PREMESSA
Pur non essendo mio padre un uomo famoso e pur non avendo egli compiuto imprese eccezionali, tuttavia io sento, e sempre di più col tempo che passa, di averlo amato e di amarne la memoria.
E sento, altresì, il desiderio, di conoscerlo più a fondo, sempre più a fondo, perché la sua vita mi pare sia stata onestamente e pienamente vissuta. Egli è stato un padre di famiglia esemplare, un lavoratore indefesso, un uomo sempre coerente con le sue idee e coi suoi principi ed ha lasciato di sé, in chiunque lo abbia conosciuto, un ricordo eccellente, fatto di stima e di affetto.
Ma come fare per conoscerlo più a fondo ? Quando Guido era vivo ne parlavamo spesso e sempre ricavavo nuovi particolari della sua vita e nuovi aspetti del suo carattere. Guido, infatti, essendo nato dieci anni prima di me, ha vissuto con lui dieci anni prima che io nascessi. E non solo: dopo la morte della mamma il babbo andò a vivere con lui per undici anni. Solo pochi mesi prima della sua morte egli venne a vivere con me. Guido, quindi, ha vissuto col babbo oltre venti anni più di me.
Ora che Guido non c’è più non ho più nessuno che possa parlarmi di lui, per cui posso solo ricordare tutto quello che di lui so. Credo, comunque, di sapere diverse cose, apprese dai racconti della sua vita che egli narrava volentieri e abbondantemente. E i suoi racconti erano sempre ricchi di particolari che li rendevano vivi e veri. Ma saranno soprattutto le sue memorie, scritte dopo la morte della mamma con il suo stile scorrevole e discorsivo, nelle quali racconta la sua vita, specie la sua infanzia, con grande abbondanza di particolari anche minuti, e, soprattutto, con grande sincerità. Sarà a questo materiale che io attingerò a piene mani. E, con tutto ciò, proverò a raccontare la sua vita
NASCE GESU' BAMBINO SENZA IL BUE E L'ASINELLO
Era freddo. La neve cadeva a larghi fiocchi e aveva già alzato una trentina di centimetri. Era appena trascorso il giorno dell'Epifania e laggiù, in mezzo ai campi, la Casetta, povera casa di campagna, era gelida. La notte era già inoltrata quando Isolina avvertì le prime doglie.
Isolina aveva 39 anni e faceva l'insegnante elementare. Per la verità bisognerebbe dire "faceva", perché da oltre un anno aveva dovuto lasciare l'insegnamento per le malferme condizioni di salute.
La famiglia di Pellegrinetti Carlo, nato a Camporgiano il 1.7.1861 , era composta dalla moglie, Giannotti Isolina, nata a Camporgiano nel 1862 , dalle due sorelle nubili: Lucrezia, nata a Camporgiano il 17.2.1849 , e Nunziata, nata a Camporgiano il 15.8.1851 , e dai sette figli: Beniamino, nato a Vagli Sotto il 24.12.1885 , Giorgio, nato a Camporgiano il 24.10.1887 , Corrado, nato a Capanne di Careggine il 8.11.1889, Guido, nato a Capanne di Careggine il 8.1.1892, Nello, nato a capanne di Careggine il 27.4.1894, Azelio, nato a Camporgiano il 10.11.1896, Settimo, nato a Camporgiano il 5.6.1899 .
Carlo, coadiuvato dai figli più grandi e dalle sorelle, coltivava il podere di sua proprietà mentre la moglie Isolina esercitava la professione di maestra elementare.La casa dove abitavano era detta “la Casetta”, denominazione che è rimasta tuttora, anche se la vecchia casa fu distrutta dal terremoto del 1920 costringendo Carlo a edificarne una nuova, che è quella ora esistente. La casa era posta nel podere dei Pellegrinetti, nelle campagne di Camporgiano, a circa un chilometro dall’abitato, insieme a poche altre case coloniche situate nella stessa zona. La vita della famiglia, si svolgeva pressochè tutta nella campagna. I figli più grandi erano cacciatori appassionati e battevano le campagne circostanti alla costante ricerca di selvaggina. Possedevano dei vecchi fucili “a bacchetta”, cioè ad avancarica ma non avevano permesso di caccia. Erano, cioè, dei bracconieri. Per questo erano spesso inseguiti dai carabinieri che, però, non sono mai riusciti a prenderli sul fatto. Racconta, Cesare, di quella volta che, lui bambino, mentre si trovava ancora a letto (era di prima mattina) vide irrompere in camera due dei suoi fratelli più grandi i quali, cacciati gli scarponi tutti infangati sotto alla biancheria di bucato che si trovava in una cesta, si spogliarono di fretta e si cacciarono sotto le coperte. Un attimo dopo arrivarono in casa i carabinieri che li avevano inseguiti e che pensavano di averli, ormai, nelle mani. Ma vedendo che erano tranquillamente a letto pensarono di averli confusi con altre persone e se ne andarono delusi.
Alla casa badavano soprattutto le due sorelle nubili di Carlo mentre la moglie Isolina era impegnata nell’insegnamento in paesi spesso lontani, nei quali era costretta a risiedere. Non so esattamente cosa accadesse in quei frangenti, ma so che i figli più piccoli stavano con la madre e col padre (che generalmente seguiva la moglie), mentre i figli più grandi, probabilmente, rimanevano alla Casetta per accudire ai campi insieme alle zie. Alcuni figli sono nati nel paese dove Isolina faceva scuola. All’inizio del 1900, tuttavia, Isolina, come ho detto, aveva lasciato l’insegnamento per ragioni di salute e abitava alla Casetta. Ed è qui che si accingeva a mettere al mondo la sua ottava creatura.
Subito il marito Carlo corse a chiamare la Palmira, l'ostetrica comunale che, faticosamente e con l'aiuto di Carlo, raggiunse la Casetta malgrado la neve alta.
Il parto sarebbe stato più o meno normale per una donna in buone condizioni di salute. Ma Isolina non lo era, per cui soffrì e faticò molto e alla fine, quando il bimbo fu nato, era stremata.
L'ostetrica, che allora si chiamava levatrice, si accinse a fare al nascituro tutte quelle operazioni che si fanno ai neonati, ma si accorse che la temperatura era troppo bassa per un neonato nudo. Il fuoco, non più alimentato, si era spento, ma le pietre del camino erano ancora calde. Allora Palmira fece spazzare il camino, vi fece porre sopra un panno pulito e su quello depose il bambino. Qui lo lavò, gli recise il cordone ombelicale e glielo legò. Poi pose il bambino nel letto con la madre, affinché lo riscaldasse col suo corpo. Si avvicinava l'alba del 7 gennaio 1901.
Subito sorse il problema dell'allattamento del piccolo, perché la madre non era in grado di farlo. Ma la solerte levatrice aveva pensato anche a questo. C'era, in un piccola località chiamata "La Ferriera" una povera donna che aveva da poco partorito ma aveva perso il suo bambino. Essa fu contattata e accettò di fare da nutrice al piccolo Cesare. Si chiamava Fortunata e venne subito alla Casetta a prendere il bambino. Straziante fu l'addio di Isolina, consapevole, ormai, che non avrebbe più rivisto quel bambino. Volle tenerlo per l'ultima volta abbracciato, col viso vicino al suo. "Povera creatura" disse piangendo "la tua mamma che al suo seno ha allattato tutti i tuoi fratelli non può più farlo con te. Oh, se tu potessi capire quanto soffro nel dovermi separare da te. E non passerà ormai tanto tempo che tu non avrai più la tua mamma". Poi la nutrice andò via col bambino avvolto in una coperta.
Il piccolo neonato, sarà poi battezzato coi nomi di Cesare Ottaviano Augusto. Cesare era il nome del nonno paterno, Ottaviano sottolineava la sua posizione di ottavo figlio e Augusto, forse, era stato aggiunto dalla madre che ammirava il primo imperatore di Roma. Era nato in una casa rustica, povera e fredda, e Cesare, nelle sue memorie scrive: “ Sono nato povero come Gesù Bambino, ma non ho avuto neppure un bue e un asinello che mi riscaldassero col loro fiato”.
In realtà la famiglia di Carlo Pellegrinetti versava in condizioni economiche piuttosto cattive. Eppure in passato la famiglia Pellegrinetti non se la passava male. Cesare, il padre di Carlo, aveva allevato due figli e quattro figlie, due delle quali avevano anche studiato ed erano maestre. Il fatto è che fino alla generazione di nonno Cesare era stata conservata l’unità del podere, (normalmente era uso che le femmine ricevevano una dote se si sposavano, altrimenti continuavano a vivere in casa e, dei maschi, solo il primogenito si sposava mentre gli altri, se ce n’erano, continuavano a vivere in casa rinunciando a sposarsi) mentre in questa generazione quell’unità non si era mantenuta. Infatti Jacopo, il fratello di Carlo, aveva voluto sposarsi, aveva voluto la sua parte di proprietà e, quindi, la parte di Carlo si era sensibilmente ridotta. Egli, poi, seguiva la moglie nei paesi dove essa insegnava per badare ai figli piccoli e, quindi, probabilmente, non dedicava sufficienti cure alla terra. Così la coltivava, sì, ma ne ricavava appena di che vivere. La sua famiglia, infatti, era pesantissima. Oltre a lui e a sua moglie c'erano, come già detto, i sette figli (ora diventati otto) e due sue sorelle nubili. In tutto dodici persone. Troppe per il poderetto ora di poco più di tre ettari. Finché Isolina aveva potuto insegnare e percepire uno stipendio le cose erano andate piuttosto bene. Ma ora che lo stipendio era venuto a mancare la famiglia era precipitata in una condizione di vera e propria miseria. Era intervenuta anche Cleta, una sorella di Carlo, insegnante sposata a San Romano, la quale aveva preso con sé, temporaneamente, il piccolo Settimo, di appena due anni e Giorgio, più grandicello, che aiutava lo zio nel suo lavoro di conduttore di muli. Ma le condizioni restavano precarie.
Ora, però, la cosa più importante era la salute di Isolina. Era necessario che si rimettesse rapidamente dal trauma del parto, per poter accudire i suoi figli, specie l'ultimo, appena nato. Ma i giorni passavano lenti e Isolina era sempre più prostrata. Il dottore fece del suo meglio, ma a nulla valsero le cure. Alle ore 17,20 del 7 febbraio, 30 giorni dopo la nascita di Cesare, Isolina concluse la sua esistenza, angosciata per la sorte del suo ultimo figlio che sarebbe rimasto senza la mamma. Fu un grave lutto che colpì pesantemente tutta la famiglia. Corrado, che in quel momento stava spaccando della legna, alla notizia della morte della madre aveva gettato via la scure e si era allontanato come uno che giudica, ormai, ogni cosa inutile.
Eravamo nel pieno del grande inverno. Il giorno del funerale fu necessario spalare lungo tutta la strada la neve alta più di mezzo metro, per consentire agli uomini delle Compagnie di Misericordia di venire a prendere la bara per trasportarla a spalla fino al cimitero.
IL PRIMO ANNO
Fortunata, la nutrice, viveva modestamente in una piccola casa di pietra. Il marito lavorava come spaccapietre lungo la strada che da Poggio arriva a "La Ferriera" e, poi, prosegue per Vagli, e col suo modesto salario scampavano la vita. Ma essa aveva un gran cuore. Nutrì col suo seno la piccola creatura che le era stata affidata e lo amò come e più che se fosse stato suo figlio.
Cesare, a sua volta, si affezionò moltissimo a questa buona donna che gli aveva fatto da mamma.
E, amato e ben nutrito, crebbe sano e robusto.
A quel tempo l’allattamento al seno durava almeno un anno, dopo di che il bambino doveva essere “svezzato”. Si trattava, cioè di sostituire il latte materno con un’altra alimentazione.
Trascorso un anno, perciò, il piccolo Cesare dovette essere riconsegnato alla famiglia. Chi si sarebbe occupato di lui ? Il padre Carlo, dopo la morte della moglie, prenderà presto la decisione di emigrare per guadagnare i denari necessari per mantenere la numerosa famiglia. E porterà con se i figli più grandi: Beniamino di 16 anni, Giorgio di 14 e Corrado di 12. In casa, dunque, sarebbero rimaste le due zie Lucrezia di 53 anni e Annunziata di 51 nonché i figli Guido di 9, Nello di 7 e Azelio di 5.
Del piccolo Cesare, quindi, avrebbero dovuto occuparsi, necessariamente, le due anziane zie.
