INDICE

 

24. Giosuè… e la sua famiglia

      a) Giusuè, lo specchio di Mose

      b) La grande assemblea di Sichem

 

25. Amnon e Tamàr quando la sessualità non esprime l’amore (2Sam 13, 1-19)

      a) Il piacere non come fine a se stesso

      b) Dal desiderio sessuale all’odio

      c) Il matrimonio dei pinguini: esempio per l’uomo

 

26. Sansone e le sue donne. Il coraggio di sposarsi

       a) La convivenza, una piaga del nostro tempo

      b) Sansone e  le sue donne

 

27. L’esperienza coniugale del re Davide

 

28. Lazzaro e le sorelle

      a) L'amore di Gesù per Lazzaro vince la morte

      b) Marta e Maria: contrasto tra la vita contemplativa e quella attiva?

        ? Il ruolo di Marta

          ? Il ruolo di Maria

          ? Dalla contemplazione all’azione

 

29. Crisi della famiglia e decadenza sociale

       a) La Regina di Saba vuole incontrare Salomone

      b) Salomone si allontana dal Signore

 

30. Zebedeo e Maria Salome

      a) I genitori: Zebedeo e Maria Salome

      b) I figli: Giacomo e Giovanni

 

31. Le Nozze di Cana

       a) Lo sposo: una persona indispensabile

      b) Invitati speciali a quel matrimonio: Gesù, Maria ed i suoi discepoli

 

32. Cristiano e Cristiana: la verità dell’amore (Ef 5)

       a) L’amore di una coppia cristiana

      b) I colori dell’amore cristiano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Ventiquattresimo

Giosuè… e la sua famiglia

 Conosciamo poco e né esattamente da quanti componenti era composta la famiglia di Giosuè. Nella Scrittura troviamo un solo riferimento, quando Giosuè dichiara: «Quanto a me ed alla mia casa, noi vogliamo servire il Signore» (Gs 24,15). Questa famiglia vive un momento importante della storia della salvezza d’Israele: è il momento in cui, dopo il Sinai, la Parola di Dio è messa per iscritto. Con Giosuè inizia un popolo che legge e, leggendo, fa memoria delle grandi opere di Dio. Per le generazioni successive sarà fondamentale rifarsi alla Torah, scritta di Mosè e consegnata a Giosuè (cf. Es 17,14) ed ai suoi discendenti per «conoscere» e «sperimentare» la salvezza compiuta da Dio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giusuè, lo specchio di Mose

«Giosuè, figlio di Num, fin dalla sua giovinezza era al servizio di Mosè» (Nm 11,28; cf. Es 24,13; 33,11). Il nome di Giosuè è frutto di un cambiamento, difatti, quando Mosè inviò gli esploratori nella terra di Canaan (cf. 13,1-33), li scese da tutte le tribù per metterle tutte sullo stesso piano, in quanto simbolica presa di possesso della terra. Per la tribù d’Efrain, fu scelto «Osea figlio di Nun». Mosè «diede ad Osea, figlio di Nun, il nome di Giosuè», in ebraico significa «Jahvè è salvezza». Fu successore di Mosè e condottiero nel periodo in cui gli Ebrei s’introdussero e s’insediarono nel paese di Canaan.

È presentato come un «secondo» Mosè che gode della presenza di Jahvè (cf. Gs 1,2-9) e come Mosè fa prodigi. Il passaggio del Giordano ricalca, in gran parte, il racconto del passaggio del Mar Rosso (cf. 3,7-17; Es 14,15-31) e quando l’angelo gli parla prima dell’assalto a Gerico, usa le stesse parole usate con Mosè dal roveto ardente (cf. 5,15; Es 3,15). Questo sta a significare come ogni generazione deve leggere nelle vicende della vita il proprio passaggio del Mar Rosso e il messaggio che arriva del proprio roveto ardente.

Ci soffermiamo per qualche breve riflessione sull’ultimo capitolo del libro. Presumiamo che in tutte le gesta compiute da Giosuè la famiglia gli sia stata vicino, anche se non troviamo delle testimonianze esplicite nella Scrittura. Il fatto, però, che il testo riporta null’ultimo capitolo l’affermazione «Quanto a me ed alla mia casa, noi vogliamo servire il Signore» (24,15) ci fa pensare che la famiglia ha condiviso le vicende di Giosuè.

 

 

 

 

 

 

La grande assemblea di Sichem

La giornata di Sichem non costituisce solo l’avvenimento più importante di tutto il libro, ma segna certamente una delle date fondamentali della storia biblica. Lo storico Martin Noth S.J., colloca qui la nascita d’Israele come popolo (1200 a.C.).

L'assemblea di Sichem ha luogo dopo la conquista della terra di Canaan e la distribuzione del Territorio fra le tribù. Giosuè è giunto quasi alla fine della sua vita e del suo ministero, le promesse di Dio rivolte ad Abramo si sono realizzate con la presa di possesso della terra, e ora non resta che compiere un grande rito di professione di fedeltà al Dio di Israele. Questo suo discorso potrebbe essere definito un vero e proprio testamento pronunciato davanti a tutte le tribù riunite in assemblea nel santuario centrale di allora. Egli, come presidente dell’assemblea, celebra un atto solenne d’alleanza tra Israele e il Signore. Giosuè pronunzia il «piccolo credo» biblico e mette l'intero popolo dinanzi a una scelta «Scegliete oggi chi volete servire: se gli dei che i vostri padri servirono oltre il fiume oppure gli dei degli Amorrei, nel paese dei quali abitate. Quanto a me e alla mia casa, vogliamo servire il Signore» (24,15). È giunto il momento della decisione, bisogna decidere una volta per tutte; stanziandosi nei territori di Canaan, il popolo è chiamato alla scelta: servire gli dei locali oppure il Dio di Israele. Tutto il popolo inorridisce al pensiero di un culto rivolto ad altre divinità o alle  divinità locali, e professa solennemente di volere servire il Signore «Lungi da noi l'abbandonare il Signore per servire altri dei! Poiché il Signore nostro Dio ha fatto uscire noi e i padri nostri dal paese d'Egitto, dalla condizione servile, ha compiuto quei grandi miracoli dinanzi agli occhi nostri e che ci ha protetti per tutto il viaggio che abbiamo fatto in mezzo a tutti i popoli fra i quali siamo passati. Perciò anche noi vogliamo servire il Signore, perché egli è il nostro Dio» (16-18).

La promessa di fedeltà al Signore, da parte del popolo, è espressa attraverso il verbo biblico del culto e della fede, «servire», ribadito per ben 14 volte.

 «Servire», in senso biblico, comporta: fedeltà nella fede, servizio cultuale e risposta positiva alle esigenze dei comandamenti. Non a caso il discorso di Sichem si conclude con queste solenni parole del popolo: «serviremo il Signore nostro Dio e ascolteremo la sua voce» (Gs 24,24). Servire il Signore è semplicemente «ascoltare la sua voce».

Oggi siamo molti ad avere il versetto «Quanto a me e alla mia casa serviremo al Signore» sulle pareti della casa quale testimonianza della nostra determinazione al servizio e attaccamento al Signore. Domandiamoci con tutta onestà: stiamo veramente servendo il Signore o pensiamo di servirlo a modo nostro? E se gli angeli venissero a visitarci come al tempo dei patriarchi dell'Antico Testamento, per osservare la dimensione spirituale in casa nostra, non sarebbero tentati di dire come Abramo ad Abimelec: «Certo, in questo luogo non c'è timore di Dio» (Gn 20,11)?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Venticinquesimo

Amnon e Tamàr

quando la sessualità non esprime l’amore (2Sam 13, 1-19)

 

Il piacere non come fine a se stesso

Il piacere può essere definito il «trucco» che Dio ha inventato per spingerci a fare ciò che nella vita è essenziale. Ha stabilito che alcune funzioni vitali dell’uomo siano associate dell’esperienze fisica del piacere; è il caso del piacere legato all’alimentazione che ha come fine la conservazione dell’uomo. Il piacere è un aspetto fondamentale della vita dell’uomo, ma a volte rappresenta un problema per come lo viviamo, o come vorremmo viverlo.

