INDICE

 

0. A mò d’introduzione. La famiglia nella sacra scrittura

1.  Adamo ed Eva. Dal progetto originale di Dio su il matrimonio

                             alla decadenza del peccato 

2. Abramo e Sara

3. Isacco e Rebecca

    a) Il matrimonio sotto la benedizione del Signore…

    b) La famiglia di Isacco e Rebecca

4. Giacobbe e le sue… famiglie

5. Tre Famiglie a confronto

    a) «Onan e Tamar»: la chiusura alla vita

    b) «Élkana e Anna»: il dramma della sterilità

    c) La scelta del numero dei figli

6. Davide e Betsabea. Dall’attrazione fisica all’infedeltà e le sue conseguenze

7. Zaccaria ed Elisabetta

8. Maria e Giuseppe

    a) Una Storia intessuta di silenzi e d’intesa.

    b) Dio “entra” nella loro storia e si “fa” storia

9. Di fronte alla seduzione amorosa… due modi di agire

    a) Giuseppe e la seduttrice: la fedeltà ad ogni costo

    b) Sansone e Dalila. La seduzione mezzo per ingannare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A mò d’introduzione

La famiglia nella sacra scrittura

 

Continuerò le mie riflessioni sulla famiglia, però la prospettiva sarà prettamente biblica. L’idea è di analizzare le famiglie della Sacra Scrittura e trarre l’insegnamento per quelle dei nostri giorni.

Nel libro sacro sono riportate molte famiglie: nell’antico testamento Adamo ed Eva, Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Rachele, Mosè e Zippora, Tobia e Sara, Osea e la Prostituta; nel nuovo testamento Zaccaria ed Elisabetta, Giuseppe e Maria, Anania e Saffica, … infine Dio e il popolo.

Tengo a precisare che la trattazione non sarà accademica, ma si terrà conto soprattutto dell’aspetto pastorale.

 

L’origine della famiglia nella Bibbia.

Dio creando l'uomo, lo collocò nel giardino dell'Eden ed ebbe subito l'impressione che la sua solitudine non fu una cosa né buona né bella. Per questo plasmò, direttamente dalla vivente carne del primo uomo, la sua compagna, un essere nuovo creato appositamente per lui, adatta alla sua dignità intellettuale e spirituale. La donna, diversamente dall'uomo che fu creato con l'umile polvere della terra, nasce invece da una materia già vivente e più nobile.

Adamo esprime il suo canto di gioia e d’amore nel vedere la sua donna: «Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Perciò si chiamerà ishà (donna) perché questa è stata presa da ish (uomo)» (Gn 2,23). Con il versetto successivo, si stabilisce l'istituzione del matrimonio, conferendo ad esso un'origine divina e definendolo con termini pieni di sentimento e di poesia: «Perciò abbandoni l'uomo suo padre e sua madre, si unisca a sua moglie e siano una sola carne» (24). In ebraico il termine si unisca è reso dal verbo davaq che dovrebbe essere tradotto con si incolli.  Dio stesso ha creato il primo nucleo familiare, con il supremo scopo di generare figli, che sono fonte di forza e soprattutto di benedizione: «Dio creò l'uomo a sua immagine, lo creò ad immagine di Dio, creò maschio e femmina. Dio li benedisse e disse loro: prolificate e moltiplicatevi e riempite la terra e assoggettatela» (cf. Gn 1,27ss). Poiché infatti l'importanza della famiglia dipendeva dal numero della prole, più questa era numerosa, più la famiglia  acquistava onore e dominio nella società.

Oltre alla soddisfazione del precetto divino, il matrimonio ha il fine di porre al nostro fianco una compagna che ci sottragga alla solitudine, e soprattutto ci sia di aiuto e di conforto nelle difficoltà della vita; come recita il versetto: «non è bene che l'uomo sia solo, farò per lui un aiuto che gli si confaccia» (Gn 2,18).

Questo bellissimo messaggio di aiuto reciproco deve rinvigorire le nostre famiglie in crisi. Forse tante crisi familiari hanno come causa proprio il fatto che tante donne non si sentono «aiuto» per l’uomo, oppure quest’ultimo non le considera tali. È invece molto importante riscoprire questo bisogno l’uno dell’altro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   Capitolo Primo

   Adamo ed Eva

Dal progetto originale di Dio su il matrimonio alla decadenza del peccato 

 

 

Il matrimonio nel racconto della creazione

La volta scorsa vedemmo l’origine della famiglia nella Bibbia, ma c’è di più: essa è voluta da Dio. La famiglia è istituzione divina: questa verità si trova un pò in tutte le religioni. Il Rigvede, testo sacro degli indù, pone a modello della famiglia umana l’unione coniugale delle due massime divinità celesti, Sûrjâ e Soma, le cui nozze sono indissolubili ed irrevocabili. I testi confuciani insegnano che la famiglia e il matrimonio sono istituzioni primordiali (Per un approfondimento specifico sulla tematica cf. Ragazzino G., La famiglia nelle grandi religioni non cristiane, in Giustiniani P. - Matarazzo C. -  Ragazzino G. – Toriello F., Famiglia in discussione. Un approccio in chiave di comunicazione religiosa, Lucianoeditore, Napoli 1995, 39-50).

Nel testo sacro troviamo il progetto di Dio sul rapporto maschio-femmina che si realizza nella famiglia. Giovanni Paolo II ebbe a scrivere nella familiaris consortio “La rivelazione cristiana conosce due modi specifici di realizzare la vocazione della persona umana, nella sua interezza, all’amore: il matrimonio e la verginità” (11).

Certamente, sappiamo che nella Bibbia non troviamo una narrazione scientifica della creazione dell’uomo, ma si tratta di una lettura mitologica per rispondere alle domande esistenziali ed essenziali per l’uomo d’ogni tempo. “La Bibbia – affermava Galileo Galilei - non c’insegna come va il cielo ma come si va in cielo”. Il testo sacro ci presenta una lettura teologica, religiosa del senso e del destino dell’uomo. Nel primo libro, la Genesi, troviamo due narrazioni della creazione con stili ed epoche diverse, non è nostro intendo entrare nello specifico.

Dio, creato l’uomo, lo pone al centro del creato. È l’uomo il dio dell’universo visibile, impone il nome a tutto quello che lo circonda, ma si sente incompleto. Quest’incompletezza è espressa nella Bibbia con la parola solitudine. Dio vide che era solo! (Gn 2,18). Il testo sacro drammatizza questa solitudine dell’uomo: Dio crea “bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo” (2,19), e li presenta all’uomo, che li scruta nel loro essere, assegna loro un nome, lì confronta con sé, ma nessuno di essi può toglierlo dalla solitudine esistenziale, in altre parole, completarlo. Allora Dio crea la donna, e la conduce all’uomo; egli afferma “è carne della mia carne e osso delle mie ossa” (2,23). Personalmente mi piace individuare in questo primo ed enfatico incontro fra l’uomo-Adamo e la donna-Eva la fase dell’amore romantico o fase dell’innamoramento.

L’autore sacro nel versetto successivo descrive, in stile sapienziale, la fondazione di una famiglia: “Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”. Qui, infatti, possiamo intravedere la nascita della famiglia che era nel progetto originario di Dio. I due, prima della caduta- stando alla testimonianza del testo sacro, erano felici, in piena armonia… con Dio “che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno” (Gn 3,8a), fra loro “erano nudi, ma non ne provavano vergogna” (cf. Gn 2,25); erano in armonia con il creato che l’uomo doveva “coltivare e custodire” (cf. Gn 2,15b).

Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna” (Gn 2,25). L’intento primo ed esplicito dell’agiografo è quello di presentare una visione ideale dei sessi e del matrimonio. Si stava formando la famiglia che il Signore aveva progettato, ma tale progetto è infranto… così come insegna il capitolo terzo della Genesi.

 

Il matrimonio nel racconto del “peccato originale- caduta”

Si è data una lettura di tipo sessuale al peccato d’origine-caduta, perché nel terzo capitolo troviamo un quarto personaggio il serpente. Non entriamo nelle molteplici interpretazioni date di quest’animale, riporto solo quello che scrive P. Grelot: “Alcuni esegesi hanno creduto di poter riconoscere dei richiami sessuali nei simboli o nelle espressioni usati a presentare la natura del peccato. Il serpente sarebbe in relazione con culti di fecondità; la manducazione del frutto proibito sembrerebbe un atto magico destinato a risvegliare la sessualità” (La coppia umana nella Sacra Scrittura, Milano 1965,41).

È certo, però, che il rapporto uomo-donna è stato rovinato dal peccato-caduta. Inoltre, credo, che è importante rilevare che il peccato delle origini è il peccato comune della coppia-prototipo. Giustamente osserva il Grelot “perché l’uomo in sé non esiste, ma esista come uomo e donna”.

