INDICE

 

 

 17. Un nuovo valore nella coppia: l'adozione

     a) Mosè trovato e adottato dalla figlia del faraone

     b) La paternità di Giuseppe

 

18. Noè e la sua famiglia

      a) Una famiglia diversa!

      b) Noè, uomo giusto che camminava con Dio, è figura di Cristo

      c) Noè preparò un’arca per salvare la sua famiglia

 

19. Mosè e Zippora

      a) Mosè nasce due volte e ha due madri

      b) Mosè esce da castello incantato…  e  si identifica con i suoi fratelli

      c) La fuga nel privato… e l’incontro con Zippora

      d) L’incontro con Dio e vocazione di Mosè

       e) Una famiglia per liberare un popolo.

 

20. La Famiglia: culla delle vocazione: Élkana e Anna

     a) Élkana e Anna... la vocazione di Samuele

     b) La presenza di un padre spirituale

     c) La chiamata di Samuele ha un significato paradigmatico

 

21. La Famiglia di Nazareth: primo seminario da cui sboccia la vocazione dei figli

     

22. Assuero ed Ester. La diversità nella coppia

      a) L’incontro di Ester con il re Assuero

      b) La diversità è una ricchezza della vita coniugale

 

23. Una coppia in senso lato… Simeone ed Anna

      a) Uniti nell’attesa del Signore

      b) Gli anziani «custodi di una memoria collettiva»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Diciassettesimo

 Un nuovo valore nella coppia: l'adozione

 

Sempre più spesso mi capita ascoltare che coppie sterili ricorrono alla fecondazione artificiale per riuscire ad avere un bambino. Addirittura con il rischio che nessun ovulo fecondato possa andare a buon fine. Mi chiedo «perché non aprirsi all’adozione?». Ad essa ci si arriva, purtroppo, solo dopo molti tentativi, e spesso, diciamolo, in modo clandestino. Non entro in merito alle questioni legislative, non ne sono competente. Semplicemente partirò da due episodi biblici che possono fare luce sull’adozione e trarre indicazioni per le coppie del terzio millennio. I brani in esame sono: Mosè ritrovato dalla figlia del faraone (Es 1,1-10) e la paternità di Giuseppe (Mt 1,18-25). Certamente non hanno la pretesa di essere esaustivi, ma soltanto hanno lo scopo di farci interrogare su un problema cosi attuale.

 

 

 

 

a) Mosè trovato e adottato dalla figlia del faraone

Nell’Antico Testamento sono descritti alcuni episodi espliciti di adozioni: Mosè adottato dalla figlia del Faraone (Es 2,10); Ester, presa in casa da Mardocheo e «trattata come se fosse stata figlia sua» (Est 2,7), Manasse ed Efraim presi ed educati da Giacobbe che li rivendica come suoi figli, conferendo loro gli stessi diritti ereditari degli altri figli (cf. Gn 48,5s). Noemi prende il primogenito di Ruth, già sua nuora, se lo pone in seno, e ne diventa l’allevatrice, e le vicine dicono «e' nato un figlio a Noemi» (Rut 4,16s).

Il libro dell’Esodo inizia con la notizia che il nuovo faraone odia gli ebrei, e perciò rende difficile la loro vita ed impose loro una dura schiavitù (cf. 1,11-14). Decide di uccidere tutti i figli maschi degli ebrei al momento della nascita, poiché si stanno moltiplicando eccessivamente. Ordina alle levatrici: «Quando assistete al parto delle donne ebree, osservate il neonato; se è un maschio, lo farete morire; se è una femmina, potrà vivere» (cf. 1,16). Due levatrici, Sifra e Pua, non obbediscono all’ordine, ed il faraone fa gettare nel Nilo tutti i neonati maschi (cf. 1,22). Il piccolo Mosè si salverà grazie ad uno stratagemma della madre. Iochebed, una donna della tribù di Levi, il cui nome significa «Dio è la nostra gloria», dà alla luce un maschio, lo nasconde per circa tre mesi (cf. 2,2). Potremmo dire che era una madre dalla fede operante. Nella lettera agli Ebrei, nel capitolo dedicato agli eroi della fede, si legge «per fede Mosè, quando nacque, fu tenuto nascosto per tre mesi dai suoi genitori … e non ebbero paura dell’editto del re» (11,23). La domanda sorge spontanea «Chi aveva esercitato fede?». Ovviamente non Mosè, dato che era solo un neonato, bensì la madre. Ella aveva fede fino al punto di affidare alla provvidenza di JHWH un bambino di pochi mesi in un canestro sul Nilo, confidava nella capacità di JHWH di proteggerlo e guidarlo in un luogo sicuro. I padri conciliari hanno affermato che «la vita, una volta concepita deve essere protetta con la massima cura» (Gaudium et Spes, 51). Il medesimo concetto lo ribadisce Giovanni Paolo II, nell’Evangelium vitae: «chi ama la vita, la protegge, la rispetta, fa di tutto per salvarla» (cf. 28). Iochebed pur di salvare il figlio «prende un cestello di papiro, lo spalma di bitume e di pece, vi mette dentro il bambino e lo depone fra i giunchi sulla riva del Nilo» (Es 2,3-4). La storia di Mosè inizia proprio in questo modo! Interessante notare che la cesta di papiro - è chiamata tebah, esattamente come l’arca del diluvio (Gn 6,14). L’accostamento è degno di attenzione: come al tempo di Noè, è in causa la salvezza del futuro del popolo di Dio; essa è affidata ad un mezzo fragile, ma Dio veglia salvando dalle acque mortali colui che ha scelto. Umanamente non sarà stato facile per Iochebed «abbandonare» il proprio pargoletto in un cesto, ciò si può costatare dal fatto che «la sorella del bambino [Maria] si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto» (Es 1,4).

In questa logica di difesa della vita, il testo ci presenta l’altro personaggio: la figlia del Faraone. Senz’altro può indicare un'altra strada per difendere, proteggere e far crescere la vita: l’adozione. Il testo riferisce che scese per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Vide il canestro fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo, l'aprì e vide un fanciullino che piangeva, riconobbe che era un figlio degli Ebrei, ma ne ebbe compassione (2,6). La figlia del Faraone su suggerimento della sorella del bambino che ha osservato il tutto, fa venire una nutrice, che è la madre stessa di Mosè. Notiamo che la parola madre nel racconto appare solo quando il bambino è trovato e la figlia del faraone invia la fanciulla a chiamare una nutrice per il piccolo. Il piano di JHWH incomincia quando le speranze di Amram e Iochebed, genitori di Mosè (cf. 6,20), stavano per svanire. Il bambino gli è ridato, la fede in Dio ricompensa sempre. La figlia del Faraone ridiede il bimbo alla madre naturale fino allo svezzamento e le dà anche il sostentamento. Cresciutolo, Iochebed lo «conduce nuovamente alla figlia del faraone, la quale lo considera suo figlio. Lo chiama Mosè, dicendo: “Io l’ho salvato dalle acque!”» (2,10). La Sacra scrittura spiega il nome «Mosè» secondo un'interpretazione popolare che lo collega al verbo «tirar fuori» dalle acque; in realtà il nome è prettamente egiziano e significa «figlio», e compare in molti nomi composti egiziani come Tut-mose, A-mose, Ra-messe (rispettivamente “figlio del dio Tot”, “Ah”, “Ra”).

Il nome, nella mentalità semita, indica l’uomo e il suo destino. La tradizione israelita ha visto in lui il «tirato dalle acque», il primo salvato dall’Egitto, e sarà prefigurazione del popolo salvato dall’acque del Mar Rosso durante l’Esodo. La figlia del faraone salva la vita al bambino. Sono convinto che molte famiglie oggi potrebbero «salvare dalle acque» tanti, mostrando «maggior disponibilità verso l’adozione e l’affidamento di quei figli che sono privati dei genitori o da essi abbandonati» (FC,41). La vita è sacra: salvarla si può e si deve. Mosè viene accolto della figlia del Faraone che lo allevò come figlio (cf. At 7,21); ci troviamo di fronte ad una vera è propria adozione: fare di un bambino estraneo un proprio figlio. Interessante è vedere il paradosso che si verifica in casa del faraone. Questi vuole uccidere i maschi ebrei e la figlia salva proprio un maschio ebreo o lo introduce in casa del padre, come suo figlio, nonostante fosse a conoscenza del decreto del padre. Il faraone che, assediato dalla paura, aveva preso la decisione di sterminare gli ebrei, ora alleva, prepara e forma, in casa sua, colui che sarà il futuro liberatore dei sui nemici. Si affezionerà a tal punto da creare in Ramses II, l’altro figlio, una sorte di invidia.

Nella prima parte della vicenda possiamo notare il forte contrasto tra il ruolo ricoperto delle donne (Sifra e Pua, le due levatrici; Iochebed, madre naturale di Mosè; Maria, sua sorella e la figlia del faraone) e quello ricoperto degli uomini e dal faraone. Le donne sono a favore della vita e nessuna, neanche la figlia del faraone, collabora con l’ordine di sterminio, al contrario degli uomini che sono operatori di morte. Mosè è salvo, questo ci porta ad affermare che sugli avvenimenti dell’uomo c’è sempre “Qualcuno” che vigila e porta a compimento qualcosa. Dio sa scrivere diritto sulle righe storte. Mosè dopo essere stato quarant’anni in Egitto alla corte del faraone ed altri quaranta nel deserto, non solo ritrova la sua famiglia d’origine (il fratello Aronne e la sorella Maria), ma diventerà il portavoce di Dio davanti al popolo e davanti al Faraone. Dio cerca degli alleati per realizzare i sui imperscrutabili piani. In realtà il progetto di Dio su Mosè si è potuto realizzare grazie alla disponibilità di una donna che, oltrepassando l’egoismo, ha fatto suo un bimbo che altrimenti sarebbe stato destinato alla morte. Dove l’odio divide, l’amore ricongiunge. Mosè fu salvo, per amore sia delle due donne che di Dio. Fu il primo ad essere salvato perché divenisse, nelle mani del Signore, canale di salvezza per gli altri. Mosè significa tratto o estratto, ed egli è continuamente estratto: dalle acque del Nilo (alla nascita), dall’Egitto (fuga da Madian), da Madian (ritorno in Egitto) ed infine dalla schiavitù (esodo).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b) La paternità di Giuseppe

Giuseppe è uno di quei personaggi che rimangono nascosti nel misterioso disegno di Dio. La sua figura non emerge nei racconti dei Vangeli, eppure è una storia straordinaria la sua, ma nulla di strepitoso.