Quale piacere più grande che unirsi sessualmente alla persona amata? L'atto sessuale risponde ad una delle più profonde esigenze della persona umana, quella di essere in comunione con il partner. Questa è completa e soddisfacente quando coinvolge tutte le dimensioni: affettiva, spirituale, corporea. Il rischio è di separare il mezzo dal fine, lasciandosi trascinare dalla ricerca spasmodica del piacere fine a se stesso. Oggi si dà più importanza alla dimensione corporea, anzi per meglio dire alla dimensione fisico-genitale. Il piacere momentaneo, però, lascia subito il posto ad un amarissimo retrogusto, che provoca l’allontanamento da quella stessa persona che prima si è desiderato con tanto amore ed ora, invece, avvertita come causa della delusione che si sta provando. Il piacere fisico-organico non è in grado di riempire e soddisfare completamente il cuore dell’uomo, perché l’uomo non è solo una realtà corporea ma anche spirituale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dal desiderio sessuale all’odio

Il secondo libro di Samuele presenta Amnon, primogenito di David avuto da Achinoam (cf. 2Sam 3,2), preso da una bruciante passione per la sorellastra Tamàr e sorella di Assalonne, che David ha avuto da Maaca (3,3). Tamàr in ebraico significa «palma», una pianta che evoca tanti simboli, prima fra tutti quello della «bellezza». Tamàr era «molto bella» (13,1).

Nella passione di Amnon potremmo vederci la classica «cotta» adolescenziale, in cui l'altro è visto, per la maggior parte dei casi, come chi può soddisfare tutti i desideri e renderci felici.

Il testo presenta Amnon infelice e persino «malato a causa di Tamàr» (2).  Ionadàb, figlio di Simeà, fratello di Davide, uomo molto astuto, vedendolo diventare, giorno dopo giorno, sempre più magro, gli chiede il motivo ed egli risponde: «Sono innamorato di Tamàr» (4). L'«amico», anzi il cugino, Ionadab, invece di proteggerlo dalla sua insana passione se ne fa ambiguo complice e con il perfido consiglio spinge Amnon alla rovina. Per realizzare tutto ciò gli consigliò uno stratagemma: «mettiti a letto e fingiti malato; quando tuo padre verrà a vederti, gli dirai: Permetti che mia sorella Tamàr venga a darmi da mangiare e a preparare la vivanda sotto i miei occhi, così che io veda; allora prenderò il cibo dalle sue mani» (5).

L’interessante è annotare che Ionadàb non suggerisce l'unione, sa che è illegale (cf. Dt 22,28). Gli sta dicendo (seguendo una certa psicologia che vede la felicità dell’uomo nell’assecondare gli istinti provenienti dalla libidine) «Soddisfa la tua pulsione e sarai completamente guarito!». Amnon avrebbe potuto dire «no», invece ascolta il consiglio, «si mise a letto e si finse malato; quando il re lo venne a vedere, gli disse: “Permetti che mia sorella Tamàr venga e faccia un paio di frittelle sotto i miei occhi e allora prenderò il cibo dalle sue mani”. Allora Davide mandò a dire a Tamàr “Và a casa di Amnon tuo fratello e prepara una vivanda per lui”»(6s). Non poteva rifiutarsi. L’ordine era venuto da suo padre, il Re Davide! Per Amnon il piano sta andando secondo quando programmato.

Tamàr «andò a casa di Amnon, che giaceva a letto. Prese farina stemperata, la impastò, ne fece frittelle sotto i suoi occhi e le fece cuocere. Poi prese la padella e versò le frittelle davanti a lui; ma egli rifiutò di mangiare e disse: “Allontanate tutti dalla mia presenza”. Tutti uscirono» (8s).

Mentre gli porta da mangiare Egli l'afferra e dice: «Vieni, unisciti a me, sorella mia» (11). Il versetto fa emergere l’egocentrismo di Amnon, al quale la sorella interessa soltanto come corpo da possedere. Ella non intende unirsi… perlopiù, al di fuori del matrimonio. Molti oggi sostengono che non c’è un necessario collegamento tra atto sessuale e amore. Si può «fare sesso» anche senza un coinvolgimento sentimentale. Tamàr ci tiene ad un rapporto coinvolgendo anche la sera affettiva e risponde al fratellastro: «No, non farmi violenza … dove andrei a portare il mio disonore? […] Parlane piuttosto al re, egli non rifiuterà nulla a te» (12-13). Amnon avrebbe potuto sposarla legalmente con il consenso del re, ma non volle ascoltarla: «Fu più forte di Lei e la violentò» (14).

Notiamo una certa prepotenza maschile… inoltre possiamo renderci conto che quando un uomo si lascia dominare dagli stinti perde la dignità e rassomiglia agli animali… al dire il vero nel mondo animale esiste, inconsciamente, un certo equilibrio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il matrimonio dei pinguini: esempio per l’uomo

Il pinguino femmina fa innamorare il maschio civettando con i suoi movimenti. Il maschio la conquista costruendole un nido dove pensa di portarla a vivere. La femmina prova il nido e, se è di suo gradimento, si accoppia con il maschio; se non le piace, invece, se ne va. Solo dopo aver sperimentato che possono essere felici, questi animali si accoppiano. Sentono istintivamente che la loro unione è in funzione della felicità, altrimenti non accettano la convivenza. Tra gli uomini molto spesso succede il contrario: prima si uniscono sessualmente e poi vedono se possono essere felici insieme.          

L’uomo è l’unico essere che sa superare l’istinto e orientarlo verso valori in cui crede, verso un Significato, verso un Senso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Ventiseiesimo

Sansone e le sue donne. Il coraggio di sposarsi

 

Oggi ci vuole veramente coraggio a sposarsi, basti pensare alle numerose preoccupazioni esistenti per esserne convinti. I fidanzamenti di conseguenza sono interminabili, persone stanno insieme anni ed anni cercando di posticipare sempre più il fatidico giorno delle nozze. Si preferisce un periodo di convivenza prima di sposarsi. 

 

 

 

 

 

 

 

 

a) La convivenza, una piaga del nostro tempo

Un sondaggio ha evidenziato che il 52.71% ritiene che la convivenza prima di sposarsi è necessaria, mentre il 31.78% preferisce la convivenza al matrimonio e solo l’1,55 è assolutamente contro la convivenza. In America, riporta il Dossier di Focus 10/2004 (cf. p. 115ss), si sta sviluppando un nuovo modo di convivere e nei registi del censimento Usa, sono definiti never-married, ovvero mai (o non ancora) sposati. Non cercano moglie (o un marito), ma «uno spirito affine». Questo modo di fare sta prendendo il posto delle famiglie tradizionali. Ethan Watters, giornalista e saggista americano che ne ha studiato il fenomeno, osserva: «Nessuna generazione, prima di noi, aveva rimandato il matrimonio con tanta tenacia» (p. 115).

La convivenza, secondo me, è una piaga. Non tutti la pensano così e persino alcuni cristiani ritengono che la convivenza possa essere un periodo utile prima d’intraprendere un serio rapporto a due. Si dice solo se si vive insieme si può conoscere l’altro veramente e ciò è vero, ma non giustifica il periodo di convivenza come prova, così come tutti vogliono e che sia quasi istituzionalizzato. Credo che la convivenza, in alcuni casi, anziché di aiutare la coppia a crescere e a conoscersi, alimenta l’immaturità dei due partner a non voler scegliere in modo definitivo. Con essa se un rapporto non va, si scioglie. La convivenza è, in un certo qual modo, sinonimo d’incompiutezza. Non si può dire al patner «Ti amerò, se tutto andrà bene; ti amerò per qualche anno!». Non esiste l’amore stagionale, l’amore a singhiozzi: o si ama o non si ama. Per un attimo se pensiamo alla persona che amiamo è impossibile non pensare che possa essere «per sempre». La convivenza in questo senso mette tutta l'incertezza del pensare di poter dire «ok, avevo scherzato».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  b) Sansone e  le sue donne

Di Sansone non si può certo affermare che nei rapporti con le donne sia stato fortunato: tutte le donne che ha avuto hanno tradito la fiducia che egli aveva riposto in loro. Era attratto e costantemente innamorato delle donne filistee e non per le ragazze d’Israele, a tal punto che i suoi gli dissero: «Non c'è tra le figlie dei tuoi fratelli […] una donna per te? Devi andare a prenderti una moglie tra i Filistei incirconcisi?» (GdC 14,3).