 

Quali conseguenze a portato il peccato?

a-      L’uomo viene cacciato dal giardino dell’Eden (Gn 3,23). In esso c’era l’albero della vita (Gn 2,9) al quale prima poteva sfamare il suo desiderio di immortalità, poiché solo l’albero della conoscenza del bene e del male gli era vietato (Gn 2,16-17). Ora gli viene interdetto l’albero della vita (Gn 3,22-24). La morte entra nel mondo con Caino ed Abele (Gn 4,8);

b-     I due coniugi che “erano nudi, ma non ne provavano vergogna” (cf. Gn 2,25), dopo il peccato d’origine-caduta si vergognano della loro nudità (Gn 3,10s), e la relazione uomo-donna, che sarebbe dovuta rimanere paritaria nella specificità propria dei sessi, viene snaturata dal peccato che assoggetta la donna al suo sposo (Gn 3,16).

c-      L’uomo ha paura di Dio: ora lo vede come giudice, si nasconde appena si accorge della Sua presenza (cf. Gn 3,10);

d-     L’uomo non vive più il rapporto d’amore con gli altri e con il creato, ed ha inizia la litania delle colpe: Adamo accusa Eva (3,12), Eva accusa il serpente (Gn 3, 13b). La coppia – scrive P. Grelot- era “fatta per vivere nell’unità più stretta, (…) ma i due non si sentono più solidali, poiché Adamo riversa la colpa su Eva, mentre questa cerca di riversare la responsabilità di tutto sul serpente tentatore” (La coppia umana nella Sacra Scrittura,44). Dopo i giorni felici arrivano i giorni difficili, cioè quando la nave dell’innamoramento approda alla rottura della “unità dei due”, al non-amore. L’uomo-donna è ridotto a istinto, possesso, dominio: “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà” (Gn 3,16).

e-      Ma la conseguenza del peccato influisce anche sulle generazioni future: Caino uccide Abele (Gn 4,8); con Lamec si sviluppa la poligamia (Gn 4,19-24), con il noto risvolto delle rivalità (Anna e Penenna 1Sam 1,4-6); l’amore sessuale sfocia nella passione irragionevole che rende l’uomo schiavo (Sansone e Dalila Gdc 16,4-21); l’amore adultera fra Davide e Betsabea (2Sam 11-12). Ci sono, infine, tutte le perversioni sessuali: il rapporto carnale di Lot con le figlie (Gn 19,31-38); il vizio di Sodomia (Gn 18-19); la prostituzione sacra (Nm 25,1-18). 

Ma Dio non si arrende di fronte a tale naufragio dell’uomo, Egli sa scrivere diritto su righe storte. Non mancano elementi per un futuro di redenzione. Dio si schiera dalla parte della donna e della sua discendenza nella lotto con il serpente (Gn 3,15); la benedizione di Dio della fecondità non viene tolta dopo il peccato, infatti Eva procrea un uomo con l’aiuto di Dio (Gn 4,1), e rimane anche con il diluvio (Gn 9,1). Dio ci tiene a realizzare quel progetto iniziale sull’uomo. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Secondo

Abramo e Sara

 

Abramo, con la moglie Sara, che era sterile, viveva ad Ur dei Caldei e non aveva nessun motivo per andarsene da quella terra fertile che dava prosperità e sicurezza alla sua famiglia ed alla sua tribù.

Dio, in modo sorprendente, entra nella storia di questa coppia e l’invita ad andarsene, ad abbandonare quello che loro considerano una sicurezza: la terra fertile. Dio l’invita a mettersi in cammino verso un’ignota terra e premette una numerosa discendenza. Mi piace far notare la contrapposizione nel testo fra la «terra fertile» e il «grembo sterile» della donna.

Di fronte alla certezza di avere un figlio, le loro ricchezze diventano nulle. Abramo crede, ed insieme alla moglie e parenti, accetta il rischio dell’ignoto. Essi mettono in gioco il loro futuro. La partenza verso Canaan è un vero e proprio atto di fede in Colui che ancora non hanno imparato a conoscere.

La promessa dalla terra si realizzò, ma Abramo non vedeva ancora realizzata l’altra promessa: quella della discendenza.

Sappiamo che, secondo la tradizione biblica, lo scopo fondamentale del matrimonio era di procreare figli dopo aver costituito un nuovo nucleo familiare e perpetuare, per mezzo loro, il proprio nome in seno al popolo ebraico. L'importanza della famiglia, infatti, dipendeva dal numero della prole. La loro assenza era considerata una maledizione in contrapposizione alla benedizione: «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gn 1,29) iniziale di Dio. In questo contesto, allora, possiamo immaginare quanta amarezza c’era nel cuore d'Abramo e di Sara che vedono realizzato soltanto la prima parte della promessa.

Un giorno Abramo, parlando con Dio, si rammaricò del fatto di non avere avuto una discendenza e di dover lasciare la sua eredità al fidato servo.

A questo punto torna in scena Dio, torna con una promessa-impegno che riaccende la speranza nel cuore d'Abramo, e lo fa utilizzando l’immagine della natura: «Non costui sarà tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede. Poi lo condusse fuori e gli disse: Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle, e soggiunse, tale sarà la tua discendenza» (Gn 15,4-5). Abramo credette!  

Un giorno Dio prende di nuovo l'iniziativa di entrare nella storia della coppia, che viveva la sua quotidianità alle Querce di Mambre.  Abramo, lo attesta scrittura: «alzo gli occhi e (ecco) vide che tre uomini stavano in piedi d’avanti a lui» (Gn 18,2). Mi chiedo: Abramo avrebbe dovuto vedere da lontano i tre visitatori, perché si trovava nel deserto, dov’era possibile intravedere una visita;… c’era tutto il tempo per prepararsi ad accogliere l’ospite! Invece improvvisamente sono davanti alla sua tenda: arrivano nel momento che meno se l’aspettava!

Abramo accolse i tre visitatori riconoscendo in loro il Signore. Ed in quell’occasione vi è una solenne promessa e persino precisazione della scadenza per la nascita di un figlio in quella famiglia: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio» (Gn 18,10).

E’ interessante notare che dei tre sconosciuti ora uno diventa il Signore. Sara ascolta e rimane incredula, addirittura sorride a quella notizia sconvolgente.

Si esalta Abramo per la sua fede e si pone in sordina Sara per la sua incredulità. Personalmente ritengo che Sarà, consorte di Abramo, è colei che ne divide le gioie ed i dolori, che lo segue ovunque lo sospinga la volontà di Dio e la sua missione, che lo coadiuva in questa missione; è colei che al pari di Abramo, cerca di attirare i contemporanei nell'orbita della sua propaganda religiosa. Sarà è presente costantemente accanto ad Abramo, sicché se Abramo è il primo padre in Israele, Sarà merita di essere chiamata la prima madre: Isacco è divenuto figlio d'Abramo, infrangendo la norma biologica, poiché generato dalla novantenne Sara.

Immaginiamoci i sentimenti di Sara quando Dio chiede la prova estrema del "Sacrificio di Isacco" (Gn 22).

Un Midrash, nell'intento di esaltare, quasi in una aureola di sacrificio, le sublimi virtù di questa matriarca e il suo amore all'unico Dio, osserva acutamente che proprio al racconto del "Sacrificio di Isacco", segue nella Bibbia quello della morte di Sara, perché il suo animo non avrebbe retto al dolore e lo spirito di lei sarebbe improvvisamente esalato. Perciò, continua il Midrash, allorquando Abramo torna dal monte di Morià, non trova più in vita l'amata compagna e, chiudendosi nel suo immenso dolore, pensa di provvedere degnamente alle esequie di lei.

Il primo pensiero di Abramo in questa luttuosa circostanza, è che quel legame che così saldamente aveva uniti i due coniugi in vita, continui anche al di là della vita, e una stessa tomba sia l'ultimo riposo per entrambi. Il vincolo sacro della famiglia, di quella famiglia che Abramo ha creato, non deve allentarsi, ma anzi deve rinsaldarsi dopo la morte, deve accompagnarsi all'altro grande vincolo, quello della Terra che Iddio ha promesso. Famiglia e terra sono due principi, due idealità che troviamo compresenti nello spirito di Abramo e che per lui debbono costituire il retaggio più alto da trasmettersi alla sua discendenza.

Che attraverso l'esaltazione dell'unione ideale di Abramo e di Sarà, lo scopo del racconto biblico sia quello di insistere sul valore ideale della casa e della famiglia, è dimostrato eloquentemente dal seguito della nostra parashà, che ci narra il sorgere della seconda famiglia ebraica, della seconda coppia patriarcale.

«Un sole spunta e l'altro tramonta» (Qo 1,5), osservano i Maestri del Midrash. Ĕ appena tramontato all'orizzonte l'astro di Sarà, che già è sorto quello di Rebecca! Non è ancora finita la vita terrena della prima famiglia di Israele, che già sorge la seconda! Dunque è proprio il perpetuarsi del legame familiare, e soprattutto dei valori che sono uniti a questo legame, è proprio questo che la Torà vuole rilevare col racconto così romanticamente seducente, nella semplice narrazione biblica, dell'idillio nascente tra Rebecca e Isacco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Terzo

  Isacco e Rebecca

 

Per comprendere meglio la coppia che si proporrà questo mese, si dovrà partire dal 24° capitolo della Genesi, dove Abramo, padre d’Isacco, si preoccupa di mandare il suo fidato servo in cerca della moglie per il figlio.

