INDICE

 

10. La complicità nel male... Acab e Gezabele  – Anania e Saffira

11. Il paradosso nell’amore: Osea e Gomaz

       a) Metafora vivente dell’amore di Dio

       b) È possibile il perdono dopo il tradimento?

12. Giobbe e sua moglie

13. Rut e Noemi

      a) rapporto fra nuora e suocera

      b) dalla carità alla fede

14. Tobi e Anna

     a) Tobi timoroso di Dio e rispettoso delle leggi

     b) Tobi educa Tobia alla fede a alla  castità

     c) Il logorio del quotidiano     

15. Tobia e Sara

       a) Dio si fa compagno di strada

       b) Un dialogo intessuto con Dio

       c) Il camminare dell'uomo non deve essere mai solitario

       d) Le relazioni in famiglia         

16. Aquila e Priscilla (At 18,1-4.18-19): collaborazione e accoglienza

      nella missione

      a) collaborazione tra laici e consacrati

      b) una famiglia accogliente

      c) la famiglia evangelizzatrice sino al martirio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Decimo

   La complicità nel male

Acab e Gezabele (1Re 21) – Anania e Saffira (At 5,1-11)

 

Presento due famiglie: una dell’AT e l’altra del NT, in entrambe riscontro la complicità dei coniugi nel male. Il detto «l’unione fa la forza» è più vero nella coppia. Non esaminerò l’ambito storico delle coppie, né dei brani, mi soffermerò sul messaggio.

 

 

a) Acab e Gezabele

Acab, re di Samaria, voleva la piccola vigna che stava accanto al parco reale, sua residenza di campagna, proprietà di Nabot d’Izreèl. Questi non intendeva né cederla né venderla, poiché, assegnata da Dio alla sua tribù, e non poteva essere data ad uno straniero, come prescritto (Nm 36,7-9), e rifiutò. Il Re «tornò a casa sdegnato, si coricò e non volle mangiare» (21,4). I suoi desideri erano sempre stati esauditi; ora c’era una realtà dura d’accettare: il rifiuto da parte di un suo suddito. Tuttavia era pronto, sia pure con amarezza, a rinunciare; quand’ecco si fece avanti la regina che piuttosto di calmargli l’animo lo alimentò… (anche nelle nostre famiglie, invece di togliere occasione, talvolta si alimenta, per cui esistono famiglie arroccate su se stesse, ma basterebbe una buona parola per evitarlo). Gezabele s’accorse che Acab è andato a letto senza cena ed entrò nella stanza per avere spiegazioni. Saputo del rifiuto, gli ricordò il potere regale che aveva su Israele e di conseguenza anche su Nabot; rassicurandolo poi che avrebbe badato lei stessa a dargli quel podere. Pur di renderlo felice era disposta a tutto, la sua solidarietà con lui si trasformò in complicità nel male. È più facile accordarsi nel e per il male che nel e per il bene. Ricorse ad un piano infame; istruì un processo farsa in cui falsi testimoni accusarono Nabot di bestemmia contro Dio ed il re. Scrisse agli anziani «bandite un digiuno e fatelo sedere in prima fila, di fronte a lui fate sedere due uomini iniqui che l’accusino, poi conducetelo fuori e lapidatelo» (8-10). Così fu fatto. L’obbiettivo di usurpare la proprietà diventò realtà, poiché, morto un suddito, tutto il suo patrimonio andava al Re. Acab scese nella vigna per impossessarsene. Il testo fa intendere che il male è come un boomerang, ricade sulla stessa coppia. Qui entrò in scena, Elia il Tisbita, l’uomo mandato da Dio che rimproverò il Re e profetò una sciagura nella sua casa; questi si pentì strappandosi le vesti e il Signore ritirò la sciagura profetata (25-29).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b) Anania e Saffira

I due ebbero una buona idea: vendere il terreno e tutto il ricavato portarlo ai piedi di Pietro per i poveri. Il campo aveva valore e si vendette immediatamente. Il ricavato fu superiore alle previsioni, ma ecco che nella coppia si insidiò l’ombra astuta del Nemico.

Quando il peccato entra in una coppia è più difficile da scacciare, perché i due possono diventare l’uno per l’altro messaggeri di morte anziché di vita.

Decisero così di trarre vantaggi da quella situazione e si arricchirono davanti agli uomini, ma non davanti a Dio (cf. Lc 12,21). Di comune accordo pensarono di trattenersi una parte del guadagno (5,2). Nessuno avrebbe saputo che il ricavato era stato maggiore, assicurandosi, così, qualcosa per la vecchiaia. Era anche giusto pensare al proprio futuro… ma è il come realizzarono… il loro proposito scorretto. Potevano dire «ci hanno dato di più di quello previsto, per cui l’80% lo diamo e il restante lo teniamo per noi, ormai anziani». Ma in cuor loro entrò lo spirito di menzogna e ciò non fu gradito a Dio. «Com’è che Satana ha preso il tuo cuore (alla lettera “ha riempito il tuo cuore”) e ti ha indotto a mentire e a trattenere parte della somma del campo?» chiese Pietro ad Anania. All’istante Anania, come fulminato, cadde a terra morto (5,3-5). Nel frattempo arrivò la moglie; ignara dell’accaduto, immaginava di essere accolta con gli onori per la cospicua somma donata. Pietro domandò se il campo fosse stato venduto e a quanto. Ella rispose quanto s’era messa d’accordo con Anania. Pietro: «Perché vi siete accordati per tentare lo Spirito? Ecco i passi di coloro che hanno seppellito tuo marito e porteranno via anche te». D’improvviso cadde e spirò. Fu seppellita accanto al  marito (5,9-10).

La morte separata dei due sposi ci svela che quando la coppia si lascia tentare dal Nemico a non fidarsi di Dio muore anch’essa: i due tornano ad essere individui separati. Complici, ma non più coniugi. Interessante è notare che il significato iniziale del nome  Anania: «Yahweh è grazia».  Dio ha avuto grazia nel dargli una moglie «bella» (è il significato del nome Saffira) e nel benedirlo con proprietà terrene. Senza dubbio erano fra i membri più ricchi di quella comunità e avrebbero dovuto essere impegnati più fortemente nella generosità e nell'onestà. 

Luca, attraverso l’episodio, con un linguaggio semplice e pittoresco, ma estremamente efficace, mette in luce la contraddizione, l’ambiguità e la tentazione che esistono nel cuore dell’uomo: dare, ma non tutto; fidarsi ma non troppo; credere ma fino a un certo punto; entrare in comunione, ma trattenendo qualcosa per sé. La storia di Anania e Saffira ci mette in guardia: è un avvertimento indiretto a non cercare di ingannare Dio, perché in realtà, inganneremmo solo noi stessi. L’inganno ha un effetto negativo sulla nostra stessa vita: la morte spirituale. Ed è importante che non si confondano debolezza e inganno. Anania e Saffira non erano deboli, ma pensavano di poter vivere attraverso compromessi e menzogne.

È vero che Dio ci accetta come siamo con i nostri peccati, ma vi è una cosa che non sopporta e che «vomita dalla sua bocca» (Ap 3,16): la doppiezza del cuore. La doppia intenzione che esiste nel nostro cuore. Quando facciamo le cose con un secondo fine e non con rettitudine di cuore. Per Dio l’importante non è quello che facciamo, ma come lo facciamo.

 

Concludiamo stavolta facendoci delle domande semplici:

- Siamo disposti a vivere senza compromessi? Perché voler apparire ciò che non si è?

- Facciamo anche cose illegali per avere a tutti costi quello che non è nostro?

- Siamo disposti ad accettare le nostre debolezze e chiedere a Dio che ci guarisca?

- Sappiamo distinguere tra fragilità e miseria, falsità e compromesso?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Undicesimo

          Il paradosso dell'amore: Osea e Gomer

 

La coppia che ora presenterò è sui generis, e da essa possiamo trarre molti insegnamenti.

Vorrei riflettere su: il matrimonio di Osea, metafora vivente dell’amore di Dio, e se è possibile il perdono dopo il tradimento.

La storia è narrata da Osea nei primi tre capitoli, che coniugano tutto il vocabolario dell’amore con i suoi chiaroscuri e i suoi contrasti: amare-odiare; sedurre-abbandonare; matrimonio-adulterio-prostituzione; fidanzamento-inseguire amanti. Il lettore, in un primo momento rimane sbalordito, poiché trova un Dio che ordina al profeta di «prendere in moglie una prostituta» (cf. 1,2). Che proposta è mai questa? Osea – dice Jung «avrebbe dovuto accusare Dio d’immoralità». Alcuni esegeti hanno ritenuto la storia mai realmente accaduta, ma solo una allegoria della indefettibile fedeltà dell’amore di Dio verso le infedeltà della sua sposa, Israele. Cerchiamo di capire.

