: l’adorazione di Dio e la sopportazione della vita quotidiana sulla base della parola del Signore» (p. 75).