Il giorno stabilito per la riconsegna Fortunata, la nutrice, arrivò alla Casetta accompagnata dal marito portando in braccio il bambino. Egli era tranquillo, in braccio a quella che considerava e amava come la sua mamma, ma si guardava intorno incuriosito e anche un po’ frastornato da quell’ambiente nuovo e, soprattutto, da quelle persone sconosciute. Fortunata, angosciata al pensiero di dover abbandonare quel bambino che amava come un figlio, lo fece addormentare tenendolo in braccio, affinché non la vedesse andar via. Poi lo depose piangendo nella culla.
“Cosa dirai quando ti sveglierai e non mi vedrai ?” diceva piangendo “dirai che la tua mamma ti ha tradito, che ti ha abbandonato in una casa sconosciuta fra persone che tu non conosci “ . Piangeva e si disperava come se fosse la vera mamma “Ma se tu potessi sapere quanto soffre la tua mamma nel lasciarti non lo penseresti certo. Ma quando ti sveglierai, sì, dirati che sei stato tradito da colei che credevi ti volesse bene” Era tanta la pena e la disperazione di quella povera donna che, alla fine, si misero a piangere anche le zie e il marito che, a fatica, riuscì infine a portarla via.
Dopo un po’ di tempo Cesare si svegliò. Smarrito nel trovarsi in luogo sconosciuto, cominciò a chiamare la mamma e a cercarla guardando in qua e in là. E, non trovandola, cominciò a piangere disperatamente. Le zie e i fratelli, tutti intorno a lui, cercavano di calmarlo parlandogli con visi sorridenti. Ma erano visi sconosciuti e, per ciò stesso, minacciosi per il piccolo che gridava terrorizzato. La zia Annunziata, chiamata familiarmente Nonziata, poi abbreviato in No, provò a prenderlo in braccio, ma ciò peggiorò ulteriormente la situazione. Il piccolo Cesare cercava disperatamente di sfuggire all’abbraccio di quella sconosciuta, gridando in maniera impressionante. Tanto che le zie cominciarono a piangere e a raccomandarsi ai santi, non sapendo più cosa fare.
A quel punto fu Beniamino, il fratello più grande, che ebbe un’idea. Si vestì da donna indossando un abito di una zia e cominciò a cantare la nenia che aveva sentito cantare alla nutrice quando lo aveva addormentato. Ad udire quel canto conosciuto il bambino, sempre gridando, si slanciò verso il fratello, rischiando addirittura di sfuggire alla zia e di cadere, si aggrappò a lui e nascose il viso contro il suo petto continuando a singhiozzare. Non era la mamma, ma quella canzone aveva fatto vedere in quella figura estranea qualcosa di familiare. Continuò a lungo a singhiozzare, aggrappato disperatamente al fratello, col viso sempre affondato nel suo petto, quasi a non vedere la realtà paurosa che lo circondava. Infine le grandi emozioni, il dolore, la paura, il pianto disperato finirono per lo spossarlo e cadde in un profondo sonno. Dormì tutta la notte così profondamente che le zie, temendo per lui, per tutta la notte andarono periodicamente sopra la sua culla per assicurarsi che respirasse.
Non meno doloroso fu il distacco per la povera Fortunata. Essa, giunta a casa, continuò a dolersi e a piangere per quella creaturina che aveva perduto. E, quando venne sera, il pensiero che il bambino fosse disperato e piangente per la sua assenza, la indusse a ripercorrere la strada per arrivare di nuovo alla Casetta. Era ormai buio e lei non si fece vedere. Si accostò alla porta per udire se il bambino piangeva. Per fortuna egli stava già dormendo dopo il grande pianto ed essa ne fu consolata. Ma non se ne andò. Accovacciata presso la porta, malgrado il freddo dell’inverno, rimase tutta la notte per assicurarsi che il bambino non si disperasse. Solo al mattino il marito riuscì a portarla a casa.
IL DIFFICILE ADATTAMENTO ALLA NUOVA VITA
Il mattino dopo, al risveglio, si ripeterono le scene di disperazione del giorno avanti. Appena ebbe aperto gli occhi e vide in quale ambiente si trovava, diverso da quello dove aveva vissuto con la sua “mamma”, li richiuse e, affondata la testa nel cuscino, cominciò a piangere, a disperarsi e a chiamare la mamma, rifiutandosi tenacemente di farsi prendere in braccio. Solo dopo molto tempo e molta pazienza la zia No riuscì a calmarlo e a prenderlo in braccio. Con dolcezza tentò, allora, di fargli prendere un po’ di latte. Ma Cesare lo rifiutò. E anche successivi tentativi non ebbero successo. Passò tutto quel giorno, tutta la notte e tutto il giorno successivo senza che il bambino assumesse alcunché. Le zie erano preoccupatissime e continuavano a raccomandarsi al santi del Paradiso. Soltanto il giorno ancora successivo fu possibile cominciare ad alimentarlo. Nei mesi successivi il piccolo deperì moltissimo. Il dolore per la perdita della mamma e il senso di abbandono avevano avuto effetti disastrosi sulla povera creatura. Soltanto molti mesi dopo potè riassumere l’aspetto sano e robusto di prima.
E cominciò la vita alla Casetta. Cesare si stava lentamente adattando al nuovo ambiente ma aveva maturato un carattere sospettoso e triste. Non rideva mai, non voleva aver contatti con nessuno se non con la zia No, che era l’unica da cui accettava di essere nutrito, carezzato, addormentato. Finirà per nutrire, per questa zia, un affetto addirittura morboso. Questa sua scontrosità, per cui i fratelli non potevano neppure avvicinarglisi, li inducevano a scherzare e anche a fargli piccoli dispetti con l’intenzione di trovare un modo per rapportarsi con lui, fece sì che egli vedesse i fratelli come personaggi ostili, aumentando, così, la sua scontrosità. Solo col fratello più grande, Beniamino, e col più piccolo, Settimo, cominciò ad avere qualche rapporto. Ma Beniamino ben presto se ne andrà in Francia col padre. A proposito del suo attaccamento alla zia No vale la pena di raccontare un paio di episodi singolari.
Ecco il primo: Si era nella stagione piovosa e nel prato sotto casa le mucche, pascolando, affondavano le zampe nel terreno molle creando buche profonde anche trenta o quaranta centimetri. Quel giorno Cesare, che doveva avere meno di tre anni, si era avventurato nel prato e accadde che, inavvertitamente, scivolò coi piedi dentro una di queste buche piena d’acqua e non sapeva come uscirne. Così cominciò a piangere per richiamare l’attenzione di qualcuno. L’udì Lucrezia che accorse e lo tolse dalla buca, cercando poi di portarlo a casa per ripulirlo e asciugarlo. Ma il piccolo Cesare continuava a piangere e si divincolava gridando a più non posso: - Voglio la No, voglio la No -. Lucrezia cercava di calmarlo assicurandolo che la No era in casa e lo aspettava. Ma il piccolo non si calmava e continuava a gridare che lui voleva la No. Che era quella che per lui era come la mamma. Giunti a casa Lucrezia lo depose a terra per condurlo dentro per mano. Ma Cesare, appena a terra, sgusciò via dalla mano di Lucrezia e, correndo a precipizio per il prato, andò a rituffarsi nella solita buca continuando a gridare che voleva la No. E la No, pazientemente, dovette abbandonare le sue faccende e andare nel prato a raccoglierlo. E solo quando fu in braccio alla No egli smise di piangere e si lasciò coccolare, felice.
Il secondo fu molto più grave e pericoloso: Bisogna sapere che le due zie Lucrezia e Nunziata allevavano due mucche che fornivano latte in abbondanza, tanto che ogni mattina, piovesse o nevicasse, erano in grado di portarne un buon quantitativo alla latteria di Camporgiano. Il ricavato era un’entrata preziosa per tirare avanti. Esse erano donne molto pie, tanto che ogni mattina, consegnato il latte, andavano in chiesa per ascoltare la Messa. La Messa veniva celebrata all’alba per cui esse si alzavano molto presto, andavano, facevano ciò che dovevano e tornavano in tempo per svegliare e fare alzare i ragazzi più piccoli.
Ora accadde che una volta Cesare si svegliò troppo presto. In casa tutto era silenzio. I suoi fratellini più piccoli dormivano ancora mentre i più grandi erano già usciti, probabilmente per andare a caccia. Egli si alzò dal letto e, così com’era, cioè con la sola camiciola di lana che indossava, scese al piano di sotto per cercare la No. Ma al piano di sotto non c’era nessuno. Il piccolo si sgomentò. Lui aveva bisogno di essere rassicurato dalla presenza della No che non sarebbe stato abbandonato di nuovo. Ma la No non c’era. Dove sarà ? Bisognerà cercarla. E il piccolo Cesare – doveva essere intorno ai tre anni di età – uscì di casa, vestito solo della sua camiciolina che gli lasciava scoperto il culetto e le gambe e si mise in marcia, a piedi nudi, alla ricerca della No. Era inverno e il suolo era coperto di neve. Ma il piccolo non si scoraggiò e, un passetto dopo l’altro, raggiunse la strada provinciale. Qui bisognava scegliere una direzione: andare a destra o a sinistra ? Cesare anche da adulto ricordava l’angoscia provata in quel frangente, non sapendo quale era la direzione giusta. Alla fine, per fortuna, scelse quella giusta, percorse il chilometro abbondante che separa la Casetta dal paese e arrivò a Camporgiano. Le strade erano deserte ed egli prese a percorrerle, sempre a piedi nudi sulla neve. E giunse alla chiesa, che si trovava sulla piazza, proprio mentre la gente usciva. A quell’ora non c’era molta gente per cui scorse subito la No e si aggrappò alla sua gonna. E la No guardò in basso e lanciò un grido: - Misericordia – e, stravolta, prese in braccio il bambino totalmente confusa e spaventata. Era presente una cugina della zia, tale Mariuccia Davini, madre del Bruno Bartolomasi (il “Tera”) la quale tolse il bambino dalle braccia della No, lo avvolse nel suo grembiule e si diresse rapidamente verso casa sua dicendo alla No e alla Lu (Lucrezia) di seguirla. Appena in casa portò il bambino davanti al fuoco, lo fasciò in panni caldi e gli massaggiava il corpicino, specie i piedini, ormai bluastri e prossimi al congelamento. Piano piano il bambino si riprese e, in braccio alla sua No, provò un profondo senso di felicità e di benessere. E, anche questo,
è il particolare che Cesare ha sempre ricordato di quella brutta avventura. Purtroppo il freddo sofferto provocò l’insorgere di una brutta broncopolmonite con febbre altissima, che tormentò il piccolo per tutto l’inverno. E la cosa non fu senza conseguenze neppure per le zie, che furono convocate in caserma e minacciate di essere denunciate per abbandono di minore. Infine la denuncia non ci fu ma esse furono convocate dal Sindaco che le diffidò dal lasciare i bambini piccoli senza sorveglianza tutte le mattine. Da allora a portare il latte e ad assistere alla Messa andava soltanto una delle due, a turno. Fra le cure che il bambino ricevette dal medico condotto, il buon Dottor Bertolini ci fu un grande cerotto applicato sul petto. Si chiamava “Mosca di Milano” e, certamente, avrà contribuito alla guarigione. Però provocò sulla tenera pelle del bambino una enorme vescica piena di liquido e, quando si dovette levare il cerotto, venne via anche la pelle lasciando allo scoperto la carne viva. Anche di questo fatto Cesare ha sempre conservato viva memoria. Le due zie, aiutate da una contadina di Battifollo, la nonna del Peppe Suffredini, impiegarono una notte intera per togliere quel benedetto cerotto. Cercavano di ammorbidire la pelle con olio e, quando il bambino si addormentava, cercavano di staccarne un po’. Ma il bambino si svegliava con un grido per il dolore. E le donne attendevano che si addormentasse di nuovo. Poi il dottor Bertolini curò la piaga che rapidamente guarì. Cesare ricorda questo dottore – lo vedeva dalla finestra – che arrivava a piedi, camminando nella neve con scarponi e calzettoni.