 

a) Il matrimonio sotto la benedizione del Signore…

Il servo, dopo giorni di cammino e preghiera, raggiunge il luogo dove incontra la donna che dovrà diventare la moglie del figlio del suo padrone. Lei è lì al pozzo… con la sua anfora per attingere acqua. Il suo gesto è abituale, ma proprio nella quotidianità della vita Dio interviene per realizzare il suo progetto che ha sulla sua creatura. Il servo d’Abramo entra in relazione con la ragazza, … che poi “corre  ad annunziare alla casa di sua madre queste cose” (Gn 24,).

I familiari di Rebecca, comprendendo che ciò è voluto da Dio, rispondono infatti “la cosa procede dal Signore, non possiamo dirti nulla” (Gn 24,50). Possiamo sentire riecheggiare il “non è bene che l’uomo sia solo”. Dio chiama l’uomo ha realizzarsi in una relazione sponsale (o con un suo simile nel matrimonio, oppure con Dio stesso nella consacrazione).

“La cosa procede dal Signore, non possiamo dirti nulla”; qui mi piace far notare come i genitori non ostacolano il progetto che Dio ha sulla loro figlia. Non chiedono in primo luogo se il ragazzo è bello, se possiede soldi, conto in banca, lavoro: queste sono le domande che i genitori d’oggi, fanno appena sanno che il proprio/a figlio/a è intenzionato a mettere su famiglia! Sono le credenziali che si cercano, invece di chiedersi “Ma… la cosa procede dal Signore?”. Non si è compreso che la compagna di vita è un dono di Dio che Lui ha plasmato per l’uomo.

I genitori chiedono alla ragazza cosa intende fare, e lei rispose “Andrò”. Lei si rende conto che è stata prescelta dal Signore a sposa d’Isacco. La scelta deve essere sempre personale; i genitori, gli amici possono consigliare, ma la decisione spetta all’interessato/a… Ella parte con il servo e, mentre stava nei pressi della casa d’Abramo, vede Isacco; lo trova in attesa. Isacco la vede venire e si dispone ad accoglierla ed amarla.

Il testo sacro afferma “Isacco introdusse Rebecca nella tenda che era stata di sua madre Sara: si prese in moglie Rebecca e l’amò. Isacco trovò conforto dopo la morte della madre” (Gn 24,67).

Una seconda famiglia è sorta in Israele sotto l'auspicio di Dio; ormai Abramo può chiudere serenamente la sua esistenza perché la promessa di Dio si è già attuata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b) La famiglia di Isacco e Rebecca

Il testo sacro ci presenta Rebecca sterile (cf. Gn 25,21). Sappiamo bene che il figlio, alla fine, diventa desiderio principale di una coppia, ed Isacco si trova a fare la stessa esperienza del padre con la moglie sterile, però avendo visto il prodigio nella vita della madre (che era egli stesso), Isacco “supplicò il Signore per sua moglie e il Signore lo esaudì. Rebecca divenne incinta, e i figli si urtavano nel suo seno; due gemelli erano nel suo grembo” (cf. Gn 25,21.24). Finalmente il desiderio si trasforma in due frugoletti in carne ed ossa e il mondo attorno alla coppia subisce un totale cambiamento.

La famiglia d’Isacco è formata da quattro persone: Rebecca, sua moglie, ed i due figli Esaù e Giacobbe. Come in ogni famiglia, anche qui, in linea di massima, lo sguardo paterno è più razionale e realista, mentre quello materno è più emotivo e partecipe: “Isacco prediligeva Esaù, perché la cacciagione era di suo gusto, mentre Rebecca prediligeva Giacobbe” (Gn 25,28), e la diversa predilezione nei gemelli fa nascere qualche gelosia. 

Questo nucleo familiare però può essere considerato una famiglia “secondo la fede”, anche per la sua discendenza da Abramo, padre per eccellenza nella fede (cf. Rm 4,16). Sappiamo che la fede è una virtù dinamica; bisogna crescere e perseverare in essa, e Paolo ci ricorda che la fede “nasce dall’ascolto” della parola di Dio (Rm 10,17) e ad esso va la nostra obbedienza (cf. Rm 1,5). Nella famiglia d’Isacco troviamo episodi di non “obbedienza alla parola di Dio”: Esaù interrompe la comunione con i padri e vende al fratello la primogenitura per un pezzo di pane ed un piatto di lenticchie (Gn 25,34). gesto che sta a significare il disprezzo della promessa di salvezza per tutta l’umanità: il suo peccato fu di vilipendio. Per l’autore della lettera agli Ebrei, Esaù è un profanatore (12,16).

Ma provvidenzialmente intervenne Rebecca: ben consapevole che ad Esaù non interessa nulla della primogenitura e della benedizione divina, con uno stratagemma fece ricadere la benedizione del consorte sul figlio Giacobbe. Questi ha timore di essere scoperto, e quindi maledetto, e dice a sua madre: “Sai che mio fratello Esaù è peloso, mentre io ho la pelle liscia. Forse mio padre mi palperà e si accorgerà che mi prendo gioco di lui e attirerò sopra di me una maledizione invece di una benedizione”. Ma la madre lo tranqullizza: “Ricada su di me la tua maledizione, figlio mio! Tu obbedisci soltanto e vammi a prendere i capretti”» (Gn 27, 11-13). Giacobbe obbedì. La madre gli fece indossare gli abiti del figlio maggiore e con le pelli di capretto rivestì le sue braccia e il collo, in modo che Isacco, ormai vecchio e cieco, non si accorgesse del raggiro ... e così fu!

L’intervento di Dio nella storia di salvezza continua nella famiglia di Giacobbe e Rachele, come vedremo nel prossimo mese. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Capitolo Quarto

               Giacobbe e le sue… famiglie

 

Quando Giacobbe fu in età da moglie, il padre Isacco lo chiamò e gli disse: “Tu non devi prender moglie tra le figlie di Canaan. Su, và in Paddan-Aram, nella casa di Betuèl, padre di tua madre, e prenditi di là la moglie tra le figlie di Làbano, fratello di tua madre” (Gn 28, 1b-2). Giacobbe si recò presso lo zio Labano (Gn 29) e lì incontrò sul suo cammino due dolci donne, Rachele e Lia: due figure femminili che accompagnano la sua nuova vita…

Incontrò Rachele presso un pozzo comune (Gn 29,10), ed appena ella seppe che era un suo parente “corse a riferirlo al padre. Libano, quando seppe che era Giacobbe, il figlio di sua sorella, gli corse incontro, lo abbracciò, lo baciò e lo condusse nella sua casa. Egli raccontò a Làbano tutte le sue vicende” (Gn 29,12-13).

Giacobbe s’innamorò della bella Rachele fin dal primo incontro al pozzo, e lavora sette anni per suo padre per averla in moglie (Gn 29,18). Al termine dei sette anni si organizza la cerimonia di nozze, ma il suocero l’inganna. Dopo il banchetto di nozze, a sera, la sposa è portata nella tenda dello sposo. La sposa è velata, come d’uso, e la prima notte d’intimità è passata al buio. Alla luce del mattino seguente Giacobbe si accorge che, invece di avere accanto l'amata Rachele, ha la sorella maggiore, Lia “dagli occhi smorti” (Gn 28,17).

Giacobbe, che ingannò il padre Isacco, è stato a sua volta ingannato. La beffa giocata al fratello Esaù, a proposito della primogenitura, gli è resa dallo zio col rifilargli la primogenita. Come dire: chi la fa l’aspetti!

Giacobbe, è arrabbiatissimo con lo zio, cercò di protestare, ma per ottenere anche Rachele dovette lavorare altri sette anni per Làbano. Sia Lia che Rachele si sentono strumentalizzate del padre Labano, avido accaparratore, al punto che giungeranno a dire: “Non siamo forse tenute in conto di straniere da parte sua, dal momento che ci ha vendute e si è mangiato anche il nostro denaro?” (Gn 31,15).

Perché Giacobbe si sottopone ad altri anni di duro lavoro? Credo perché è immensamente innamorato di Rachele. L’autore sacro rileva: “Giacobbe servì sette anni per Rachele… gli sembrarono pochi giorni tanto era il suo amore per lei” (Gn 29,20).

Passano sette anni; per l’innamorato son volati. Chi è innamorato sa attendere e l’innamoramento è il tempo dell’attesa. Oggi viviamo invece in una società in cui il tempo è “tempo della fretta”. L’attesa la chiamano “perdita di tempo”. Non ci si guarda più: o ci si possiede subito, o si finisce per dividersi. Mi chiedo: i giovani d’oggi sanno aspettare? Purtroppo no! In definitiva più che fare l’amore, lo si consuma. L’attesa, invece, matura e porta gioia.