 

a. metafora vivente dell’amore di Dio

Possiamo vedere il matrimonio di Osea con Gomer come una metafora vivente. È possibile considerarlo come una parabola della berit (alleanza) sponsale fra Dio e il suo popolo, alleanza stipulata sul Sinai che, dopo il tempo di gioia, di amore, di idilli, svanì presto come una bolla di sapone: «Il vostro amore è come una bolla di sapone» (6,4). Gomer aveva iniziato a tradire il marito e a correre dietro ad altri amanti, finché divenne una prostituta sacra in qualche tempietto sulle alture. C’è chi dice che probabilmente si tratta di una sacerdotessa Cananea addetta al culto della fertilità, che associava a Dio il ciclo della natura. Per Osea, fu uno schianto, una tragedia, un dolore inconsolabile. Il Signore era marito per Israele, che conduceva una vita immorale, proprio come Gomer. Per cui il matrimonio diviene simbolo, metafora, oserei dire sacramento dell’amore di Dio per il suo popolo: Gomer rappresenta Israele, il popolo eletto, spesso tentato di infedeltà e di abbandono nei confronti di Dio per prostituirsi al culto dei Cananei.

I due hanno tre bambini, cui sono imposti nomi simbolici che esprimono la triste realtà del popolo: Izreèl - Dio disperde (1,3),  Non-amata o non-graziata (6) ed infine non-mio-popolo (8). Il popolo ha dimenticato il suo Dio, ed ora Egli non lo considera più suo popolo (9). L’autore rapporta la rottura con quello che accade nel matrimonio «Non è più mia moglie e io non sono più suo marito!» (2,4). Il lettore rimarrà ancor più impressionato perché l’ordine di sposare Gomer, la prostituta, viene ribadito da Dio una seconda volta, dopo il matrimonio, quando le scappatelle di Gomer continuano (cf. 3,1). Osea non si ribella all’invito incomprensibile del suo Dio, ma più volte riporta a casa la moglie infedele, sempre disposto ad intessere con lei un rinnovato dialogo d’amore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b. è possibile il perdono dopo il tradimento?

L’altro tema delicato e la risposta non è certamente facile. L’infedeltà, sappiamo, s’insinua non di rado nella vita di coppia, ed assume il suo aspetto più doloroso quando si trasforma in adulterio. Ai nostri giorni non si grida più allo scandalo come una volta, anche se, a dire il vero, lo scandalo esisteva solo se era la donna ad essere sorpresa in flagrante adulterio (cf. Gv 8,4); per l’uomo si chiudeva un occhio, se non entrambi, mentre la donna veniva condannata duramente. Oggi, invece, il tradimento viene persino consigliato (anche da parte di psicoterapeutici) per rinnovare il rapporto di coppia diventato scialbo; ancor più, l’infedeltà spesso è concordata dagli stessi coniugi, con la motivazione che è giusto concedere al proprio patner qualche nuova avventura. Per non parlare di quella forma d’infedeltà che si trasforma in devianza vera e propria, e mi riferisco allo scambio di coppia, in aumento in questi ultimi anni.

C’è però chi ritiene l’adulterio come qualcosa di negativo ed intollerabile: “se mi tradisci ti ammazzo”. Di fronte all’infedeltà conclamata vi sono reazioni non razionali, come l’uomo che uccide i figli e si suicida perché la moglie lo ha tradito.

Ma è possibile perdonare dopo il tradimento? Su questo aspetto la vicenda biblica ci aiuta, perché Osea sceglie di perdonare. Non sarà stato facile; avrà fatto i conti con la sua umanità, con la rabbia che gli ardeva dentro (cf. 2,4-5) ma nonostante ciò egli ascolta il suo cuore, poiché in esso abita ancora l’amore. Riporta così a casa la traviata per rifare il suo matrimonio: un gesto di amore e di volontà incredibile! Osea scopre, attraverso la sua vicenda, il comportamento ben più incredibile del Signore che, per quanto tradito e strapazzato, non abbandona il suo popolo: “Il mio cuore si commuove dentro di me – grida il Signore –, il mio intimo freme di compassione… Io sono Dio e non un uomo” (11, 8-9); “Ti farò mia sposa per sempre… ti fidanzerò con me nella fedeltà” (2, 21s). Dio è fedele e rifarà il suo matrimonio con la prostituta di turno, Israele.

Ma cos’è la fedeltà di Dio?

E la fedeltà dell’uomo?

Come si manifesta la fedeltà?

La misericordia esprime la fedeltà assoluta dell’amore divino verso l’uomo. Dio non cessa mai d’amare l’uomo: anche quando pecca, Dio continua ad amarlo. L’uomo può essere infedele, Dio non lo sarà mai; anzi, nel momento del peccato Dio è vicino all’uomo con maggiore tenerezza per ricondurlo a sé (cf. Lc 15). Quest’atteggiamento deve esserci anche nell’uomo. Paolo ammonisce “Rivestitevi di sentimenti di misericordia” (Col 3,12), cioè amate con misericordia, e ciò comporta continuare ad amare anche se offesi; così bisogna intendere la fedeltà.

Certamente, continuare ad amare dopo l’infedeltà è duro, ma non impossibile, ed è qui che viene in aiuta la grazia sacramentale.

In concreto, chi subisce il tradimento deve continuare ad amare il proprio consorte, proprio come fa Dio con l’uomo peccatore. Se si avrà il coraggio di far agire lo Spirito in noi, ci riusciremo, ed il nostro comportamento sarà segno per gli altri che ancora sono conformi alla mentalità del mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Dodicesimo

Giobbe e sua moglie

la prova della malattia e del dolore nella coppia

 

La vita di coppia ha le sue stagioni: momenti di gioia e di dolore. Questi ultimi nessuno si augura di viverli. Purtroppo, però, all’improvviso, il momento della prova colpisce la coppia, rovinando l’armonia amorosa. La malattia che colpisce uno dei coniugi coinvolge la coppia e l’intero nucleo familiare. Nella scrittura vi è un personaggio che è diventato esemplare per il suo comportamento nei confronti del dolore: Giobbe. Di uno che sopporta pazientemente grandi prove, si dice, che ha la pazienza di Giobbe (cf. Gc 4,11). Non intendo commentare tutto il libro sia perché voluminoso (44 cap), sia perché non semplice da sintetizzare. Kierkegaard, a proposito del libro di Giobbe, nel Vangelo delle sofferenze, scrive: «Non lo leggo con gli occhi come si legge un altro libro, me lo metto per così dire sul cuore. Come il bambino che mette il libro sotto il cuscino per essere certo di non aver dimenticato la lezione quando al mattino si sveglia, così la notte mi porto a letto il libro di Giobbe. Ogni sua parola è cibo per la mia povera anima. Ora, svegliandomi dal mio letargo, la sua parola mi desta ad una novella inquietudine, ora placa la sterile furia che è in me…» (trad. it. di A. Zucconi, Milano 1963,117). C. Peguy lo definisce «stella polare nella storia del pensiero e della letteratura umana». Riporterò nel prosieguo solo alcuni versetti dove si evince il comportamento di Giobbe e della moglie.

Nel prologo è presentato così: «Uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male. Ha sette figli e tre figlie; possiede settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine e molto numerosa era la sua servitù” (cf. 1,1-3). Diremmo che è fortunato e ricco, realizzato, teme Dio ed è alieno dal male, è onesto e religioso. Si è convinti che per chi vive bene, chi possiede tutto e non ha problemi, è facile credere. È questa opinione di Satana, che così giustifica la fede di Giobbe di fronte a Dio: «“Tu hai benedetto il lavoro delle sue mani e il suo bestiame abbonda in terra. Stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!”. Dio risponde: “Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stender la mano su di lui”. Satana si allontana» (10-12).

Dio permette cioè che Giobbe sia provato. Iniziano così le lunge e dure prove nella sua vita personale e familiare. Muoiono tutto il suo bestiame ed i suoi figli, ma di fronte a queste notizie egli si prostra e dice: «“Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!”. Non pecca e non attribuisce a Dio nulla di ingiusto» (21-22). Atteggiamento che lascia perplessi, soprattutto dopo avere ricevuto notizie del genere. Noi avremmo imprecato, non certo adorato e pregato...; ci viene difficile in certi momenti. Il demonio anche ora trova una giustificazione: non è stato toccato sulla sua pelle. Ma Dio gli dice: «Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita». Satana si allontana e lo colpisce con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe pazientemente prende un coccio per grattarsi e sta seduto in mezzo alla cenere. Sua moglie dice: «Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!». Risponde: «Come parlerebbe una stolta, tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?»” (cf. 2,7-10).