Giuseppe in ebraico significa «Dio gli aggiunga!» o, con una variante, «Che egli raduna».

Lo vediamo silenzioso e premuroso accanto a Maria e Gesù in tante circostanze (spesso difficili e drammatiche). Di lui sappiamo poco o nulla, da sempre è considerato il padre putativo di Gesù; così lo presentano il Vangelo e la tradizione della Chiesa.

Matteo afferma che è promesso sposo di Maria (cf. 1,18). Quando sta per costruirsi una famiglia con la ragazza che ama, improvvisamente un evento straordinario interviene in quella coppia: Dio entra nella loro storia. La fidanzata, «prima che andassero a vivere insieme, si trova incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, che è giusto e non vuole ripudiarla, decide di licenziarla in segreto» (cf. 18s). Vi lascio immaginare il cuore e la mente del giovane Giuseppe; la sua donna aspetta un bambino senza il suo concorso. Vedendo incinta la sua promessa sposa, Giuseppe pensa tutto ciò che umanamente si può pensare: è adultera! Al riguardo la legge mosaica prescriveva che «se la fidanzata non sarà trovata vergine, si farà uscire sulla soglia della casa paterna e la popolazione della sua città la lapiderà per farla morire» (Dt 22,20-21). Giuseppe, da buon ebreo, conosce e sa cosa rischia la sua amata: sarà emarginata totalmente, rifiutata da tutti, accolta solo dal clan paterno assieme al figlio bastardo che genererà, perché a suo tempo legge è già applicata con minore rigidità, e consente l’interruzione del fidanzamento alla presenza di due testimoni, senza denuncia e senza processo; così l’infamia non diventa pubblica, resta dentro le mura della casa paterna e si salva la vita della colpevole.

Matteo annota che Giuseppe era «giusto», termine che nella scrittura indica l’uomo che è sottomesso alla volontà di Dio. Il «giusto», nel mondo ebraico, era l’uomo che seguiva il Signore e per il quale la volontà di Dio era incapace di fare ingiustizia o torto a qualcuno. Giuseppe è «giusto», perché ubbidisce a Dio, che mediante un angelo gli rivela la sua volontà. La giustizia di Giuseppe non viene dalla legge, ma dalla fede in ciò che Dio sta realizzando in Maria. La traduzione data al versetto «decide di licenziarla in segreto», suppone infatti che Giuseppe fosse già a conoscenza di quanto era avvenuto nel seno di Maria, e solo Lei può averglielo detto. Probabilmente era un segreto che doveva rimanere tra i due. Sta il fatto che Egli sentì il dovere di non rivelare a nessuno il mistero, atteggiamento che indica la saggezza del giusto. Del resto, chi gli avrebbe creduto?

È corretta la traduzione che abbiamo dato? Ci sembra di si; benché stenti a entrare nelle Bibbie. Di solito invece di rivelare leggiamo: non voleva ripudiarla (così nel testo liturgico), ma già alcuni dubitavano di una simile traduzione. Eusebio di Cesarea affermava che il senso normale del verbo è quello di «portare alla luce», «svelare», «rivelare». Basilio lo intende nel senso di «mettere in pubblico», senza nessuna connotazione negativa. Sono questi i motivi per cui oggi certi autori traducono con «non rivelare» (de La Potterie), «non divulgare il mistero» (Léon Dufour). Questo è ciò che Giuseppe decise di fare.

Matteo riporta i turbamenti e l'umanissimo atteggiamento di Giuseppe. Nella Redemptoris Custos, Giovanni Paolo II scrive «(Giuseppe) non sapeva come comportarsi di fronte alla «mirabile» maternità di Maria. Certamente cercava una risposta all'inquietante interrogativo, ma soprattutto cercava una via di uscita da quella situazione per lui difficile» (n° 3). Quante volte anche a noi è chiesto di accettare senza capire? Quando non comprendiamo la volontà di Dio, qual è il nostro atteggiamento? Ci agitiamo, oppure accettiamo il silenzio di Dio in attesa della pienezza della manifestazione della sua volontà?

Il Signore aiuta chi si mette in sintonia con il suo disegno, e si rivela in pienezza a chi apre magari solo uno spiraglio del cuore. Dio entra nella storia di Giuseppe! In sogno un angelo l’illumina sul mistero che si compie e sulla missione che dovrà realizzare il nascituro (cf. Mt 1,20s). Nella Bibbia i sogni appaiono come una via normale attraverso la quale Dio comunica con gli uomini. Abramo, durante un sonno, riceve da Dio la promessa di una lunga discendenza (Gn 15,12); Giacobbe riceve la conferma di una lunga discendenza durante un sogno nel quale vede una lunga scala che dalla terra arrivava fino in cielo, sulla quale salivano e scendevano gli angeli (Gn 28,10-22). Rivelazioni per mezzo del sogno si verificano spesso anche nei profeti. Samuele, ancora giovinetto, riceve in sogno da Dio la rivelazione della rovina della casa d’Eli (1Sam 3). Nel santuario di Gabaon, Dio appare in sogno a Salomone (1Re 3,5). A Giuseppe tutte le comunicazioni divine avvengono in sogno (Mt 1,20; 2,13; 2,22). I Magi sono avvertiti in sogno di tornare al loro paese per un’altra strada per evitare l’incontro con Erode (2,12).

Giuseppe accetta e si abbandona con fede al misterioso piano di Dio; da notare che il verbo «porrai» (kalèsis) è un futuro di valore imperativo. L’angelo, poi, rivela la missione del bambino «è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati» (1,21b). Appena il Signore si manifesta, magari attraverso l’evanescenza di un sogno, Giuseppe riacquista tutta la sua sicurezza, perde ogni timore. È chiamato subito ad esercitare la sua paternità, introducendo così Gesù nella discendenza davidica, realizzando le promesse dei profeti. Eserciterà un’autentica paternità: il conferire il nome spettava al padre. Dovrà proteggere Maria e suo Figlio dalla persecuzione d’Erode, che cerca quel bimbo per ucciderlo (2,1-6) perché, turbato dalla notizia della nascita del Messia, teme che Egli possa togliergli il trono. Giuseppe immediatamente prende il piccolo e sua madre e scappa in Egitto (cf. 2,13). Per proteggere l’incolumità del piccolo Gesù, rimarrà in Egitto sino alla morte d’Erode (cf. 2,15); poi ritornerà a Nazareth (cf. 2,21s). Comprendiamo che la paternità richiede una cura costante e si esercita in gesti concreti d’amore…  mettendo, spesso, a rischio la propria vita.

Giuseppe assumerà il ruolo che nella famiglia giudaica prevedeva anche lo studio della Toràh (legge) e l’insegnamento ai figli. Insegnerà il mestiere di carpentiere a Gesù; a tal proposito nella Redemptoris Custos è scritto: «Colui che era detto il figlio del carpentiere aveva imparato il lavoro dal suo padre putativo. Se la Famiglia di Nazareth, nell’ordine della salvezza e della santità, è l’esempio ed il modello per le famiglie umane, lo è analogamente anche il lavoro di Gesù a fianco di Giuseppe carpentiere» (n° 22). Gesù, attraverso Giuseppe, impara anche tutta l’educazione religiosa, che non ripudierà mai, ma che porterà invece a piena verità. Giuseppe fa tutto ciò per amore, sia nei confronti di Maria che di Gesù, e ci insegna che, oltre ad una paternità naturale, fatta cioè di carne e di sangue, vi è una paternità spirituale. Agostino insiste sulla paternità di Giuseppe e scrive: «È padre non per virtù della carne, ma della carità. Non è un padre ritenuto tale per opinione comune: Giuseppe è padre e lo è realmente» (cf. La vera paternità di Giuseppe [dai Discorsi di Agostino, Serm. 51, 16.26; 20.30]). Questo può incoraggiare tanti uomini d’oggi che, pur non essendo padri naturali (per cause diverse: sterilità o scelta), vogliono e possono esserlo per adozione. Potrebbe mostrarsi molto gratificante. Non basta generare per essere veramente padri. L’immagine paterna si è resa incerta, la società attuale è «orfana di Padre». Sempre più spesso si ascoltano notizie ove la paternità si svolge sotto il segno della negatività (si pensa agli abusi sessuali subiti dal proprio padre).

Padri si diventa solo quando si affronta la fatica di dare un’identità alla creatura che ti è stata donata e di aiutarla a crescere. Si può sperimentare l’adozione e l’affidamento come «segno di carità operosa e di annuncio vissuto della paternità di Dio» (CEI, Direttorio di Pastorale Familiare,160). Dio ha fatto sua questa paternità, e Giovanni afferma che chi accoglie Dio in sé diventa suo figlio (cf. 1,12). Paolo ci ricorda che «abbiamo ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!». Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio (cf. Rm 8,16s), e altrove scrive che Dio ci ha «predestinato a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (cf. Ef 1,5).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Capitolo Diciottesimo

Noè e la sua famiglia

 

Ci sono state obiezioni circa l'attendibilità storica di questa famiglia; personalmente non entrerò in merito. Secondo le nostre conoscenze, Noè non è un personaggio storico, ma un personaggio letterario della Bibbia. Noè è sopravvissuto al diluvio, salvandosi nell’arca insieme a sua moglie (della quale non conosciamo neppure il nome) ed i loro tre figli Sem, Cam e Iafet, con le rispettive mogli e agli animali d’ogni specie. Con lui ha avuto realmente inizio una nuova umanità. Molti conoscono Noè e la sua famiglia perché è associata all’episodio del diluvio universale. L’arcobaleno e la colomba con il ramoscello di palma nel becco richiama la promessa fattagli da Dio (cf. Gn 8,21).

Dal racconto cercheremo di  fare alcune riflessioni che possono aiutarci la nostra vita di fede. Il racconto biblico fa pensare ad un gruppo di persone in perfetta sintonia e fra di loro e con Dio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una famiglia diversa!

L’autore biblico presenta un mondo corrotto che circonda questa famiglia, diremmo una realtà simile a quella dei nostri giorni, dove ogni principio morale è minato alla base; per cui è difficile dire cosa è bene e cosa è male. Con questa società è necessario fare i conti, senza fughe.