Finalmente venne la primavera e Cesare, ormai guarito, si stava riprendendo rapidamente. Quando, malauguratamente, un’altra tegola gli piovve sul capo. Si ammalò del “mal del gruppo” cioè di difterite, malattia a quel tempo pericolosissima. Immediatamente fu posto un cordone sanitario intorno alla casa da cui nessuno poteva uscire e dove nessuno poteva entrare salvo il dottore e la guardia municipale che portava gli alimenti e le medicine necessarie. Naturalmente essi prima di uscire si disinfettavano accuratamente usando un disinfettante chiamato “sublimato”. E tale “sublimato” doveva essere usato continuamente da tutti gli abitanti della Casetta che dovevano anche spruzzarlo in casa due volte il giorno. La gente di Battifollo, che normalmente passava vicino alla Casetta per andare in paese, fu costretta a fare un lungo giro per evitarlo. E quando la malattia fu superata e Cesare guarì, l’ufficiale sanitario provinciale di Massa mandò una apposita squadra attrezzata per una accurata disinfezione di tutta la casa e di tutti gli abiti dei suoi abitanti. Nello scrisse al padre che “erano stati messi tutti in bucato”.
Poco dopo il padre Carlo, che era a Marsiglia coi figli più grandi, mandò Beniamino per vedere come stavano le cose alla Casetta.
Beniamino, all’epoca, – eravamo verso la fine del 1904 - aveva 19 anni ed era un bel giovane vivace e allegro. E amava scherzare, facendo ridere i fratelli, ma spaventando, spesso, le povere zie vittime dei suoi scherzi.
A quel tempo Cesare era ancora molto provato dalle malattie che lo avevano tormentato e, mentre la notte le zie lo portavano a dormire nel loro letto, di giorno, per averlo sempre sott’occhio, lo tenevano nella culla che avevano portato in cucina. Egli non stava ancora bene ed era annoiato dal lungo periodo di degenza, per cui spesso piagnucolava e si lamentava. Allora Beniamino, burlone come sempre, disse: - Questo bambino da solo fastidio, bisognerebbe dargli fuoco – Tutti i fratelli risero ma le zie, sempre troppo protettive, insorsero contro di lui. Il quale, continuando lo scherzo per far inquietare le zie, prese un tizzone dal fuoco e fece finta di dar fuoco alla culla. Le zie, che, evidentemente, mancavano completamente di senso dell’umorismo, dettero un grido e si gettarono contro di lui. Cesare, a quelle grida e a quella confusione, pensò che non si trattasse di uno scherzo e cominciò a gridare terrorizzato sercando di saltar fuori dalla culla. La No si chinò su di lui per tranquillizzarlo, dicendo che era uno scherzo e che Beniamino era suo fratello e che gli voleva bene, ma Cesare si aggrappò al suo collo dicendole di portarlo via. Ci volle un bel po’ per calmarlo.
Di diverso carattere e molto più dolce era il fratello Guido, che amava molto quel piccolo fratellino rimasto senza mamma e, quando era a casa, spesso lo teneva in braccio e lì lo faceva addormentare per deporlo poi delicatamente nella culla. Ma, partito giovanissimo per la Germania prima, e per fare il militare poi, a casa c’era soltanto per brevi periodi.
Fu, comunque, un periodo difficile per quel bambino. Si sentiva stanco, triste e sfiduciato.
Le zie ogni sera lo facevano pregare per la sua mamma che era nel cielo e che avrebbe pregato il Signore di farlo risanare completamente.
UN BAMBINO TRISTE
Durante tutta la sua esistenza Cesare ha sofferto per la mancanza della mamma. Quando, ogni sera, le zie gli facevano dire le preghiere per la mamma che, lo assicuravano, era in cielo e di lassù lo vedeva e lo proteggeva egli spesso ripeteva: - Io voglio andare dalla mia mamma -. Ma, poi, chiedeva se sarebbe venuta lei a prenderlo perché, se no, come avrebbe fatto ad arrivare lassù? E della sua mamma voleva sapere come era, cosa faceva, cosa diceva. E le zie gli narravano di come gli voleva bene e di come aveva sofferto nel doverlo lasciare. Ed egli sentiva sempre più forte la mancanza di questa mamma che non aveva mai visto. E chiedeva coma mai il Signore non le permetteva di farsi vedere da lui almeno una volta. Una notte la sognò. Sognò di essere davanti alla sua tomba, che era sovrastata da una croce di marmo. Intorno a questa croce volava una colomba dalle piume candide che aveva un viso di donna . E, questo viso, somigliava al viso di suo fratello Nello ma era un po’ più paffuto. Al suo risveglio Cesare, che ha sempre ricordato nitidamente quel viso sognato, lo descrisse minuziosamente alle zie le quali rimasero fortemente impressionate perché, dissero, quello era effettivamente il viso della povera Isolina. Quel sogno fece una grande impressione anche ai fratelli e quella sera, tutta la famiglia riunita, recitò devotamente un rosario in suffragio della defunta.
La convalescenza fu lunga e difficile. Cesare era molto deperito e, talvolta, era colto da svenimenti causati dalla eccessiva debolezza. Le tristi vicende della sua breve vita lo rendevano triste e sfiduciato. Vedeva il mondo come un luogo pericoloso e non amico e fu sempre sospettoso e diffidente verso il mondo esterno. Tuttavia piano piano si ristabilì e la vita, anche per lui, si fece meno amara. Stava sempre con le zie che, dopo la brutta avventura che lo fece ammalare, non lo lasciarono mai più solo e, quando venne l’estate e andavano al fiume a lavare i panni, lo portavano con loro e la cosa gli era gradita. Esse tornando del fiume portavano anche un bel fascello di vimini che, a sera, sul bel prato davanti a casa, ripulivano della corteccia e legavano a mazzetti che, poi, vendevano a dei commercianti ricavandone qualche spicciolo. Cesare stava con loro e, sdraiato sull’erba, guardava il bel cielo stellato dove sapeva esservi la sua mamma, e a lungo parlava di lei con le zie, anche se questo finiva per aumentare la sua malinconia..
Per fortuna c’era il fratellino Settimo, di soli due anni maggiore di lui, e con questi, che sapeva sopportare i malumori e la permalosità del fratellino, passava lunghe ore a giocare in casa o sui prati. Eravamo, ormai, nel 1905 e Cesare aveva 4 anni. Continuava la sua scontrosità e la diffidenza che manifestava soprattutto con gli estranei e questo fatto probabilmente non lo rendeva simpatico alla gente che, alla fine, lo ignorava, cosa che non accadeva con Settimo, molto più aperto e gioviale. E anche questo fatto contribuiva ad aumentare la sua diffidenza nei confronti degli estranei da cui, confusamente, non si sentiva accettato.
Ora, però, stava volentieri anche con i fratelli più grandi che, dopo che Corrado era andato in Francia col padre e Guido era partito per la Germania, erano soltanto Nello e Azelio, oltre a Settimo. E, ora che si era rimesso in salute, andava con loro anche al fiume dove prestissimo imparò a nuotare. Doveva arrancare e sgambettare veloce per tener dietro ai loro passi, ma li seguiva felice e senza scoraggiarsi. Ben presto, però, Nello fu mandato presso una calzoleria di Camporgiano a imparare il mestiere del calzolaio e Azelio presso un sarto a imparare quel mestiere. Rimase, dunque, soltanto Settimo e con lui passava intere giornate a scorazzare per i campi, a piedi nudi e il cuore pieno di felicità. Il suo cattivo carattere fu certamente un po’ mitigato da questo periodo che Cesare ha sempre ricordato come il più felice della sua infanzia.
Purtroppo finì con quell’estate del 1905. A ottobre, infatti, Settimo, che avea compiuto i sei anni, dovette andare a scuola dove era impegnato mattina e pomeriggio, per cui soltanto durante i giorni festivi e le vacanze i due fratellini potevano ancora giocare insieme.
Durante quei giochi scatenati era inevitabile che i ragazzi si facessero anche qualche maluccio. A un certo punto, infatti, a Cesare cominciò a dolere un ginocchio che, evidentemente, aveva battuto da qualche parte per una caduta. Il dolore aumentò al punto che il bambino non poteva più piegare il ginocchio. Fu necessario chiamare il dottore che ordinò delle spennellature di tintura di iodio. Il ginocchio cominciò lentamente a migliorare ma il dottore passava spesso e, ogni volta, palpandolo e facendoglielo piegare, gli faceva male. Accadde, così, che una volta, mentre si trovava nel luogo vicino alla casa detto “in cima alla vigna”, vide venire il dottore e tentò di evitarlo nascondendosi fra le frasche di un cerro sul quale si era arrampicato in quattro e quattr’otto. La zia Lucrezia venne a cercarlo senza riuscire a trovarlo. Ma a un tratto sentì muovere le foglie del cerro e lo vide arrampicato lassù. E cominciò a dirgli di scendere che c’era il dottore. Ma quello non ne voleva sapere. Intanto era arrivato anche il dottore che non potè fare a meno di ridere. E. sempre ridacchiando, disse: - Puoi scendere tranquillo. Se sei salito fin lassù vuol dire che il ginocchio è guarito – Allora, finalmente, Cesare scese e il dottore potè constatare che, effettivamente, il ginocchio era guarito. Le lunghe spennellature di tintura di iodio, però, avevano cotto la pelle che aveva formato come un crostone che copriva tutto il ginocchio. E, un giorno, Cesare cadde di nuovo e il crostone si staccò tutto intero apparendo come una coppa che, ovviamente, aveva la forma del ginocchio. Cesare si spaventò molto, temendo, forse, di aver perduto l’intero ginocchio, e corse dalle zie che glielo fasciarono per proteggere la ancor tenera pelle nuova e lo tranquillizzarono.
Un altro aspetto del carattere di Cesare che veniva emergendo era la sua simpatia per i deboli e gli infelici. Quando nascevano i vitellini o gli agnellini Cesare era felice. Stava a lungo con loro, li accarezzava e voleva loro molto bene. Ma quando questi venivano venduti per essere macellati se ne doleva fino a piangere, e odiava il macellaio che uccideva quelle creature. Ma si mostrava particolarmente addolorato quando sentiva la mamma del vitellino muggire disperata per la perdita del suo piccolo. Forse, anche se inconsciamente, riviveva il dramma della sua separazione dalla madre.
Il tempo passò e venne anche per Cesare il tempo di andare a scuola.
IL BURRASCOSO PERIODO DELLA SCUOLA
Di andare a scuola Cesare proprio non ne voleva sapere. L’idea di trovarsi lontano da casa e in compagnia di tutti quegli estranei gli appariva inaccettabile. Per fortuna c’era Settimo che lo avrebbe accompagnato, ma la prima mattina le povere zie, malgrado l’aiuto di Settimo, dovettero faticare non poco per trascinarvelo.
Il maestro, preavvertito del carattere così poco socievole di quel nuovo bimbo, lo accolse amorevolmente, lo aiutò a fare le prime aste e, intanto, gli parlava dicendogli che tutti quei bimbi sarebbero diventati suoi amici, e sarebbe stato bene e si sarebbe anche divertito.
Questo inizio fu molto gradito a Cesare che cominciò a vedere la scuola come un luogo non poi così minaccioso. Purtroppo, però, gli altri ragazzi, specie quelli più grandi, giacchè quel maestro insegnava a più classi e molti, all’epoca, erano anche i ripetenti, cominciarono a far dispetti al povero Cesare, forse stimolati proprio dal carattere schivo e non socievole di lui. Allora, la prima buona impressione se ne andò e vide di nuovo la scuola come un luogo pieno di nemici con cui combattere. Il primo “nemico” fu un certo Bartolomasi Giorgio, fratello di un certo Nellino che, molti anni dopo, faceva il sarto e diventò buon amico di Cesare. Costui era un ragazzo grande, che aveva già terminato il corso elementare ma che il Maestro aveva ripreso a scuola e usava come aiutante. Infatti girava fra i banchi e suo compito sarebbe stato quello di aiutare i più piccoli. Ma, quando arrivava vicino a Cesare, si divertiva anche lui a fargli i dispetti: gli dava pizzicotti, gli tirava i capelli, gli urtava il braccio quando scriveva facendogli fare degli scarabocchi….. Cesare, chiuso, scontroso e, forse, anche timido, non diceva nulla e non reagiva, ma covava dentro di sé odio per quel ragazzaccio ripromettendosi di vendicarsi quando fosse stato grande. I ragazzi più piccoli erano tormentati un po’ tutti dai più grandi, ma, in genere, essi reagivano piagnucolando e minacciando di dirlo alle loro mamme o ai loro papà, ottenendo, con questo, qualche risultato. Ma Cesare era consapevole di non avere né babbo né mamma, per cui si sentiva senza protezione.