Le diverse reazioni dei coniugi ci fanno comprendere cosa può accadere all’interno della coppia quando in casa sopraggiunge la malattia. Diciamo il vero, la malattia porta naturalmente a domandarsi: perché il male? Perché il dolore degli innocenti? Giobbe lo è, eppure viene colpito,... perché?

Uomini e donne non hanno risposta davanti alla malattia. Per molti la responsabilità ricade su Dio: «Se c’è un Dio giusto, perché il male?. Se c’è il male, come potrà esserci un Dio giusto?». Così fa la moglie di Giobbe, che ha sofferto quasi tutte le tribolazioni del marito. Salute a parte, ha perso anche lei tutto. Il suo atteggiamento e la sua reazione sono esattamente quelli che Satana si aspetta da Giobbe, ma, ironia della sorte, l'obiettivo è stato realizzato nella moglie. Ella ha reagito come la maggior parte delle persone in quelle circostanze: si è arrabbiata con Dio ed ha insistito perché Giobbe facesse lo stesso. La maggior parte delle persone avrebbe agito in quel modo e suggerito la stessa cosa. Giobbe non reagisce, anche se non ha una risposta a spiegazione del male; egli comprende però che Dio non può essere considerato un aguzzino: l’uomo riceve anche il bene da Dio!

La vicenda di questa coppia ci fa comprendere che il dramma della malattia non può essere risolto all’interno della coppia stessa, poiché ai coniugi manca la risposta sul perché del male. La risposta manca sia in quello che di fronte alla malattia si ribella, come fa la moglie di Giobbe, sia in quello che la  accetta, come Giobbe.

La moglie dice «Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!»; e lui: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?». Notiamo come la malattia induce la prima a chiudere la porta a Dio, il secondo a tenerla aperta. Nella coppia cristiana la prova è il momento in cui entra in gioco l’incredulità o la fede nei confronti di Dio. Se l’incredulità prende il sopravento la coppia rischia d’impazzire; se è la fede a prenderlo, la coppia comprende che c’è «Qualcuno» a cui si può rivolgere.

Vi è, tuttavia, un altro aspetto nel comportamento della moglie di Giobbe: ha resistito di fronte all'afflizione del marito, alla perdita di tutti i loro figli e dei beni materiali, è sopravvissuta a queste prove, e il suo discorso potrebbe essere ispirato solo da compassione e amore verso il marito: «Preferisce vederlo morire che soffrire in quel modo!».

Benché non si parli di lei nei capitoli di chiusura del libro, si scopre in 42,14 che tre figlie, Jemima, Kezia e Keren-happuch, e diversi figli, sono nati a Giobbe successivamente. Certamente la moglie ha preso parte a questa gioia, magari rammaricandosi per la propria mancanza di fede. La sofferenza mette alla prova la nostra fede in Dio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            Capitolo Tredicesimo

           Rut e Noemi

 

 a) rapporto fra nuora e suocera

Una coppia particolare, composta da due donne: Rut e Noemi, suocera e nuora. La loro esperienza è come un raggio di luce proiettata sui rapporti interpersonali fra suocera e nuora. Argomento scottante. Molti conflitti familiari nascono proprio perché non s’istaura un buon rapporto di collaborazione fra nuora e suocera; spesso, entrano in competizione.

Il libro di Rut inizia presentandoci un quadro familiare in situazione di bisogno e che emigra «al tempo in cui governano i giudici, c’è nel paese una carestia e un uomo di Betlemme di Giuda emigra nella campagna di Moab, con la moglie e i suoi due figli. L’uomo si chiama Elimèlech, sua moglie Noemi e i suoi due figli Maclon e Chilion; sono Efratei di Betlemme di Giuda. Giunti s Moab, vi si stabiliscono. Poi Elimèlech, marito di Noemi, muore ed essa rimane con i due figli. Questi sposano donne di Moab, delle quali una si chiama Orpa e l’altra Rut. Abitano in quel luogo da circa dieci anni quando anche Maclon e Chilion muoiono e la donna rimane priva dei suoi due figli e del marito» (cf. 1,1-5).

Come mio solito non entrerò nel contesto storico del brano. Vorrei per cominciare riportare i significati etimologici dei nomi elencati, in quanto, qualche studioso ha dubitato della storicità di Rut proprio partendo dal significato dei nomi dei vari protagonisti: Elimèlech significa «Il mio Dio è Re», oppure «Dio è mio Re». Noemi significa «Mia dolcezza», oppure «Mia piacevolezza». Maclon «malattia o malaticcio»; Chilion «allampanato»; Orpa «cerbiatto» oppure  «colei che volta le spalle»; Rut «amica», «amicizia».

In tempi di carestia, da sempre, uomini e popoli si spostano in paesi dove era possibile avere il minimo per sostenersi. La famiglia di Elimèlech in questa periodo di carestia e siccità, parte da Betlemme di Giuda per trasferirsi nella terra di Moab. Curioso è sapere che Betlemme di Giuda in linguaggio popolare significava “casa del pane e della lode”; Betlemme (= casa del pane) di Giuda (= della lode, perché Lia “Concepì ancora e partorì un figlio e disse: «Questa volta loderò il Signore». Per questo lo chiama Giuda [Gn 29,39]). Moab, invece, è una nazione nata da una relazione incestuosa: «le due figlie di Lot concepirono dal loro padre. La maggiore partorisce un figlio e lo chiama Moab. Costui era il padre dei Moabiti che esistono fino ad oggi. Anche la più piccola partorisce un figlio e lo chiama «Figlio del mio popolo». Costui era il padre degli Ammoniti che esistono fino ad oggi» (Gn 19,36-38). Perciò popoli maledetti. Due volte nei salmi Dio afferma: «Moab è il bacino per lavarmi» (60,10); «Moab è il catino per lavarmi» (108,10). Moab, in pratica, è il luogo del rifiuto, dell’immondizia. Questa famiglia lascia «casa del pane e della lode» per ritrovarsi nel luogo del rifiuto. Ciò insegna che nel momento della prova non bisogna prendere decisioni, regola valida sopratutto nel campo spirituale.

Maclon e Chilion sposano due moabite: Orpa e Rut. Dopo un po’ di tempo muore sia il marito che i figli di Noemi che rimane sola con le nuore. Moab si trasforma in un luogo di dolore, di sterilità e morte. Noemi decide di ritornare in patria «si alzò con le sue nuore per andarsene dalla campagna di Moab, perché aveva sentito dire che il Signore aveva visitato il suo popolo, dandogli pane» (1,6). Ella vuol rimpatriare da sola a Betlemme ed invita le nuore a ritornare nella loro famiglie d’origine. Le nuore, così giovani, avrebbero continuato a vivere rifacendosi una nuova famiglia: «andate, tornate ciascuna a casa di vostra madre; il Signore usi bontà con voi, come voi avete fatto con quelli che sono morti e con me! Il Signore conceda a ciascuna di voi di trovare riposo in casa di un marito» (1,8-9). Veramente commovente l’atteggiamento dell’anziana donna che cerca il bene delle due ragazze più del suo. Orpa «colei che volta le spalle” accoglie l’invito, la bacia e ritorna a casa sua, lasciandola (cf 1,14). Rut, invece, non si stacca da Noemi (cf 1,14).

     

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b) dalla carità alla fede

Rut vedendo che la suocera l’invita a fare come Orpa, risponde: «non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te» (16s). Altro che abbandonare gli anziani nella Case di Riposo… Argomento quanto mai attuale.

Rut rimane fedele alla suocera, in più è disposta a far propria le fede ed il Dio di Noemi, si sente già parte integrante del suo popolo. Vorrei far notare una differenza sostanziale tra le due donne: la loro fede e speranza nel Dio di Israele. Da una parte, c’è Noemi che vuole essere chiamata Mara perché: «L'Onnipotente mi ha riempito di amarezza» (1,20) perché si sente abbandonata anche da Dio e la presenza di Rut non le reca nessun conforto; dall'altra, c'è Rut che, nonostante gli avvenimenti negativi che indubbiamente hanno colpito anche lei (uno dei due figli di Noemi morto è suo marito), mostra ancora fiducia in questo Dio per lei ancora sconosciuto. Sarà proprio Rut che darà consolazione a Noemi ed è proprio grazie a Rut che il nome del Signore sarà benedetto.

Come possiamo notare, la giovane Rut ama la suocera con spirito di abnegazione e sacrificio. Non so oggi se vi è una donna che dopo morto il marito, accoglie in casa propria l’ormai anziana suocera, curandola e rispettandola. Le due donne si trasferiscono a Betlemme, qui Noemi aiuterà Rut a trovare marito.