La scrittura, inoltre, testimonia che dovette lavorare ancora altri sei anni per avere il gregge, come lui stesso afferma: “Vent’anni sono stato in casa tua: ho servito quattordici anni per le tue figlie e sei anni per il tuo gregge” (Gn 31,41). Dopo questo periodo, divenuto incredibilmente ricco, ed accortosi che lo zio aveva intenzione di sfruttare ancora il suo lavoro, con un pretesto radunò mogli, figli, schiavi e bestiame e si allontanò di nascosto verso Canaan. Nell’andarsene gli portò via anche i “terafim”, i piccoli idoli domestici segno di proprietà e di benedizione (cf. Gn 31,19).

Durante la notte Giacobbe lottò con un essere misterioso (cf. Gn 32,23-33), che allo spuntare dell'alba lo lasciò andare dopo averlo benedetto ed aver cambiato il suo nome da Giacobbe in Israele: …"perché hai combattuto con Dio e con gli uomini ed hai vinto" (Gn 32,29). Da quel momento Israele divenne anche il nome della gente che riconosceva in Giacobbe il suo capo.

Lia continuava a generare figli maschi: Ruben (Gn 29,32); Simone (Gn 29,33); Levi (Gn 29,34); Giuda (Gn 29,35); Issacar (Gn 30,18); Zabulon (Gn 30,20); mentre era ormai opinione comune che Rachele fosse sterile.

Giuseppe deve continuamente trovare il giusto equilibrio nella famiglia, poiché in Rachele nacque la gelosia verso la sorella Lia, così come testimonia la scrittura: “Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!». Giacobbe s`irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?»” (Gn 30,1-2). Allora Rachele trova un rimedio… il vecchio rimedio di Sara: dare la schiava al marito e avere un figlio da lei: “Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch`io una mia prole per mezzo di lei». Così essa gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei. Bila concepì e partorì a Giacobbe un figlio. Rachele disse: «Dio mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato la mia voce, dando un figlio». Per questo essa lo chiamò Dan. Poi Bila, la schiava di Rachele, concepì ancora e partorì a Giacobbe un secondo figlio. Rachele disse: «Ho sostenuto contro mia sorella lotte difficili e ho vinto!». Perciò lo chiamò Nèftali” (Gn 30,3-8). In quel tempo era consuetudine, quando la moglie era sterile, unirsi con la schiava (così fece Abramo con Agar). Lia pure diede a Giacobbe la sua schiava Zilpa e da ella Giuseppe ebbe due figli: Gad ed Aser (cf. Gn 30,9-13; 35,26).

Nel testo non si parla esplicitamente di suppliche o preghiere da parte di Giacobbe o Rachele affinché potesse diventare madre. Si potrebbe supporre però una preghiera in tal senso, poiché l’autore sacro annota "Dio si ricordò di lei e la esaudì e la rese feconda. Dopo lunghi anni d’attesa diede alla luce un figlio, Giuseppe, dicendo il Signore mi aggiunga un altro figlio” (cf. Gn 30,22-24). Giuseppe divenne il preferito, ed anni dopo Rachele morì dando alla luce il secondogenito Beniamino (cf. Gn 35,16-19).

La famiglia di Giuseppe, quindi, non rifletté a pieno il progetto originario di Dio, poiché vi è presente la poligamia: Giuseppe ha due mogli (Rachele e Lia) e due concubine (Bila e Zilpa).

 

 Il rapporto fra Giacobbe e i figli

Ora vorrei soffermare lo sguardo sul rapporto fra Giacobbe e i figli. Quelli che gli vengono dalle mogli e relative schiave sono dodici: undici maschi e una femmina, Dina.

Giacobbe non ama allo stesso modo i sui figli: già ci fa sorridere il fatto che, di fronte al pericolo, manda avanti, nella posizione più a rischio, i figli delle schiave e poi i figli di Lia, tenendo Giuseppe, figlio della preferita Rachele, in retroguardia: “Giacobbe alzò gli occhi e vide arrivare Esaù che aveva con sé quattrocento uomini. Allora distribuì i figli tra Lia, Rachele e le due schiave; mise in testa le schiave con i loro figli, più indietro Lia con i suoi figli e più indietro Rachele e Giuseppe” (Gn 33,1-2); “Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli” (Gn 37,3). Ĕ possibile che all’interno di una famiglia ci siano delle preferenze, ma da dove nascono non sempre possiamo saperlo, e spesso creano problemi non indifferenti fra i membri della stessa famiglia.

I figli di Giacobbe son ben diversi fra loro: Simone e Levi sono fedifraghi e omicidi, e sterminano i Sichemiti (cf. Gn 34,25-27), per la violenza fatta alla sorella Dina (cf. Gn 34,2), nonostante li abbiano apparentemente perdonati, stipulando con loro un’alleanza (cf. Gn 34,9); Ruben è incestuoso, unendosi a Bila, concubina di suo padre (cf. Gn 35,22); Giuda non rispetta la legge del levirato (Dt 25,5-10) nei riguardi della nuora Tamar, che solo fingendosi prostituta lo mette di fronte ai suoi obblighi (cf. Gn 38,15).

L'esasperazione dei figli di Giacobbe per la preferenza accordata a Giuseppe raggiunse l'apice quando, trovandosi Giuseppe solo con loro a pascolare il gregge, lo catturarono, lo spogliarono delle sue vesti e lo vendettero a mercanti diretti in Egitto. All’anziano genitore, con un’accurata messiscena, riferiscono della morte violenta del figlio: “Presero allora la tunica di Giuseppe, scannarono un capro e intinsero la tunica nel sangue. Poi mandarono al padre la tunica dalle lunghe maniche e gliela fecero pervenire con queste parole: «L`abbiamo trovata; riscontra se è o no la tunica di tuo figlio». Egli la riconobbe e disse: «Ĕ la tunica di mio figlio! Una bestia feroce l`ha divorato. Giuseppe è stato sbranato». E Giacobbe si stracciò le vesti” (Gn 37,31-34a): una ennesima prova per il vecchio Giacobbe che lo pianse come morto per anni…

Giuseppe, dopo tante peripezie, grazie alla provvidenza divina, in Egitto diviene viceré; … intanto in Palestina ci fu una grande carestia, che spinse i fratelli di Giuseppe a cercare cibo in Egitto. Giuseppe generosamente li accolse, insieme al vecchio padre Giacobbe ed a tutto il popolo, dando così inizio al periodo egiziano della storia d’Israele. In Egitto Giacobbe morì, mentre i suoi dodici figli divennero i capostipiti delle dodici tribù d’Israele.

Non è certo facile l’educazione dei figli, e anche la santità del padre non è garanzia della loro rettitudine: ma consola il fatto che alla fine tutti i figli di Giacobbe riconoscono il loro peccato “Allora si dissero l`un l`altro: «Certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello, perché abbiamo visto la sua angoscia quando ci supplicava e non lo abbiamo ascoltato. Per questo c’è venuta addosso quest`angoscia»” (Gn 42,21).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Quinto

Tre Famiglie a confronto

chiusura alla vita… dramma della sterilità… scelta del numero dei figli”

 

Premessa

   Nel presente propongo la storia di tre famiglie dell’AT che, secondo me, possono aiutarci a comprendere l’atteggiamento che bisogna avere nei confronti alla vita nascente. La prima coppia è «Onan e Tamar» (Gn 38), una famiglia chiusa alla vita; la seconda «Élkana e Anna» (1Sam 1) troveremo il dramma della sterilità; infine, la scelta del numero dei figli (1Sam 16,1-13).

   Prima di esaminare le coppie citate vorrei premettere che nelle varie storie vi sono problemi di carattere morale; personalmente chiedo venie se non sarò in pieno esaustivo: non sono un moralista… spero di provocare! Poi ognuno potrà ricercare altrove (libri, confessore) risposte ai propri dubbi.                        

 

a) «Onan e Tamar»: la chiusura alla vita

   Sessualità e procreazione da sempre sono andate strettamente a braccetto; solo con le nuove tecniche della contraccezione e della fecondazione artificiale si reso possibile la separazione tra unione sessuale e procreazione.  E’ bene però specificare che, anche per il Magistero, l'unione coniugale non è vista esclusivamente in relazione alla riproduzione (vedi paternità e maternità responsabile). Il problema di fondo è comprendere il profondo legame che sussiste fra l'unione sessuale e la generazione. Può l'amore dei due chiudersi all'arrivo del terzo? La vicenda d’Onan non manca di attirare l'attenzione sugli effetti che l'esclusione ostinata dei figli procura.

   «Giuda prese una moglie per il suo primogenito Er, la quale si chiamava Tamar. Er si rese odioso al Signore e lo fece morire. Giuda disse ad Onan Unisciti alla moglie di Er, compi verso di lei il dovere di cognato e assicura così una posterità per tuo fratello. Onan sapeva che la prole non sarebbe stata considerata come sua; ogni volta che si univa disperdeva per terra... Ciò non fu gradito al Signore, il quale fece morire anche lui» (cf. Gn 38,6-10).