«Dio guardò la terra, ed ecco essa era corrotta» (6,12). Stanco della malizia degli uomini, Dio decide di sterminarli col diluvio. Il Signore «vide che la malvagità degli uomini e si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Disse: “Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato: con l’uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito d’averli fatti”» (Cf. 6,5-7). È il preludio del primo terribile giudizio di condanna pronunciato da Dio sull'umanità ribelle e corrotta. La narrazione del diluvio, che l’autore ispirato inserisce nella trama della salvezza, è un insegnamento teologico ed etico che è formulato nelle parole Dio non è indifferente al male morale e lo punisce. E Dio svela a Noè, giusto e perfetto tra i suoi contemporanei, il Suo disegno.

In quella realtà contaminata, solo la famiglia di Noè si differenzia fortemente nella vita e nei valori dalle altre famiglie dei propri contemporanei; non troviamo in lui o nei suoi familiari alcun segno di condanna o di contrasto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Noè, uomo giusto che camminava con Dio, è figura di Cristo

«Trovò grazia agli occhi del Signore… Era uomo giusto, integro e camminava con Dio» (6,8-9). La sua giustizia e la sua rettitudine sono motivo di grazia, di favore e di giustizia da parte di Dio che guarda il cuore di costui che lo ama, lo ascolta e cammina alla sua presenza. È suggestiva l'annotazione secondo la quale è Dio stesso a chiudere la porta dietro Noè (Gn 6,16); non si limita a comandargli di fabbricare l'arca e di radunare gli animali, ma pensa Egli stesso a proteggerli, nel ventre dell'arca, quasi preoccupandosi della sicurezza della vita del giusto. Nel Siracide si legge «fu trovato perfetto e giusto, al tempo dell’ira fu riconciliazione; per suo mezzo un resto sopravvisse sulla terra, quando avvenne il diluvio» (44,17). Il libro della Sapienza afferma che fu la stessa sapienza divina a «pilotare il giusto e la sua semplice imbarcazione» (10,4). Dio gli disse «Con te stabilisco la mia alleanza» (Gn 6,18). Dio salva tutti i giusti, incarnati in Noè.

Per i Padri della chiesa Noè è figura di Cristo (Ilario di Poitiers, Trattato dei misteri, [CSEL 65,3-38]), il giusto per eccellenza, e persino l’etimologia del nome preannuncia Cristo. Noè deriva da naham, che in ebraico è formato dalle due consonanti n e h: in Genesi 5,29 esso è in relazione con il verbo nhm, che significa «consolare», letteralmente «dare sollievo», e l’etimologia viene fuori dal fatto che Lamech, quando lo generò, profetizzò: «Costui ci consolerà dal nostro lavoro e dalla fatica delle nostre mani a motivo del suolo che è stato maledetto da Dio» (5,29). Gesù disse «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò;… troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11,28s). Il Cristo procura riposo alle nostre anime e salva nuovamente il mondo dalla malvagità con la Sua vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Noè preparò un’arca per salvare la sua famiglia

«Manderò il diluvio sulla terra, per distruggere sotto il cielo ogni carne;… tu entra nell’arca con tutta la tua famiglia… D’ogni animale prendine con te sette paia, il maschio e la sua femmina…» (cf. Gn 6,14.17; 7,1). Noè crede nelle parole del Signore che aveva predetto quel «diluvio», pur sotto un sole splendido in pieno cielo azzurro.

I padri hanno il dovere di vegliare per la salvezza della famiglia, di porsi in ascolto della Parola di Dio e di agire di conseguenza. La storia di Noè è di monito ai padri: li esorta ad essere migliori, a fortificarsi spiritualmente ed a guardare alla paternità di Dio, a saper proteggere i propri figli, così come fece Lui, che avendo udito l’avvertimento divino, credette e, nel fermo intento di salvare la sua famiglia, iniziò la costruzione dell’arca. Il primo pensiero fu quello di proteggere la famiglia, e vi riuscì grazie al suo orecchio attento alla voce di Dio, alla sua fede, al suo timor di Dio, alla sua comunione costante col Signore e allo zelo nella costruzione dell’arca.

La famiglia di Noè, prima del diluvio, si differenzia fortemente nella vita e nei valori dalle altre famiglie loro contemporanee, non troviamo da parte sua o dei suoi familiari alcun segno di condanna o di contrasto. Noè, con la sua famiglia, è chiamato ad annunciare la sue fedeltà a Dio con i fatti non con le parole.

Insieme ai figli dovette costruire l’arca, secondo le istruzioni che Dio aveva dato. Dovettero impeciarla per renderla a prova d’acqua. Non deve essere stato facile fare il costruttore di navi in piena terraferma, con le beffe dei passanti che ridevano di lui: solo un pazzo poteva costruire un’arca così grande.

Quando ebbero finito di inchiodare l’ultima tavola, e si furono assicurati che l’arca era sigillata ed a prova di acqua, il Signore parlò a Noè (cf. Gn 7,1-2). Nell’arca entrarono d’ogni animale sette paia, il maschio e la sua femmina. La gente fuori guardava stupita. Noè e la sua famiglia e tutti gli animali trascorsero la prima notte nell’arca. Quando si svegliarono, udirono che li prendeva in giro. «Noè! Non avevi detto che si sarebbe messo a piovere? Ti sei sbagliato!».  Ma Lui era fermo nel credere a quello che Dio gli aveva detto.

Nella Lettera agli Ebrei, nel capitolo dedicato agli eroi della fede, si legge questo ritratto di Noè: «Per fede Noè, avvertito divinamente di cose che ancora non si vedevano, costruì con pio timore un’arca a salvezza della sua famiglia; e per questa fede condannò il mondo e divenne erede della giustizia secondo la fede» (11,7).

Sull’episodio vi è stata una lettura simbolica da Gregorio di Elvira in un piccolo trattato intitolato L’Arca di Noè (PL I, 516-518). Dei vari dettagli, ecco alcuni stralci: «L’arca, costruita con legno immarcescibile, designava l’edificio della Santa Chiesa…». Anche sul numero sette fa una lettura simbolica…: «...l’immagine delle stette Chiese; i sette doni dello Spirito; il corpo con le sette membro o sette funzioni (la testa, le mani, i piedi, la vista, l’udito, il gusto e l’odorato); le virtù, le sette colonne di Salomone...».

L’immagine dell’arca come «luogo di salvezza» o «zattera di salvezza», che prefigura Chiesa, mi sembra molto bella e suggestiva; ma a me piace intravedere la salvezza che si realizza nella piccola Chiesa domestica: la famiglia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Capitolo Diciannovesimo

Mosè e Zippora

 

Quante donne intersecano la storia di Mosè per proteggere la sua vita: Iochebed, la madre; Miriam, la sorella; la figlia del faraone ed infine Zippora, la moglie. La vita familiare di Mosè è strettamente correlata alla sua vita pubblica.

 

Mosè nasce due volte e ha due madri

La prima nascita potremmo dire che è destinata alla morte. Figlio di Ebrei della tribù di Levi, la mamma studia uno stratagemma per farlo vivere a tutti i costi, contro gli ordini del faraone. Abbandona il bambino in un cesto che galleggia sull’acqua del canneto sulle sponde del Nilo, e lascia lì vicina, di guardia, la sorellina. La seconda nascita alla vita ovviamente quando, per circostanze bizzarre (i piani di Dio sono molto bizzarri a volte!), viene trovato della figlia del Faraone e diventa suo «figlio» (cf. Es 2,5-10). Abbiamo due madri: la prima, ebrea, lo genera alla «morte». La seconda, egiziana, lo genera alla «vita». Mosè crebbe come un ragazzo di corte, amato dal Faraone e potenziale erede al trono per la sa grande intelligenza e vitalità. Mosè «fu istruito in tutta la sapienza degli Egiziani e divenne potente in parole e opere» (At 7,22). Era un membro della famiglia reale, «un uomo assai considerato nel paese d’Egitto» (Es 11,3). Ricevette la migliore istruzione del mondo di allora; probabilmente fu preparato per guidare la nazione. Tutti gli agi, i piaceri, le gioie caratterizzano i primi 40 anni della sua vita. Tutto questo serviva come preparazione di Mosè. Dio lo aveva scelto per un’opera grande, e quindi gli serviva una grande preparazione. Solo Dio avrebbe potuto guidare le cose in modo che uno schiavo ebreo fosse cresciuto ed educato nel palazzo reale d’Egitto!

Quante volte manchiamo nella fede quando le cose non vanno come abbiamo pensato noi! Quante volte sembra che è il male a vincere, e invece Dio sta facendo qualcosa più grande di quello che avremmo potuto immaginare! Uno dei motivi per cui Dio ci racconta così tanti dettagli nella Bibbia è per aiutarci a capire quanto Egli è pienamente al comando della storia, affinché possiamo avere più fede in Lui per gli avvenimenti della nostra vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mosè esce da castello incantato…  e  si identifica con i suoi fratelli

Nel racconto il castello incantato è la casa della figlia del faraone, dove Mosè è vissuto quarant’anni come principe. Godeva di tutti i privilegi e i diritti di un reale Egiziano. Egli non sapeva di avere origini ebraiche, ma le scopre ben presto. Mosè esce dal suo castello e per prima cosa si rende conto che è invecchiato; poi scopre di avere dei fratelli, cioè rapporti inevitabili, legami di affetti incomprensibili e sui i quali serve trovare una vicinanza e una distanza accettabili. Scopre la sua vera origine ed entra in conflitto con se stesso. Un giorno «si recò dai suoi fratelli e notò i lavori pesanti da cui erano oppressi» (2,11). Di fronte a questa situazione prende una decisione: «Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli, voltatosi attorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo seppellì nella sabbia» (cf. 2,11-12). La reazione è talmente forte ed istintiva che Mosè uccide. Il racconto, benché semplice e scarno, sottolinea una caratteristica che fa parte della personalità di questo uomo: l'esigenza della giustizia. Ma il suo gesto eroico non ha nessuna riconoscenza da parte degli ebrei. Nessuno gli dice «Bravo, hai rischiato per noi». La scrittura riporta «il giorno dopo, uscì di nuovo e, vedendo due Ebrei che stavano rissando, disse a quello che aveva torto: “Perché percuoti il tuo fratello?” Quegli rispose: “Chi ti ha costituito capo e giudice su di noi? Pensi forse di uccidermi, come hai ucciso l’Egiziano?”» (2,13). Mosè è costretto così a fuggire (cf. 2,13-15): è diventato straniero non solo per la casa del Faraone, ma anche per i suoi fratelli, perché ha creato problemi, ed è straniero perfino a se stesso. Si trova solo, nel deserto, senza patria, senza famiglia… Abbiamo un primo «esodo» di Mosè. Il verbo ebraico che si usa in questo brano per indicare l’uscire di Mosè (11.13), lo ritroviamo per indicare l’uscita del popolo d’Israele dalla terra d’Egitto, e quindi la sua Pasqua. Il vincolo che lega Mosè al popolo lo spinge a compiere questo primo «esodo» all’insegna della solidarietà nei confronti dei fratelli oppressi dai lavori pesanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La fuga nel privato… e l’incontro con Zippora

Fuggire significava ricominciare la vita altrove. Guidato da Dio, fuggì nel deserto di Madian. I Madianiti erano parenti di Abramo, e anche loro adoravano l’unico vero Dio. Abitavano in un grande deserto che l’esercito Egiziano non frequentava.