La giovane Rut incontra Booz nel suo campo, dov’è andata per spigolare... La sera la suocera le chiede dov’era stata e Rut riferisce presso chi ha lavorato: «L’uomo presso il quale ho lavorato oggi si chiama Booz». Noemi esclama: «Sia benedetto il Signore, che non ha rinunciato alla sua bontà verso i vivi e verso i morti!». Poi aggiunge: «Questo uomo è nostro parente stretto; è di quelli che hanno su di noi il diritto di riscatto» (2,19s). Booz rimane colpito dall’atteggiamento della giovane che ha avuto nei confronti della suocera e la chiama dicendole «Mi è stato riferito quanto hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito e come hai abbandonato tuo padre, tua madre e la tua patria per venire presso un popolo, che prima non conoscevi. Il Signore ti ripaghi quanto hai fatto e il tuo salario sia pieno da parte del Signore, Dio d'Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti» (2,11-12). Poi con uno stratagemma Noemi fa dormire Rut insieme a Booz (cf. 3, 1-18), questi la sposa e dal loro matrimonio nasce Obed, padre di Iesse, padre di Davide (cf. 4,17).

L’amore trionfa sempre! Rut si è sacrificata per la suocera ed ora il suo gesto viene largamente ripagato dal Signore. Non solo trova un altro marito, ma trova Dio stesso. Lei aveva affermato prima  il tuo Dio sarà il mio Dio… Ora si è realizzato. L’amore che Rut ha avuto nei confronti di Noemi diventa la porta della fede. A Dio ci si arriva non soltanto per via speculativa, ma principalmente nella concretezza dei gesti e del quotidiano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Capitolo Tredicesimo

   Tobi e Anna

 

Nel libro di Tobi troviamo la storia di due famiglie: Tobi e Anna, Tobia e Sara. Ora vedremo la prima, nel prossimo capitolo la seconda.

 

Tobi timoroso di Dio e rispettoso delle leggi

Tobi è un pio Israelita della tribù di Neftali, del regno del nord. Si trova in esilio, ma conserva la fede, si astiene da cibi e pratiche pagane, è osservante della legge e soprattutto pratica l’elemosina e le altre opere corporali. Si reca «a Gerusalemme nelle feste, per obbedienza ad una legge prescritta, con le primizie dei frutti e degli animali, con le decime del bestiame e con la prima lana. Dà le decime ai leviti e la terza decima per gli orfani, le vedove e i forestieri» (1,6-8).

Il testo ci presenta Tobi timoroso di Dio e rispettoso delle leggi: nonostante sia in esilio non si lascia corrompere dalle usanze pagane. Primo aspetto su cui riflettere oggi: non lasciarsi contaminare d’accattivanti nuove dottrine o il prurito delle novità, ma rimanere saldi nella fede ricevuta.

Per Tobi giunge l’età del matrimonio; sposa Anna e da lei ha un figlio, Tobia. Il testo evidenzia il fatto che Tobi condivide i suoi beni con i suoi fratelli più poveri, non guarda soltanto al benessere del suo nucleo familiare. Non dice cioè: «Stiamo bene noi, il resto non importa»; invece ha a cuore i fratelli nella fede, fa «elemosina, dona il pane agli affamati, gli abiti agli ignudi» (17). Atteggiamento che deve farci riflettere, poiché oggi ognuno guarda al proprio benessere; non si condivide più, non si guarda chi si trova nel bisogno. Ognuno tiene tutto per sé e, se quando si dà qualcosa, si dà il superfluo, quel che non serve, che c’è di peso. Per esserne convinti basterebbe osservare quello che arriva alla Caritas parrocchiale: in estate abiti invernali e viceversa. Non so che senso possa avere tale gesto di carità (se proprio così si può definire). Cosa possono comprendere i figli? Non considereranno persone quelli a cui i genitori hanno dato il loro scarto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tobi educa Tobia alla fede a alla  castità

Tobi manda il figlio in cerca di un povero da ospitare (2,2) è il miglior insegnamento. Tobi dice: «ricordati del Signore, non peccare né trasgredire i suoi comandi, compi opere buone... Se agirai con rettitudine, riusciranno le tue azioni;… dei tuoi beni fà elemosina. Non distogliere mai lo sguardo dal povero, così non si leverà da te lo sguardo di Dio. La tua elemosina sia proporzionata ai beni che possiedi: se hai molto, dà molto; se poco, non esitare a dare secondo quel poco. Guardati da ogni sorta di fornicazione; prenditi una moglie dalla stirpe dei tuoi padri e non una donna straniera» (4,5-8).

Notiamo come Tobi educa Tobia. Non dice quello che direbbe un papà oggi: «Cerca di fare soldi, non farti fregare…». Altra raccomandazione assurda è «guardati da ogni sorta di fornicazione»; non sono convinto che oggi un papà farebbe una raccomandazione del genere: forse dirà… «fatti onore, fai vedere che sei maschio… L’importante, però, è che non porti guai a casa». Non di rado ascolto amici, con figli grandi, che gli ricordano di non dimenticare i preservativi. Quando ho chiesto la motivazione di questo atteggiamento mi hanno risposto: «I ragazzi d’oggi fanno sesso senza problemi. Credi che accettano l’insegnamento della Chiesa?» Ho replicato che sono cosciente, ma invogliarli addirittura mi sembra poco educativo.

Tobi raccomanda di ricordarsi del Signore e di osservare i suoi insegnamenti, sapendo che solo chi Lo pone a fondamento della sua vita vedrà le sue meraviglie. Quello che accade a Tobi sembra però contraddire il suo retto atteggiamento: «una notte, dopo aver compiuto la sepoltura di un suo correligionario ebreo, mentre dorme fuori di casa, escrementi di passero cadono sui suoi occhi e nessun medico riesce a fermare il loro oscuramento. Più essi gli applicano farmaci, più i suoi occhi si oscurano, finché diviene cieco del tutto» (cf. 2,10). La prova è grande. Qualcuno potrebbe dire: «Chi fa il bene ha problemi, mentre chi fa il male vive bene».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il logorio del quotidiano

Nella scrittura litigi fra marito e moglie non sono sconosciuti (abbiamo visto quelli di Giobbe e sua moglie). Ora entra in scena la moglie di Tobi, Anna, che per vivere ha accettato un lavoro di filatura e, una volta, ha ricevuto in compenso anche un capretto. Quando Tobi lo sentì belare, invita Anna a restituire il capretto ricevuto in più del salario, perché pensa sia stato rubato. Egli non vede che se stesso, non accoglie l'altro, dubita dell'onestà anche della moglie. Pensa solo con le sue idee.

Anna gli rispose con una acerba accusa: «Dove sono le tue elemosine? Le tue buone opere? Ecco, lo si vede bene dal come sei ridotto!» (14). Anna non gli è vicino, in questo momento difficile e di prova non lo consola. Ne consegue che l’animo di Tobi s’inasprisce, tanto da elevare a Dio un lamento: «Per me è meglio morire che vedermi davanti questa grande angoscia, e così non sentirmi più insultare!» (3,6). Ma Dio, contrariamente, guarirà Tobi tramite l’arcangelo Raffaele (11, 7-9).

Una parola a favore di Anna vorrei spenderla. Credo che la risposta bruta sia dovuta al fatto che, probabilmente, Tobi non sempre forse ha saputo essergli grado per il suo lavoro. Molti credono che il lavoro di casalinga sia poca cosa. Ci siamo mai chiesti quando lavora una donna in casa? Com’è massacrante il suo lavoro? Per rendersene conto basta restare un giorno a casa e vedere come spazzare, lavare, spolverare, stirare, cucinare costa fatica e sudore. Nessuno ringrazia la donna che tiene cura dell’ambiente domestico, spesso nemmeno è presa in considerazione. Credo che molte donne si sentino frustrate solo perché nessuno, marito e figli, le ringrazia mai: Lei, che dà tutta se stessa, non trova gratitudine. E «dove non c’è gratitudine il dono è perso». Per non parlare, poi, di quei mariti che pretendono, al loro ritorno dal lavoro, che sia a sua completa disposizione: «Preparami i vestiti di ricambio, le ciabatte!». E lui tranquillamente siede sul divano per vedersi la tv; mentre ella, ancora una volta, in cucina per preparargli la cena. Vi sembra giusto? Credo che sarebbe più giusto ed onesto che il marito comprendesse il lavoro della moglie e l’aiutasse. Sarebbe bello che qualche volta, nel tornare, si ricordasse di portarle un piccolo segno di gratitudine (un fiore o semplicemente un cioccolatino); certamente un tale gesto aiuterebbe ad alimentare il loro amore e accrescere la vicendevole stima. Forse tante donne non sarebbero frustrate e tanti matrimoni si salverebbero.