   Il lettore rimane stupito che Giuda impone ad Onan di sposare la vedova per garantire una discendenza al fratello morto. Si tratta di tradizioni antiche (legge del Levirato cf. Dt 25,5). Il lettore rimane sbalordito e spaventato dalla severità con cui Onan è giudicato per via del fatto che non vuole procreare «si dice che il Signore lo fece morire» (10), come fece con Er (7). Si rimane perplessi sulla figura di questo Dio che in tre versetti «fa morire» due persone. Bisogna tener conto della mentalità del tempo: l’autore vuole soffermarsi sull'intimo legame che c’è tra la vita di una persona e l'esercizio fecondo della sessualità. L'unione coniugale che rifiutasse ostinatamente la vita finirebbe per mortificare la stessa vita dei coniugi. Purtroppo bisogna ammettere che oggi ancora esiste una mentalità contro la vita nascente a favore dell’edonismo (il piacere). Non sono un confessore, ma credo che molti oggi usano contraccettivi ed in sostanza è un ripetere l’atteggiamento di Onan... fermare la vita. Probabilmente solo così si può spiegare il fatto che molte coppie, sposate da molto tempo, ancora non hanno generato la vita. Ricordiamoci che i figli non sono un incidente di percorso e neanche un prodotto della tecnica: sono il prendere vita del desiderio amoroso dei due di essere una cosa sola.

   Ricordo che amici per anni non hanno voluto figli per vari motivi, anche giusti, … ma quando poi hanno desiderato averli non sono venuti! …  forse la nature si ribelle e … ci mette alla prova?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b) «Élkana e Anna»: il dramma della sterilità

    Oggi emerge, in molte coppie, il desiderio di dare la vita ad un figlio; ma aumentano le coppie che pur desiderando dare vita sono affette da sterilità. Ciò comporta una profonda sofferenza: la sterilità è una ferita che penetra nell'identità della persona, tanto più in una donna. La Bibbia conosce non poche vicende di coppie sterili. Tra di esse, la storia di Élkana e Anna spicca per come entra nei risvolti coniugali della sterilità. Le conoscenze del tempo attribuivano la causa alla donna; … non si conosceva la sterilità maschile. Nonostante ciò il racconto è attento alle conseguenze che ha sull'uomo il fatto che il Figlio non arriva. Osserviamo la sensibilità femminile di Anna: il grembo sterile le appare come una ferita al suo essere donna. Il grembo, nascosto nell'intimo del corpo femminile, è l'espressione corporea dell'intimità personale.

   In assenza dell'amore di un figlio, una risorsa notevole è certamente l'amore del coniuge. Ed Anna non ne è certo priva, poiché Elkana la ama e di un amore che, le parole rivolte alla moglie, lascia intravedere grande tenerezza: «Anna, perché piangi? Perché non mangi? Perché è triste il tuo cuore? Non sono forse io per te meglio di dieci figli?» (1Sam 1,8). L’amore coniugale, per quando grande sia, non colma la ferita della mancanza del figlio. Di fronte alla sterilità inspiegabile il capro espiatorio diviene Dio; … lo si accusa! … Era infatti opinione comune ritenere che il Signore avesse reso sterile il grembo (cf. 1Sam 1,6). Tutt’ora si cerca di attribuire a Dio l'origine dei mali che sfuggono alle spiegazioni umane. Anna però non ha puntato il dito in segno d'accusa, ma con fiducia si è rivolta a Dio, sapendo che è la sorgente della vita.   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

c) La scelta del numero dei figli

  

   La famiglia di Davide ci viene presentata per la prima volta nel racconto della consacrazione del fanciullo come re. Il Signore si è scelto un re tra i figli di Iesse ed ordina a Samuele di andarlo ad ungerlo. Iesse presenta i sette figli a Samuele, ma il Signore li scarta tutti e sette. Il profeta chiede se fossero tutti lì i figli, e Iesse: «Rimane ancora il più piccolo che ora sta a pascolare il gregge» (1Sam 16,11). Allora Iesse lo manda a chiamare ed al suo arrivo il Signore dice a Samuele: «Alzati e ungilo: è lui!» (1Sam 16,12). La prima osservazione da fare è sul numero dei figli: otto. Non tutte le famiglie nella Scrittura sono numerose.

   In passato, sposarsi significava mettere su famiglia, e l’augurio che veniva fatto era quello di una famiglia numerosa. Oggi la mentalità è cambiata: si teme di avere un figlio, ma si teme anche di non averne. È nata una mentalità contro la procreazione, contro la vita, oppure si vuole un figlio a tutti i costi. La vita umana, infatti, o viene innaturalmente interrotta (aborto), o viene tecnicamente prodotta (fecondazione assistita). La procreazione è una scelta di grande responsabilità. Spetta alla coppia la scelta di quante vite umane voglio dare al mondo, e dipende unicamente dalla loro responsabilità, non può essere demandato da nessuna legislazione. Lo scorso 12 giugno, in Senato, vi è stato la discussione in merito, e problemi non indifferenti sono sorti. Il Creatore ha fatto bene ogni cosa: i ritmi biologici naturali, l’attrazione fisica e l’amore. Sicché paternità e maternità responsabile significa rispondere coscientemente e liberamente alla vocazione e alla missione che i coniugi ricevono in ordine alla fecondità del loro amore. Il concilio Vaticano II, in proposito, definisce i coniugi «cooperatori dell’amore di Dio Creatore»Gaudium et Spe, 50).

   Poi bisogna tener presente che il Signore ha su ogni uomo un suo progetto di salvezza. Nella famiglia di Iesse Dio ha scelto Davide, il più piccolo, l'ultimo nato, l'ottavo fratello. Il piano di Dio è soggetto a calcoli umani, a limitazioni demografiche. I genitori sono collaboratori di Dio per dare la vita, ma ogni figlio è legato a Dio. Il figlio non e qualcosa di dovuto, ma un dono. Il «dono più grande del matrimonio» e una persona umana e dev’«essere rispettato come persona dal momento del suo concepimento» (CCC 2378).

  Giovanni Paolo II ha riaffermato la necessità di garantire e difendere sempre il diritto dei genitori a stabilire il numero dei figli: «Oggi, il dovere di tutelare la famiglia esige che venga rivolta una particolare attenzione affinché venga assicurata la libertà di decidere responsabilmente, liberi da qualsiasi coercizione sociale o legale, il numero dei figli e l'intervallo tra una nascita e l'altra» [Concetto che già si trova nella Humanae vitae (cf. 10)] e continua «intento dei governi o delle altre agenzie non dovrebbe essere quello di decidere per le coppie ma, piuttosto di creare le condizioni sociali che permettano loro di prendere decisioni corrette»(Giovanni Paolo Il, Lettera al Segretario Generale della Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Sesto

Davide e Betsabea

dall’attrazione fisica all’infedeltà e le sue conseguenze

 

Riflettererò su fenomeni oggi diffusi: l’infedeltà, il concubinaggio e le sue conseguenze. Alcuni titoli di libri e articoli usciti nell’arco di questi ultimi venti anni (impensabili prima) evidenziano le opinioni che circolano, oggi, fra la gente comune: «La fedeltà impossibile», «L’arte di separarsi»(invece dell’arte di amare), «Provando e riprovando», «E vissero separati e contenti» e potremmo continuare. Persino fra i giovani inseriti in gruppi ecclesiali, serpeggia questa mentalità distorta nei confronti del rapporto di coppia. Ho ascoltato giovani fare discorsi di questo genere: «Noi ci amiamo e non ci separeremo mai, perché ci vogliamo bene, ma se un giorno tra noi non ci sarà più amore, perché dovremmo stare insieme?». In ogni storia di coppia viene il giorno in cui, o per l’uno o per l’altro, si affaccia una possibile alternativa; a volte questa non è neanche cercata. Probabilmente anche a causa della routine, nel rapporto non vi è più l’amore iniziale, e quindi l’idea, il fascino di un «amore nuovo» a prezzo del tradimento prende il sopravento.

La passione adulterina prende il sopravento là dove il fuoco dell’amore matrimoniale non è più alimentato. Umilmente do un consiglio per alimentare questo fuoco: ogni giorno deve essere sempre nuovo nell’amore, e l’amore è fatta di gesti concreti. Solo così, credo, il rischio del tradimento può essere annullato. Ultimamente, una ragazza venticinquenne (non sposata), conosciuta per caso, dopo aver parlato del più e del meno, quando ha saputo ch’ero uno studioso di teologia, ha detto che voleva rivelarmi una cosa molto personale, sulla quale certamente non sarei stato d’accordo. Mi ha confidato così che lei da due anni ha una relazione con un uomo sposato, più grande e sentiva dentro di sé che non era una cosa buona, ma poiché lo vuole bene, quel rapporto continua. Confesso che sono rimasto sbalordito, poiché la ragazza ha tutti i numeri per trovare un ragazzo e vivere felicemente.