 Mosè, stanco dal viaggio, si mise seduto presso un pozzo. Qui incontra l’amore: Zippora, che in ebraico indica un «uccello» femmina. Potremmo dire che Mosè la chiamava, come gli innamorati di oggi: «Passerotto mio». Ella ha inciso nel suo nome il destino della sua vicenda affettiva: come un uccellino, può posarsi di tanto in tanto nella vita del grande eroe senza potervi mai dimorare. Era giunta presso il pozzo col gregge del padre, un sacerdote: Reuel, che secondo l’etimologia riportata dalla Scrittura significa «Dio è pastore» (Es 2,18); altrove è chiamato Ietro «eccellenza» (Es 3,1). Con lei c’erano le altre sue sei sorelle. I pozzi sono sempre stati tappe importanti sulle strade degli uomini della Bibbia. Presso di essi gli uomini si incontravano, oppure litigavano per bere o far bere il bestiame, poiché il pozzo era un segno di proprietà. Esso rappresentava pure la «Legge». Nella Bibbia tre storie d’incontro accanto al pozzo terminano la consueta scena tipo dell'incontro con la donna o del fidanzamento (Gn 24: servo di Abramo e Rebecca; 29: Giacobbe e Rachele; qui: Mosè e le figlie di Ietro; in Gv 4: Gesù e la samaritana). In tutte queste scene c'è un incontro con una donna che attinge al pozzo, e generalmente il futuro marito dà l'acqua alla futura sposa (Giacobbe in Gn 29,19; Mosé in Es 2,17.19).

Ma qui, all’improvviso, ecco irrompere alcuni pastori che, con la prepotenza maschile, cacciano quelle donne dal pozzo. Mosè aveva un cuore che lo spingeva a cercare la giustizia, anche quando gli costava tanto; prese allora le parti delle giovani e le aiutò ad attingere acqua e fa bere il bestiame. È sempre il suo istinto di liberatore che agisce: due volte si dice che ha «salvato» o «liberato» queste ragazze; un gesto che gli apre la strada per entrare a far parte della famiglia di Jetro.

Tornate che furono le giovani dal loro padre, questi disse loro: «Perché oggi avete fatto ritorno così in fetta?». Risposero: «Un Egiziano ci ha liberate dalle mani dei pastori; è stato lui che ha attinto per noi e ha dato da bere al gregge» (Es 2,18s). Notiamo che ai loro occhi Mosè è un egiziano. Dal suo modo di parlare, probabilmente, dal suo modo di comportarsi, sembra ancora un egiziano. In altre parole, egli non cambia pelle da un momento all'altro; ci vorrà molto tempo e molta pazienza. L'Egitto non è un abito che si smette da oggi a domani: l'Egitto è dentro di noi.

Jetro le mandò a cercare quell’uomo che vagava solitario nel deserto, per ospitano a casa sua e concedergli in moglie Zippora (cf. 2,20s). Dall’amore di Mosè e Zippora nascono due bambini, Ghersom ed Eliezer, entrambi nati nel deserto. Il primo figlio Mosè lo volle chiamare Ghershom, cioè «straniero qui», «forestiero in questo luogo», e contiene in se stesso il senso, per Mosè, di risiedere in terra non sua. Lo chiamò infatti Gherson (da gher, lo straniero residente in terra altrui), perché disse: «Sono gher in terra estranea (nakrijà)» (2,22). Il secondo, invece, lo chiamò Eliezer, cioè «il mio Dio è l’aiuto» (18,4). L’esperienza familiare lo porta a vivere in pienezza, ad essere disponibile all’incontro con Dio, perché di nuovo capace di progetto e di meraviglia.

Nel deserto Mosè vive le sue lunghe giornate e trascorre le notti sotto le stelle silenziose. Questo tempo lo aiuta ad entrare nel profondo di sé; lo aiuta ad eliminare le contraddizioni della presunzione e la paura; lo aiuta ad eliminare la frammentazione della sua vita politica passata e di cogliere ciò che davvero è essenziale: l’essere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’incontro con Dio e vocazione di Mosè

Nel deserto Mosè viene completamente rinnovato da un incontro quanto mai importante: l’incontro con Dio che lo chiama per una particolare missione, incontro avvenuto mentre pascolava le greggi di suo suocero «al di là del deserto» (Es 3,1), intorno al monte Oreb, più conosciuto come il Sinai. Mosè sta compiendo il suo dovere, Dio si rivela. L’esegesi giudaica, nell’espressione «al di là del deserto» trova indicata l’esistenza di una specie di predisposizione alla chiamata. Ed è «oltre il deserto» che Dio lo raggiunse, apparendogli tra le «fiamme di fuoco in mezzo a un roveto» (3,2). La presenza di Dio «in mezzo al roveto», secondo l’interpretazione rabbinica, indica la vicinanza di Dio al suo Popolo nella sofferenza. Il capitolo precedente era terminato con l’annotazione che «i figli di Israele gemevano per la loro schiavitù. E gridarono e salì il loro grido a Dio... E ascoltò Dio il loro lamento e si ricordò la sua alleanza» (cf. 23-24).

La sofferenza è la preghiera più forte che giunge a Dio e la scrittura ci assicura che Egli ascolta questa preghiera. Ascoltò perché si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco, Giacobbe. Ascolta perché la storia dell’uomo è già nel Suo cuore. La pianta dolorosa, nella quale si rivela Dio, anticipa il mistero della croce, pianta dalla quale si ri-velerà un Dio che partecipa pienamente al nostro dolore. Il «roveto-pianta dolorosa» da cui parla è un simbolo chiaro: Dio parla anche attraverso la prova.

Come vivo le prove nelle quali sono coinvolto come persona, famiglia o gruppo? Come aiuto i  mie figli a non rifiutare Dio, nel momento della sofferenza o della difficoltà personale?

Mosè aveva visto tantissime volte bruciare i pruni per autocombustione, ma quello fu un giorno diverso, vede che il roveto ardeva nel fuoco, ma non ne veniva mangiato. Meravigliato, decide di avvicinarsi per «vedere questa grande visione (mareh)...» (3,3). La curiosità di sapere è l’inizio della conoscenza. L'uomo che si meraviglia è uno che cerca. È a questo punto che avviene nella vita di Mosè qualcosa di straordinario; Dio che si presenta come fuoco che non consuma lo chiama: «Mosè, Mosè». (3,4).

Sulla montagna abbiamo una Teofania: Dio manifesta se stesso, si fa presente, si fa vedere, e persino ascoltare. Per Teofania si intende una manifestazione visiva o anche visiva-uditiva di Dio. Abbiamo anche una Teofania solo verbale (l’esempio di Samuele [1Sam 3,1-18]). Essa è uno degli elementi tipici nei racconti di vocazione presenti nella bibbia. Dio chiama per nome Mosè: questo ci fa comprendere che nessuno è anonimo davanti a Dio; ognuno di noi è un «tu» oggetto di un amore infinito.

Alla teofania segue una reazione: la presenza di Dio è in qualche modo sconvolgente, e spesso il racconto parla della reazione che può essere di panico, di fiducia o di coraggio, ma è una componente della creatura, dell’uomo, alla presenza avvertita e sentita di Dio.

Interessante notare che Mosè risponde alla voce uscita dal roveto con la stessa parola comparsa sulle labbra di Abramo quando fu chiamato a sostenere la più difficile tra tutte le sue prove: l’offerta del proprio figlio Isacco (Gn 22,1). Mosè non risponde nel modo più umanamente prevedibile: «Chi sei?», «Cosa vuoi?»; risponde «Eccomi» (cf. anche Gn 27,1; 31,11; 1Sam 3,4; 22,12).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una famiglia per liberare un popolo.

Mosè, è scelto per liberare il suo popolo dalla schiavitù egiziana, è presente in ogni pagina dell’Esodo: la tradizione biblica parla di lui come del «servo di Dio» per eccellenza (Sal 105,26) e del suo eletto (Sal 106,23), come di un uomo «amato da Dio e dagli uomini» (Sir 45,1).

Mosè prende la moglie e i figli è torna in Egitto (Es 4,19). I suoi familiari condivideranno con lui le difficoltà del ritorno in Egitto e del progetto di liberazione del popolo.

Lungo il viaggio avviene un oscuro episodio: durante una sosta notturna Dio affrontò Mosè e vuole farlo morire. Mosè, a differenza di Giacobbe che per primo lottò con Dio, non è solo: ha accanto a sé due ali disposte a proteggerlo, sotto le quali può rifugiarsi, quelle della sua fedele compagna. È lei che diventa improvvisamente protagonista della lotta. Ella non esita a sfidare Dio pur di salvare Mosè: prese una selce tagliente, recise il prepuzio del figlio e con quello toccò i piedi di Mosè e disse: «Tu sei per me uno sposo di sangue» (cf. 4,24-26). Pronuncia parole solenni che suonano quasi come un monito contro quel Dio inquietante: «mio sposo di sangue sei per me», le uniche parole che le sentiamo pronunciare direttamente lungo tutta la vita. I genitali sono gli organi che donano la vita, il sangue rappresenta la vita stessa. Il coltello di pietra ci fa capire che ci troviamo chiaramente in un contesto rituale (i coltelli di pietra si usavano solo per i riti), e Zippora, figlia di un sacerdote, si rivela a sua volta sacerdotessa compiendo un rituale che salva. L’esito del gesto placa l’ira divina.

Zippora inaugura il rito dell’iniziazione degli ebrei: la circoncisione. Questa operazione originariamente era fatta dal padre (Gn 21,4), qui compie la madre.