L’insegnamento che possiamo trarre è che nelle nostre famiglie dobbiamo mettere l’elemosina a fondamento del nostro essere cristiani, aprendoci alla solidarietà, all’aiuto delle famiglie più deboli, e riconoscendo il lavoro quotidiano delle nostre donne in casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  Capitolo Quattordicesimo

 Tobia e Sara

 

Tobi ricorda di aver depositato, quando era amministratore del re Salmanassar, la somma di dieci talenti d'argento (una cifra considerevole) al suo parente Gabael in Rage di Media, e pensa di mandare il figlio a recuperare la somma (5,3), Tobia si prepara per il viaggio. Anna non condivide questa decisione: «Si lasci perdere il denaro, meglio avere il figlio» (19). Nella coppia emerge una diversità di idee, ma a quel tempo prevaleva quella del padre. Tobi l’assicura che un angelo lo accompagnerà il giovane Tobia e quindi Anna lo rivedrà sano e salvo (cf. 22).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a) Dio si fa compagno di strada

Tobia si mette in viaggio e Dio gli si fa compagno di strada. Inizia così il lungo viaggio di Tobia, che è la parte centrale del libro e la più consistente quantitativamente. Il viaggio è fortemente simbolico: evoca il camminare di Abramo, il pellegrinare del popolo ebraico alla ricerca della libertà, e richiama pure la dimensione esistenziale dell'uomo, costretto dalla fatica di un incessante «divenire», per potere in qualche modo essere. Gesù stesso ha interpretato la sua vicenda terrena, la propria esistenza storica, come un grande pellegrinaggio. Ha parlato di «esodo dal Padre» e di «ritorno al Padre».

L’angelo, nelle vesti di Azaria, l’accompagna Tobia, e gli fa trovare un tesoro più prezioso del denaro: Sara, la cugina afflitta. Chi è Sara? Bisogna sapere che è «stata data in moglie a sette uomini e che Asmodeo, il cattivo demonio, glieli ha uccisi, prima che potessero unirsi con lei come si fa con le moglie» (3,7); per cui Sara non gode di una bella fama, accusata di averli uccisi lei (cf. 3,8). Immaginiamo lo stato d’animo della ragazza che si rivolge a Dio in questo modo: «Dio misericordioso, dì che io sia tolta dalla terra, perché non abbia a sentire più insulti. Tu sai che sono pura da ogni disonestà con uomo e che non ho disonorato il mio nome, né quello di mio padre… Sono l’unica figlia di mio padre, non ha altri figli che possono ereditare; né un fratello vicino, né un parente, per il quale io possa serbarmi come sposa. Già sette mariti ho perduto: perché dovrei vivere ancora? Se tu non vuoi che io muoia, guardami con benevolenza: che io non senta più insulti» (cf. 11.13-15).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b) Un dialogo intessuto con Dio

Intanto, Tobia parte in compagnia d’Azaria [nessuno conosceva la sua vera identità… era un angelo di Dio (5,4)] e durante il viaggio, su suo suggerimento, Tobia, catturò un grosso pesce nel fiume Tigri. Azaria gli dice «Afferra il pesce e non lasciarlo fuggire… quanto al cuore e al fegato, ne puoi fare suffumigi in presenza di una persona, uomo o donna, invasata dal demonio o da uno spirito cattivo e cesserà in essa ogni vessazione e non ne resterà più traccia alcuna. Il fiele, poi, serve per spalmarlo sugli occhi di uno affetto da albugine; si soffia su quelle macchie e gli occhi guariscono» (6,3.8-9). Notiamo che Dio non prende il posto dell'uomo, non compie la liberazione al suo posto; Egli vuole uomini che sappiano vivere coraggiosamente ed inventare la propria vita.

Poi l’angelo parla a Tobi di Sara dicendogli «Tu hai il diritto di sposarla… Ĕ una ragazza seria, coraggiosa, molto graziosa…» (12). La parola di Dio riporta che Tobia già conosce tutto di lei ed il suo cuore è ben lontano dal prenderla in considerazione. Troppe sono le difficoltà da superare, e forse non si ritiene capace di vincere il timore che anche a lui tocchi la medesima sorte degli altri uomini. Il rischio è grande, ha paura (cf. 14-15). La sua paura, credo, è legittima. Immaginiamoci di dire ad un giovane d’oggi che deve sposare una ragazza che si trova nella situazione di Sara. Quale sarebbe la sua reazione? Intraprendere un rapporto importante con una persona che cambierà la vita non è una cosa certamente facile, ci vuole discernimento. Un discorso, questo, da fare soprattutto ai giovani che si apprestano a riconoscere la persona che Dio vuole fargli incontrare per realizzare il Suo progetto d’amore su entrambi, poiché la scoperta del «tu» della propria vita non è un’impresa semplice e facile. Sara si è sbagliata sette volte, cioè non è la volontà di Dio. Ogni incontro risponde alla Sua volontà, ad un preciso disegno, anche se appare fortuito. Prima che l’uomo sceglie la compagna della sua vita, Dio l’ha già scelta per lui. Ricordiamo la risposta che i familiari di Rebecca danno al servo d’Abramo che va a cercare la sposa per Isacco: «La cosa procede dal Signore» (Gn 24,50). La stessa cosa ripete Raguele: «come dal cielo [Signore] è stato stabilito che ti sia data» (Tb 7,12). Bisogna prendere coscienza che è Dio a condurre l’Uno all’Altro (cf. Gn 2,22). Dio orienta tutte le forze del nostro essere verso la creatura che ci ha riservato. A tal proposito ipotizzerei che i sette uomini sono morti perché, forse, non era volontà di Dio. Dice l'angelo a Tobia: «Sarà ti è stata destinata fin dall'eternità» (6,17). L'incontro sponsale uomo-donna è così grande che in esso è presente Dio. È lui che fino dall'eternità «destina» la persona da incontrare.

Quanti matrimoni finiscono, o sono vissuti mali, probabilmente solo perché realizzati non nella volontà di Dio. Ho avuto un colloquio con una giovane sposata da un anno; mi ha detto che non ama il marito ed ha una relazione con un altro… Ho chiesto: «Perché ti sei sposata?» - Ha risposto: «Aspettavo un bambino». Ora questa ragazza vive nella morte, cioè nel non amore… poiché «chi non ama rimane nella morte» (1Gv 3,14).  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

c) Il camminare dell’uomo non deve essere mai solitario         

Il camminare dell’uomo non deve essere mai solitario, per crescere egli ha bisogno dell'altro. Le altre persone sono un dono ed una risorsa. Dio si annuncia, si rende presente, attraverso gli uomini e le donne: essi sono messaggeri di Dio. Tobia intesse un dialogo con l’angelo e possiamo interpretarlo in due modi: umano, vedendo Azaria come uomo; spirituale, vedendo nel compagno di viaggio l’angelo del Signore. In entrambi i casi comprendiamo il bisogno di confrontarsi. Tobia sente la necessità di aprire il suo cuore, svelare a qualcuno il suo timore, e si apre. Nel dialogo è importante essere disposti ad accogliere eventuali suggerimenti che potrebbero essere anche contrari alle nostre idee. L’angelo suggerisce come scacciare Asmodeo: «non preoccuparti del demonio, sposala. ... Entrando nella camera nuziale, prendi il cuore ed il fegato del pesce e mettine un poco sulla brace degli incensi. L’odore si spanderà, il demonio lo dovrà annusare e fuggirà, e non comparirà più intorno a lei. Poi, prima di unirti con lei, alzatevi entrambi a pregare. Supplicate il Signore perché venga su di voi la sua grazia e la sua salvezza. Non temere: essa ti è stata destinata fin dall’eternità. Sarai tu a salvarla» (cf. 16-18). Si convince. Pur non conoscendola di persona, avendone sentito parlare «l’ama al punto da non saper più distogliere il cuore da lei» (19). Saprà accostarsi a Sara con sommo rispetto e l’aiuterà a ricostruire l’immagine di donna che la sfortuna e le vicende hanno tentato di distruggere.

Entrato in casa di Raguele chiede in sposa Sara (7,9.12). Da quel momento nella famiglia il lamento si cambia in gioia Raguele chiama la moglie Edna e le dice: «Sorella mia, prepara l’altra camera e conducila dentro». Ella va a preparare il letto della camera e vi conduce la figlia e dice: «Coraggio, figlia, il Signore del cielo cambi in gioia il tuo dolore» (cf. 15-17).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

d) Le relazioni in famiglia      

  Nella famiglia si stabiliscono molteplici relazioni che assumono caratteristiche, forme e modalità diverse fra i vari membri che la compongono: marito-moglie, genitori-figli, suocero-genero e suocera-nuora. Non sempre queste relazioni sono armoniose; spesso vi sono conflitti. Il libro di Tobia, a tal riguardo, c’è di grande aiuto, poiché le contempla tutte. Infine non dobbiamo dimenticare la relazione con Dio.