Prima si innamora di una donna di Timna (14,1) e nel racconto troviamo un Sansone capriccioso e puntiglioso che sembra dire: quella ragazza mi piace, la voglio e non m’importa nulla delle leggi, dei principi del mio popolo. Convivere con una filistea che male c’è? Sentiamo riecheggiare le domande dei giovani del nostro tempo che non condividono in pieno né la morale né i costumi proposti dalla religione. Per loro un rapporto a due l’importante è che ci sia, almeno in quel momento, l’affetto. Sansone sposa questa donna che dopo gli creerà non pochi problemi. A tutti i costi vuole sapere del rompicapo che Sansone aveva lanciato hai Filistei, per poi riferirlo loro. Quando rivelò la risposta del rompicapo ai Filistei (15-17), Sansone «acceso d’ira, risalì a casa di suo padre» (19).

A Sansone la lezione gli è servita? A dire il vero il debole per le donne filistee si manifesta nuovamente, prima nei confronti dell’anonima meretrice di Gaze (cf. 16,1-3) e poi «in seguito si innamorò di una donna della valle di Sorek, che si chiamava Dalila» (4).

Dalila può essere definita amica-nemica, anche lei tradisce la fiducia di Sansone, proprio come la donna di Timna. Dalila vi è spinta, secondo la storia, dal denaro che i Filistei le offrirebbero per consegnarlo loro (cf. 5). Dalila gli chiede il modo di poterlo dominare: «spiegami come ti si potrebbe legare» (10). Desidera averlo nelle sue mani e a tempo opportuno agire di conseguenza. Non sentendo in se stessa la forza ed il coraggio di affrontare le inevitabili difficoltà che la vita a due comporta, deve crearsi delle vie di fuga, disfarsi del partner, interrompere il rapporto con lui. Sansone, forte esteriormente, viene interiormente logorato dai continui ricatti ed alla fine cede. Svela il segreto della sua debolezza: «Se mi si legasse con funi nuove non ancora adoperate, io diventerei debole e sarei come un uomo qualunque» (11). Qui possiamo intendere le funi come qualcosa di simbolico: il punto debole dell’altro. Dalila allora entra in azione e così Sansone diventa schiavo non solo di lei, ma di tutti, perché la sua personalità è stata annullata. Ormai non è più se stesso, non sa neppure più chi è. Si ritrova, accecato, «a girare la macina nella prigione» (21). Solo il lavoro, ed un lavoro alienante, riempie la sua vita, che si trascina sempre uguale, avvolgendosi sempre più in se stesso.

Alla fine Dalila, preoccupata soltanto di salvarsi, finisce travolta dal suo stesso gioco quan­do, in un ultimo sussulto di forza, Sansone, ritrovata la libertà interiore, si scrollerà di dosso il giogo che lo opprimeva, abbattendo gli altri «Sansone palpò le due colonne di mezzo sulle quali posava l’edificio; si appoggiò ad esse...; si curvò con tutta la forza e il tempio rovinò addosso ai capi e a tutto il popolo che vi era dentro» (29-30).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Ventisettesimo

L’esperienza coniugale del re Davide

 

L’esperienza coniugale di Davide è riportata nei libri di Samuele. Davide era un re di successo, acclamato ed adorato da tutto il popolo, e, in particolare, dalle donne. Era di bell’aspetto, istruito, soldato coraggioso, poeta, cantante e valente musicista. Prima di diventare re, Saul era molto geloso di Davide che sembrava avere più successo di lui: tutte le donne erano innamorate di questo nuovo playboy! Aveva tutto ciò che le donne potevano desiderare da un uomo.

La storia d’Israele ci testimonia che i re avevano molte mogli e concubine. Davide, infatti, ha come sua sposa Mikal, figlia di Saul (cf. 1Sam 18,27); poi sposa Abigail e Achinoam (cf. 25,42-43). Quando arrivò a Ebrom e Gerusalemme «prese ancora concubine e mogli» (2Sam 5,13). Dalle testimonianze bibliche si può constatare che viveva in un contesto di poligamia, anzi, in questo caso, la regia diventa un vero e proprio harem. Ci soffermeremo, in particolar modo,  sull’esperienza coniugale di Davide con Mikal e vedremo quando in un rapporto di coppia non ci si capisce più. 

 

Davide e Mikal: quando non ci si capisce più

Davide combatte le ultime battaglie per liberarsi dal vassallaggio dei Filistei. Lo vediamo consigliarsi con il Signore prima del combattimento, in un rapporto intimo ed immediato da amico: «Devo andare contro i Filistei? Li metterai nelle mie mani?». Il Signore rispose: «Va' pure, perché certo metterò i Filistei nelle tue mani» (19). Davide sconfigge i Filistei, comprende che il Signore è stato accanto a lui e sente il dovere di ringraziarLo. Ci furono altre battaglie e sempre chiedeva consiglio al Signore (cf. 22-25).

Per questa ragione è comprensibile l'esultanza con cui Davide accompagna personalmente Jahvè nella sua nuova dimora, a Gerusalemme, la capitale appena conquistata. Nel far festa al Signore «danza con tutte le forze davanti al Signore… Era cinto di un efod di lino (in altre parole un perizo­ma, senza vestiti)» (6,14). Il vestito era simbolo di dignità, ciò che differenziava l'uomo libero dallo schiavo; Davide danza seminudo per mostrare che la dignità non se la dà lui stesso con le proprie capacità o con un vestito prezioso, ma gliela dà Dio come dono gratuito.

Affacciata alla finestra, sta assistendo al corteo trionfale, Mikal, la sua terza moglie e la prima che egli amò nella sua giovinezza. Più Davide roteava nella danza, più le ragazze presenti andavano in estasi. Mikal ha disprezzato le bizzarre manifestazioni di gioia del marito durante il trasporto dell’arca e sorgono nel suo cuore, verso di lui, sentimenti di disprezzo. Ritornato a casa lo rimprovera: «Bell’onore si è fatto oggi il re di Israele a mostrarsi scoperto davanti agli occhi delle serve dei suoi servi, come si scoprirebbe un uomo da nulla!» (6,20). David rispose: ««L’ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre e di tutta la sua casa per stabilirmi capo sul popolo del Signore, su Israele; ho fatto festa davanti al Signore. Anzi mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi, ma presso quelle serve di cui tu parli, proprio presso di loro, io sarò onorato!» (21-22).

Mikal, tutto ciò, non può capirlo: figlia del re Saul ed ora moglie del re Davide, vive questa sua situazione come una cosa dovuta, un diritto ereditario che le deriva dalla sua condizione di principessa. Non si sente legata a questo Dio d’Israele a cui personalmente non deve nulla. Non ha sperimentato il peso e l'umiliazione del vassallaggio ai Filistei, da cui Jahvè ha ora liberato il popolo per mano di Davide.

Attraverso i sacrifici di comunione, in cui si consumano le carni di cui Dio ha gradito il profumo, tutti fanno festa con Dio, sentono la presenza, godono della vicinanza del loro liberatore e, attraverso la benedizione che Davide impartisce loro, ne condividono l'amici­zia.