Il significato della circoncisione è collegato al matrimonio, come fosse un rito di iniziazione. La storia dei Sichemiti (Gn 34) sembra che parli proprio di questo. Gli usi metaforici del termine «circoncidere» ci aiutano a capire ancora meglio. Geremia parla di «cuore incirconciso» (1,4); «orecchio incirconciso» è l’orecchio che non ascolta (6,10); «labbra incirconcise» (Es 6,12) sono le labbra incapaci di parlare. Essere circoncisi in un primo momento poteva significare essere adatti a vivere una vita matrimoniale normale; solo in seguito la circoncisione acquistò un significato etico-religioso, segno di Alleanza con Dio, di aggregazione con il popolo di Dio, di appartenenza al popolo eletto. Curiosamente ancor oggi in arabo “marito” e “circoncisione” sono parole che derivano dalla stessa radice.

Non è dunque un Mosè solitario che entra in Egitto, ma, di fronte ad un progetto tutto nuovo ed estremamente impegnativo, è la famiglia al completo che fa appello a tutte le sue forze vitali, le unifica simbolicamente attorno al punto centrale della famiglia stessa che è il legame sponsale tra Mosè e Zippora.

La cultura del popolo nuovo, il popolo di Mosè, è una cultura di vita, di timore di Dio, di solidarietà, di servizio, di condivisione, … ma anche di speranza in una vita sempre nuova; tutto ciò germoglia e fiorisce all’interno del calore domestico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Ventesimo

La famiglia: culla delle vocazioni

 

Le vocazioni sono in crisi; non ci sono più giovani che intendono consacrarsi. Alcuni istituti religiosi maschili e femminili hanno chiuso persino delle case.

Al dire il vero, la crisi vocazionale si estende sempre più in Italia ed in Occidente, mente in alcuni paesi orientali c'è un gran fiorire di vocazioni. Come mai? È un fenomeno vasto e complesso, difficilmente decifrabile, e le cui cause non sono determinabili in modo netto e preciso.

Non intendo analizzare il fenomeno, non sarei all'altezza, non sono un sociologo delle religioni. Farò notare, partendo da due famiglie presenti nella bibbia, come la vocazione alla vita consacrata, oltre ad essere iniziativa del Signore, è anche collaborazione dell'uomo; e non solo del chiamato, ma di tutti i membri della famiglia. Non a caso essa è stata definita «culla delle vocazioni», o meglio, il «vivaio naturale delle vocazioni» (Giovanni Paolo II).

Ogni uomo, nell'intimo del proprio cuore, ha degli ideali che intende realizzare; essi sono in germe e devono essere aiutati a venirne fuori. Un genitore (un docente) quando si accorge che il proprio figlio (alunno) ha una determinata attitudine verso una cosa (materia), l'invoglia ad intraprendere quella strada; assicurandolo a non preoccuparsi perché si farà di tutto per sostenerlo, se è quella la sua strada. Se invece un ragazzino o una ragazzina dice ai suoi che vorrebbe fare un periodo di esperienza in un seminario, o presso una comunità religiosa, perché sente nel suo cuore il desiderio di consacrarsi a Dio, ... allora apriti cielo: «Sei diventato pazzo? Come, vuoi consacrarti?»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Élkana e Anna... la vocazione di Samuele

La chiamata è sempre iniziativa di Dio che entra nella storia e nella vita dell'uomo; è un dono!

Il primo libro di Samuele evidenzia l'intervento divino nella vita del giovane Samuele, che viene chiamato per tre volte. In un primo momento crede che sia Elì, l'anziano sacerdote, ma questi lo assicura di non essere lui. Samuele infine scopre che è il Signore (cf. 3,1-9). Accanto all'iniziativa divina vi è la collaborazione umana, prima quella madre, Anna, e poi quella di Eli.

In uno dei pellegrinaggi annuali al santuario al termine del pasto rituale, a cui non ha partecipato perché oppressa dal suo dolore, Anna entra nel santuario, va a presentarsi al Signore e là da sfogo al suo profondo dolore e impetra un figlio (cf. 1,9-10), facendo un voto: «Signore, se vorrai considerare la miseria della tua schiava e ricordarti di me, e darai alla tua schiava un figlio maschio, io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita e il rasoio non passerà sul suo capo» (cf. 1,11). La madre consacra il futuro figlio con il voto di nazireato che è una speciale consacrazione a Dio. I segni di questa consacrazione sono: l'astensione dalle bevande alcoliche, l'evitare ogni contatto con i cadaveri, e il non tagliarsi mai i capelli (cf. Nm 6,2-8). Alcuni esempi biblici di nazirei sono Sansone, Samuele e Giovanni Battista.

Durante il periodo dell'allattamento e dello svezzamento Anna rifiuta di recarsi al santuario con suo marito e rimane a casa con il bambino. Al termine dello svezzamento lei stessa prende Samuele e, in compagnia del marito Elkana, lo porta al santuario di Silo. Là non solo lo offre al Signore come nazireo, ma lo lascia insieme a tre giovenche nel santuario per il servizio dell'arca, alla presenza del Signore davanti al quale ella stessa era rimasta per impetrare il dono di questo figlio. Consegna il piccolo al sacerdote con queste splendide parole: «Sono quella donna che era stata qui presso di te a pregare il Signore. Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho chiesto. Perciò anch'io lo do in cambio al Signore per tutti i giorni della sua vita egli è ceduto al Signore» (1Sam 1,26-28). Sono le parole di una mamma piena di fede. Aveva sperato tanto per avere quell’unico figlio e, nonostante questo, non se lo tiene stretto come sua proprietà; ma «lo cede al Signore». Portandolo al tempio, intende far scoprire la volontà che Dio ha sul ragazzo.

Nel tempio Samuele vi trova Eli, che lo aiuterà a discernere sulla sua vocazione; resterà nel tempio del Signore a servirlo sotto la sua guida. Passano pochi anni e giunge per Samuele il tempo di prendere coscienza in prima persona della volontà di Dio sulla sua vita, della sua vocazione. È Dio che prende l’iniziativa e gliela rivela.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La presenza di un padre spirituale

Nel silenzio della notte, senza testimoni, Dio interviene nella vita del fanciullo chiamandolo per nome: «Samuele!» (3,4). Il giovane si sente chiamare, ma non sa e non comprende che è Dio a farlo. Crede che sia l'anziano sacerdote, corre da lui. Questi gli assicura che non è stato lui a chiamarlo. Nello stesso tempo «Eli comprende che il Signore chiamava il giovinetto» (cf. 3,8). Si tratta dell'intervento divino; allora gli suggerisce: «Se ti si chiamerà ancora, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”» (3,9). E così il ragazzo fece! Samuele si alzò e cominciò un dialogo intimo e personale con Dio. Riconobbe la voce dell’Amore e rispose: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta» (3,10).

Al mattino raccontò tutto ad Eli che disse: «Egli è il Signore! Faccia ciò che a Lui pare bene» (3,18). Per un chiamato la cosa si fa più chiara quando c'è un Eli che codifica la misteriosa voce, egli è la voce del discernimento vocazionale e dello stimolo paterno a rispondervi generosamente. Il salto della fede deve essere favorito da un'altra persona, altrimenti ci si può illudere. Per tale ragione  è importante la presenza di un padre spirituale che dove seguire passo dopo passo il chiamato. Nella vita cristiana, e sopratutto vocazionale, la fretta non può e né deve esistere: Dio ci chiama ad una crescita graduale!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La chiamata di Samuele ha un significato paradigmatico

Conosciamo il prosieguo della vita di Samuele: servì il Signore con tutto il suo cuore. Si può dire che la chiamata di Samuele ha un significato paradigmatico, poiché è la realizzazione di un processo che si ripete in tutte le vocazioni. La voce di Dio, infatti, si fa via via sentire con sempre maggiore chiarezza e il soggetto acquista progressivamente la consapevolezza della sua provenienza divina. La persona chiamata da Dio impara col tempo ad aprirsi sempre di più alla parola di Dio, disponendosi ad ascoltare ed a realizzare nella propria vita la sua volontà. Assieme al latte, Anna aveva trasmesso al figlioletto tutta la sua fine sensibilità di fede e il suo pieno abbandono alla volontà di Dio. Il bambino era poi cresciuto in un ambiente che l’aveva educato alla presenza del Signore, alla preghiera, all’ascolto della sua Parola. Aveva infine trovato nel sacerdote Eli anche una guida spirituale in grado di aiutarlo a riconoscere la voce di Dio e a rispondere.

Samuele aveva la fede e la disponibilità necessarie per rispondere; da solo, però, non sarebbe stato capace di capire che in quella notte era chiamato proprio dalla Voce di Dio. Grazie anche agli aiuti che ha incontrato, egli alla fine risponde alla volontà di Dio e segue la sua vocazione. Grazie agli ambienti in cui è cresciuto ed educato, e grazie ad una persona preparata che ha saputo ascoltarlo, egli segue la Voce di Dio distinguendola tra tante altre voci.

La mamma Anna, il sacerdote Eli, la famiglia, il tempio: persone e ambienti che sono stati decisivi per Samuele e per maturare nella sua vita la chiamata di Dio, lo sono anche oggi per i nostri figli. Il bambino è un piccolo e miracoloso seme che sboccia alla vita: se viene custodito ed allevato in un terreno favorevole, cresce fino a portare i frutti più belli. Gli ambienti nei quali egli è accolto fin dal suo primo giorno sono il suo riferimento vitale per imparare ad affrontare la vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Ventunesimo

La famiglia di Nazareth:

primo seminario da cui sboccia la vocazione dei figli

 

Maria e Giuseppe vivono gli stessi atteggiamenti spirituali di Anna, madre di Samuele; accolgono il neonato Gesù come un dono che viene dall’amore imprevedibile e gratuito di Dio e comprendono che il piccolo essere che tengono tra le braccia è un Mistero più grande di loro. La famiglia di Nazareth è proposta come modello a cui conformare la nostra famiglia. In Maria e Giuseppe i genitori cristiani possono rispecchiarsi, trovare luce e incoraggiamento nel loro quotidiano compito educativo. Loro ci sono di esempio per comprendere in pieno cosa significa aiutare il figlio a saper discernere quale strada intraprendere per realizzarsi nella la sua vita e lasciarlo libero.

Tutti ricordiamo l'episodio in cui, al ritorno dal pellegrinaggio da Gerusalemme, Gesù dodicenne compì un gesto di indipendenza: non tornò con i suoi. Gesù rimane in Gerusalemme (Non si smarrisce! Il verbo è preciso: upemeinen), siede tra i dottori e vi appare come maestro dotato di una sapienza che desta stupore (v. 47). In questa condizione diventa oggetto di ricerca faticosa da parte di Maria e Giuseppe.