     

   Relazione marito-moglie

   In primo luogo c’è il porsi di Tobia nei confronti di Sara, sua moglie: «Non per lussuria prendo questa mia parente, ma con rettitudine d’intenzione» (8,7). Come accennato, qui egli accetta il progetto originario di Dio sulla coppia: l’altra è vista come aiuto e sostegno. Se oggi si comprendesse questo, immaginiamo quali risvolti positivi si risconterebbero in famiglia: nessuna contesa fra marito e moglie, nessuno dominerebbe sull’altro… Il dominare, nel progetto divino, era destinato sulla natura e non sull’altro.

   Nel Nuovo Testamento troviamo alcune affermazioni di principio, anche se nella società odierna possono risultare superati per il modo in cui sono espressi: «Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come si conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non inaspritevi con esse» (Col 3,18-19). 

    Come accettare che la moglie sia «sottomessa» in un contesto come il nostro dove si parla sempre più di pari opportunità? Cerchiamo di comprendere: Paolo certamente non vuole mettere in discussione la parità e l’uguaglianza dei due, tanto è vero che la sottomissione deve essere nel Signore, il che significa secondo la volontà di Dio.

    Il marito, a sua volta, è chiamato a relazionarsi ed amare la moglie in modo compassionevole, paziente come Cristo amato la Chiesa (cf. Ef 5,22-27).  Non inaspritevi con esse, è opportuno ricordare che la relazione marito-moglie è vissuta in armonia.

    Troviamo molte coppie in profonda crisi, persino coppie molto giovani. Il perché delle crisi, forse, è la mancanza di dialogo. Ci sono coppie che non si parlano per giorni, settimane e a volte per mesi. Il silenzio che persiste in questo caso è quello che nasce dalla mancanza e dalla povertà dell’amore: ed è il mutismo di chi non vuole più bene; ben diverso dal mutismo che nasce dalla pienezza dell’amore, ed è l’incapacità di dire parole a chi si vuole immensamente bene. Il silenzio, ricco d’amore, è il luogo nel quale la coppia cresce e si rigenera.

 

    Relazione suocero-genero; suocera-nuora;  genitori-figli

    Poi vi è la relazione che entrambi hanno con i rispettivi genitori e con quelli del coniuge: un’altra piaga dei nostri tempi… Il testo mette in risalto come il suocero riconosce e tratta il genero da figlio: «Coraggio, figlio! Io sono tuo padre ed Edna è tua madre; noi apparteniamo a te» (Tb 21). Nel lasciare andare la figlia con Tobia, le raccomanda, quando andrà ad abitare presso i suoceri, di onorarli come se fossero i suoi genitori (cf. 10,12). Tobi accoglie Sara benedicendola come figlia «Sii la benvenuta, figlia!» (11,17). In definitiva i suoceri sono presentati come genitori. Nei capitoli successivi s’annota che Tobia a sua volta chiama il suocero padre e lo tratta come tale; «quando muore la madre, la seppellisce vicino al padre e parte per la Media con la moglie e i figli. Abita presso Raguele suo suocero. Cura con onore i suoceri nella loro vecchiaia» (cf. 14,12-13). Ciò richiama il principio che la parola di Dio stabilisce fra genitori-figli, soprattutto nel Siracide: «Il Signore vuole che il padre sia onorato dai figli. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera… soccorri tuo padre nella vecchiaia. Anche se perdesse il senno, compatiscilo» (3,2.5.12s).

    Il dovere di onorare i genitori è a fondamento dell’amore che si esprime in doversi modi. L’amore verso i genitori è largamente ricompensato dal Signore (cf. 3,3-6). Chi abbandona i propri genitori nella loro vecchia è paragonabile ad un bestemmiatore e maledetto dal Dio (cf 3,16). Non vi sono scusanti: «Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo» (3,13).

    Oggi, se tenessimo a mente queste massime così significative, probabilmente nessuno, o quasi, avrebbe il coraggio di abbandonare i propri genitori perché anziani e poveri.

 

    Relazione con Dio

    Tobia dice a Sara: «Sorella, alzati! Preghiamo e domandiamo al Signore che ci dia grazia e salvezza» (Tb 8,4). Che bello: una coppia, la prima notte di nozze, sente il bisogno di ringraziare Dio per la nuova avventura che sta per intraprendere ed affida al Signore la vita di entrambi. Ĕ impressionante la preghiera, perché fa memoria dell’evento della creazione e dell’originale progetto di Dio sulla coppia: «Hai creato Adamo, ed Eva sua moglie perché gli fosse di aiuto e di sostegno. Da loro nasce il genere umano. Tu hai detto: non è cosa buona che l’uomo resti solo; facciamogli un aiuto simile a lui»(5).

    Il loro comportamento ci aiuta a riflettere sulla relazione con Dio nella preghiera. Giovanni Paolo II, nella Familiaris consortio, (n. 59), specifica cosa si deve intendere per preghiera fatta in famiglia, ed afferma che «è una preghiera fatta in comune, marito e moglie insieme, genitori e figli insieme». Ĕ la preghiera fatta da un “sol corpo”, poiché “i due sono una cosa sola” (cfr. Gn 2,24). Dopo la celebrazione delle nozze sono divenuti “realtà nuova”: non più due carni, ma una sola carne. Pregare insieme prima di prendere i pasti “ringraziare Dio”, pregare insieme a figli la mattina e la sera, sono esigenze familiari primarie.

    È possibile oggi pregare in famiglia? Dobbiamo ammettere che non è facile, basti pensare che la famiglia è composta da vari membri d’età diverse, e spesso anche la pratica religiosa è diversa fra di loro. In certe famiglie in cui tutti i membri sono «in carriera», spesso neppure il pranzo si consuma insieme, … figuriamoci se sì c’incontra per pregare!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

      Capitolo Quindicesimo

         Aquila e Priscilla (At 18):

             collaborazione e accoglienza nella missione

 

 Il capitolo si apre con Paolo che, appena lasciata Atene, si reca a Corinto. Ad Atene si è scontrato con un uditorio scaltro e cinico, incapace di farsi coinvolgere, troppo abituato ad ascoltare discorsi e sofismi. Neanche l’annuncio di Paolo riuscirà a toccare il cuore di quella gente e l’apostolo ha lasciato quella città amareggiato. (Discorso all`Areopago At 17, 22-34).

La coppia in questione ci aiuterà a riflettere su due punti: collaborazione tra laici e consacrati; una famiglia accogliente ed evangelizzatrice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a) collaborazione tra laici e consacrati

Anche se il Vangelo di Luca si apre con un racconto che riguarda due coppie di sposi (Zaccaria ed Elisabetta, Maria e Giuseppe), nel NT di coppie si parla poco. Dopo i genitori di Gesù, i coniugi più famosi sono certamente Aquila e Priscilla, menzionati sei volte nel NT e sono sempre nominati insieme. Il nome di Priscilla è il diminutivo di Prisca. In quattro testi, il nome della moglie, Priscilla, precede quello del marito, cosa non comune nell'antichità ove la donna doveva sempre essere proprietà di qualcuno (o del padre o del marito) ed era definita dalla sua appartenenza. Non abbiamo informazioni dettagliate su questa coppia; essi sono ricordati nel contesto dell'attività missionaria di Paolo. Il testo non dice molto dei due. È probabile che ambedue siano diventati cristiani a Roma. In seguito all'espulsione dei giudei da Roma, al tempo di Claudio, come testimonia lo storico romano Svetonio, la coppia si era trasferita a Corinto, una città commerciale, grazie all’attività intensa del suo porto. La fabbricazione di tende era un'attività rilevante nella città ed è proprio questo tipo di lavoro che la nostra coppia cominciò ad esercitare.

L’incontro con Paolo avvenne a Corinto, dove l’apostolo si fermò ad abitare con loro (18,2). L’accolsero come un fratello ed egli lavorò con loro, tornando a fare il suo antico mestiere (fabbricatori di tende). Si recava nella sinagoga portando il suo annuncio a tutti (2-4). Questa collaborazione e sostegno reciproco getta una luce di speranza sul rapporto tra consacrati e sposi laici. Spesso fra questi nascono incomprensioni… non di rado perfino rivalità e ricatti meschini.

Aquila e Priscilla «accompagnano Paolo fino ad Efeso» (18,18), cioè gli sono compagni ed alleati. Davanti a questo versetto s’infrangono tutte le difficoltà della collaborazione fra laici e consacrati.