In 2 Samuele vi è descritto una situazione d’infedeltà (adulterio, concubinaggio, matrimonio tra consanguinei). Il protagonista non è uno qualsiasi, ma il gran re Davide con la sua Famiglia. Cercherò di rifletterci insieme a voi, cercando di comprendere il messaggio che può servirci. L’autore sacro afferma: «Un tardo pomeriggio Davide, alzatosi dal letto, si mise a passeggiare sulla terrazza della reggia. Dall`alto di quella terrazza egli vide una donna che faceva il bagno: la donna era molto bella d’aspetto. Davide mandò ad informarsi chi fosse la donna. Gli fu detto: «Ĕ Betsabea, figlia di Eliàm, moglie di Uria l`Hittita». Allora Davide mandò messaggeri a prenderla. Essa andò da lui ed egli giacque con lei che si era appena purificata. Poi essa tornò a casa (Cf. 2Sam 11,2-4). In primo luogo vorrei far notare una cosa circa l’attrazione fisica, poiché ha un ruolo importante in un rapporto di coppia. Si sa che vi sono due forme di bellezza: una oggettiva, l’altra soggettiva. La prima è la bellezza corporea, che corrisponde ai canoni di bello d’ogni cultura; per noi occidentali sono i parametri della cultura greco-romana. La bellezza soggettiva, invece, è un bello personale, generato dalla percezione dell’armonia tra il mondo interiore e corporeo della persona che attrae, … per cui anche una persona oggettivamente brutta diventa bella agli occhi dell’altro. Occorre però notare che non si perde il senso del bello oggettivo dopo il matrimonio. Resta intatta la capacità di valutare il bello oggettivo (per saperne di più cfr. Bardelli R., La verità dell’amore. Strutture di base per il fidanzamento, 35-38).

Davide, un pastore divenuto re d’Israele, viene presentato come un grande eroe, un guerriero valoroso, un re saggio e potente. Ha tutto quello che un uomo può desiderare: potere, gloria e onore (è un re amato del suo popolo), cultura unita a sentimento religioso (è autore di molti Salmi), successo in amore (ha più mogli, oltre alle concubine). Davide ha come sua sposa Mikal, figlia di Saul (1Sam 18); poi sposa Abigail e Achinoam, le quali «furono tutte e due sue mogli» (1Sam 25,43); dopo il suo arrivo da Ebrom a Gerusalemme «prese ancora concubine e moglie di Gerusalemme» (2Sam 5,13). Ci rendiamo conto che l’identità della coppia come monogamica è ancora lontana; si vive in un harem. Nonostante il re avesse un nutrito harem, rimane colpito da Betsabea, che scorse un pomeriggio mentre faceva il bagno, e della quale si invaghì, tanto che mandò dei messaggeri a prenderla. Betsabea, a sua volta, non rimane indifferente alle attenzioni del re, e restò incinta. Davide lo seppe, e d’ora in poi cercherà degli stratagemmi per risolvere la questione. Mandò a chiamare dal campo di battaglia Uria, invitandolo a fermarsi a casa con la moglie, ma l’Hittita rifiutò; Davide allora ordinò di rimandarlo in battaglia e stavolta di porlo in prima linea, in modo che, fosse colpito a morte. Dopo mandò a prelevare Betsabea e la condusse in casa sua, facendola sua moglie (Cf. 2Sam 11,1-17). Si fa di tutto, talvolta fino ad uccidere, per raggiungere i nostri scopi e i nostri progetti, anche se non sono conformi alla volontà di Dio, … e poi ne paghiamo le conseguenze.

 

La conseguenza del gesto di Davide ricadrà su lui sé stesso e si riscuoterà sull’intera sua famiglia.

Un solo esempio: basta ricordare l’incesto fra Ammon, figlio di Davide (cf. 2Sam 13) e Tamar, sorella d’Assalone e sorellastra d’Amonn. Questi viene preso dalla passione nei riguardi di Tamar, passione così forte da farlo cadere malato. Un amico, Ionadab, vedendolo diventare sempre più magro gli disse: «Perché, figlio del re, tu diventi sempre più magro di giorno in giorno? Non me lo vuoi dire?». Amnòn gli rispose: «Sono innamorato di Tamàr, sorella di mio fratello Assalonne». Ionadab gli disse: «Mettiti a letto e fingiti malato; quando tuo padre verrà a vederti gli dirai: “Permetti che mia sorella Tamàr venga a darmi da mangiare e a preparare la vivanda sotto i miei occhi, così che io veda; allora prenderò il cibo dalle sue mani”» (13, 4-5). Il re Davide invitò Taman da Ammon: Il quale «l’afferrò e le disse: “Vieni, unisciti a me, sorella mia”» (13, 11b). Lei rispose di no (13, 12-13) Amon, nonostante avesse potuto sposarla con il consenso del re, non la ascoltò e «fu più forte di lei e la violentò unendosi a lei» (13,14). Ammon poi provò verso di lei un profondo odio e la cacciò di casa, ... facendo così un torto maggiore della violenza. Davide lo venne a sapere e s’irrito, ma non volle urtare il figlio Ammon, suo primogenito, che amava tanto. Assalonne, invece, covò nel suo cuore un forte odio verso Ammon.

Ogni nostro atto ha un ripercussione anche sugli altri; questo dovrebbe essere motivo di discerne meglio su quello che facciamo, poiché non esiste un peccato puramente individuale: il peccato ha sempre un risvolto comunitario. Nel Talmud ebraico si legge un apologo che illustra bene la solidarietà che c’è nel peccato e il danno che ogni peccato, anche personale, reca agli altri: «Alcune persone - si legge - si trovavano a bordo di un barca. Una di esse prese un trapano e cominciò a fare un buco sotto di sé. Gli altri passeggeri, vedendo, gli dissero: “Che fai?” Egli rispose: “Che importa a voi? Non sto forse facendo il buco sotto il mio sedile? Ma essi replicarono: Si, ma l’acqua entrerà e ci annegherà tutti!”».

Fortunatamente c’è sempre la passibilità di rialzarci. Sta a cercare e trovare la forza ed il coraggio di farlo, così come fece Davide dopo l’appello di Natan (2Sam 12). Anche nella nostra vita Dio manda un Natan, ascoltiamolo e facciamo nostre le parole del re penitente «Ho peccato contro il Signore!».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Settimo

 Zaccaria ed Elisabetta

 

Luca apre il suo vangelo proprio con la storia di una famiglia: “Al tempo di Erode c’era un sacerdote chiamato Zaccaria; aveva in moglie una discendente di Aronne chiamata Elisabetta. Erano giusti davanti a Dio, osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni (cf. 1,5-7).

I due nomi rivestono un particolare significato: Zaccaria, significa “Dio si ricorda”; Elisabetta, “Dio ha giurato”. I due sono descritti come giusti davanti a Dio, cioè persone di fede e di preghiera. Lui è sacerdote, lei è discendente di Aronne. Entrambi innestati nella fede d’Israele, forse da tempo pregavano per avere un figlio! Come per Élkana ed Anna Dio interviene, mentre Zaccaria offre nel tempio l’incenso (simbolo della preghiera incessante), tramite l’angelo Gabriele, promettendogli un figlio: «Non temere! La tua preghiera è stata esaudita, e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio che chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita; … sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto» (cf. 13-17).

In primo luogo notiamo che Dio ascolta sempre la preghiera dei giusti: potremmo affermare che il figlio è frutto della loro preghiera. Ĕ bello notare, poi, come Dio, quando dona, lo fa sovrabbondando ed andando al di là dei nostri schemi e delle nostre aspettative. Ella era sterile ed  inoltre i due erano avanti negli anni, ma Dio sconvolge la natura: “Nulla è impossibile a Dio!” (37). Nel dono del bambino è manifestata la benignità, l’amore di Dio verso i due giusti: Giovanni sarà il precursore del Messia. Notiamo, nella Bibbia, che i bimbi nati da donne sterili assumono un ruolo fondamentale nella storia della salvezza, sono toccati dalla grazia divina. Questo capita quando i coniugi si relazionano con Dio e vivono di questa relazione. Giovanni avrà un compito importantissimo: preparare le strade al Signore, come profeterà il padre (cf. 1, 6). Dio stupisce proponendo cose impossibili. Zaccaria rimane frastornato e chiede «da che posso conoscere questo?» (18). Lo stesso episodio lo troviamo nell’A.T.: Gabriele appare in Dn 9,20-21 al momento di una preghiera liturgica. Un confronto delle due apparizioni (l’angelo Gabriele è nominato solo nel libro di Daniele e in Luca) mostra delle indubbie rassomiglianze (in entrambi i casi chi ha avuto la visione resta muto) (cf. Dn 10,7-15).