La condizione di vittima indifesa non fu tollerabile a lungo. Ben presto cominciò a reagire manifestando un’aggressività esagerata. A ogni provocazione erano pugni, calci, graffi, morsi che mettevano a dura prova i malcapitati provocatori che avevano sempre la peggio. Tanto che i coetanei, ma anche i più grandicelli cominciarono a girargli alla larga. Il che fece ulteriormente aumentare la sua scontrosità e, purtroppo, il suo isolamento. Così finì l’anno senza che Cesare si fosse fatto neppure un amico. Anzi, come ha confessato lui stesso, non amava nessuno e vedeva tutti questi estranei alla sua famiglia come nemici. Però quanto a profitto era andato molto bene. Aveva imparato a leggere e scrivere superando anche il “compimento” che era una specie di esamino di ammissione alla seconda classe che molti superavano soltanto l’anno successivo, ed era stato promosso in seconda.
Questo secondo anno andò meglio. Cesare, ormai pratico dell’ambiente, l’affrontò con molta maggiore tranquillità. I più grandi, che erano anche i più dispettosi, erano passati ad altre classi e non c’erano più. Lui non era più fra i più piccoli e si sentiva cresciuto e più sicuro di sé. Probabilmente anche il buon risultato scolastico lo aveva gratificato. Insomma l’anno passò piuttosto tranquillamente. E fu promosso in terza.
Qui, purtroppo, ritrovò molti ragazzi grandi, pluriripetenti, fra cui alcuni di quelli che lo avevano tormentato il primo anno. E Cesare non lo aveva dimenticato. Aveva covato a lungo il suo risentimento e il desiderio di fargliela pagare. Ora si sentiva abbastanza grande e robusto per poterli affrontare, e attendeva l’occasione per farlo. E l’occasione venne un pomeriggio, allorchè uno di costoro (era un fratello della mamma della Stelvia Santarini) fece piangere un bambino di prima classe. Cesare intervenne contestandogli la prepotenza e offendendolo. Questi, sentendosi più grande e ritenendosi più forte, gli rispose sprezzante offendendolo a sua volta. Come una furia Cesare gli si precipiò addosso piantandogli le unghie sul viso, atterrandolo e tenendolo schiacciato a terra. Il poveretto tentava di reagire e, a un certo punto, riuscì ad afferrare Cesare per i capelli, cercando di scrollarselo di dosso. Ma Cesare, la piccola furia che da due anni aspettava di poter sfogare il suo risentimento, girò il capo e affondò i denti nel braccio del malcapitato che cominciò a urlare dal dolore. Ma nessuno osava avvicinarsi per dividerli. Finalmente Cesare lo lasciò pesto e ammaccato, col viso e il braccio sanguinanti. E quello si alzò piangendo e corse via, rinunciando, per quel giorno, alla scuola.
Poco dopo, quando arrivò il maestro, nessuno disse nulla per cui entrarono in aula e ci fu una normale lezione. Ma il giorno dopo – evidentemente i genitori del ragazzo malmenato avevano reclamato – Cesare fu aspramente redarguito. Poi il maestro volle sapere come si erano svolti i fatti e, mentre Cesare non seppe dir nulla, gli altri ragazzi affermarono che era stato Cesare a cominciare la zuffa per cui venne giudicato un prepotente attaccabriga.
Nei giorni successivi egli, non pago di quanto era successo, se la prese coi ragazzi che avevano sostenuto che il colpevole era soltanto lui. E furono altre zuffe che, alla fine, gli fruttarono due giorni di sospensione. Non furono gli unici, e ogni volta lo si minacciava di espellerlo definitivamente.
Malgrado tutto questo, tuttavia, il profitto scolastico continuava ad essere buono ed egli fu promosso in quarta.
Ormai si sentiva grande e padrone di sé. Andava a Camporgiano da solo, anche la sera quando vi erano funzioni in chiesa e si intratteneva con alcuni compagni di classe che non erano proprio dei veri amici ma coi quali, comunque, non aveva mai avuto a litigare. Nelle sue memorie ne cita alcuni: Carluccio (classe 1898), il Tatanaro (1899), il Giulio Mazzei (1900), il Giulio Bartolomasi (1900), il Dino Mazzei (1900), il Vittorio Micotti (1900). Come si vede erano tutti più grandi di lui a testimonianza del fatto che lui procedeva spedito nella sua carriera scolastica mentre gli altri, evidentemente, avevano subito qualche bocciatura come, a quel tempo, era normale.
In quell’estate del 1910 – Cesare aveva nove anni – il padre Carlo rientrò dalla Francia. Quando scrisse che sarebbe venuto, Cesare ne fu emozionato. Avrebbe finalmente conosciuto suo padre. Avrebbe, finalmente, potuto dire, anche lui “il mio papà” riferendosi a una persona reale e conosciuta. Ma dovette patire un’altra delusione. Il padre, che vedeva il figlio per la prima volta dopo la nascita, infatti, fu gentile ma non affettuoso come Cesare avrebbe voluto. Egli lo sentiva assente e non si sentì amato come si aspettava che fosse. Certo quel figlio di nove anni era per il padre poco più di un estraneo. Certo Carlo aveva molte preoccupazioni. Non si spiega, però, questo comportamento poco paterno. Egli doveva aver portato qualche soldo e li impiegò per fare importanti lavori alla casa. Rialzò i muri di oltre un metro, rifece il tetto e lo isolò dai locali sottostanti con un soffitto che prima non c’era, sistemò pareti e altro. Naturalmente questo comportò per tutti disagi e fatiche. Durante i lavori, infatti, qualcuno dovette andare a dormire nella capanna e, tutti indistintamente, dovettero collaborare portando i sassi ai muratori e andando a prendere al fiume pesanti sacchetti di sabbia. E anche Cesare fece la sua parte. Ma una sera fu colpito da un gran febbrone, certamente per lo strapazzo, e passò una notte delirando. Comunque anche quella passò e, alla fine, anche i lavori terminarono. Subito dopo Carlo ripartì e Cesare non provò dolore perché si era convinto che neppure il padre lo amava. E il suo carattere, se possibile, peggiorò ancora.
L’anno scolastico 1910-1911 fu uno dei peggiori. Cesare era sempre più insofferente e alla minima provocazione avvampava d’ira e scatenava la rissa. E i rimproveri del maestro, spesso ingiusti perché ormai, qualunque fosse la causa dei litigi, la colpa era sempre del povero Cesare, considerato ragazzo difficile, difficilmente avevano risultati positivi. Anzi, quando si sentiva accusato ingiustamente, egli, che per timidezza non sapeva rispondere per discolparsi e che, comunque, non veniva creduto, si sentiva sempre più discriminato e accumulava dentro di sé odio e rancore.
E un giorno accadde un fatto molto grave. Cesare venne accusato di aver combinato non so che birichinata e fu aspramente rimproverato e punito dal maestro. Egli cercò di difendersi affermando la sua innocenza ma il maestro non lo credette e continuò a trattarlo duramente da colpevole. Al che Cesare, esasperato e non sapendo più come reagire all’ingiusta accusa, prese dal banco il calamaio pieno d’inchiostro (all’epoca ogni banco era munito di un calamaio di vetro) e lo scagliò contro il maestro. La cosa fu inaudita e ne seguirono una serie di conseguenze. Intervenne anche il Sindaco che redarguì il ragazzo. Furono chiamate le zie e informate del fatto e Cesare fu considerato un bambino dal carattere sempre più difficile. Dopo qualche giorno di sospendione, comunque, Cesare tornò a scuola e il tempo riprese a scorrere.
In quel tempo accadde che il maestro e la maestra si scambiarono le classi e il maestro, nel presentare la classe alla maestra, parlò anche di Cesare e del suo difficile carattere. Disse, però, che egli era fra i più intelligenti e si augurava che potesse ben utilizzare questa sua intelligenza.
Le cose andarono bene per un bel po’ di tempo, finchè non accadde un nuovo incidente che coinvolse anche Cesare, questa volta del tutto incolpevole. Egli stava al primo banco, proprio sotto gli occhi della maestra. Dietro di lui c’erano delle ragazze fra cui alcune pluriripetenti e, quindi, già grandicelle. Una di queste, tale Marietta che poi sposerà l’Adriano Comparini, stava all’ultimo banco e si scambiava dei bigliettini con una ragazza che stava al secondo banco, proprio dietro Cesare. A un certo punto la Marietta lanciò un bigliettino arrotolato alla sua amica, ma sbagliò mira e il biglietto finì sul banco di Cesare. La maestra lo vide e, con voce alterata disse a Cesare, alzandosi dalla cattedra: “Dammi subito quel biglietto” Cesare, sorpreso dal tono ma tranquillo glielo porse e quella, in piedi a fianco della cattedra, lo spiegò e lo lesse. Istantaneamente arrossì tutta e, sempre rivolta a Cesare, con voce sempre più alterata gli disse: “Che cosa gli hai scritto tu e chi è che ti ha risposto con queste porcherie ? Esci subito dal banco ! “
Cesare, sempre più stupito, cercò di dire che il biglietto gli era caduto sul banco ma che lui non ne sapeva nulla. Ma la maestra, sempre più irritata urlò: “Esci dal banco bugiardo e insolente”
Cesare non ci vide più. Ancora una volta il pregiudizio che pesava su di lui lo faceva apparire del tutto ingiustamente colpevole. Ancora una volta le sue parole di chiarimento non venivano credute.
Come reagire a tanta ingiustizia ? Non c’era altro mezzo che l’aggressione. Si scagliò contro la maestra facendola barcollare. Per fortuna non cadde perché si resse alla cattedra e anche perché Cesare stesso la sostenne. La povera donna impallidì e cominciò a balbettare: “Chiamate il maestro, chiamate il maestro” reggendosi con una mano alla cattedra e tenendo l’altra sul petto. Lo stesso Cesare, vedendola in quello stato, rimase turbato e, forse, si pentì del suo gesto iroso. Intanto i ragazzi erano andati a chiamare il maestro che irruppe preoccupatissimo chiedendo “Cosa è stato ? Cosa è stato ?”
“ Mi ha percosso e mi ha fatto cadere” disse la maestra ansimando ed esagerando vistosamente l’accaduto. Infatti non era stata percossa ma soltanto spinta e non era caduta ma aveva solo barcollato. Ma il maestro, vedendola così pallida e ansimante, non esitò a crederle e mandò subito uno scolaro ad avvertire il Sindaco che era al piano superiore dello stesso stabile. Intanto anche gli scolari dell’altra classe entravano a curiosare e la confusione si faceva totale.
Il Sindaco venne ed era molto seccato. Parlando col maestro dicevano che quel ragazzo cresceva così perché non aveva i genitori che l’educassero ma soltanto due povere donne anziane senza energia e senza autorità.
La conseguenza fu che Cesare fu sospeso dalla scuola per un mese. Durante quel mese, quindi, non andò a scuola, ma continuò ad andare alla “dottrina”. La dottrina cristiana veniva insegnata dal prete in chiesa, nel luogo detto “coro” situato dietro l’altare maggiore, dove, durante le funzioni, prendevano posto i “cantori”. C’era una lunga panca di legno a semicerchio, con un alto schienale e su quella venivano fatti sedere i ragazzi. Un giorno accadde che un ragazzo chiamato Tatanaro di soprannome (si trattava di un certo Gaudenzio Bartolomei) che stava seduto proprio accanto a Cesare, disse una bestemmia a voce alta. Il prete si voltò infuriato e non ebbe dubbi. Il ragazzo cattivo era Cesare per cui il colpevole doveva essere lui. Prese la lunga canna che serviva per accendere i ceri alti e cominciò a menare bastonate. Cesare, sorpreso ma pronto, si chinò cosicchè la canna colpiva l’alto schienale senza arrivare a lui. Allora il prete, sempre più infuriato, prese a colpirlo con la punta della canna. Allora la furia di Cesare, ancora una volta ingiustamente accusato, esplose e si scagliò contro il prete dandogli un forte spintone che lo fece barcollare e andare a sbattere contro il retro dell’altare, poi prese a stracciargli la tonaca gridando e schiumando di rabbia.
A quel punto intervenne il sacrestano che, preso il ragazzo alle spalle, tirava per allontanarlo dal prete che, a sua volta, lo spingeva via. In quel parapiglia Cesare cadde a terra, urlante come una piccola furia e, afferrata una gamba del sacrestato, gli piantò i denti nel polpaccio mordendolo a fondo. E, intanto, scalciava coi piedi per allontanare il prete che cercava di batterlo con la sua lunga canna. Intanto il sacrestano urlava dal dolore e cercava di liberarsi. In quella grande confusione i ragazzi, spaventati, cominciarono a farsi largo per scappare e la confusione diventò ancora maggiore. Tanto che anche Cesare si liberò e scappò via. Naturalmente da quel giorno non potè più andare neppure alla dottrina.