Quando Davide porta questa benedizione a casa sua, Mikal la rifiuta, non vuol essere coinvolta nell'amicizia con un Dio che, come ha constatato con timore, chiede di spogliarsi di sé per trovare in Lui la propria forza e la propria dignità. Da qui l'incomprensione, il non riuscire a dialogare perché contrastanti sono i desideri e le speranze. Spesso ascolto amici lamentarsi perché è venuta a mancare l’intesa con il coniuge. Si sente dire: «Prima bastava uno sguardo e mi capiva, ora non riusciamo proprio ad intenderci». Oppure: «Non so cosa sia capitato, io e mia/o marito/moglie parliamo due linguaggi diversi».

 La separazione spirituale porta Davide alla separazione anche fisica: d'ora in poi Mikal non avrà più figli perché Davide non le si accosterà più (cf. 23).

Nella coppia subentra la rottura completa. Rottura, alcune volte anche se non ufficiale, del rapporto, del vivere separati in casa, di condurre ognuno una propria vita. Molte coppie oggi vivono in questa situazione. I due coniugi stanno insieme solo formalmente, per salvaguardare, si afferma, i figli. Si sente dire da uno dei due o da entrambi che si resto insieme recitando una farsa per il bene dei figli. Non sapendo che proprio a causa di questo comportamento i ragazzi vengono segnati profondamente e soffrono a causa della separazione dei propri genitori. I figli, infatti, diventano le vittime più indifese di questa assenza di calore familiare e delle dissoluzione stessa della famiglia. La loro reazione, alcune volte, può esprimersi in evasione o peggio in reazioni istintive con trasgressioni sociali e delinquenziali.  

Credo la separazione sia spirituale che materiale passa essere evitata solo rifacendosi al motivo principale che ha portato la coppia a sposarsi: vivere la vita l'uno accanto all'altra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Ventottesimo

Lazzaro e le sorelle

 

Parleremo non di una coppia, ma della famiglia di Lazzaro e le sue due sorelle. Marta e Maria di Betania. In essa Gesù preferiva trascorre il suo tempo libero e amava riposare, perché legato da profondo affetto.

 

a) l’amore di Gesù per Lazzaro vince la morte

Giovanni consacra un capitolo alla storia d’amicizia di Gesù con la famiglia di Betania e da ciò comprendiamo che questo rapporto non era superficiale o identico a tutti gli altri. Gesù «voleva bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro» (11,5). Questi era suo «amico» (11,3.11) e dei suoi discepoli che spesso albergavano presso di loro per rifocillarsi e riposarsi. Lazzaro è l’unico miracolato di Giovanni che ha un nome ed è chiamato dal «pastore bello» che conosce e chiama ciascuna delle sue pecore per nome (cf. 10,3).

Lazzaro s'ammalò al punto da impensierire le sorelle che mandarono un'ambasciata ad avvisare Gesù che il suo amico è ammalato (cf. 11,3), sapevano ch'egli non era molto lontano da Betania (forse un giorno di cammino). Gesù non lascia tutto per andarlo a trovare, ma dopo che ha saputo la notizia rimane altri due giorni in quel luogo (cf. 6). Si reca il «terzo giorno»! Nella Bibbia il «terzo giorno» ha un significato non cronologico, ma teologico. Nell’Antico Testamento era considerato il giorno della liberazione, della salvezza, della vittoria sulla morte e su ogni schiavitù, dopo un periodo di prova. «Venite, ritorniamo al Signore... Egli ci ha straziato ed Egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed Egli ci fascerà. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare» (Os 6,12). Abramo il «terzo giorno» vide il luogo dove sacrificare il figlio Isacco, gesto che apparentemente segnava la fine di ogni speranza, e che invece dall’intervento di Dio fu trasformato in benedizione (Gn 22,4); Giuseppe, figlio di Giacobbe, il «terzo giorno» libera i suoi fratelli del carcere (42,18); il «terzo giorno» JHWH, dopo tre giorni di attesa, appare finalmente sul Sinai e stringe un’alleanza con il suo popolo (Es 19,16); dopo «tre giorni» e tre notti Giona viene liberato dal ventre della balena (2,1). Nel Nuovo Testamento il «terzo giorno» Gesù risuscita dalla morte. Pertanto il «terzo giorno» ha un significato teologico, è il giorno della salvezza.

I discepoli, preoccupati per la sicurezza di Gesù, cercano di dissuaderlo e gli fanno osservare che precedentemente in quel villaggio avevano avuto problemi con i Giudei che volevano lapidarlo (cf. Gv 10,39). Gesù non teme di affrontarli… arriva dopo quattro giorni. «Lazzaro è morto» (11,14), è nel sepolcro (cf. 17) e davanti al sepolcro «scoppiò in pianto» (35). Alcuni Giudei presenti dissero: «Vedi come lo amava!» (36), ma persino davanti alla manifestazione esterna dei sentimenti verso l’altro c’è sempre qualcuno che cerca di rendere superficiale il significato del gesto (cf. 37). Davanti al sepolcro Gesù grida «Lazzaro, vieni fuori!» (43). A questo comando il morto uscì subito dal sepolcro, avvolto ancora dalle bende: la morte non poteva trattenere colui che veniva chiamato dalla Vita. Con quel grido dimostra di essere Colui del quale è scritto: «La voce del Signore è potente» (Sal 28,4; 67,34). Questa voce che ha richiamato l’amico dalla morte alla vita ci ricorda quello che Ezechiele aveva profetizzato: «Apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe» (37,12). Profezia ripresa da Gesù, quando dichiara che quanti sono nei sepolcri: «ascolteranno la voce del Figlio di Dio e risorgeranno» (cf. Gv 5,25). Lazzaro «usci» (11,44).

L’amore verso Lazzaro strappa ancora un «segno». Se nel Cantico dei cantici si dice che «l’amore è forte come la morte» (8,6), qui Giovanni intende affermare che l’amore è più forte della morte. Gesù, dando la vita a Lazzaro, sarà condannato a morte (Gv 11,53). Chi dona la vita, riceve morte; ma, proprio ricevendo morte, dà vita. È il paradosso della croce (cf. 1Cor 15,54b). Sarà l’ultimo dei «segni», che rivelano la gloria del Figlio di Dio, prima della sua passione. Nella Bibbia sono raccontanti sette ritorni in vita dopo la morte, due nell’AT e cinque nel NT: i figli della vedova (1Re 17,17-24) e della Sunammita (2Re 4,18-37), risuscitati rispettivamente dai profeti Elia ed Eliseo; la figlia di Giairo (Mc 5,22-24.35-43), il figlio della vedova di Naim (Lc 7,11-17) e Lazzaro, risuscitati da Gesù; Tabità (At 9,36-42) ed Eutico (At 20,9ss), risuscitati rispettivamente dagli apostoli Pietro e Paolo. Nel piano di Dio il nostro male è assunto come luogo in cui egli si rivela pienamente e ci salva.

 

Una riflessione per noi

Possiamo vedere in Lazzaro l’interra umanità, la coppia credente che lontano dal Signore, si ammala e muore. Non parliamo della morte fisica, ma quella ontologica cioè il distacco da Gesù che è la vite. Siamo i tralci e solo se attaccati a Lui possiamo vivere. Senza linfa il tralcio muore, così è per colui che si stacca da Cristo… non ha più vita in se, perché Cristo è la Vita (Gv 14,6). Gesù viene a cercare ciò che è morto… anche se siamo in una situazione simile ad un morto imputridito e nel sepolto «già da quattro giorni» (11,17). I quattro giorni indicano una reale situazione di morte. C’era fra i rabbini l’opinione che l’anima si librasse presso il cadavere per tre giorni, ma dopo tale tempo non c’era più speranza di resuscitare. Proprio quando riteniamo che tutto è finito Gesù può darci la vita: «è venuto perché noi tutti abbiamo la vita in abbondanza» (cf. 10,10).

Riporto i versi di Nerses Snorhalì che fa sua l’esperienza di Lazzaro.