Zaccaria, sacerdote, pecca di sfiducia, poiché la domanda rivolta da lui stesso all’angelo rivela una mancanza di fede, come espressamente detto più avanti «sarai muto, perché non hai creduto alle mie parole» (20). Credere non è un’impresa facile, vuol dire andare al di là del visibile. Secondo una “suggestiva etimologia medioevale significherebbe «cor dare», dare il cuore, rimetterlo incondizionatamente nelle mani di un Altro” (Forte B., Piccola introduzione alla fede, Paoline, Milano 1992,16). «Credere significa stare sull’orlo dell’abisso oscuro, e udire una Voce che grida: Gettati, ti prenderò fra le mie braccia!» (Kierkegaard).

Elisabetta riconosce la vita ch’è in lei, come il dono di Dio: “dopo quei giorni concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: «Ecco che cosa ha fatto per me il Signore…»” (cf. 24s). Dal grembo sterile nasce la vita! Uno dei tanti paradossi di Dio.

Quella di percepire la vita è una esperienza formidabile che solo le donne conoscono; in un attimo scoprono che dentro loro stesse vi è Qualcuno. Vorrei riportare l’inizio del libro-romanzo, lettera ad un bambino mai nato di Oriana Fallaci, ove la protagonista si accorge che in lei vi è una vita nuova: “… Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi…” (Cap. 1).

Contrariamente alla protagonista del romanzo citato che afferma: “non credo in Dio”, Elisabetta di fronte a questa meravigliosa scoperta rimane stupefatta, ha gratitudine e senso di riconoscenza: «Ecco che cosa ha fatto per me il Signore» (25). Ella, come Zaccaria, aderisce al progetto misterioso di Dio che ha sul bambino. Dal grembo sterile viene la vita, ed è motivo di testimonianza: “I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei (58).

Potrei portare numerose testimonianze di coppie della mia comunità, che non riuscivano ad avere bambini. Dopo anni di abbandono nella preghiere il Signore li ha benedetti e tutta la comunità ha gioito per la grazia loro concessa; Dio interviene sempre nella storia concreta di chi ha fiducia di Lui, andando al di là delle sue stesse attese. 

“Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio” (57). Parenti e vicini propongono di chiamarlo con il nome del padre, ma Ella intervenne: «No, si chiamerà Giovanni (che significa “JHWH è benigno!)» (cf. 60), proprio come l’angelo aveva riferito al marito (cf. 13). Nella Bibbia è il padre a dichiarare il nome del figlio. Allora chiesero a Zaccaria la sua opinione, Egli chiese una tavoletta, e scrisse: «Giovanni è il suo nome». In quel medesimo istante gli si aprì la bocca, gli si sciolse la lingua e parlava benedicendo Dio (cf. 63s). Così si  unì alla lode ed alla riconoscenza della moglie (cf. 67. 76-79).

Non perdiamo mai la fiducia perché Dio, in modo sorprendente, può entrare nella nostra storia e trasformarla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Ottavo

 Maria e Giuseppe

 

Ĕ Natale. Ritornano alla nostra mente i fatti e le circostanze che fanno da cornice alla nascita del Figlio di Dio, e il nostro sguardo si sofferma sulla grotta di Betlemme e sul focolare di Nazareth. Maria, Giuseppe, il Bambino, sono ora più che mai al centro del nostro cuore.

Cosa c’insegna la vita semplice e meravigliosa della Sacra Famiglia? Molte considerazioni possiamo fare al riguardo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a) Una Storia intessuta di silenzi e d’intesa

Se ci facciamo caso, nessun evangelista ci riporta dialoghi fra Maria e Giuseppe, … e se riportati sono pochissimi. Da una lettura attenta dei Vangeli dell’infanzia si evidenzia l’intesa profonda fra i due.

L’intesa è alla basa della vita di coppia. Spesso ascolto amici lamentarsi perché è venuta a mancare l’intesa con il coniuge. Si sente dire: «Prima bastava uno sguardo e mi capiva, ora non riusciamo proprio ad intenderci». Oppure: «Non so cosa sia capitato, io e mia/o marito/moglie parliamo due linguaggi diversi» ... Proprio così; perché ci sia intesa fra i coniugi è necessario che abbiano linguaggi, gesti, parole comuni. Molti litigi, credo, sorgono perché ognuno vuole imporre all’altro il proprio linguaggio, il proprio modo di vedere, di pensare, negando così l'alterità.

Nella coppia subentra il silenzio (mutismo). A volta dura per diversi giorni, settimane, contrariamente a ciò che afferma la parola di Dio (cf. Ef 4,26). Vorrei fare una precisazione, perché non sempre il silenzio nella coppia indica la fine: ci sono due forme di silenzio, «quello che nasce dalla povertà dell’amore, e quello che nasce dalla sua pienezza. C’è un primo momento dell’amore in cui le parole tacciono, perché solo il silenzio riesce a trasmettere la sua verità. Il silenzio che noi intendiamo è proprio questa incapacità di esprimere, con gesti e parole adeguate, tutto il nostro amore» (cf. Pisano F., Luoghi e forme della preghiera, RnS, Roma 1996,49). C’è un secondo momento, poi, che ha visto coinvolti proprio Maria e Giuseppe, e la loro capacità di intendersi senza parlare. Il loro silenzio non è vuoto, ma carico d’amore.

L’insegnamento da trarre da questo primo punto, per la coppia di oggi, potrebbe essere l’invito a sforzarsi per trovare un linguaggio che renda la comunicazione più efficace ed il rapporto più stabile. Ci deve essere uno sforzo per superare le proprie vedute, affinché ci possa essere una profonda comunione d’intenti. A volte pienezza di parole non corrisponde necessariamente a pienezza di comunicazione. Uno sguardo, una carezza ritrovata, nel silenzio, possono valer molto di più di tante parole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b) Dio “entra” nella loro storia e si “fa” storia

 ... in Maria, Vergine e Madre

Maria, cosi come presentata dai vangeli canonici,  ha i lineamenti di una semplice donna ebrea. Il suo stesso nome è comunissimo tra le donne del suo tempo: celebre la sorella di Mosè si chiamava infatti così. In egiziano può significare sia «bella» (mara’), sia «amata» (meri); mentre in ebraico equivarrebbe meglio ad «esaltata», «glorificata». Vi sono altre sei donne della prima comunità cristiana che portavano questo nome: Maria di Magdala, Maria, sorella di Lazzaro, la madre di Giacomo, Maria (testimone anch’essa della crocifissione), la Madre di Giovanni Malco e una fedele salutata da Paolo nella lettera ai Romani (16,6). Maria dunque una donna come tante.

La femminilità di Maria, però, nel progetto di Dio, le permette di diventare Madre del Figlio, Sposa dello Spirito e la vergine, disposta al dono oblativo di se per l’umanità.

Luca descrive questo progetto di Dio su Maria (cap. 1). Maria dovrà essere La Vergine: «Eccomi, sono la serva del Signore» (38). La verginità di Maria è questa sua totale povertà davanti al mistero di Dio. Maria è colei che ha saputo credere alla parola dell’angelo. Curioso è il fatto che nel medioevo la scena dell’Annunciazione era rappresentata da un raggio usciva dalle labbra dell’angelo e andava a posarsi sull’orecchio di Maria, a dimostrazione della sua grande fede, pere mezzo della quale la parola è divenuta in Lei carne. Maria dovrà essere la Sposa «lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra» (35), ed Ella docilmente si lascerà avvolgere dello Spirito. Maria dovrà infine essere la Madre: «concepirai e partorirai un figlio» (31). Così la saluta Elisabetta: «a  che debbo che la madre del mio Signore venga a me?» (43). La maternità di Maria consiste in questo farsi dono per gli altri. Si fida di Dio, si fida di questo messaggio inaudito: sarà la Madre del Figlio di Dio. Il suo grembo finito accoglierà l’infinito, la creatura farà spazio al Creatore. Con l’Incarnazione Dio entra nella storia di una creatura cambiando così la storia dell’umanità. Scriveva il filosofo Soeren  Kierkegaard, a proposito dell’Incarnazione: «I due mondi da separati il divino e l’umano, sono entrati in collisione in Cristo. Una collisione non per un’esplosione ma per abbraccio».

Maria ormai porta in sé il Verbo della Vita. C’è un bellissimo proverbio dei Berberi, popolo discendente dagli Egizi, che afferma «Se una madre ha nel ventre il figlio, il suo corpo è come una tenda quando nel deserto soffia il ghibli, è come l’oasi per l’assetato; è come un tempio per chi prega il Creatore». Maria diviene la tenda ove il Verbo prende dimora, è la nuova tenda dalla riunione ove Dio manifesta la Sua Gloria (Kiko).

Maria accetta i progetti di Dio, pur non sapendo ciò che Giuseppe avrebbe fatto.

 

....  In Giuseppe: dal dubbio alla fede.

Anche di Giuseppe Dio entra nella storia. Probabilmente Maria gli rivela di essere in attesa: immaginiamo il cuore di Giuseppe, … la sua donna aspetta senza il suo concorso.