Intanto il mese di sospensione era passato e Cesare doveva ripresentarsi a scuola accompagnato da un familiare. Ovviamente avrebbe dovuto essere una delle due zie. Ma Cesare non voleva perché pensava che questo avrebbe rappresentato un’umiliazione per costei. Così era deciso a non tornare più a scuola. Per fortuna le cose non andarono così. Bisogna sapere che Cesare, già da qualche tempo, andava, nel tempo libero dalla scuola, da uno stagnino, tale Osmondo Valentini, per imparare il mestiere. Questo artigiano, pur avendo un po’ il vizietto di bere, era sostanzialmente un uomo simpatico e cordiale. E doveva essere anche un buon uomo. Infatti si era affezionato a questo ragazzino difficile, tanto che, quando c’era una festa, lo portava a pranzo a casa sua dove la moglie Angelina, pure molto cordiale, si era a sua volta affezionata al ragazzino. Tanto che spesso veniva invitato a pranzo anche se non era festa. E anche il ragazzino si era affezionato a quest’uomo, che parlava con un forte acceto emiliano (era del reggiano) e che lo trattava con comprensione e affetto.
Da lui, infatti, accettava anche consigli e raccomandazioni. E il buon uomo si sforzava di fargli capire che, anche se, a volte, il torto era degli altri, tuttavia era sbagliato reagire con tanta aggressività. E gli diceva: “ Tanto più se si trattava di adulti come la maestra, il maestro, il prete che, magari, avranno certo sbagliato a calunniarti, ma non l’hanno fatto certamente perché ti vogliono male. Esse sono brave persone che ti vogliono bene”. E, naturalmente, lo esortava a tornare a scuola. Ma Cesare, fermo nel suo rifiuto, non voleva che le zie lo accompagnassero e diceva che a scuola non ci sarebbe andato più. Allora lo stagnino – e questo dimostra l’interesse che aveva per quel ragazzino – disse: “Va bene. Allora ti ci accompagno io. Io non ho nessun motivo di sentirmi umiliato”. E Cesare accettò.
Così il giorno dopo si presentò a scuola accompagnato dallo stagnino. Il maestro rimase un po’ sconcertato ma ascoltò le spiegazioni che l’uomo si sforzò di dargli circa il rifiuto del ragazzo di farsi accompagnare dalle zie. E aggiunse, rivolto a Cesare, che se non avesse fatto il bravo avrebbe finito col cacciarlo anche lui dalla sua officina. Voleva dimostrare, il buon uomo, che anche lui si faceva carico dell’educazione del ragazzo. Il maestro, alla fine, disse che andava bene così e riaccompagnò il ragazzo in classe. La maestra, che non era più quella dell’incidente, lo mise al primo banco e Cesare, per il resto dell’anno, si comportò bene.
L’anno scolastico terminò poco dopo. Ma questa volta il suo profitto scolastico che continuava ad essere buono non bastò a farlo promuovere. Non fu ammesso agli esami e dovette ripetere l’anno.
Alla ripresa delle lezione – era l’anno scolastico 1911-1912 – Cesare trovò una nuova maestrina, giovane e molto simpatica, che fu sempre buona e comprensiva con tutti gli alunni. Particolarmente con lui fu molto amichevole e finì per conquistarlo. Ora egli andava a scuola contento e tranquillo, il rapporto con gli altri ragazzi era molto migliorato e, nel complesso, il suo carattere si fece molto meno aspro. Il suo bisogno di affetto, finalmente soddisfatto dal comportamento di quella maestra, lo aveva cambiato. E l’anno trascorreva tranquillo.
Intanto il 28 settembre 1911 era scoppiata la guerra Italo-Turca e Cesare era molto partecipe di quegli eventi ai quali avrebbe voluto partecipare di persona.
Bisogna dire, infatti, che lo studio della storia appassionava eccezionalmente quel bambino e aveva svegliato in lui un convinto nazionalismo che lo farà gioire e soffrire per tutta la vita.
Così ogni mattina, alle 11, chiedeva di andare al gabinetto e, furtivamente, andava a un negozio lì vicino (quello dei Santarini, che si trovava dove è ora la caserma dei carabinieri) e comperava il giornale che arrivava giusto a quell’ora. Spendeva, così, quel soldino che avrebbe dovuto servire per comperare il pane per la colazione. E rinunciava alla colazione. Poi, tornato in classe, nascondeva il giornale sotto il banco da cui poi lo traeva fuori appoggiandolo sulle ginocchia e lo leggeva avidamente, cercando di non farsi scorgere dalla maestra. Che, però, forse anche stupita dall’interesse di questo ragazzino per il giornale, lo esortava in buona maniera a prestare attenzione alle lezioni e a leggere il giornale a casa.
La narrazione dei fatti d’arme di quella guerra lontana lo catturavano totalmente. Si esaltava per i successi delle nostre truppe e provava grande dolore e rabbia per gli insuccessi. Bisogna anche dire che a fare la guerra in Libia c’era anche suo fratello Guido, uno dei più amati. Ed Ernesto, figlio del mugnaio e buon amico della famiglia di Cesare, era a Rodi (anche la conquista del Dodecanneso fu un episodio di quella guerra). Al fratello Guido scrisse una lunga lettera nella quale chiedeva tutti i particolari di quella guerra. E Guido gli rispose, spiegandogli pazientemente molte cose e, soprattutto, manifestando il suo elevato patriottismo. Cesare ne fu orgoglioso e lesse quella lettera a tutti.
Un grande dolore fu per lui quando lesse la notizia che l’XI reggimento bersaglieri era caduto in un’imboscata a Sciara Sciat e era stato distrutto. Naturalmente era lui, uno dei pochi che leggeva il giornale e che, quindi, era informato, che a ogni occasione raccontava agli altri questi avvenimenti.
Una sera d’estate, come era d’uso, si trovava insieme a tutti i contadini dei paraggi riuniti per la sgranatura del granturco. Anche quella sera raccontò ai presenti le vicende di Sciara Sciat. Tutti, specie le donne, commiserarono quei poveri caduti. Ma il “Taton”, rozzo contadino della Roncaiana, se ne uscì con l’infelice battuta: “Tanti in meno a mangiare il formentuncin”, cioè il granturco. L’amarezza e l’indignazione di Cesare furono massime. Sul momento non disse nulla ma odiò il “Taton” e, come vedremo, lo perseguiterà con dispetti di varia natura e anche con una vera imboscata.
Questo “Taton” per raggiungere certi suoi campi doveva passare nella strada che correva proprio sotto le finestre della Casetta.
Quando passava, Cesare e i suoi fratelli lo deridevano chiamandolo più volte “Taton, Taton” soprannome che lui non gradiva affatto. Lui sopportava o, al massimo, rispondeva con qualche mala parola. Una mattina, però, esasperato, prese una pietra e la scagliò contro la finestra dietro la quale stavano i ragazzi. Non ci volle altro per scatenare l’ira dei ragazzi che, seduta stante, decisero di tendergli una vera e propria imboscata per spaventarlo.
Un mattino lo videro scendere lungo la strada per andare a prendere il fieno nei suoi prati. Allora Cesare, Settimo e Azelio presero un fucile ciascuno (alla Casetta c’erano una quantità di fucili ad avancarica che venivano usati un po’ da tutti per la caccia) e si appostarono lungo la strada. Cesare si era seduto a lato della strada mentre i due fratelli si erano nascosti dietro la siepe che divideva la strada dai campi. Non appena il povero “Taton” comparve dalla curva, gravato da un carico di fieno sulle spalle, Cesare balzò in piedi e, puntatogli il fucile (i fucili quasi sicuramente erano scarichi ma il pover’uomo non lo sapeva) gli intimò di fermarsi. Nello stesso tempo Settimo e Azelio si mostrarono da dietro la siepe, anche loro coi fucili puntati. Il poveretto, terrorizzato, cominciò a balbettare dichiarando che lui gli era amico e gli voleva bene. Ma Cesare, implacabile, gli contestò il fatto di aver scagliato una pietra contro la sua finestra e non so cos’altro. Al che il “Taton” si scusò, dicendo che era stato un gesto impulsivo e che già aveva pensato di passare da casa per scusarsi. A quel punto Cesare, soddisfatto da queste scuse e dalla pauraccia che avevano inflitto all’uomo, dichiarò, con un atteggiamento di sufficienza piuttosto comico in un ragazzo, che per questa volta accettava le scuse e non se ne sarebbe parlato più. L’uomo riprese il cammino traballando e, da quel giorno, per andare ai suoi campi faceva lunghi giri per evitare di passare vicino alla Casetta.
Come già accennato, forse per merito della nuova maestra, a scuola Cesare era, ora, tranquillo, ci andava volentieri, non combinò più guai e concluse felicemente la sua carriera scolastica.
I NUOVI AMICI
Ma la cattiva fama che si era fatto continuava a portarsela dietro.
Era, ormai, quasi un adolescente e, insieme ad altri ragazzi, andava spesso al fiume a fare il bagno in una grande pozza chiamata “Grotto nero”. Per fare il bagno nella stessa pozza, però, scendevano anche, dall’altro versante della valle, i ragazzi di San Romano. A quel tempo le rivalità fra i paesi erano molto forti per cui, di frequente, fra i ragazzi di Camporgiano e quelli di San Romano si scatenavano dei litigi che finivano anche con delle furibonde sassaiole.
Fu quello che accadde anche quella volta che Cesare, invitato da altri ragazzi, era andato al “Grotto nero” a fare il bagno. Scoppiato il litigio e iniziata la sassaiola, a un certo punto un ragazzo di Camporgiano, tale Carluccio, fu colpito alla testa da una pietra e rimase ferito. Se subito si fosse fatto medicare la cosa sarebbe stata di poco conto. Ma egli, temendo le reprimende dei suoi genitori che, naturalmente, non approvavano certo quelle battaglie, si coprì la testa con un berrettino e non disse nulla. Così la ferita si infettò, provocò una febbrata e dovette essere chiamato il medico. La cosa si risolse rapidamente ma i genitori del Carluccio erano infuiriati con lui. E lui, per discolparsi, dovette dire che era stato il Cesare a trascinarlo contro i “San romani”.
Ed ecco che i genitori del Carluccio se la presero col povero Cesare accusandolo di aver trascinato il loro figlio su una brutta strada, di averlo sviato e dandogli del cattivo soggetto. E a nulla valsero le proteste di Cesare che non era stato lui a condurvi il Carluccio ma il contrario.
Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Stanco di essere additato come un discolaccio e di essere incolpato, troppo spesso ingiustamente, di ogni marachella, stante anche il fatto che i ragazzi di Camporgiano che frequentava non erano dei veri amici, smise di frequentarli.
E un giorno che a Poggio era giorno di festa decise di andare lì, a esplorare quel nuovo ambiente.
Ed ecco che incontra due ragazzine: la Teresina Maggi della Borelletta e Giorgina del Palazzetto, che conosceva perché avevano frequentato la scuola di Camporgiano nella stessa classe di Cesare.
Le conosceva bene perché, al ritorno da scuola, percorrevano insieme la strada fino alla Roncaiana e non c’erano mai stati, fra loro, episodi sgradevoli. Esse lo chiamarono, si salutarono festosamente e stettero insieme. Così, tramite loro – specie la Giorgina che aveva frequentato le prime tre classi elementari a Poggio – egli conobbe diversi altri ragazzi più o meno coetanei. La cattiva fama di Cesare a Poggio non era arrivata, per cui costoro non avevano nessun pregiudizio. Furono molto festosi e amichevoli e a sera, nel salutarsi, promisero che avrebbero continuato a vedersi.
E così fu. Forse per la prima volta nella sua vita Cesare strinse le prime vere amicizie. Nelle sue memorie ricorda, fra gli altri, Valiensi Aristide (classe 1898), Franchini Tonio (1898), Cecchini Inaco (1897), Grilli Checco (1900), Grandini Giovanni (1900). Quelle amicizie erano così strette e così stabili che Cesare veniva spesso invitato nelle loro case ove le mamme preparavano delle simpatiche festicciole con arrosti di coniglio, vino e frutta di stagione.