Gli sposi possono svolgere il loro ministero di evangelizzazione in parrocchia:

-         nella catechesi di iniziazione cristiana: questa deve diventare sempre di più «catechesi nella famiglia e con la famiglia»;

-         nella catechesi dei fidanzati e delle coppie di sposi giovani;

-         nella catechesi ai genitori: fatta da coppie-sposi;

-         nella catechesi dei centri di ascolto, animata da coppie-sposi;

-         nel raccordare le famiglie di un condominio o di una piccola zona con la parrocchia.

 

Coinvolgere gli sposi nell’impegno dell’evangelizzazione:

-         a partire dalla catechesi battesimale, è necessario aiutare i genitori a prendere coscienza di essere loro i primi educatori nella fede e a svolgere questa missione non come un dovere, ma come l’esercizio della loro paternità/maternità;

-         occorre formare i genitori a svolgere la loro missione di evangelizzatori attraverso cammini formativi in piccoli gruppi familiari o nelle associazioni e movimenti ecclesiali;

-         bisogna stimolare i genitori a testimoniare i valori di cui sono portatori, in quanto coppie di sposi: il reciproco amore fedele e l’amore per la vita.

Sappiamo bene che nella rete si fermeranno pochi pesci, una minoranza, ma forse per questo non vale la pena di tentare? Certamente questi piccoli progetti vanno condivisi col parroco. Cerchiamo quindi di creare un clima di fiducia e di collaborazione che può maturare nella conoscenza reciproca e nel lavorare insieme … senza contese e gelosie.

Il parroco, credo ha il compito di promuovere la famiglia come un soggetto pastorale, fonte generativa di tutta  la comunità parrocchiale. Questo perché la famiglia cristiana è chiamata dal Concilio «chiesa domestica» (cf. LG 11; AA 11; FC 49) e costituisce «cellula viva e vitale della Chiesa» (CeC 4). Ĕ il luogo dove si «costruisce» la chiesa; è «cellula» della comunità locale, grazie alla quale la comunità ecclesiale diventa «famiglia di famiglie». Se le famiglie vengono meno, alla comunità locale vengono a mancare le sue cellule vitali. Inoltre la famiglia, in quanto «chiesa domestica», partecipa alla missione della Chiesa: una missione di salvezza radicata nel battesimo e nel matrimonio, che non solo la riguarda e la coinvolge, ma che chiede pure di compiersi a beneficio proprio e di altri anche mediante la sua parola, azione e vita (cf. GS 49-50; DPF 20). Perciò la famiglia non è una realtà privata né privatizzabile. Essa è collocata da Dio nel contesto vivo e dinamico della comunità ecclesiale. È dentro la comunità ecclesiale, non accanto. Vive nella comunità, ma è destinata, come la comunità ecclesiale, al servizio della comunità degli uomini. Spesso i parroci non hanno presente tutto questo o se si tiene solo in modo fittizio, perché alla fine sono sempre loro a decidere su quello che bisogna fare nella comunità. Questa riflessione è venuta fuori anche in un convegno della diocesi di Pozzuoli (Na), la scusante da parte dei sacerdoti è stata che non sempre nella comunità parrocchiali ci sono laici preparati e formati. Vero… forse. Ma chi dovrebbe formare e preparare i laici? Non sono forse i parroci?   

Al dire il vero, ai nostri giorni, spesso capita trovare laici più preparati dei parroci. Quando capita ciò il conflitto è maggiore perché un laicato ben preparato in una parrocchia potrebbe diventare  la «spina nel fianco» del parroco. Soltanto se cresce la collaborazione fra le famiglie e il parroco la comunità parrocchiale si rinvigorisce, diventando così «segno credibile» del vangelo.

- Quel’è il rapporto con il tuo parroco? C’è collaborazione o conflittualità?

- Ti senti membro attivo della tua comunità parrocchiale?

- Hai dato la tua disponibilità per in servizio in parrocchia?

- Vivi l’iniziative che promuove la parrocchia?

- Ritieni che in parrocchia ci siano divisioni? E secondo te perché? E forse colpa del parroco?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b) una famiglia accogliente ed  evangelizzatrice

Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto, dove Aquila e Priscilla l’accolsero in casa (cf. At 18,1.3). Il non credente può accoglie l’altro per una motivazione soltanto filantropica, l’amore per l’uomo. Per il credente, accanto a questa ve ne sono altre tre: teologica, cristologica ed ecclesiologica. Il cristiano agisce per amore di Dio, riconoscendo, nell’altro, Gesù Cristo e membro della Chiesa.

Ogni uomo, è risaputo, subisce cambiamenti profondi quando nella sua vita fa determinati incontri. Così fu per gli Apostoli che incontrarono Gesù e così fu anche per Aquila e Priscilla.; l’incontro con Paolo li cambiò, probabilmente è per mezzo suo che conobbero il cristianesimo che trasformò la loro vita e il modo di pensare. Anche per noi é cosi: quando incontriamo una persona di fede, questa segna profondamente e positivamente la nostra vita.

Il clima accogliente della vita familiare di Aquila e Priscilla non è solo aperto alla novità del vangelo, ma fa della loro casa un centro di studi biblici e luogo di evangelizzazione. In seguito altre persone si sono aggiunte e hanno continuato a studiare la Parola di Dio, a celebrare le sue grandi opere. Ne dà una testimonianza la prima lettera ai Corinzi: «Aquila e Priscilla, con la Chiesa che si trova nella loro casa, vi salutano nel Signore» (16,19).

Negli orientamenti pastorali dell’episcopato italiano, «Evangelizzazione e testimonianza della carità», si ribadisce che la famiglia cristiana è il primo luogo in cui l’annuncio del Vangelo della carità può essere da tutti vissuto e verificato in maniera semplice e spontanea (cf. n. 39) nel rapporto tra marito e moglie, tra genitori e figli e tra le diverse generazioni. Quando si sente parlare di evangelizzazione, la prima idea che passa per la testa è la missione ad gentes o il volto di un missionario in un luogo del terzo mondo. Non siamo educati a vedere l’evangelizzazione come vocazione di tutti i battezzati: inviati ad annunciare e testimoniare l'amore di Dio. Chi ha ricevuto la buona notizia che Dio ha mandato suo Figlio, che ci ha salvati attraverso la sua morte e risurrezione, non può fare altro che annunciarlo, incominciando dalla propria famiglia! Nel Nuovo Testamento troviamo presente questa straordinaria e sublime realtà: l’amore di Dio per l'umanità è offerto nel dono del Figlio suo Gesù. La sua persona e la sua opera costituiscono la rivelazione piena dell'amore del Padre per il suo popolo. Dio non avrebbe potuto immaginare e offrire un segno più eloquente e più forte del suo ardente amore:  «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). «Tutta la persona di Gesù è dono dell'amore di Dio: in lui il Padre rivela perfettamente i palpiti del suo cuore per il mondo immerso nelle tenebre del peccato» (Panimolle S.A., Amore, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Paoline, 60).

Aquila e Priscilla accolgono in casa anche il neofita Apollo. Qui, credo, è importante l’inciso «lo presero con sé» (18,26a), così come già avevano fatto con Paolo. Mentre, però, con Paolo furono i beneficiari dell’evangelo, con Apollo diventarono testimoni e maestri nella fede: «esposero con maggiore accuratezza la via di Dio» (26b).

È proprio in famiglia che prende sostanza un’azione evangelizzatrice efficace. Nel Direttorio di Pastorale Familiare si auspica che «i genitori educhino i figli al servizio degli altri, alla mondialità e all'accoglienza di persone di altre razze e culture. In questa linea le famiglie sappiano essere segno profetico di una nuova società mondiale, attraverso uno stile di vita sobrio ed improntato a modelli di consumo rispettosi della dignità di ogni uomo» (146). Spesso, invece, soprattutto nei confronti di persone di etnia diversa, si ha un certa diffidenza; basterebbe ascoltare i luoghi comuni sugli immigrati di colore… sono tutti delinquenti! Quanto va bene, … sono accusati di togliere il lavoro ai nostri giovani! Quale atteggiamento di accoglienza sviluppa il ragazzo che ascolta un discorso del genere? La fede vissuta è la prima forma di missionarietà, poiché la persona, oltre ad ascoltare il messaggio, lo vede mettere in pratica. La buona notizia dell’amore di Dio deve essere il motore quotidiano della famiglia. Compiere il proprio dovere in casa, con parenti ed amici, sul luogo di lavoro, vale più di mille parole, perché è una testimonianza vera. Paolo VI sosteneva «oggi c’è bisogno più di testimoni che di maestri» (Evangelii nuntianti, 41).