 

Come Lazzaro, (tuo) amico,

Io morto fui messo nella tomba;

Ed è non da quattro giorni ma da lunghi anni

Che l’anima mia morta giace nel mio corpo.

 

Fa’ risuonare in me la voce tua celeste

E fammi intendere la (tua) Parola;

Scioglimi dai vincoli infernali,

Ritraimi dalla mia casa tenebrosa (Jesus, 666-667).

 

Lazzaro rischierà per la sua amicizia con Gesù: «i sacerdoti deliberarono di uccidere anche Lazzaro, perché molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù» (Gv 12,11.17).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 b) Marta e Maria: contrasto tra la vita contemplativa e quella attiva?

Marta e Maria occupano una posizione peculiare fra di amici di Gesù. Vi sono tre episodi nella loro vita dove si evidenzia l’incontro con l’amico: un anno prima della resurrezione di Lazzaro quando si ferma in Betania. In quell'occasione Marta si affrettò a servirlo, mentre Maria sedette ai suoi piedi ascoltando le sue parole e «scelse la parte buona» (cf. Lc 10,39.42). Il secondo, un anno dopo, quando Lazzaro morì. Marta corse a riceverlo, mentre Maria stordita per gli eventi rimane in casa. Terzo, poco prima di morire Gesù tornò a fermare in Betania (cf. Gv 12). Marta aveva preparato il cibo e si assicurava che non mancasse niente sul tavolo, Maria invece, «presa una libbra di olio profumato… assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli» (3). Questo gesto fu criticato, ma Gesù prende le sue difese elogiandola proprio per quel gesto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

? Il ruolo di Marta

Marta si comporta da «padrona di casa» gestendo le funzioni dell’ospitalità verso Gesù e gli apostoli, Luca afferma che la casa è di Marta (cf. 10,38). Agostino commenta: «Marta lo accolse, come si accoglie un ospite. Ma era la serva che accoglieva il Signore, la malata che accoglieva il Salvatore, la creatura che accoglieva il Creatore. Lei bisognosa di cibo dello spirito, accoglieva il Signore bisognoso di cibo per il corpo...» (Sermo, 103,2s).

Con riferimento all’episodio lucano, Marta è «colei che esorta»: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti» (10,44). Notiamo che si rivolge a Gesù con il titolo onorifico di «Signore» e nello stesso tempo si intravede anche la sua irritazione. Ma qual è il motivo della sua irritazione? Senz’altro, soprattutto il fatto che Maria si permetta di starsene lì senza far niente, mentre lei ha fin troppe faccende da sbrigare. È opportuno rammentare che Gesù non è solo, con lui ci sono i suoi discepoli ed è allora chiaro che Marta è preoccupata, vuole riuscire a dare un’ospitalità veramente degna e non dovrebbe stupirci la sua paura di non farcela. Nella mentalità ebraica l’ospitalità è sacra (per l’ebreo l’ospite è il re, il signore e va messo al primo posto). Si irrita anche per l’ospite che non se ne accorge e continua imperterrito a conversare con Maria. Marta chiama in causa l’ospite, porta al giudice il suo pio lamento che la sorella l’abbia lasciata sola al suo lavoro. In Marta possiamo intravedere il tipo di discepolo che «serve» Gesù (Gv 12,2; Lc 10,40), ricorre a lui nel momento bisogno (Gv 11,3), fa esodo verso di lui (20), lo professa Signore (21), ma nonostante tutto, la sua fede è ancora inadeguata (24) perché non crede ancora nel suo potere di dare la vita (39). Lo considera come un intermediario che è ascoltato da Dio (22), ma non comprende che egli è la vita stessa (25). Il limite di Marta non sta nel fatto che era una lavoratrice, ma – come osserva Gesù – perché era tutta assorbita dalle troppe cose, presa dall’esteriorità. Luca, con grande finezza psicologica, dichiara «era tutta presa dai molti servizi» (10,40): per questo le sfuggiva di mano il significato di ciò che stava avvenendo in casa sua. Non ha compreso che l’importante è essere seduti ai piedi del Maestro per ascoltare le sue parole che sono «spirito è vita» (6,63), che sono «parole di vita eterna» (68) e che «suscitano fede» in chi le accoglie (cf. Mc 4, 13-20; Rm 10,17).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

? Il ruolo di Maria

Maria, invece, «ai pedi di Gesù, ascoltava la sua parola» (Lc 10,39), non indica solo un atteggiamento di ascolto affettuoso, ma nella cultura ebraica è una descrizione per indicare la condizione del discepolo nei confronti del maestro. Questa espressione, usata da Luca, è una novità dirompente, perché fa di Maria una vera discepola, alla pari con le decine di maschi. Maria appare come discepola, seduta ai piedi del Kyrios, mentre ascolta direttamente la Sua parola. Nell'ebraismo è raro trovare una donna in veste di «discepola»; l'ascolto e lo studio della Legge tendono ad essere considerati compiti esclusivi dei maschi (1Cor 14,34-35). Maria aveva compreso l’importanza dell’essere in ascolto del Maestro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

? Dalla contemplazione all’azione

Gesù, dal canto suo, desiderava più di ogni altra cosa comunicare la parola. Probabilmente, rimproverò Marta perché voleva strappare la sorella dai suoi piedi (cf. Lc 10,44), la porzione che aveva scelto Maria. Ella preferisce farsi cibare della parola del Signore, poiché l’uomo non di solo pane vive, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (cf. Dt 8,3; Lc 4,4). Ogni cristiano deve auspicare di nutrirsi più della parola di Dio che di cibo materiale.

Per Marta la vita era attività e servizio. Da qui l’interpretazione tradizionale che vedeva il contrasto tra la vita contemplativa, esaltata e privilegiata, incarnata da Maria, e quella attiva, rappresentata da Marta, con la prevalenza della prima a discapito della seconda. Marta insomma è stata ridotta al “modello” della contemplazione. Credo che sia un errore questa contrapposizione. Possiamo intravedere in Maria e Marta due modi di manifestare il proprio affetto e di vivere la sequela di Gesù. Non esiste opposizione tra vita contemplativa e l’azione, tra essere-con-Dio e essere-con-gli-uomini. La vita contemplativa deve portare all’azione, ad operare cristianamente nelle attività quotidiane. Non dobbiamo dimenticare che Dio chiama ognuno ad un servizio distinto. Ognuno compie la sua responsabilità seguendo la sua strada indicata. Certo, realizzare un equilibrio tra il carisma di Marta e quello di Maria non è cosa facile, ma è bene interrogarsi, di tanto in tanto, sulla questione. La posta in gioco è - nientemeno! - la nostra identità di discepoli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Ventinovesimo

Crisi della famiglia e decadenza sociale

 

È nota a tutti la fama del re Salomone, legata sia alla grandezza del regno che con lui ebbe la massima estensione (cf. 1Re 2,12), sia alla sua sapienza, che fin dalla giovinezza chiese ed ottenne da Dio: «sono un ragazzo, non so come regolarmi. […] Concedi al tuo servo un cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male[…]» Al Signore piacque che Salomone avesse domandato la saggezza nel governare» (3,7.9s). Salomone costruì il tempio al Signore (cf. 5;6) e la reggia per sé (cf. 7,1). Consolidata la prosperità della sua nazione, decide di uscire dal commercio di piccolo cabotaggio e di attivare scambi con le regioni del lontano oriente. Assieme alle merci pregiate si diffonde appunto la fama della sua straordinaria saggezza, che ha saputo procurare al suo piccolo regno pace e benessere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Regina di Saba vuole incontrare Salomone

La regina di Saba decide di intraprendere il viaggio verso Gerusalemme per incontrare il re Salomone e ascoltare la sua saggezza, ma anche per aprirgli il suo cuore ed ascoltarne i consigli. Questo viaggio è testimoniato nell’Antico Testamento, nel Talmud, nel Corano, nel Vangelo e nel Kebra Nagast (un libro redatto in Etiopia nel Trecento). Il primo libro dei Re afferma che la regina di Saba porta con sé «ricchezze molto grandi, con cammelli carichi di aromi, d’oro in grande quantità e di pietre preziose» (10,2). La donna si presentò da Salomone ed il saggio monarca rispose a tutte le sue domande, nessuna ve ne fu che non avesse risposta o che restasse non risolvibile (cf. v. 3). La regina restò conquistata della sua saggezza tanto da affermare: «non avevo voluto credere a quanto si diceva, finché non sono giunta qui e i miei occhi non hanno visto; ebbene non me n’era stata riferita neppure una metà! ... Beati i tuoi uomini, beati questi tuoi ministri che stanno sempre davanti a te e ascoltano la tua saggezza» (7‑8).