Leggendo questo passo molti si saranno chiesti: ma come fa a proporci questa famiglia come modello se succede una cosa di questo genere? Questi genitori sono così sbadati che perdono il figlio.

Maria chiede «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io (da notare il rispetto di Maria verso il marito, che nomina per primo), angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). Tuo padre ed io! Maria sapeva che Giuseppe non era il padre, non è che lo ignorasse, ed allora perché dice "tuo padre ed io"? Perché Giuseppe era veramente il padre di Gesù; Gesù lo chiamava papà, ma perché? Perché per essere padre non bastano i pochi minuti che sono necessari per concepire un bambino; si è padri tutti i giorni, perché tutti i giorni si dà la vita, tutti i giorni si aiuta il figlio a crescere, a diventare uomo: allora si è veramente padre, questa è la vera paternità, al di là di quella strettamente biologica. Quindi Giuseppe è veramente padre, anche se non lo è sul piano biologico. Genitori non si diventa per caso; sul piano biologico lo si può essere anche per caso, ma per essere genitori veramente ci si costruisce tutti i giorni.

Umanamente è comprensibile lo sfogo della mamma verso il figlio che non ha fatto partecipi i genitori dei suo progetti e non ha scelto insieme a loro. Ma Gesù risponde «Perché mi cercate? Non sapete che debbo occuparmi delle cose del Padre mio?» (2,49). Qui Gesù non parla di Giuseppe, qui sta parlando di Dio; con queste parole gentili e decise toglie a Giuseppe l'appellativo di “padre”, assegnandolo a Dio. Gesù ha abbandonato, senza preavviso, i ritmi familiari e fa cose che escono dai normali comportamenti familiari e dei suoi coetanei: si intrattiene a discutere con i dottori del tempio. Non era certamente una scappatella di adolescente, ma un'affermazione di autonomia anche dagli affetti più cari per dare precedenza a Dio. Per Maria e Giuseppe è una sorpresa improvvisa e perciò sofferta perché non capiscono più il figlio. Luca riporta che «essi non compresero le sue parole» (2,50).

Tante volte noi i figli non li capiamo, tante volte capita ancora oggi; è il momento della prova per i due genitori che non capiscono più il loro figlio; si rendono conto che sta loro sfuggendo. Grande è la missione dei genitori: sono chiamati ad accogliere e accompagnare il figlio, dono del cuore di Dio Padre, a realizzare la propria vocazione.

Maria e Giusepe non possono rimproverare a Gesù comportamenti negativi. Egli fa però scelte che non riescono a comprendere e delle quali non si sentono più protagonisti. «Non compresero»: indubbiamente non è facile capire i progetti che Dio su di noi, figuriamoci se comprendiamo quelli che ha sugli altri. Nonostante ciò, aiutarono Gesù a «crescere in sapienza, età e grazia» (52); trovarono la forza di fare un grande passo di fede.

 Maria e Giusepe non imprigionano il figlio dentro le loro attese o le loro paure, ma lo seguono nella sua missione. Questo dovrebbe essere il compito dei genitori cristiani.

Giovanni Paolo II, nel discorso rivolto ad un pellegrinaggio il 5 maggio 1968, affermò: «Le famiglie sante sono state vivai di vocazione sacerdotali e religiose, centri propulsori di santità domestica ed ecclesiale… Una famiglia che prega è una famiglia che dura». In altre occasioni il Santo Padre scriveva: «I genitori cristiani […] favoriscono la santità dei figli e rendono i loro cuori docili alla voce del Buon Pastore, che chiama ogni uomo a seguirlo e a cercare prima di tutto il Regno di Dio. Alla luce di questo orizzonte di grazia divina e di responsabilità umana, la famiglia può essere considerata come un “giardino” o come “primo seminario”, in cui i semi di vocazione, che Dio sparge a piene mani, sono in condizione di sbocciare e di crescere fino alla piena maturazione».

Mi piace la citazione “primo seminario”, perché fa emergere il ruolo che hanno i genitori cristiani nel collaborare con Dio affinché il chiamato, liberamente, faccia propria la proposta e aderisca con tutto se stesso. Nel seminario, infatti, i ragazzi vengono aiutati degli animatori a scoprire se quel che sento è volontà di Dio oppure no. Questo lavoro di discernimento viene attuato nell'ascolto della parola di Dio, nella preghiera, nell'eucaristia e nella meditazione. Similmente la famiglia ci riuscirà se vive la fede in modo autentico, se i valori del cristianesimo non solo si conoscono, ma si vivono. Molte famiglie, pur dichiarandosi cristiane, hanno smarrito alcuni valori. Ho ascoltato, in diverse famiglie, durante una cena o un momento di condivisione, quale concezione hanno ad esempio dei sacerdoti: “è il mestiere più bello”, “non ha di che preoccuparsi”, “i soldi lì porta alla madre e ai parenti”. Si mettono in rilievo solo aspetti negativi del sacerdote “ha l'amante”; ultimamente c'è la smania del sacerdote “pedofilo o gay”. Un bambino che ascolta questa serie di affermazione che idea si farà del sacerdozio? Come potrà ascoltare nel suo cuore se Dio ha un progetto per lui?

La forza della famiglia a favore delle vocazioni è la preghiera, tasto dolente. Una volta i genitori erano i primi catechisti per i loro figli, insegnavano le prime preghiere: l'Ave, Il Pater ed il Gloria. Oggi assistiamo a bambini che si scrivono al primo anno di catechismo e non conoscono una di queste preghiere, per di più alcuni non sanno farsi nemmeno il segno di croce. È vergognoso, in un paese che si vanta di essere cristiano! Se chiediamo ai bambini: ma voi, a casa, prima dei pasti pregate?, ti guardano come un marziano. Eppure «i coniugi sono cooperatori della grazie e testimoni della fede nei confronti dei figli e degli altri familiari. Essi sono per i loro figli i primi araldi della fede e educatori; … li aiutano con prudenza nella scelta della loro vocazione e favoriscono con ogni diligenza la vocazione sacra eventualmente in essi scoperta» (Apostolicam Actuositatem, 11). Lettera morta.

La pericope lucana riporta che Gesù rimane in Gerusalemme e siede tra i dottori, lì viene ritrovato dai genitori dopo tre giorni di angoscia.

Nel guardare Maria e Giuseppe alle prese con Gesù dodicenne, sembra davvero di guardare due genitori del nostro tempo col figlio adolescente che crescendo sta loro sfuggendo di mano. Quante volte i figli restano da qualche parte o se ne vanno lontano, senza che i genitori se ne accorgano! A quest’età i ragazzi cominciano a fumare…, cambiano amici..., provano a bere un po' di più il sabato sera..., faticano ad andare a Messa..., fumano magari qualcosa in più di una sigaretta..., si sballano con una musica assordante..., ingeriscono qualche pastiglia che non è proprio una caramellina di zucchero..., e i genitori non se ne accorgono! Anzi, spesso i genitori credono impossibile che i propri figli vengano coinvolti in certi abitudini pericolose.

Anche Maria e Giuseppe credevano che Gesù fosse fra tutti gli altri, nella carovana, al sicuro: non l'avevano sotto gli occhi ma erano certi che fosse lì, vicino a loro. Invece non era lì. Spesso i parenti e i conoscenti sanno alcune cose dei figli meglio dei genitori, perchè sono più distaccati e vedono meglio certe dinamiche della crescita, ma stanno in silenzio, non dicono nulla, hanno paura di offendere, non vogliono intromettersi nel delicato compito dell'educazione. Alla coppia di Nazzareth sta sfuggendo di mano la vita di Gesù: cercano aiuto nelle persone più vicine, anche le più fidate, e non trovano questo aiuto. Bisogna essere coraggiosi nell'esporsi, capaci di mettere qualche campanello d'allarme, ed umili nel chiedere consiglio e lasciarsi aiutare.

Fra gli elementi importanti per far comprendere al ragazzo la propria vocazione è senz’altro la preghiera, intesa non sono personale, ma principalmente familiare cioè la preghiera "fatta in famiglia".

Purtroppo dobbiamo constatare che non in tutte la famiglie si prega… E se la preghiera in famiglia non diventa un habitus, figuriamoci poi se si prega per le vocazioni nel primo giovedì del mese (dove la parrocchia organizza l'adorazione per le vocazioni), oppure nella giornata mondiale delle vocazioni se si partecipa all'eucaristia.

L'invito di Gesù è chiaro «pregate il padrone della messe che mandi operai per la sua messe» (Lc 10,2). Le vocazioni, nel loro mistero, dipendono essenzialmente dalla decisione del Padre, ma dipendono anche da coloro che pregano per questo. Ecco la nostra responsabilità nei confronti delle vocazioni! Gesù non avrebbe consigliato la preghiera se la sua efficacia non fosse garantita.

Il primo impegno della pastorale vocazionale resta sempre e solo la preghiera. Giovanni Paolo II, nel messaggio per la XLI giornata mondiale di preghiera per le vocazione, ha scritto: «Con gioia cònstato che in molte Chiese particolari si formano cenacoli di preghiera per le vocazioni. Nei Seminari maggiori e nelle Case di formazione degli Istituti religiosi e missionari si tengono incontri a questo scopo. Numerose famiglie diventano piccoli “cenacoli” di preghiera, aiutando i giovani a rispondere con coraggio e generosità alla chiamata del divin Maestro».

Desidero riportare uno stralcio d'articolo del cardinal Martini apparso su Famiglia Cristiana il 7/7/2002: «Mi capita talora di raccogliere nei genitori una specie di paura, di apprensione al sospetto che un figlio possa orientarsi al ministero sacerdotale. Anche i genitori dei seminaristi mi fanno intuire la loro inquietudine, come se mi domandassero: “Ma che vita aspetta mio figlio, se diventa prete? Sarà felice? Sarà solo?”.