Questi suoi amici, tutti un po’ più grandi di lui, cominciavano già ad avere qualche soldo in tasca in quanto cominciavano a fare i primi lavoretti. Chi a tagliare la legna di castagno per il tannino, chi a trasportarla con un barroccio trainato da un cavallo, chi a fare il garzoncello, eccetera. Cesare, invece, aveva pochi soldi: qualcosa che gli mandava il padre, qualcosa ricavato da qualche trota pescata nell’Edron e venduta. Ma erano miserie. Così Cesare si guardò in giro e si trovò una piccola occupazione. A quel tempo a Camporgiano veniva stampato un giornale, “Il Camporgiano”, ad opera del farmacista Telloli, appassionato di giornalismo. Egli aveva acquistato una piccola tipografia e provvedeva direttamente alla stampa. Le pagine del giornale dovevano essere pazientemente composte con i caratteri mobili di piombo e, una volta eseguita la stampa, dovevano essere scomposte, riponendo i caratteri negli appositi contenitori. Era un lavoro lungo e di pazienza che il farmacista non poteva certo fare da solo. Chiamava, così, ragazzi e ragazze ai quali insegnava come fare e compensava con 50 centesimi la settimana. Solo quando erano più abili e veloci raggiungevano il compenso di 75 centesimi. Ma Cesare aveva già un certo senso degli affari e, così, concordò un cottimo: lui avrebbe scomposto ogni settimana due pagine (il giornale aveva 4 pagine) e, il sabato mattina, avrebbe dato una mano per la stampa. Compenso: 75 centesimi. All’inizio la scomposizione lo impegnava per più giorni ma, una volta diventato più abile, se la cavava in un giorno solo. Così in un giorno e mezzo onorava il suo impegno. E riceveva la paghetta che gli consentiva di non fare brutte figure con i suoi amici di Poggio. . Fu, quello, uno dei periodi più felici dell’infanzia di Cesare.
Purtroppo durò poco più di un anno, perché nel 1913, quando Cesare aveva solo dodici anni, il padre Carlo decise di portarlo con sé in Francia, a Marsiglia.
EMIGRANTE A MARSIGLIA
Chissà perché Carlo decise di portare il figlio a Marsiglia all’età di soli dodici anni? Forse temeva che le due zie, ormai anziane, non fossero in grado di badare a questo ragazzo che si faceva grande senza la guida di un padre. O, forse, perché pensava che dovesse cominciare a guadagnarsi da vivere. A quel tempo i ragazzi cominciavano presto a lavorare. Quando lo scrisse a Guido (che a quel tempo era rientrato dalla Libia e era di guarnigione a Torino), però, questi si mostrò preoccupato per la giovane età di Cesare e lo pregò di riflettere bene prima di condurlo via.
Ma Carlo, ormai, la decisione l’aveva presa. E, d’altra parte, Cesare era tutt’altro che scontento. Egli era ansioso di conoscere cose nuove e si accingeva a vivere questa nuova avventura con piacere e molto interesse. Egli aveva assistito a troppe partenze. Aveva visto il padre e quasi tutti i fratelli (escluso il Settimo) andare, andare, andare. Ora era anche il suo turno. E anche lui voleva andare.
La sera della vigilia della partenza andò a Poggio a salutare gli amici. Tutti gli si strinsero attorno e vollero accompagnarlo, tutti insieme, fino alla Roncaiana. A quel punto fu lui che li riaccompagnò fin quasi al Poggio. Ma, poi, furono loro a volerlo di nuovo riaccompagnare. Proprio facevano fatica a lasciarsi. Finì che quando andò a letto era mezzanotte passata. E la partenza era fissata per le cinque. A quell’ora salutarono le zie piangenti, che raccomandavano a Carlo di aver cura del giovanissimo Cesare, e il Settimo, che si era svegliato e piangeva anche lui. Cesare, invece, era contento e allegro. Alla Roncaiana salirono sul barroccio munito di sedili di legno del Didaco Boggi, che li condusse alla stazione di Castelnuovo Garfagnana. Qui salirono sul treno e Cesare, che vi saliva per la prima volta, rimase stupito vedendo gli alberi che correvano in direzione opposta a quella del treno. Affacciato al finestrino, con lo sguardo avido, non si stancava di osservare tutte quelle cose e quei luoghi che non aveva mai visto. Giunti sulla costa, fra La Spezia e Genova, egli fu affascinato dalla grandiosità del mare che, pure, vedeva per la prima volta. A Ventimiglia ci fu una sosta per il disbrigo delle formalità prima di varcare il confine. Poi il treno toccò Nizza, Cannes, Tolone e, finalmente, giunse a Marsiglia.
Qui furono accolti festosamente da Beniamino che li condusse a casa sua dove viveva con la sua donna, di nome Gianna Merenda, e un figlioletto di nome Charles. Purtroppo Beniamino non era in condizioni floride. Abitava una soffitta dopo il quinto piano di un palazzo posto in una stretta viuzza abitata principalmente da arabi. E l’appartamento era composto da una cucina abbastanza ampia e da una camera ancora più ampia, però col tetto spiovente che, da un lato, si abbassava fino al pavimento. La camera prendeva luce soltanto da un lucernaio, attraverso il quale si poteva accedere, mediante una scaletta di ferro, alla terrazza che era sul tetto. L’acuto spirito di osservazione del ragazzo aveva subito colto la situazione, caratterizzata anche da una marcata povertà di mobili, e l’aveva memorizzata così bene che, nelle sue memorie, scritte quasi settant’anni dopo, la descriverà con minuzia di particolari. Carlo affittò una camera ammobiliata ove dormire nella stessa strada. Ogni sera egli lasciava un po’ di soldi per la spesa dell’indomani. Egli si era occupato in una fabbrica di olio di semi di arachidi, ma vi resisté ben poco. Poi, per un paio di mesi, si arrangiò alla meno peggio ma senza trovare un’occupazione stabile. Cesare, intanto, era stato subito occupato presso un artigiano che faceva l’idraulico e il lattoniere. Egli aveva quattro o cinque operai provetti, detti “maestri”, ciascuno dei quali si avvaleva dell’aiuto di un apprendista. E Cesare divenne l’apprendista di uno di loro. Non si trovò bene. Non conoscendo una parola di francese, si trovava in serie difficoltà quando il “maestro” gli chiedeva questo o quell’attrezzo. Allora il “maestro” inveiva contro di lui, alla presenza dei clienti, adulti e bambini, e questo lo umiliava molto. C’era poi un lavoro che gli era particolarmente sgradito. Ed era quello di ripulire i depositi d’acqua che molti palazzi vecchi avevano sul tetto. All’interno di questi, specie sul fondo, si formavano dei depositi biancastri viscidi e maleodoranti che lo nauseavano. Faticoso ma molto più gradito era il lavoro da spazzacamino. Infatti, una volta introdotta, dal tetto, nel camino una catena a metà della quale era agganciato uno spazzolone sferico e trattenuto sul tetto l’altro capo della catena, si trattava di tirare le catene alternativamente in su e in giù facendo scorrere lo spazzolone nella canna fumaria finché questa non era bella pulita. In questo caso i comandi che il “maestro” dava erano soltanto due: “ A toi” “A moi” e il ragazzo li aveva subito appresi per cui tutto procedeva senza inconvenienti. Il salario era di 50 centesimi il giorno ma il lavoro era stagionale, anche se, al termine della stagione “morta”, era garantita la riassunzione.
Dopo un paio di mesi dal loro arrivo in Francia, Carlo, investendo i pochi soldi disponibili, si attrezzò per mettersi a lavorare le scarpe vecchie. E anche Cesare si mise a lavorare con lui. Si trattava di sfare le scarpe vecchie per ricavarne delle “anime di suola” o suole interne, che venivano chiamate “semelle” e tacchi. Per fare i tacchi veniva usata una forma tagliente con la quale si ricavavano pezzi di cuoio vecchi a forma di tacco che, sovrapposti nella quantità voluta, venivano fissati insieme e poi pressati fino a farne dei tacchi che, poi, venivano venduti alle calzolerie.
Purtroppo a questo punto le memorie di Cesare si interrompono per ben undici pagine mancanti. Cesare stesso, dopo averle scritte, le ha distrutte. Perché ? Un’ipotesi è questa: Esse si riferivano al periodo più oscuro e più brutto della sua permanenza a Marsiglia e, lui, certamente lo aveva descritto, come sempre, nella sua cruda realtà. Rileggendole, probabilmente, le aveva trovate lui stesso, così crude e così aspre da non volere che i suoi figli e i suoi nipoti le leggessero. E le aveva distrutte.
Cosa era successo ? Quel poco che si può dire è ricavabile unicamente da alcune cose narrate da Cesare ai figli in varie occasioni e, soprattutto, da alcune ipotesi verosimili.
Probabilmente il lavoro delle scarpe vecchie non era andato bene e Carlo aveva cercato lavoro altrove, forse non a Marsiglia. E Cesare, praticamente abbandonato, dovette avventurarsi per quella città sconosciuta, senza mezzi e completamente alla ventura. Non è noto il perché non lavorava più con l'idraulico. Sarà stato licenziato ? O, forse, lo avrà lasciato spontaneamente. Certo è che era completamente senza mezzi e senza alloggio. Fu un periodo durissimo durante il quale sopravvisse fortunosamente. C’era un altro italiano che faceva il lavoro delle scarpe vecchie e, questi, volentieri, affidava un po’ di lavoro a Cesare, che sapeva farlo. E lo compensava con tre soldi. Con questi tre soldi Cesare si nutriva comperando un soldo di pane e due soldi di cioccolata. Naturalmente lavorava solo fino a guadagnare i tre soldi. Poi se ne andava a curiosare per la città. Vivevano a Marsiglia anche alcuni cugini di Cesare, figli di un fratello della mamma Isolina e con due di essi, più grandi di lui, spesso Cesare si accompagnava. Ma erano tipi poco raccomandabili, che vivevano di espedienti e, forse, di furtarelli. Tuttavia non guidarono Cesare su una brutta via, anzi, secondo quanto Cesare ricordava, cercarono di evitare che questo accadesse. Infatti erano protettivi e cercavano di evitare al ragazzo brutte esperienze. Ricordava sempre di una volta che, vagabondando per Marsiglia, era capitato in un quartiere malfamato, pieno di prostitute. Qui incontrò i due cugini che lo rimproverarono e gli dissero che quello non era un posto da frequentare. E lo condussero via. Un altro ricordo molto vivo di Cesare, che raccontava spesso, era il seguente: Un giorno, vagabondando, capitò – era l’alba – in un quartiere arabo. E, all’improvviso, si trovò davanti a uno spettacolo sconcertante. Ritta sopra la vasca di una fontana stava una donna nuda e alcuni uomini le stavano intorno e la lavavano. Cesare si fermò incuriosito a guardare. Ma quegli uomini se ne accorsero e inveendo con parole incomprensibili, presero ad inseguirlo. Al che, lui, vista la situazione, si mise a correre alla disperata. Correndo guardava spesso indietro per accertarsi che non lo stessero raggiungendo. Così a un angolo di strada non vide l’uomo che, con un lungo bastone munito di “spegnimoccolo”, andava in giro a spegnere i lampioni a gas, e gli piombò contro violentemente facendolo cadere. Così, oltre agli arabi, ebbe anche l’uomo del gas che, rialzatosi infuriato, si mise al suo inseguimento. Ma non è facile raggiungere un ragazzo di dodici anni. E, infatti, Cesare seminò i suoi inseguitori e fu salvo.
Per quanto riguarda il vestiario la situazione era drammatica. I vestiti che aveva indosso erano gli unici che avesse e, ormai, erano consunti in maniera preoccupante. I pantaloni erano strappati in più punti e il freddo dell'inverno penetrava attraverso gli strappi facendolo soffrire. Non avendo a disposizione nulla per ricucire questi strappi, cercava di chiuderli con dei fili di ferro trovati qua e là.
Ma la cosa più terribile era che questo ragazzo di dodici o tredici anni non aveva un posto sicuro dove ritirarsi per la notte. All'epoca erano frequenti anche in città molte stalle che, generalmente, erano sovrastate da un fienile. Ed è in questi fienili che Cesare si intrufolava per passare la notte affondato nel fieno che lo riparava dal freddo. Ma non sempre era facile. Infatti i proprietari delle stalle, se lo vedevano, lo scacciavano senza pietà.
E' veramente poco comprensibile il comportamento di questo ragazzo che avrebbe potuto ricorrere al fratello Beniamino e che, invece, preferì vivere per oltre un anno in tali condizioni di miseria e di abbandono. Probabilmente le idee rigide del padre sulla necessità che ognuno sapesse cavarsela da solo lo avevano permeato. E’ da pensare che abbia avuto un ruolo anche il suo difficile carattere che gli rendeva difficile vivere con persone che non conosceva, come la moglie di Beniamino.