Nel Protovangelo di Giacomo ci viene descritta la scena: «Maria era ormai al sesto mese. Tornato a casa dal lavoro, la vide incinta. Allora si schiaffeggiò la faccia, si gettò a terra su un sacco, pianse amaramente e disse: Come farò a guardare e pregare il Signore per lei? L’ho ricevuta vergine dal tempio del Signore e non l’ho custodita! Chi l’ha insidiata? Chi ha commesso questa disonestà in casa mia contaminandola? Giuseppe si alzò dal sacco, chiamò Maria e le disse: "Prediletta da Dio, perché hai fatto questo e ti sei dimenticata del Signore tuo Dio? Perché hai avvilito l’anima tua, tu che sei stata allevata nel Santo dei Santi e ricevevi il cibo dalla mano di un angelo?" - Maria si mise a piangere amaramente: "Io sono pura, non conosco uomo!" - E Giuseppe: "Da che parte viene, allora, quello che hai nel ventre?" -  Maria rispose: "Quanto è vero, il Dio vivente, quello che è in me, non so donde sia!"».

 Certamente bisogna sapere che questo è un testo apocrifo, non ispirato, ma ho voluto riportarlo per mettere in evidenza il travaglio di Giuseppe.

Probabilmente influenzato da questo brano, Efrem così scrive a proposito: «Maria cercava di convincere Giuseppe che il suo concepimento era opera dello Spirito, ma egli non le credette, perché era cosa insolita»  (in Diatessaron, 2, 2s.).

L’evento è molto grave. Secondo l’antica legge avrebbe dovuto farla lapidare (Dt 22,20-21), ma c’era la possibilità di applicare la legge con minore rigidità, consentendo l’interruzione del fidanzamento alla presenza di due testimoni, senza denuncia e senza processo. Così l’infamia non sarebbe diventata pubblica; rimandando dentro le mura della casa paterna, e salvando così la vita. Giuseppe sceglie con sofferenza questa strada. Curioso ricordare che a Murabba’at, nei pressi del Mar Morto, è venuto alla luce un atto di ripudio del 111 d.C., scritto in aramaico e riguardante due sposi che si chiamavano Maria e Giuseppe.

Giuseppe doveva ripudiare Maria poiché la legge l’obbligava a farlo; essendo un uomo giusto, cioè obbediente alla legge dei padri, intraprese quindi, questa strada amara, ma nella forma più delicata e più attenta per Maria. Matteo mette in risalto i turbamenti e annota che Egli: «decise di licenziarla in segreto» (1,19). Ecco che nella sua vita interviene un messaggero di Dio: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (1,20s).

Notiamo qui che l’angelo dice tu lo chiamerai Gesù. Come abbiamo visto con Zaccaria, il conferire il nome spettava al padre. Giuseppe, uomo giusto, è quindi identificato come vero padre di Gesù ed accetta il progetto divino su di sé.

Dopo che entrambi hanno fatto spazio a Dio nella loro vita, accendo i suoi sovversivi piani, sono in grado di accogliersi l’un l’altro. I loro progetti precedenti si sono ritrovati nella scelta di Dio.

Maria e Giuseppe hanno vissuto l’amore fino in fondo, sono stati capaci di lasciarsi contagiare da Dio per un Amore più grande: il bene dell’umanità. Così sarà di ogni famiglia che si aprirà all’iniziativa di Dio e che da essa si lascerà coinvolgere e guidare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Capitolo Nono

Di fronte alla seduzione amorosa…

 due modi di agire

 

Si dice che “l’uomo è cacciatore” per giustificare ogni sua scappatella, mentre la donna è condannata. Vorrei riflettere su due episodi accomunati dall’arte della seduzione: Giuseppe e la seduttrice (Gn 39) e Sansone e Dalila (Gdc 16), poiché abbiamo due reazioni diverse.

 

a) Giuseppe e la seduttrice: la fedeltà ad ogni costo

 “Giuseppe era bello di forma e avvenente d’aspetto” (5); la bellezza è uno degli elementi costitutivi nel rapporto interpersonale: la prima cosa che si percepisce dell’altro. Il concetto di bello è presente in tutti ed il tempo non lo logora. Per Giuseppe giunge il momento della tentazione: “la moglie di Potifar gettò gli occhi su di lui e gli disse: «Unisciti a me!» (7). Un proposta indecente diremmo! Ma quanti desiderano incontrare una donna del genere sulla loro strada, sul posto di lavoro; una che eviti le tecniche d’approccio e va subito al sodo! Qualcuno dirà: “Si verifica sempre ad altri mai a me!” - Giuseppe cosa fece? Contrariamente a quanto possiamo immaginare o avremmo fatto noi: «rifiutò» (8). Per molti, è incapace d’approfittare del momento, forse gay; altri sarebbero capaci persino di chiamare in causa Dio, affermando “Dio dà il pane a chi non ha i denti”. Giuseppe pure lo chiamò in causa, ma in diverso modo. Disse: «Vedi, il mio signore non mi domanda conto di quanto è nella sua casa. Non mi ha proibito nulla, se non te, perché sua moglie. Come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?» (8-9). 

Per Giuseppe è importante la fedeltà a Dio ed al padrone. L’agiografo fa intendere che altre volte ella ha tentato di sedurlo: “benché ogni giorno essa ne parlasse a Giuseppe, egli non acconsentì di unirsi a lei” (10). Poi “un giorno … mentre non c`era nessuno. Lei lo afferrò per la veste ed Egli le lasciò tra le mani la veste e fuggì” (11s). Giuseppe avrebbe potuto usare a sua giustificazione le avance della donna; in fondo non era colpa sua. Invece, rifiutò! È fedele al suo padrone che ha creduto in lui ed a Dio che lo assiste. C’insegna che per superare le tentazione bisogna fuggire le occasioni; egli fuggì ed uscì.

Per la sua onestà, e per non aver esaudito i capricci della padrona, pagò duramente. “Vedendo ch’egli le aveva lasciato tra le mani la veste ed era fuggito, chiamò i domestici e disse: «Guardate, mi si è accostato per unirsi a me. Ho gridato e ha lasciato la veste ed è fuggito». Potifar, udito la moglie … si accese d`ira. Prese Giuseppe e lo mise nella prigione” (cf. 13-16.20). Concluderei questa prima parte dicendo che la fedeltà, in ogni specie di relazione affettiva è possibile. Anzi, deve essere salvaguardata… perfino con il rischio di pagare ingiustamente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b) Sansone e Dalila: la seduzione mezzo per ingannare

Già il significato dei nomi è curioso. Sansone, come sembra alludere in ebraico, è focoso come il sole e bello come un dio. Dalila, in arabo, lascia intendere comportarsi come una guida. La vicenda: Sansone s’innamora di Dalila. I Filistei desideravano catturarlo, ma la sua forza lo impediva. Dissero a Dalila: «Seducilo e vedi da dove proviene la sua forza e come potremmo prevalere per legarlo, ti daremo ciascuno mille e cento sicli d`argento» (5). Ella cominciò a usare l’arte della seduzione per scoprire da dove venisse quella forza, per poi riferirlo. L’amore spasmodico per il denaro può minare una relazione affettiva; per denaro Lei usò l’affettività per ingannarlo: «Spiegami da dove proviene la tua forza e in che modo ti si potrebbe legare?» (6). L’altro, incerto della sincerità, mentì. Non è un buon inizio per avviare una vita a due. Si parte male.

La seduzione in sé non è cattiva; immaginiamo quella che ci viene descritta da Geremia “mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre” (29,7). Ma vi può essere anche un uso cattivo; essa può indicare il possesso sull’altro. Oggi si ha una visione distorta della seduzione, anche a causa dei mass media che la presentano come mezzo per possedere l’altro. Le telenovelas riflettono questa mentalità. Potremmo parafrasare l’assioma cartesiano in “Seduco, dunque sono”. Persino nella sfera affettiva prevale la logica del consumo, “più seduco, più sono”.

Sansone sviandola disse: «Se mi si legasse con sette corde d`arco fresche, diventerei debole e sarei come un uomo qualunque». I Filistei le portarono sette corde, non ancora secche, ed essa lo legò. Ma egli spezzò le corde come si spezza un fil di stoppa; così il segreto della sua forza non fu conosciuto” (7-9). Per tre volte Dalila cercò di scoprire il segreto e per tre volte fu ingannata. Ferita nel suo orgoglio femminile, si riscattò sul piano affettivo, ricattando l’altrui affettività. «Come puoi dirmi: Ti amo…? tre volte ti sei burlato di me» (15). Ora gioca la sua carta vincente; l’arte erotica. Sansone, forte com’era, diventò debole come un bambino e si “addormentò sulle sue ginocchia” (19). Scopo raggiunto! Lo presero, lo legarono; dovette girare la macina nella prigione (cf. 19-21).

Sansone al contrario di Giuseppe, è caduto nella trappola della seduzione. Non si vuol dire che bisogna diffidare dell’affettività degli altri, ma i due episodi ci insegnano ad essere vigili poiché, dietro a manifestazioni d’affetto, può celarsi una perfida logica.