Vorrei rispondere che la vita del prete, di oggi e di domani, come quella di ieri, è una vita cristiana: perciò chi vuol essere un bravo prete porterà la sua croce ogni giorno, come fate voi…

Il prete infatti vive soprattutto di relazioni: dedica il suo tempo alle persone. Non si cura di cose, di carte, di soldi, se non secondariamente. Passa il suo tempo a incontrare gente… per prendersi cura di loro, della loro vocazione alla gioia, del loro essere figli di Dio. Al prete le persone spesso aprono il loro cuore per una confidenza che non ha eguali nei rapporti umani e in questa confidenza viene seminata la Parola che dice la verità, che apre alla speranza eterna, che guarisce con il perdono».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Ventiduesimo

Assuero ed Ester

La diversità nella coppia

 

La nostra società è ormai da tempo multietnica e multireligiosa, e questo suscita legami amorosi che stringono insieme culture e religioni diverse. Il motivo principale sembra essere la mobilità delle persone a causa di guerre, oppure per turismo, lavoro o studio. Questi legami talvolta possono apparire incompatibili. In tal proposito il detto «l’amore è cieco» potrebbe far pensare e suggerire che le differenze sia etniche che religiose non sussistono. Molteplici perplessità, invece, suscitano i matrimoni misti (tra cattolici e battezzati di altre confessioni cristiane) e i matrimoni interreligiosi (tra cattolici ed appartenenti a religioni non cristiane). In certi momenti le differenze culturali e religiose si notano maggiormente; quando cioè una delle due tradizioni prevale sull’altra, e uno dei due genitori si trova così nell’impossibilità di condividere pienamente con i suoi figli aspetti importanti della sua visione del mondo, la sua cultura, la sua religione, la sua lingua.

Il numero crescente dei matrimoni fra cattolici ed altri non battezzati richiede una peculiare attenzione pastorale, alla luce degli orientamenti e delle norme contenute nei più recenti documenti della Santa Sede e in quelli elaborati dalle Conferenze Episcopali per consentirne l'applicazione concreta alle diverse situazioni. In altri tempi la Chiesa cattolica obbligava le coppie che celebravano il matrimonio cattolico ad impegnarsi ad accettare che i loro figli fossero cattolici, anche quando uno dei coniugi non era battezzato. Oggi, la Chiesa ha compreso meglio che non può chiedere un impegno di questo tipo a un non cattolico. È dunque la parte cattolica che è invitata, per ottenere la dispensa sulla disparità del culto, a testimoniare la sua volontà di condividere la sua fede con i suoi bambini, ma nel rispetto dei legittimi diritti del coniuge non cattolico che ne deve essere informato (Can 1086 e 1125).

Come nostro solito, prenderemo in esame un brano della scrittura per comprendere qualcosa in più rispetto a tale argomento. In questo numero presenteremo la storia di Ester che sposa il re Austero. Nel prossimo numero, alla luce di quello che diremo ora, vedremo invece come la diversità all’interno della coppia è una ricchezza della vita coniugale. Siamo coscienti che il tema è delicato ed ampio, noi faremo solo delle riflessioni che permetteranno di farsi un concetto sulla questione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a) L’incontro di Ester con il re Assuero

Nel libro del Deuteronomio sono espressamente vietato i matrimoni misti con le popolazioni indigene: «Non t'imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, che servirebbero dèi stranieri e l'ira del Signore si accenderebbe contro di voi. Egli ben presto vi distruggerebbe» (7,3-4). Questo tipo di matrimonio era considerato una «trap­pola» per gli Ebrei, in quanto inevitabilmente avrebbero adorato le divinità dell’altro. Per tal motivazione vi è detto esplicitamente «non prendere per mogli dei tuoi figli le loro figlie, altrimenti, quando esse si prostituiranno ai loro dèí, indurrebbero anche i tuoi figli a prostituirsi ai loro dèi» (cf. Es 34,15). Il pericolo è la perdita della fede; il timore di allontanarsi dal vero unico Dio e adorare feticci fabbricati delle mani dell’uomo. Un timore nasce dal fatto che le donne straniere potrebbero essere causa di abbandono della fede in Dio.

Nel Deuteronomio è scritto: «Quando il Signore tuo Dio ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni: gli Hittiti, i Gergesei, gli Amorrei, i Perizziti, gli Evei, i Cananei e i Gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio; non farai con esse alleanza né farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a dèi stranieri» (7,1-4).

Nonostante questo modo di pensare, il testo sacro racconta la storia, insieme tribolata e felice, di una coppia profondamente dif­ferente: quella del re persiano Assuero e della bella giovane Ester. La sacra scrittura riporta che si apre una specie di «concorso di bellezza» per sostituire la regina ribelle e di conseguenza trovare al re Assuero la nuova sposa tra le più belle giovani del regno. Sono radunate tutte le vergini nel palazzo di Susa. L’ebreo Mardocheo, personaggio di corte, tutore della bella cugina Ester, orfana di entrambi i genitori, che «l'aveva presa come propria figlia» (Est 2,7) decise di farla partecipare a questa sorta di concorso, prescrivendole, per prudenza, di non rivelare di essere ebrea, segno che al riguardo vi erano tendenze contrarie, diffidenze e pregiudizi. Il nome Ester in ebraico significa «mirto» (un piccolo arbusto con cui si incoronavano i vincitori).

La fanciulla, prima dell’incontro con il re Assuero, per sei mesi si fa massaggi con oli di mirra e per altri sei usa balsami e cosmetici (cf. 2,12); come dire, fa un trattamento in un centro estetico in vista dell’incontro. Dopo viene condotta insieme alle altre, senza che la sua identità di ebrea sia svelata. Non aveva detto nulla né del suo popolo né della sua famiglia, cosi come gli aveva suggerito Mardocheo.

Arrivò il turno di andare dal re, la fanciulla attirava la simpatia di quanti la vedevano. Entra in scena Ester, che «era di bella presenza e di aspetto affascinante» (2,7), ma, a differenza delle altre, è sobria, non chiede nulla, non punta sulla seduzione: forse proprio per questo la sua bellezza genuina colpisce il re Assuero. La «bellezza» è, infatti, un ingrediente narrativo di grande importanza: può essere adoperata per il bene o per il male, a seconda delle intenzioni da cui il soggetto si lasci guidare. La libera bellezza di Ester attira il re Assuero: quasi a dire che la vera bellezza si impone da sé, non è un mezzo, non si serve delle maschere del potere, sgorga anzi dal profondo e non è gestibile dal potente ottuso che inconsapevolmente si piega ad essa. Questo ci fa comprende l’importanza di non vedere la donna come un mero oggetto, ma vederla persona in tutta la sua dignità.

Vengono celebrate le nozze con «festi e bagordi magni». L'allegria regna sovrana; solo un'ombra offusca la serenità del re: «Ester non vuole rivelare la sua origine» (2,10). Assuero «l’amò più di tutte le altre donne ed essa trovò grazia e favore agli occhi di lui più di tutte le altre vergini. Egli le pose in testa la corona regale e la fece regina» (2,15.17). Inizia proprio così la «favola» della «cenerentola» orfana che diventa la moglie del re.

Che senso ha parlare di diversità nella coppia? Perché la Scrittura riporta la storia di Assuero ed  Ester? Che cosa ci vuole dire la Parola di Dio? L'episodio, al di là del semplice fatto storico e dello scontro tra due diverse civiltà che esso rappresenta, ci pare porti in primo piano una parola: la diversità.

 Ester tace il fatto di essere giudea. Solo la condizione che il re Assuero non conosca le sue radici può far sì che ella abbia la speranza di diventare sua sposa: il pregiudizio le avrebbe negato questo matrimonio, che poi si è dimostrato felice, e, in seguito, la possibilità di salvare il suo popolo. L’amore matrimoniale non è mai una questione puramente privata. Non è mai nudo, ma sempre rivestito di una cultura, di una religione.

 

 

 

 

 

 

 

b) La diversità è una ricchezza della vita coniugale

I rapporti interpersonali sono tale in quanto intercorrono con una persona diversa da me, l’«altro». L'apertura all'altro deve essere però vista principalmente come opportunità di crescita.

Due persone quando s’incontrano, e nel nostro caso s’uniscono in matrimonio, hanno già ognuna un proprio bagaglio culturale, determinato da tanti fattori: dagli studi, dalla propria educazione, dall’ambiente che ha frequentato. Questo bagaglio è unico, irripetibile e comunque diverso da quello del partner. Nella vita in comune vi è un continuo adattamento delle proprie abitudini culturali e religiose con quelle dell’altro. Tale adattamento, però, non potrà e non dovrà mai essere totale, per cui, lo si voglia o non, si devono accettare alcuni compromessi fino ad arrivare a rinunce ed a volte sofferte. Pensiamo ad un matrimonio di fedi differenti; quante difficoltà potrebbe in itinere incontrare, a cominciare dall'introduzione alla preghiera ai luoghi di culto. Si pensi alle decisioni riguardo a pratiche dalla forte valenza simbolica, religiosa e tradizionale,  quali la circoncisione ed il battesimo. Il bambino va battezzato o lo circonciso? (ebrei-cristiani). Anche per l’alimentazione vi sono delle differenze sia culturali che religiose, ad esempio mangiare o no la carne di maiale? Eliminare gli alcolici? (mussulmani-cristiani). E queste diversità culturali e religiose si sono amplificate maggiormente nel nostro paese con l’arrivo di emigranti provenienti dagli angoli più disparati del mondo.

Dobbiamo invece riconoscere che i matrimoni fra cattolici ed altri battezzati, appartenenti ad altre confessioni cristiane diverse, presentano, pur nella loro particolare fisionomia, numerosi elementi che è bene valorizzare e sviluppare, sia per il loro intrinseco valore, sia per l'apporto che possono dare al movimento ecumenico. Questi matrimoni offrono una «opportunità privilegiata» per il dialogo. Il comune battesimo e il dinamismo della grazia forniscono agli sposi la base e la motivazione per esprimere la loro unità nella sfera dei valori morali e spirituali.

I problemi nascono soprattutto quando uno dei coniugi è convinto di avere la verità assoluta in tasca; in questo caso e le differenze culturale e religiose si evidenziano ancor di più e il dialogo finisce. La scrittura insegna come una società (una coppia) in cui è venuta meno la possibilità di comunicare sia destinata alla distruzione. Nella storia della torre di Babele, gli uomini che tentano di raggiungere il cielo sono puniti con la confusione delle lingue (cf. Gn 11). Credo che i motivi del fallimento di una società, come quella rappresentata dalla torre di Babele, vanno ricercati nel fatto che, secondo il racconto biblico, in quella società non solo tutti parlavano la stessa lingua, ma usavano anche le stesse espressioni. E una società in cui non c'è diversità di espressione e di opinione denuncia, assieme all’impossibilità di comunicare, l'omologazione delle idee, il totalitarismo culturale, la mancanza di spazio per il confronto. Appare ovvio, allora, che una tale società aspiri a crescere verticalmente, producendo modelli di dominio e prevaricazione dell'uomo sull'uomo. Dio ha creato la diversità. Non c’è rispetto dell’altro quando uno dei due crede di possedere la piena verità e di essere dalla parte giusta.