Ma altrettanto, se non più incomprensibile è il comportamento del padre Carlo che, di fatto, lo aveva abbandonato a se stesso in una città straniera, senza mezzi e senza un vero lavoro. Si può comprendere che Carlo avesse delle difficoltà e fosse tutto preso dal suo lavoro (non so e, credo, neanche Cesare ha mai saputo che lavoro facesse in quel periodo). Si può pensare che immaginasse che Cesare, in caso di bisogno, avrebbe potuto sempre rivolgersi al fratello. Forse non lo aveva completamente abbandonato e, in qualche modo, lo teneva d'occhio da lontano. Forse lo aveva raccomandato ai suoi cugini che, come si è detto, mostrarono, a modo loro, di volersi occupare di lui. Si tratta, comunque, di un comportamento difficilmente comprensibile e giustificabile.
Più di un anno dopo, finalmente, si rifece vivo.
L’AVVENTUROSA TRAVERSATA DELL’ATLANTICO
Si stava avvicinando la primavera del 1915 quando Carlo ricomparve nella vita di Cesare. Probabilmente lo ritrovò presso il ciabattino che lavorava le scarpe vecchie. Fatto sta che si fece vivo e, per prima cosa, portò Cesare a mangiare in un ristorante. Il ragazzo era vestito in modo pietoso anche perché in quell’anno era cresciuto assai - aveva ora 14 anni – e i vecchi abiti, oltre che sbrindellati, erano diventati piccoli. Durante il pranzo Carlo disse al figlio che lui aveva deciso di raggiungere a Chicago, negli Stati Uniti, i due figli Giorgio e Corrado. Questi due figli, che Cesare, forse, non ricordava neppure, fin dal 1905 avevano lasciato la Francia, dove erano emigrati anni prima, ed erano andati in America, a Chicago, insieme al padre. Il padre, poi, era rientrato in Italia mentre essi non lo fecero e non rivedranno più la loro terra. Ora, dunque, Carlo aveva deciso di raggiungerli e, pertanto, Cesare avrebbe dovuto tornare in Italia. Ma Cesare si ribellò all’idea dicendo che non intendeva rientrare in Italia in quelle condizioni. E intendeva che non voleva rientrare senza aver guadagnato soldi e, quindi, da sconfitto. Ma il padre intese che si riferisse al suo disastroso abbigliamento e gli disse che il giorno stesso lo avrebbe rivestito da capo a piedi. E così fece. Subito dopo mangiato si recarono in un grande magazzino dove Cesare fu rivestito a nuovo, dalla biancheria intima, agli abiti, alle scarpe e al berretto. Subito dopo andarono da un parrucchiere che gli tagliò i capelli che erano incolti e gli arrivavano alle spalle, dopo di che Cesare si sentì come rinato e pieno di fiducia. Quanto a rientrare in Italia non ne volle proprio sentir parlare e disse chiaramente al padre che voleva andare con lui in America.
Erano i primi di marzo e Carlo aveva affittato una camera nella quale dormivano e, su un fornellino a spirito, si cucinavano anche i pasti. Cesare venne nutrito con molta carne, proprio perché ne era stato a lungo privo e questo gli fece certamente bene. Meno gradita fu per lui la morbidezza del materasso e del cuscino. Abituato da più di un anno a dormire nel fieno, le prime notti non riusciva ad abituarsi a quel letto morbido e non riusciva a dormire.
Di giorno era sempre in giro col padre : negli uffici comunali, in quelli del consolato italiano, in quelli del consolato americano, in quelli delle varie compagnie di navigazione…. Un mattino Carlo portò il figlio in una chiesa per assistere alla Messa. Carlo si comunicò mentre Cesare non poté farlo perché non era digiuno come allora era richiesto.
Passarono pochi giorni, fino a che, intorno al 10 marzo, si imbarcarono su un vecchio vapore della “Falze Line” , il “Rome” che salpò nella notte. A Marsiglia si imbarcarono soltanto, oltre a loro, una coppia di giovani spagnoli (lui parlava perfettamente l’italiano) e un giovane calabrese sulla trentina. Alla partenza Cesare dormiva, ma fu svegliato dal violento rollio che lo fece stare molto male, con forti conati di vomito. Il padre lo consolava dicendo che stavano attraversando il golfo di Lione, dove si getta il Rodano, e lì il mare è sempre molto mosso. Per fortuna sul far del giorno il mare fu più calmo e le cose andarono meglio.
Il “Rome” passò al largo delle Baleari e,
finalmente, giunse a Barcellona dove si
fermò un giorno. Poi attraversò lo stretto
di Gibilterra e, alla fine, imboccò il Tago
e, risalendolo, approdò a Lisbona. Cesare,
che a scuola aveva imparato anche un po’
di geografia, era molto attento a tutto quello
che vedeva, cogliendo molti particolari
che memorizzava e che lo arricchivano.
Il pensiero di questa nuova avventura
americana, l’aver ritrovato il padre,
l’ebbrezza di questo interessante viaggio
che gli faceva conoscere tanti luoghi nuovi
rendevano
Cesare fiducioso. Era deciso a
fare tutto il possibile per avere successo e
poter, infine, rientrare in Italia non da
sconfitto ma da vincitore. La nave a vapore “ROMA” che portò Cesare
Mentre risalivano il Tago osservava con curiosità e il padre Carlo in U.S.A. nel 1915.
i grandi prati verdi che si estendevano oltre le rive
del fiume. Giunti a Lisbona egli vedeva, dalla nave, una grande via fiancheggiata da grandi palazzi e, sulla riva sinistra, una collina su cui si ergevano molti palazzi fra cui, sulla cima, un grande palazzo che – gli fu detto – era il palazzo del governo, già palazzo reale.
Nel 1910 in Portogallo era stata rovesciata la monarchia e proclamata la repubblica. Ma, evidentemente, c’erano ancora delle tensioni. Così il giorno dopo l’arrivo del “Rome” i passeggeri della nave videro con stupore una nave da guerra, che era ferma lungo il fiume, che cominciò a cannoneggiare il palazzo del governo. Le strade erano diventate improvvisamente deserte e i venditori ambulanti che erano sulla banchina erano scomparsi. E lungo la grande strada che si vedeva dalla nave passarono molti reparti di soldati che, con grande sorpresa di Cesare, marciavano scalzi. Ma la cosa durò poco e, probabilmente si risolse senza gravi sconvolgimenti. Tanto che, il mattino dopo, i banchetti di frutta e verdura erano di nuovo al loro posto e Carlo, forse cogliendo gli sguardi di desiderio di Cesare, gli dette qualche spicciolo e lo mandò a comperare della frutta. Erano soldi francesi e i venditori facevano a gara per vendere qualcosa e incassare dei soldi “franzeosi” (così dicevano) che, evidentemente, erano molto apprezzati. Con i pochi spiccioli che aveva speso, se ne tornò a bordo carico di roba.
Verso sera arrivarono e si imbarcarono ben trecento emigranti portoghesi. L’attentissimo Cesare osservava tutto con interesse e meraviglia e notò che gli uomini vestivano dei pantaloni “ a campana” o “a zampa di elefante”, cioè larghi in fondo, nonché, in luogo della giacca, un corto giacchettino attillato che arrivava alla vita. E avevano i testa dei cappelli di feltro simili, nella forma, a pagliette, ma con le tese molto più larghe. La stoffa dei loro vestiti era marrone, simile alla stoffa di cui è fatto il saio dei frati.
Imbarcati i portoghesi, la nave si mosse e affrontò la traversata dell’Atlantico. La “Rome” era una vecchia nave non proprio bene in arnese. C’era ormai la guerra – anche se l’Italia vi entrerà soltanto il 24 maggio – e le navi migliori erano utilizzate per i trasporti militari o anche, frettolosamente armate, come incrociatori ausiliari.
L’equipaggio era formato da indocinesi, corsi, indiani e un napoletano addetto alla cucina. Si dormiva in cuccette a castello situate in vasti locali a file parallele, con stretti corridoi fra una fila e l’altra. Il cibo era assolutamente pessimo e addirittura nauseante. Due volte al giorno veniva distribuita una minestra che non era altro che acqua salata con alcuni pezzi di cavolo e un po’ di grasso animale, entro cui veniva stracotta della pasta di cattiva qualità. Come secondo un po’ di verdura o patate lesse senza condimento, salvo un po’ di salsa di pomodoro. Ma la cosa grave era che nella minestra si trovavano delle cose schifose come lumaconi, ragni, scorpioni, cavallette… Il pane, poi, era immangiabile: aveva la crosta bruciacchiata e, dentro, era crudo. Per Cesare fu una tragedia. Rosicchiava un po’ di crosta di pane e mangiava le patate lesse, quando c’erano. Non riuscì mai a mangiare la minestra e la verdura, perché piene di insetti. Era addirittura nauseato anche dal vedere gli altri, compreso il padre Carlo, che buttavano gli insetti e mangiavano il resto, tanto che, all’ora del pasto, si appartava per non vedere. Aveva ancora qualche arancia di quelle comperate a Lisbona e ne mangiava una il giorno, razionalizzandole parsimoniosamente.
Oltre a tutto questo, anche l’equipaggio multirazziale creava problemi scatenando litigi che non sempre gli ufficiali francesi riuscivano ad evitare. Così un giorno, proprio vicino a Cesare che sedeva su un mucchio di cordame, il napoletano e un corso vennero alle mani. Il corso diede un morso nel petto al napoletano ma questi lo martellò di pugni ed ebbe la meglio. A quel punto, però, il corso trasse un coltello a serramanico e si diede ad inseguire il napoletano che, come vide il coltello, tentò di darsi alla fuga. Il ponte, però, era ingombro di sedie a sdraio per cui il corso poté raggiungerlo e colpirlo per due volte alla schiena. Ma non lo fermò. Il napoletano riuscì a raggiungere la porta della cucina e vi si chiuse dentro. Il corso, come impazzito, correva per il ponte impugnando il coltello insanguinato e sanguinando lui stesso dal naso e dalla bocca per i pugni presi e gridava: “Je veux tuer touts les italiens” (voglio ammazzare tutti gli italiani). Cesare si rannicchiò sul suo mucchio di cordame piuttosto impressionato. Sulla nave, infatti, oltre al napoletano, c’erano solo altri tre italiani: lui, suo padre e il calabrese. Per fortuna un ufficiale riuscì, anche se a fatica, a disarmare l’energumeno e a farlo sparire per qualche giorno. Ad ogni scalo, poi, veniva rinchiuso in cella, evidentemente per impedire che fuggisse a terra.
La nave fece scalo a San Miguel nelle Azzorre, dopo di che affrontò la traversata dell’oceano. Per qualche giorno la navigazione procedette tranquilla, ma una notte scoppiò una furiosa tempesta. La nave veniva sballottata come un fuscello, tanto che i passeggeri dovevano reggersi per non essere scaraventati giù dalle cuccette. Inoltre il carico della stiva, non fermato a dovere, sbatteva rumorosamente da una parte all’altra della stiva, rischiando di sfondare le paratie. Tutto questo aveva gettato nel panico un po’ tutti, anche se tutti cercavano di tenere i nervi a posto. Ma un portoghese che dormiva nella fila accanto, vicinissimo alla cuccetta di Cesare, impazzì. A un tratto saltò giù dalla cuccetta urlando, poi si mise in ginocchio e, con grande agitazione, si mise a gridare parole incomprensibili di cui si capiva soltanto: “Jesu Cristu ! Jesu Cristu !” Poi trovò una pala, la impugnò e, con quella in mano, cominciò a correre qua e là e a gridare, vicinissimo. Cesare, impaurito, si rannicchiò nella sua cuccetta. Poi l'uomo si pose ancora in ginocchio, ancora biascicando “Jesu Cristu”. Cesare allora, infastidito e arrabbiato per la paura che quel tipo gli aveva fatto pendere, afferrò una delle sue arance e gliela scagliò con violenza sulla testa. Apriti cielo ! Il folle cominciò a correre qua e là come impazzito, finché un americano che era a bordo andò a bussare al boccaporto e, per fortuna, fu udito. Appreso di cosa si trattava, quattro uomini scesero, presero il povero portoghese e lo portarono via. In seguito Cesare lo rivide da un oblò, chiuso in una cabina, mentre cercava di ammazzare i pidocchi che lo infestavano.
Verso l’alba il mare cominciò a calmarsi. Tuttavia era ancora mosso da enormi cavalloni. E la nave, dopo essere stata spinta sulla loro cima, precipitava a valle con lunghi impressionanti scivoloni. Cesare andò a prua per vedere l’enorme pesce (forse una balenottera ?) che la nave aveva speronato e che portava con se da tempo, con la prua incastrata nel suo enorme corpo. Ma non lo vide più. Evidentemente la tempesta della notte l’aveva spazzato via.