Nello stupore per il dono che le viene concesso, la regina riconoscerne la fonte: non l'uomo che le sta davanti, ma Dio, che, nel suo amore, attraverso quell'uomo ha voluto esprimersi e manifestare la sua gloria. Come infatti dirà, molti secoli dopo,  Sant’Ireneo, «la gloria di Dio è l'uomo vivente». Salomone è il fedele strumento di Dio per esercitare il diritto e la giustizia sul suo popolo, per incarnare nella storia il suo amore.

La regina sente il bisogno di benedire il Signore: «Sia benedetto il Signore tuo Dio […] nel suo amore eterno per Israele, ti ha stabilito re perché tu eserciti il diritto e la giustizia» (9) e «torna al suo paese con i suoi servi» (13). Nel suo cuore il ricordo del volto di quel saggio è per lei segno di una profonda esperienza di Dio. Una delle esperienze più belle della vita è appunto quella di poter condividere con una persona il nostro vissuto, sentendoci accolti e accomunati da interessi, ideali, sensibilità. In un contesto di cordialità e profonda sintonia ci si può aiutare vicendevolmente ad affrontare i problemi che la vita ci pone, mettendo a reciproca disposizione il patrimonio di esperienze che costi­tuisce la ricchezza di ognuno. La saggezza di Salomone aveva rinvigorito l’animo ed il cuore della regina di Saba.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salomone si allontana dal Signore

Malgrado gli insegnamenti di Davide al sapiente figlio Salomone, questi si allontanò dal Signore a causa delle donne che non professavano la sua fede e non appartenevano al suo popolo. La Scrittura, infatti, riporta che «amò donne straniere, moabite, ammonite, idumee, di Sidòne e hittite, appartenenti a popoli, di cui aveva detto il Signore agli Israeliti: «Non andate da loro ed essi non vengano da voi: perché certo faranno deviare i vostri cuori dietro i loro dei». Salomone si legò a loro per amore. Aveva settecento principesse per mogli e trecento concubine; le sue donne gli pervertirono il cuore» (11,1-3). Non tenne presente l’avvertimento del Signore: «Non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il suo cuore non si smarrisca» (Dt 17,17). Quelle straniere, infatti, distolsero il suo cuore dal Dio vero e, vivo, malgrado la sua saggezza, cadde nel laccio della tentazione: «commise quanto è male agli occhi del Signore e non fu fedele al Signore come lo era stato Davide suo padre» (6).

La decadenza del regno comincia proprio dalla famiglia del saggio monarca. Non è bastata la sua sapienza per rimanere fedele a Dio: la pressione delle donne straniere la ha fatto allontanare sempre più dal suo Signore. Salomone da loro è stato «dominato nel corpo» (Sir 47,19). Quanti sono gli uomini coniugati oggi che si fanno «dominare nel corpo» da donne straniere che vivono nel nostro paese. Spesso a causa di queste relazioni extraconiugali molti matrimoni vanno in crisi. In confidenza posso affermare di aver visto, specie il giovedì, uomini italiani in compagnia di badanti e collaboratrici domestiche straniere. Spendendo un bella somma, magari decurtata dall’economia domestica, e la cosa che più mi fa rabbia è che in molti casi queste ragazze possono essere loro figlie. La storia come si vede si ripete.

Il Signore allora «si sdegnò con Salomone, perché […] non osservò quanto gli aveva comandato […] Allora disse a Salomone: “Poiché ti sei comportato così e non hai osservato la mia alleanza né i decreti che ti avevo impartiti, ti strapperò via il regno e lo consegnerò a un tuo suddito. Non farò ciò durante la tua vita per amore di Davide tuo padre; lo strapperò dalla mano di tuo figlio”» (1Re 11,9-12).

Non vivendo più all’interno della famiglia la retta fede e non rimanendo più fedeli a Dio, questa infedeltà a una ripercussione anche a livello sociale. Solamente da una famiglia sana viene fuori una società retta e viceversa la crisi di moralità della famiglia provoca la mancanza di moralità nella società civile.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Trentesimo

Zebedeo e Maria Salome

 

Conosciamo la coppia Zebedeo e Maria Salome perché i figli, Giacomo e Giovanni, insieme ad altri due fratelli Simone e Andrea, sono tra i primi discepoli che Gesù chiama a seguirlo (cf. Mc 1,12.19). È significativo che tra i Dodici vi fossero uomini legati da vincoli di sangue. Questi discepoli Gesù li vorrà a sé più vicini nei momenti cruciali della sua vita: alla trasfigurazione sul monte (Mt 17,1) all’agonia nell’orto del Getsemani (26,37), così come lì aveva voluti al capezzale della figlia di Giairo (Mc 5,37).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I genitori: Zebedeo e Maria Salome

Zebedeo è ricordato nella chiamata di Giacomo e Giovanni e non sappiamo molto di lui. La sua è una presenza discreta, in pratica è affidata quasi solo al fatto che egli è il genitore di due discepoli che avranno, dopo Pietro, una certa posizione di prestigio nella narrazione evangelica. La madre, secondo alcuni esegeti, è da identificarsi con Salome, donna citata insieme alle altre donne che «seguirono Gesù per servirlo» e che lo sostenevano anche economicamente (cf. Mc 15,40-45). La conosciamo anche dall’episodio dove cerca di fare, per così dire, la “raccomandazione” al Signore… «si avvicinò […] con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: “Che cosa vuoi?”. Rispose: “Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno”» (Mt 20,20-21). Sembra intravedere le tante mamme del nostro tempo, preoccupate per il futuro dei figli, cercano con ogni mezzo, chiedere a qualcuno di suffragare la loro richiesta in favore dei figli. Possiamo constatare che da mondo è mondo la «raccomandazione» è sempre esistita e nei suoi confronti l’indignazione da parte di qualcuno. L’evangelista annota che dopo l’intervento della donna, gli «altri dieci si sdegnarono» (Mc 10,41). Notiamo dalla reazione dei discepoli che Salome, con la sua «richiesta», crea gelosie e divisioni nel gruppo dei dodici. Gesù, allora, ritiene opportuno di chiamarli in disparte e fargli un discorso metaforico che li farà cambiare il modo di pensare «sapete che coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti» (42-44).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I figli: Giacomo e Giovanni