La famiglia annuncia il Vangelo quando chi è vicino scopre che in essa vive l’amore di Gesù che si rende visibile in gesti concreti. Sposi che si amano, si rispettano e sono fedeli l’uno all’altro, sono la prova che le parole del Vangelo sono vive. L’evangelizzazione della famiglia cristiana consiste nell'annuncio e nella testimonianza attraverso il vissuto quotidiano (cf. Direttorio di Pastorale Familiare, 142). È lì che i figli ricevono il «primo annuncio», scoprono e fanno la prima esperienza della presenza di un Dio Padre che ama e libera. Pensiamo alla Pasqua ebraica, nata, diffusa e totalmente impostata in ambito familiare con un rituale abbastanza complesso, gestito dal capofamiglia anche se povero e ignorante. Pensiamo allo stile di trasmissione della fede, come viene anche ricordato nello «Shemà Israel... Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore! Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e ti alzerai; li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte» (Dt 6, 4-9). Questo dà già un'impostazione davvero attuale a quello che può essere l'apostolato domestico dei coniugi.

 In famiglia s'impara ad accettarsi, comprendersi e perdonarsi. In parole semplici si impara ad amare Dio e il prossimo. Quando vediamo una famiglia unita, dove le persone non si manipolano, non sono possessive, si amano, restiamo ammirati e a volte increduli, come davanti ad un vero e proprio miracolo. I vescovi italiani hanno voluto ribadire che l’evangelizzazione è un compito che appartiene alla natura della famiglia cristiana: «Prima e più di intraprendere qualsiasi altra iniziativa, ogni famiglia cristiana, e in essa ogni coppia di sposi, sappia riscoprire la grandezza e l'originalità di questa chiamata a partecipare all'opera evangelizzatrice della Chiesa. L'intera comunità cristiana, d'altra parte, sappia riconoscere e accogliere con gratitudine questa preziosa testimonianza offerta dalle famiglie e si interroghi costantemente sui modi per illuminarle e sostenerle nella loro missione evangelizzatrice» (Direttorio di Pastorale Familiare, n. 142).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

c) la famiglia evangelizza compromettendosi fino in fondo

Aquila e Priscilla si sistemarono nuovamente a Roma, non tanto come fabbricanti di tende, ma piuttosto, per propagare la Parola di Dio. La famiglia cristiana «vive il suo compito profetico accogliendo e annunciando la parola di Dio... diventando cosi, ogni giorno, comunità credente ed evangelizzante» (Familiaris Consortio=FC, 51). Nel paragrafo successivo si afferma: «nella misura in cui la famiglia cristiana accoglie il Vangelo e matura nella fede, diventa comunità evangelizzante […] la futura evangelizzazione dipende in gran parte dalla chiesa domestica» (FC, 52); queste parole di Giovanni Paolo II sintetizzano il pensiero di Paolo VI (Evangelii Nuntiandi, 71).

Aquila e Priscilla solo dopo aver accolto il vangelo si predispongono ad annunciarlo. A Roma non esitano ad esporre la loro vita a causa del Vangelo. A Corinto avevano accolto i credenti; ad Efeso una Chiesa si riuniva presso di loro ed a Roma avevano aperto una Chiesa nella loro casa. Essendo benestanti, avevano un’abitazione capace di accogliere persone che avevano bisogno di Gesù e fratelli nella fede per condividere, pregare, celebrare la cena del Signore e crescere nella fraternità. Quando nell'58, Paolo indirizzò ai credenti di Roma la sua missiva, scriveva: «Salutate Priscilla ed Aquila, miei collaboratori in Gesù Cristo … Salutate anche la chiesa che si riunisce in casa loro» (16,3.5). Il loro ministero non si fermò, visto che quattro anni più tardi Paolo inviò loro un altro messaggio ad Efeso, dove erano ritornati e dove appoggiavano la testimonianza dei cristiani di quella città (cf. 2Tim 4,19).

Soltanto in questo modo la coppia cristiana scopre la sua vera identità, cioè «intima comunità di vita e di amore» (FC, 50) che è già annuncio del Vangelo. La coppia cristiana in quanto «Ecclesia domestica», cioè «viva immagine e storica ripresentazione del mistero stesso della Chiesa» (FC, 49), è chiamata a condividere la missione profetica che Cristo ha affidato alla Chiesa: essere comunità credente ed evangelizzante, in dialogo con Dio, a servizio dell'uomo (FC, 50). Ĕ chiamata a esercitare il suo ministero di evangelizzazione in primis nella propria famiglia: riveste fondamentale importanza l’educazione cristiana dei figli, vero “ministero della Chiesa” (FC,38), che, attuato dai genitori soprattutto con  la testimonianza, oltre che con la parola, fa di essi «i primi maestri della fede» (Direttorio di Pastorale Familiare =DPF, 144). Questo ministero si esplica  rivestendo di amore le quotidiane vicende della vita familiare (FC, 53). È chiamata, inoltre, a svolgere l’evangelizzazione anche al di fuori delle mura domestiche: in parrocchia e verso le altre famiglie, «campo più immediato e connaturale nel quale si compie la loro opera evangelizzatrice» (DPF, 146). Nella realtà sociale, nella catechesi dei fidanzati e delle giovani coppie etc. è importante che le famiglie raccontino la loro esperienza di fede alle altre famiglie con lo stile del «passa parola», nello spirito della condivisione gratuita. Questo richiede disponibilità. Parliamo di disponibilità ordinaria, senza pensare subito a impegni straordinari, come un affido o un'adozione: ossia cose possibili ad ogni famiglia cristiana anche senza aderire a particolari associazioni. Questo comporta per le coppie la necessità di:

- maturare una coscienza missionaria e la consapevolezza della loro capacità evangelizzante;

- comunicare la fede avviene all'interno di relazioni interpersonali di amicizia e di «compagnia»; l'amicizia è la prima via dell'evangelizzazione;

- fare della casa un luogo accogliente, dove si condividono i bisogni e le difficoltà degli altri;

- superare i pregiudizi nei confronti delle altre coppie, soprattutto di quelle «conviventi» o sposate solo civilmente; guardare a tutti con affetto e comprensione, come Gesù.

Esempi concreti possono essere:

- la testimonianza della carità: l’adozione, l’affidamento, il servizio reso, anche solo per qualche ora al giorno o qualche ora ogni tanto, ad un bimbo, un handicappato, un anziano (FC, 71) che la famiglia di origine non riesce ad accudire 24 ore su 24 e rischierebbe di finire in servizi pubblici o istituti, spesso meno accoglienti (quanti casi!);

- ci può essere il caso di una ragazza-madre che non sa dove andare, da accogliere temporaneamente in attesa... Sarebbe un vero servizio alla vita: diversamente la tentazione all'aborto può farsi insistente!;

- si può fare amicizia (quasi un gemellaggio!) con una o più famiglie dei dintorni con qualche difficoltà o in crisi: andarle a trovare ogni tanto, oppure invitarle, telefonare spesso, fare una gita insieme, aiutare in qualche servizio, andare a Messa insieme o a qualche iniziativa di formazione o di divertimento…

Sono questi i compiti con cui sempre più di frequente oggi la famiglia cristiana è chiamata a confrontarsi, perché la carità di Dio, ricevuta nel sacramento dell’alleanza coniugale, si traduca in testimonianze concrete di vita. Questi esempi, ed altri che la fantasia dell'amore suscita, rendono la famiglia «aperta» e l'amore interno si rigenera e non inacidisce. Ricordiamo che il  ministero di evangelizzazione della famiglia non può essere concepito se non «nel contesto dell’intera Chiesa quale comunità evangelizzata ed evangelizzante» (FC, 53), cioè esso fa parte dell’unica missione della Chiesa.

In ultimo verrei far notare che Aquila e Priscilla, dopo essersi assicurati che il loro ospite fosse maturato nella fede, visto il suo desiderio di andare a Corinto, lo incoraggiarono: «scrissero ai discepoli (di Corinto) di fargli buona accoglienza» (At 18,27). Potremmo dire che l’obiettivo primario dell’evangelizzatore non è tanto di evangelizzare, quanto formare nuovi evangelizzatori. Dagli Atti sappiamo che Apollo, arrivato a Corinto fu molto utile dando un contributo a quelli che, per opera della grazia, erano divenuti credenti.

Aquila e Priscilla è una coppia che ha dato tutto al Signore e che si è interamente consacrata alla diffusione dell'Evangelo. Pur mantenendo le loro responsabilità professionali, hanno aperto la loro casa a persone desiderose di conoscere il Signore Gesù. In conclusione sono dei modelli per la vita missionaria di oggi, mettendo anzitutto in risalto la centralità della famiglia come cellula evangelizzatrice. Sono modelli di passione per il Vangelo: ovunque andavano, la loro casa diventava centro di irradiazione cristiana. La loro stessa professione di fabbricatori di tende era messa a servizio della missione. Il loro lavoro e i viaggi diventavano occasione di testimonianza cristiana.  Insomma, una coppia capace di insegnare qualcosa anche a noi oggi.