In una lettera della scrittrice Milena Jeshenka, che ha avuto una lunga relazione affettiva con lo scrittore Frank Kafka, così gli scriveva: «Il compito del matrimonio è tollerare la natura dell'altro, tollerare che l'altro si senta libero di essere proprio quello che è». Oggi ci si potrebbe esprimere così: «Il compito del matrimonio è di accogliere e promuovere la differenza dell’altro lasciandolo “altro”». La diversità dell'altro - possiamo affermare parafrasando Lévinas - è una richiesta continua di uscire da noi stessi, è appello ad un esodo che definisce la nostra esistenza attraverso il superamento mai definitivo dei tanti modi in cui si manifesta o si cela la tentazione di omologare o annullare la diversità dell'altro.

Sposarsi è accogliere le differenze dell'altro e nello stesso tempo permettergli di essere diverso. Credo che il pericolo non sia tanto la differenza, ma piuttosto la mancanza di rispetto e amore. Devo rispettare e amare la diversità dell'altro, perché ognuno di noi è diverso. È proprio nell'accettazione della diversità che fa crescere e ci permette di uscire dall'intrigo delle differenze e di viverle come ricchezza. La diversità, che sovente ci spaventa, è invece un valore positivo! Come coppia dobbiamo saper apprezzare il valore della diversità, come lo scoprire che non siamo più gli stessi di quando ci siamo sposati, ma siamo cresciuti, siamo maturati, siamo cambiati. Così come non possiamo pensare che i figli condividano sempre le idee ed i valori dei genitori: sono di un’altra generazione, hanno modelli diversi dai nostri!

Mi lascia perplesso l'idea che, in una relazione di coppia, uno dei componenti possa, per amore, annullare se stesso per far emergere l'altro, perché l'altro sia in primo piano, perché l'altro si realizzi e allora, che senso ha sposarsi, se la relazione che segue è destinata a soffocare la persona?

Il matrimonio è la comunione di due persone (non la fusione, che porterebbe all'annullamento di uno dei due), che sono e rimangono se stesse e che si amano proprio perché diverse, proprio perché riconoscono il valore della reciproca diversità. Non catturo l'altro, non prendo possesso dell'altro e sull’altro, non faccio rientrare l'altro dentro ai miei schemi e ai miei bisogni; viceversa, amo l'altro perché è «altro», è qualcosa di diverso, amo la sua diversità. La coppia è e vive quando i due possono riconoscere: «siamo contenti di essere differenti».

Scrive il poeta Gibran:

«Vi sia spazio nella vostra unità,

e tra voi danzino i venti dei cieli.

Amatevi l'un l'altra, ma non fatene una prigione d'amore:

piuttosto vi sia fra le rive delle vostre anime un moto di mare.

Riempitevi a vicenda le coppe, ma non bevete da una coppa sola.

Datevi cibo a vicenda, ma non mangiate dello stesso pane.

Cantate e danzate insieme e state giocondi, ma ognuno di voi sia solo,

come sole sono le corde del liuto, sebbene vibrino di una musica uguale».

Il modo di superare una diversità è il modo di intenerire un'altra persona, di farla uscire da se stessa per accostarsi all'altro.

  La diversità tra di noi, che ruolo ha giocato o sta giocando nelle “fasi” del nostro rapporto? Sappiamo conversare con l’altro, ascoltando e accogliendo il suo punto di vista, senza voler imporre il nostro? Che passi ciascuno di noi ha fatto per accettare realmente la “diversità” dell’altro/a? Quali passi ancora da fare?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Ventitreesimo

Una coppia in senso lato… Simeone ed Anna

 

 

Uniti nell’attesa del Signore

Siamo oramai proiettati verso il Santo Natale che sta arrivando con tutti i suoi riti consueti: la gran corsa prenatalizia ad una serie di doni, pile di biglietti augurali da scrivere. Questa è la realtà che coglie il nostro sguardo esteriore in questo tempo: i servizi televisivi, la pubblicità, le riviste, tutti i media ci portano verso questa data in avvicinamento. Cercando di spingere il nostro sguardo più in profondità, ci si ricorda che l'origine di questa festa natalizia è la nascita di Gesù, la venuta del Figlio di Dio tra noi.

Questo mese presenterò una «coppia» in senso lato, poiché i due personaggi non sono coniugi. Entrambi soli, si mettono a servire Dio nel tempio, cercando di vivere la loro fede. Anna (=misericordia, grazia) vedova d’ottantaquattro anni (cf. Lc 2, 38) e Simeone (=Dio ha ascoltato) diventano per l’evangelista Luca esemplari: leggevano le Scritture, pregavano e seguivano le celebrazioni con costanza. Con uno sguardo allenato seppero vedere l'opera di Dio nei loro giorni. Tanta era l'attenzione di Simeone per il suo Signore che gli era stato profetizzato che non sarebbe morto prima di aver visto la salvezza operata da Dio.

Gesù, in fasce, entra la prima volta nel tempio e con Lui Dio entra personalmente adempiendo la profezia di Malachia: «Ecco io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate…» (3,1). Il bambino entra con Maria e Giuseppe come un semplice e povero membro del popolo dell’Alleanza. Nel tempio è accolto proprio da Simeone e Anna (Lc 2,25-26.36). I padri della Chiesa, interpretando allegoricamente questo brano, intravedevano nelle figure di Simeone ed Anna l’Antico Testamento che attende e lascia il posto al Nuovo Testamento (Cristo). Senz’altro nel Vangelo è presente un’attesa, un’attesa di generazioni (cf. Mt 13,16-17), un’attesa che riguarda tutta l’umanità. Beckett affermava in Aspettando Godot, «l’aria è piena dei nostri gridi»; Gesù è la speranza di quanti aspettavano la redenzione.

Simeone e Anna appartengono al popolo degli anawîm, i «poveri» del Signore, o saddiqîm, i «giusti», o anche hasîdîm, i «pii», che credono in Dio e attendono «il conforto d’Israele» (Lc 2,25). Simeone era «uomo giusto» come Zaccaria ed Elisabetta (1,6) e «devoto osservante della legge», come Anania (cf. At 22,12); «aspettava il conforto d’Israele» (Lc 2,25), cioè l’avvenimento messianico descritto e promesso dai profeti, capace di portare ad Israele la liberazione da tutti i mali, la venuta escatologica di Dio.

Anna, dopo soli sette anni di matrimonio rimane vedova, probabilmente senza figli ed era stata per lei una tragedia: per una vedova era una condizione davvero penosa. A quel tempo le ragazze si sposavano molto presto e possiamo supporre che intono ai 20 anni fosse già vedova. La vedovanza senza nuovo matrimonio era molto stimata in Israele; le profetesse sono testimoniate in Israele (Gdc 4, 4; 2Re 22,14), ed erano donne ricche di un carisma speciale; ottantaquattro anni è simbolo della perfezione della vecchiaia di una vita vissuta nella speranza (12x7). Anna in tutta la sua femminilità di profetessa e anche donna dell’attesa. Di Lei scrive l’esegeta Ch. Perrot: «Dopo la tenebrosa profezia di Simeone, il personaggio di Anna appare come un sorriso». Anna è attenta al segno decisivo della storia che è Cristo. È la rappresentazione della vecchiaia operosa e piena di speranza. Sapeva che in Deuteronomio è scritto che Dio «fa giustizia all'orfano e alla vedova» (10,18). Conosceva l’eco di Davide «Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio» (Sal 68,5). Anna, giorno dopo giorno, si dedica ad invocare il perdono e le benedizioni del Signore.

Luca la descrive come l’orante serena che «non si allontana dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere» (2,37). Ora che le sue preghiere sono state esaudite, continua ad operare e a dire ciò che è avvenuto «a quanti aspettavano la redenzione» (38); così facendo si realizza la parola del salmista: «Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi, per annunziare quanto è retto il Signore» (cf. 92,15-16)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gli anziani «custodi di una memoria collettiva»

Oggi viviamo in una società dove i modelli dell’efficienza e della produttività portano a considerare l’anziano come un peso rispetto alla vita sociale, come dimostra l’acceso dibattito sul tema delle pensioni. Credo che occorra, invece, recuperare il valore della «terza età» così come c’è prospettato da Luca nel presentare Simeone ed Anna: un valore che consiste nella capacità di rapporti in grado di umanizzare la vita, di renderla più ricca di memoria e di speranza, e così più degna per tutti. L’anziano è una risorsa, è questo in sintesi ciò che Simeone ed Anna ci dicono e che abbiamo bisogno di riscoprire.

Gli anziani sono «biblioteche viventi» di saggezza, oppure, come afferma Giovanni Paolo II, Lettera agli anziani, «custodi di una memoria collettiva» (n. 9). Ne consegue che il loro consiglio va rispettato, da loro si va per scoprire il senso della propria sapienza, per avere una risposta. La vecchiaia -come osserva san Girolamo- «accresce la sapienza, dà più maturi consigli». L’anzianità combacia con la saggezza, per cui non è un’età improduttiva, in cui si «gode» la pensione o in cui la sola funzione utile è quella di accudire i nipoti, ma è l’età della parola e della parola sulla vita. Il compito degli anziani non è finito. L’anzianità può divenire il luogo della profezia, intesa come un restituire il significato alla vita, al dolore, a ciò che ha difficoltà nel trovare il suo senso...

Giovanni Paolo II ne è l’esempio vivente. Quello che suscita ancora più ammirazione dell’atteggiamento del papa è l’apertura franca e spontanea del proprio animo al termine della Lettera: «Nonostante le limitazioni sopraggiunte con l’età, conservo il gusto della vita. Ne ringrazio il Signore. E’ bello potersi spendere fino alla fine per la causa del Regno di Dio… Allo stesso tempo, trovo una grande pace al pensare al momento in cui il Signore mi chiamerà: di vita in vita!» (17).

Gli anziani possono essere paragonati ai cipressi! I cipressi non sono gli alberi della morte, come comunemente si crede, ma è proprio il contrario. I cipressi sono gli alberi della vita. Ecco perchè stanno nel cimitero. Essi sono segno profetico che quello non è luogo di morte, ma c’è una vita. I cipressi sono gli alberi della vita nel progetto di Dio. Nel libro del Siracide si afferma che il cipresso rappresenta la “sublimità della sapienza”!!! Che è propria degli anziani... di coloro che sono saggi. Osea fa dire al Signore: «Io sono come un cipresso sempre verde» (14,9).