Giacomo e Giovanni, insieme al padre, hanno una piccola azienda-impresa a carattere familiare di pesca (cf. Mt 4,21), proprio sulle rive del lago di Galilea. Gli affari dovevano procedere bene, perché leggiamo che avevano alcuni dipendenti-garzoni (cf. Mc 1, 20), possedevano una barca (Mt 4,21s), pescavano con la rete (21) detta «tramaglio», migliore e più costosa di quelle usate dai pescatori poveri. L’azienda Zebedeo & figli, come riferisce Luca, era in «società» con la ditta di Pietro (cf. 5,10). Una famiglia benestante tutto sommato. Un giorno la vita dei due fratelli cambia. Gesù passa e li chiama a seguirlo per le strade della Galilea. Mi piace il racconto riportato da Matteo poiché la «chiamata» li coglie nel vivo delle loro attività: stanno pescando, la chiamata s’innesta nel vissuto quotidiano della vita dell’uomo. Gesù è un ottimo pedagogo: chiama Andrea e Simone dalla loro realtà personale di pescatori e a partire da lì, li esorta con decisione a vivere la dimensione del servizio completo dell'umanità. C'è un enorme rispetto per ciò che è la persona ed una gradualità di cammini di crescita. I due non ascoltano voce dal cielo, né vedono luci folgoranti, ma vengono chiamati nella ferialità del lavoro nella ditta paterna mentre nella barca, insieme loro padre, rassettavano le reti (cf. 4,21). «Rassettare le reti» indica la manutenzione che fa il pescatore, questo significato rafforza il fatto che la chiamata avviene nella quotidianità. Riassettare le reti dopo la pesca, significa lavarle e rammendarle, in altri termini, mettersi nelle condizioni per poter ripartire appena se ne creano le opportunità. Lo sguardo di Gesù si volge su Giacomo e Giovanni in un momento ordinario della loro vita, cioè si stanno guadagnando da mangiare, un lavoro per essi necessario e trasforma questo momento ordinario in un momento straordinario, il momento in cui ha inizio la fase decisiva della loro salvezza. Matteo sottolinea la prontezza della sequela: «subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono» (5,22). La disponibilità dei due è immediata e decisa, l'incontro con Gesù cambiò radicalmente, in profondità, la vita di Andrea, Simone, Giovanni e Giacomo. Ecco ciò che resta essenziale anche oggi per noi: quando è in gioco la "chiamata" di Gesù, noi siamo invitati a deciderci «con tutto il nostro cuore», a rompere le nostre indecisioni, anche a costo di mollare barca, padre, amici... Il loro rapporto col Padre è relativizzato dalla relazione con Gesù di Nazareth. Giacomo e Giovanni sanno di rischiare, perché di quell’uomo non sanno nulla. Sanno ciò che lasciano, ma non sanno ciò che li aspetta. Questo è il messaggio che, evidentemente, va tradotto all'interno delle nostre situazioni. L’evangelista non ci dice se Zebedeo ha condiviso la scelta dei figli. Per Giacomo e Giovanni ha inizio un’altra vita, quella di chi si è convertito, di chi si è girato su se stesso e ha lasciato alle spalle quello a cui si dedicava prima, per aprirsi al Regno che si è fatto vicino in Gesù. Si sono convertiti al Regno, e ciò significa impegno, fare proprio il destino di Gesù: essere pescati, per diventare a loro volta pescatori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Trentunesimo

Le Nozze di Cana

 

È un episodio che, ad una prima lettura, può sembrare apparentemente molto semplice. Per cogliere tutte le risonanze di questo brano bisogna vederlo inserito in una sezione più ampia che da 1,19 a 2,12, forma un’unica unità. Ignace de la Potterie afferma che questa sezione è la solenne «settimana inaugurale» del IV vangelo, che descrive in tre tappe la manifestazione di Gesù ai suoi discepoli. «Il giorno dopo Giovanni vide Gesù venire verso di lui» (1,29); «Il giorno dopo Giovanni si trovava di nuovo là» (1,35); «Quando Gesù, il giorno dopo, volle partire per la Galilea» (1,43), infine «il terzo giorno ci furono delle nozze in Cana di Galilea» (2,1). Si tratta di una settimana, le nozze ebbero luogo al settimo giorno.

 

Lo sposo: una persona indispensabile

Siamo in un contesto di nozze: attori principali, indispensabili, dovrebbero essere gli sposi. Leggendo, però, attentamente il testo giovanneo, notiamo che non vien detto niente degli sposi, i due rimangono anonimi. La sposa non è neppure nominata, mentre lo sposo è nominato una sola volta dal maestro di tavola quando, stupito, rileva che «questo sposo» ha conservato il vino buono per la fine del banchetto (vv. 9-10). Quegli sposi sono anonimi perché in essi palpita la storia di ciascuna coppia. Il dato orienta a comprendere che l’interesse dell’evangelista è rivolto ad altro.

Il tema delle nozze richiama alla mente molte pagine della sacra scrittura. La festa umana per eccellenza, quella che dice l’amore dell’uomo e della donna, destinati a divenire una sola carne in conformità al comandamento del Creatore (Gn 2,24), è servita per esprimere l’alleanza di Dio con il suo popolo (cfr Os 2,16-25; Is 50,1; 54,4-8; 62,4s; Ger 2,1-2; Ez 16; Sal 45; ed il Cantico dei cantici in tutta la sua globalità). Nel NT è lo stesso Cristo che si presenta nella veste di sposo e le nozze sono un simbolo dell’unione fra il Figlio di Dio e la Sua Chiesa (cf Mt 22,1-14; 25,1-13; Mc 2,18-20; Ef 5,25-33). Davide Maria Turoldo, in Non hanno più vino, scrive «È bene rilevare come tutto il Vangelo sia un invito a nozze: “Il Regno dei cieli è simile a un che imbandisce una grande festa per le nozze del Figlio" (Mt 22, 2). La stessa incarnazione è celebrata dalla Chiesa quale banchetto nuziale di Dio con tutta la natura. E per Israele gli stessi rapporti con Jahwè da parte del popolo erano cantati come il più alto matrimonio, sintesi di ogni altro amore umano. Perfino l'escatologia del mondo è narrata da Cristo nella forma di un convegno nuziale... Lo sposo è lo stesso Gesù; e tutta la Chiesa, quindi, una sposa che attende l'amato sulla strada del ritorno» (pp. 153‑54).  

Le parole che il maestro di tavola rivolge allo sposo «ha conservato il vino buono» (v. 10) fanno intuire che lo sposo – quello vero- che presiede le nozze è Gesù! È lui, in effetti, che ha conservato il vino buono sino alla fine. Agostino commentava: «Lo Sposo di quelle nozze era figura del Signore in persona…» (In Johannem 9,2, CCL VIII,91). Anche l’Apocalisse celebra le nozze dell’Agnello con la nuova Gerusalemme «Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché son giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta, le hanno dato una veste di lino puro splendente» (cf. 19,7-8); «Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (21,2). L’immagine delle nozze indicano la comunione di Dio con il suo popolo e con l’umanità (rappresentata da Maria, i discepoli e i commensali).

Ogni anima è chiamata a concludere con Cristo le nozze: Cristo è lo Sposo (Gv 3,29) in cerca della sposa. Il rapporto tra ogni anima e Cristo, tra ogni cristiano e Dio deve essere rapporto sponsale, cosi come amava dire il venerabile Don Giustino Maria Russolillo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Invitati speciali a quel matrimonio: Gesù, Maria ed i suoi discepoli

La festa di una famiglia era la festa di tutto il villaggio e non si lesinava nell’estendere gli inviti. Gli sponsali di questi due giovani sono caratterizzati da una presenza tutta particolare: tra gli invitati ci sono Gesù, la madre Maria ed i suoi discepoli. Perché Gesù era stato invitato a quella festa di nozze? Non risulta fosse stato un parente o un amico degli sposi, e nemmeno che quegli sposi o la loro famiglia fosse della comunità dei Suoi discepoli, o simpatizzanti.

La vita pubblica di Gesù incomincia sotto il segno delle nozze ed è significativo che il primo miracolo sia avvenuto proprio durante una festa di nozze. A Cana, interviene per aiutare quegli sposi in difficoltà per aver finito il vino. Il suo interesse per la famiglia si manifesta fin dal suo inizio, fin dal primo giorno del matrimonio degli sposi per i quali interviene anche per risolvere problemi materiali. Gesù partecipa alla festa di nozze con i Suoi discepoli e Sua madre. Una festa in cui si balla, si mangia, si beve, si fa musica, si chiacchiera, ci si incontra, ci si stanca danzando, si ride, si intrecciano nuove relazioni ed amicizie; una festa di famiglia, festa di giovani. Questo matrimonio diventa luogo di incontro con Gesù. La Sua presenza alle nozze è ricca di simbolismo mistico e teologico, pastorale e spirituale. Il matrimonio è festa dell'amore e luogo di incontro con Gesù. Il matrimonio è da Lui che viene illuminato e prende significato pieno. «La Chiesa attribuisce una grande importanza alla presenza di Gesù alle nozze di Cana. Vi riconosce la conferma della bontà del matrimonio e l'annuncio che ormai esso sarà un segno efficace della presenza di Cristo» (CCC 1613). Accettando l'invito alle nozze intende dimostrare quanto la verità della famiglia sia inscritta nella rivelazione di Dio e nella storia della salvezza; Cristo è felice di essere con noi e di celebrare con noi ogni giorno il nostro amore nuziale. Noi invitiamo Gesù alle nostre feste? Pare che partecipi volentieri…

Maria: è una invitata? Una parente? Un'amica degli sposi? Non ci viene detto, ma certamente la sua presenza è stata fondamentale per quegli sposi. Le nozze, segno naturale di gioia e di esultanza, sono minacciate dalla tristezza dell’assenza del vino. La gioia della festa nuziale è fragile, instabile e continuamente esposta al rischio di spegnersi. Il vino «che dà gioia al cuore dell'uomo» (Sal 104,15) viene a mancare. Possiamo immaginarci l'inevitabile seguito di questa situazione: l'imbarazzo degli invitanti, il loro disappunto, le critiche e i giudizi severi, l'affannosa ricerca di qualcuno cui attribuire la colpa. La coppia sarebbe stata segnata per sempre nel villaggio come quella del vino finito a metà della festa. Far mancare il vino durante il matrimonio era sinonimo di vergogna.

In questo matrimonio novello stava emergendo un grosso problema perché è «venuto a mancare il vino». Di più, manca il vino e, paradossalmente, i due sposi nemmeno lo sanno, forse proprio perché sono troppo impegnati a far bella figura col matrimonio... Questa è una situazione che accade spesso in molte coppie, perché dopo alcuni mesi o anni di matrimonio, sono colpiti dallo stesso problema: viene «a mancare il vino». Per capire meglio che cosa significa questo, domandiamoci: cosa simboleggia il vino nel mio matrimonio? Esso rappresenta l'allegria, l'amore, la fedeltà, il rispetto, il dialogo, la verità e quindi, poiché manca qualsiasi tipo di vino, ci sono tante ferite, incomprensioni e problemi. Per cercare una soluzione dobbiamo identificare il problema che sta sgretolando il matrimonio. Maria si accorge che il vino è finito ed interviene preso Suo Figlio chiedendo un intervento: «non hanno più vino» (Gv 2,3). Rivela ciò che manca, di cui si ha bisogno. È un compito coraggioso questo, che ci interpella oggi più che mai. In questo tempo in cui si pensa di non mancare di nulla, Maria ci invita a essere nel mondo e nella Chiesa presenze rivelatori di mancanze, di ciò che manca per vivere in pienezza, di ciò che manca per essere come Dio ci vuole. Presenze, dunque, rivelatori di povertà: povertà di essere, di sentimenti, di umanità.

Ultimo accenno voglio farlo sulla presenza dei discepoli. La loro presenza alle nozze di Cana fa riferimento alla necessità dell’opera della Chiesa nella vita della famiglie. Essa è compagna di viaggio della coppia, il Signore ci ha donata la Chiesa per continuare la sua presenza viva di luce e di sostegno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Trentaduesimo

Cristiano e Cristiana: la verità dell’amore (Ef 5)

 

Siamo giunti ormai al termine di questo cammino di quattro anni sulle coppie presenti nella bibbia. Ora presenteremo una coppia che chiamiamo simbolicamente Cristiano e Cristiana e ci aiuterà a riflettere un brano del la Lettera agli Efesini.

 

a) L’amore di una coppia cristiana

La Sacra Scrittura si apre sulla storia dell'uomo, Adamo, e della donna, Eva, di cui si dice che «saranno una sola carne» (Gn 2,24). Il verbo saranno lascia intuire che l'essere uno dei due si compirà nel futuro. Per scoprire quale sia il futuro in cui l'amore coniugale trova il suo compimento si deve giungere in prossimità dell'altro capo della Bibbia, dove la predizione degli inizi viene ripresa e definitivamente svelata: «Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (Ef 5,31‑32). Con la Lettera agli Efesini la rivelazione diventa piena e definitiva. La «sola carne» riceve una connotazione cristologia, perché partecipa il mistero dell'amore umano viene intrecciato indissolubilmente con l'amore che Cristo ha per la Chiesa e ne diviene segno. L’unità dei due coniugi è data dal fatto di essere in Cristo un solo corpo. L’amore di una coppia cristiana non è l'amore genericamente umano, ma un amore che assume la totalità dell'amore annunciato e vissuto da Gesù Cristo. Come ha amato Gesù? Quale tipo di amore ha vissuto? L’evangelista Giovanni, giungendo al momento culminante del suo racconto, lo indica in modo tanto breve quanto profondo: «Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (13,1). San Paolo afferma «così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo» (Ef 5,28-30). Il corpo della moglie non è il corpo proprio del marito, ma deve essere amato come proprio. Si tratta dunque di una unità non ontologica, ma morale: l'unità attraverso l'amore; C’è pertanto, per il marito, un dovere di amare la moglie come Cristo amato la Chiesa: «vi do un comandamento nuovo: che vi amate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi» (Gv 13,34). La grazie che i coniugi ricevono nel Sacramento del matrimonio li rende capaci di realizzare e vivere a pieno questo amore. È in loro che l’amore di Cristo si rende visibile, generando frutti di pace e di giustizia per la famiglia e per il mondo intero. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma: «Tutta la vita cristiana porta il segno dell'amore sponsale di Cristo e della Chiesa. Già il Battesimo, che introduce nel Popolo di Dio, è un mistero nuziale: è, per così dire, il lavacro di nozze che precede il banchetto di nozze, l'Eucaristia. Il Matrimonio cristiano diventa, a sua volta, segno efficace, sacramento dell'alleanza di Cristo e della Chiesa. Poiché ne significa e ne comunica la grazia, il matrimonio fra battezzati è un vero sacramento della Nuova Alleanza» (n. 1617).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b) I colori dell’amore cristiano

Come nella luce solare si possono distinguere diversi colori, cos’ nell’amore cristiano si possono distinguere quattro caratteristiche: totale, unico, eterno, fecondo (Paolo VI, Humanae Vitae, 9).

È anzitutto totale e senza riserve. Allo stesso modo in cui Cristo, per la salvezza di coloro che Gli sono stati affidati, ha dato Sé stesso completamente in sacrificio, così gli sposi si danno l'uno all'altra senza riserve, dimenticando sé stessi (cf. Ef 5, 25s).Gli sposi cristiani si amano l'un l'altro con tutto se stessi: corpo e anima, carne e spirito.

L’amore matrimoniale dei cristiani è poi unico. Volere appartenere all'altro totalmente significa non essere di nessun altro. Ci saranno anche altri nella vita di un coniuge, ma cosi come il proprio marito, così come la propria moglie non ci sarà nessuno.

Un altro nome per dire che l'amore matrimoniale è unico è dire che è fedele. Gli sposi cristiani si promettono fedeltà senza riserve. L’amore cristiano è dunque per sempre. La fedeltà dura nel tempo. Due sposi cristiani si amano in ogni tempo e senza tempo. Il loro amore non è a termine, ma indissolubile.

L’amore cristiano è infine fecondo. L’unione matrimoniale esprime per eccellenza questa fecondità immediatamente nelle espressioni d'amore dell'uno per l'altro e in modo del tutto speciale nella generazione dei figli. Nei figli, l'amore dei due cammina e continua oltre loro stessi. I figli sono il futuro dell'amore dei due. Gli sposi cristiani danno la vita ai figli affinché l'amore che li unisce non abbia fine.