I giorni di navigazione erano già parecchi e Cesare cominciava ad avvertire lo sfinimento per la grave mancanza di nutrimento. E con sgomento attendeva il momento del pasto pensando che non avrebbe potuto mangiare nulla di quella roba disgustosa.
Un giorno, quando suonò la campana del rancio, tutti si schierarono in coperta in attesa del cibo. E fu allora che il ragazzo ebbe un lampo di genio. Aveva notato che tutti i portoghesi avevano dei valigioni di fibra pieni di generi alimentari che, evidentemente, si erano portati per integrare il poco e cattivo vitto passato dalla nave. E aveva anche notato che il valigione del portoghese impazzito era rimasto nella sua cuccetta. Detto fatto: mentre nelle camerate non c’era nessuno, lui vi sgattaiolò e, aperta la valigia del portoghese, prelevò una buona quantità di formaggio, molte castagne e anche qualcos’altro. Era salvo !
Un altro giorno mentre la nave si trovava nel bel mezzo dell’oceano, ecco che all’occhio curioso, attentissimo a tutto, del ragazzo apparve un mare tutto cosparso di strani getti d’acqua che sembravano immensi fiori. Alle sue esclamazioni di meraviglia, un portoghese che parlava un po’ di italiano gli disse che erano capidogli, bestioni simili alle balene. E gli disse anche che dalla testa di ciascuno di quei bestioni si poteva ricavare assai più di un barile d’olio. Così Cesare registrò nel suo cervello assorbente anche questa esperienza, arricchendosi ulteriormente.
Il viaggio era a buon punto. Ormai mancavano soltanto tre o quattro giorni all’arrivo allorché, come un fulmine a ciel sereno, circolò la voce che, fra i membri asiatici dell’equipaggio si era manifestato un caso di peste o, forse, di colera.
E, infatti, arrivati a Providence, la nave si fermò distante dalla banchina e inalberò la bandiera gialla che significa “Malattia contagiosa a bordo”. Tutti furono invasi dalla disperazione. Quello voleva dire dover rimanere in quarantena per 40 giorni. Una rovina.
Una lancia raggiunse la nave e una commissione sanitaria salì a bordo e vi si trattenne a lungo. Presumibilmente visitò la persona o le persone ammalate per accertare la natura del male. Poi se ne andò. E nessuno poté sbarcare. Calò la sera , trascorse la notte e si fece di nuovo mattino.
Improvvisamente la buona notizia: non si trattava di malattia infettiva. E l’autorizzazione a sbarcare fu data. Tutti i portoghesi sbarcarono e rimasero a bordo soltanto quelli imbarcatisi a Marsiglia. Passò un altro giorno e un’altra notte. Al mattino, prima dell’alba, la nave salpò mentre tutti dormivano ancora.
Dopo poche ore la nave giunse a New York. Cesare, stupito e ammirato, poté ammirare, entrando nel porto, la grande statua della libertà. Erano passati 23 giorni dal momento dell’imbarco. Era il 3 aprile 1915. Finalmente Cesare, quattordicenne, era in America.
L’AVVENTURA AMERICANA
Appena sbarcati furono sottoposti prima al controllo dei documenti e poi ad accertamenti sanitari. Cesare fu visitato per primo, vaccinato e dichiarato idoneo all’ingresso negli Stati Uniti. Ma il padre Carlo non lo fu, a causa di sospetto tracoma, avendo gli occhi arrossati. Egli chiese subito una ulteriore visita specialistica che gli fu accordata, ma intanto fu necessario separarsi dal figlio, col rischio, se la malattia fosse stata confermata, di essere rispedito in Francia. Così prese da parte il figlio e gli disse come doveva contenersi se lui fosse stato respinto. Disse che ora lo avrebbero portato alla stazione e che lui avrebbe dovuto mostrare l’indirizzo di Giorgio (che gli aveva dato, scritto su un foglio) a un agente e, quello, lo avrebbe indirizzato e fatto arrivare a destinazione.
Cesare impallidì e Carlo cercò di tranquillizzarlo come meglio potè. Ma la prospettiva di ritrovarsi solo, senza conoscere la lingua, in quell’immenso paese era veramente inquietante.
Tuttavia non c’erano alternative, per cui, salutato il padre che gli consegnò un po’ di moneta francese (gli disse che avrebbe potuto spenderla senza difficoltà) e gli consigliò di acquistare del cibo prima di partire perché durante il viaggio difficilmente avrebbe potuto farlo, si lasciò condurre fuori dall’edificio fino a quello che a lui parve un marciapiede, proprio sulla riva dell’Hudson. A un tratto, con sua grande sorpresa, il “marciapiede” si staccò dalla riva e prese a navigare lungo il fiume. Si trattava di una chiatta a motore che, dopo un lungo tragitto, approdò proprio davanti alla stazione ferroviaria. Entrato nella stazione brulicante di folla, cominciò a guardarsi in giro cercando di scorgere un agente o un ferroviere, ma il tempo passava e non vedeva nessuno. Ansiosamente, con il cuore stretto dall’angoscia, cominciò a chiedere a questo e a quello: “Parlate italiano ? Parlez vous francais ?”. Ma tutti scuotevano la testa.
Finalmente intravide un uomo in divisa, forse un ferroviere, e, raggiuntolo, gli mostrò il foglio con l’indirizzo. Questi lo lesse, poi lo prese per un braccio e lo accompagnò a una panchina facendogli capire che doveva sedere lì e addendere. Cesare lo fece, ma il tempo passava e non succedeva nulla.
Alla fine cominciò a temere che quel ferroviere lo avesse dimenticato e, allora, vistone un altro, anche a quello mostrò l’indirizzo. E anche quello lo fece sedere e aspettare. Il fatto che tutti e due gli avevano detto le stesse cose con aria tranquillizzante lo calmarono un po’. Ma si sentiva sempre smarrito e coi nervi tesi. Intanto si era fatta sera e anche questo aumentava lo smarrimento. Finchè, a un tratto, vide suo padre che avanzava guardandosi in giro, cercandolo. Fu, per Cesare, un momento meraviglioso. Lo chiamò: “Papà, papà !!”. Carlo lo udì e gli venne incontro sorridendo. E lui, in un impulso irresistibile, gli gettò le braccia al collo e lo abbracciò. Subito dopo, però, arrossì vergognandosene. Fra loro, infatti, mai c’era stato un gesto affettuoso che, forse, veniva considerato una debolezza. Comunque anche il padre fu premuroso e gli chiese se era stato in pensiero e se avevo mostrato l’indirizzo….E tornò a dirgli che in ogni caso se la sarebbe cavata bene anche da solo. Ma Cesare era ben contento di non aver dovuto sottostare a quella prova.
Salirono sul treno che era già scesa la notte. La vaccinazione del mattino probabilmente dava al ragazzo un po’ di febbre. Fra quella e le tensioni della giornata egli era stremato e dolorante. Ma non riusciva a dormire. E il treno correva velocissimo nella notte. A un tratto – erano già trascorse diverse ore – il treno si fermò in aperta campagna. Si udiva, all’esterno, un forte sfrigolio. Il padre, svegliatosi, si affacciò ad osservare e disse che stavano buttando acqua sulle ruote per raffreddarle perché dopo tanto correre si erano arroventate.
Il treno corse tutta la notte e buona parte del mattino dopo, prima di giungere a una stazione. Erano in Canada e Cesare riconobbe i soldati canadesi che già aveva visto in Francia. Dal finestrino vide che, in quella stazione, vendevano delle crostate di fragole e ciliegie. La mattina precedente, prima di scendere dalla nave, aveva rosicchiato un po’ di crosta di pane. Poi più nulla. E ora si sentiva sfinito. Chiese al padre se potevano comperare una fetta di crostata e questi disse che sarebbe sceso a comperargliela. E così fece. Ma c’era una gran confusione e il ragazzo lo perse di vista. E, quando il treno ripartì, temette che fosse rimasto a terra. Così si rinnovarono la sua angoscia e il suo smarrimento. Per fortuna dopo poco il padre comparve in fondo al corridoio con una gran fetta di torta in mano. Cesare sospirò di sollievo e mangiò la torta rinfrancandosi un po’. Ora Cesare, finalmente tranquillo, aveva ripreso a guardare le cose con la consueta curiosità. Stavano attraversando una zona boscosa e, lungo il binario, si vedevano migliaia di conigli che fuggivano terrorizzati. Più avanti, su una collinetta, ecco un accampamento indiano. Alcuni uomini guardavano, immobili e con le braccia incrociate, il passaggio del treno. Non avevano, però, le penne sul capo come Cesare li immaginava. E ne fu deluso.
Il viaggio durò per tutto quel giorno e per tutta la notte seguente. Solo al mattino ancora successivo giunsero a Chicago.
Carlo era pratico dei luoghi per avervi soggiornato in passato, per cui presero il tram e rapidamente giunsero nella 50^ strada sud e scesero a cento metri dalla casa di Giorgio. Esso abitava in una casa dignitosa di proprietà della suocera con questa stessa suocera, la moglie Adelina Ghiselli (Lina), il piccolo figlio Billy di poco più di un anno e il cognato ancora celibe. Il piano terra della casa, in muratura, era interamente occupato da un grande saloon mentre il primo piano, in legno verniciato, costituiva l’abitazione. Lina era una maestra di pianoforte diplomata e dava parecchie lezioni. Giorgio, allora ventottenne, era un bel giovane, estremamente generoso, che lavorava e viveva agiatamente, ma non aveva la virtù del risparmio e, quindi, non accumulava denaro.
Cesare e il padre salirono la scala esterna che saliva all’appartamento e entrarono, festosamente salutati da Lina e dalla madre. Giorgio era ancora a letto ma si alzò subito a salutarli, interessandosi affettuosamente al fratello che non aveva mai visto. Disse che l’avrebbe mandato a scuola per imparare subito l’inglese e faceva mille progetti per lui. Ma Cesare, sfinito dalla fatica del viaggio e febbricitante per il vaccino, era piuttosto depresso. Carlo disse del vaccino e della probabile febbre, e allora tutti lo circondarono di cure e di attenzioni e, dopo avergli dato a bere del latte caldo lo fecero coricare nel letto del cognato di Giorgio dove si addormentò come un sasso e dormì tutto il giorno. La sera era di nuovo in forma, mangiò di buon appetito e si sentì pronto ad affrontare l’America. Anche il padre per quel giorno aveva riposato, ma subito il mattino dopo (avevano dormito in una camera situata in una casa vicina, sempre di proprietà della suocera di Giorgio) si alzò di buon’ora e si recò dal suo vecchio datore di lavoro che fu lieto di rivederlo e che decise di riassumerlo subito. Poi si recò dal Giulio, un amico di Camporgiano (fratello della madre della Stelvia Santarini) che gestiva un ristorante e gli chiese lavoro per Cesare. Giulio assicurò che lo avrebbe assunto come sguattero con la paga di 20 dollari al mese più il vitto. Avrebbe iniziato a lavorare subito il giorno dopo. Fra i molti italiani che vivevano a Chicago, molti erano garfagnini e un certo numero erano proprio di Camporgiano. Essi erano molto solidali fra loro e non era difficile trovare lavoro nelle aziende che molti di loro avevano creato e gestivano. Così Carlo non aveva perso tempo e aveva subito procurato un lavoro per sé e per il figlio. Stupisce la fretta con cui aveva fatto questo. In fondo aveva in città due figli ben sistemati che lo avrebbero accolto di buon grado in casa loro dove avrebbero potuto, lui e Cesare, riposare qualche giorno. Ma la filosofia di Carlo era che nessuno doveva accettare di farsi mantenere da altri. Ognuno doveva essere autosufficiente e guadagnarsi da vivere. E anche il giovane Cesare avrebbe dovuto farlo. Subito.
Quella mattina Cesare era rimasto a letto a riposare, ma subito nel pomeriggio andò col padre
a trovare l’altro fratello, Corrado, allora ventiseienne. Lo trovarono nel grande saloon dove lavorava come barista. Fu anche lui, molto affettuoso, ma potè trattenersi poco con loro perché stava lavorando. Allora i due andarono a casa sua per salutare la moglie Mary Magdelene Latourasse, una francese e la figlia Margherite Emily di tre anni. Mary era una donna molto gentile e molto garbata e Carlo raccomandò al figlio di essere gentile ed educato. Furono accolti molto affettuosamente da lei che si occupò subito di Cesare che gli sembrava un po’ pallido. Poi volle vedere il braccio dove era stato iniettato il siero antivaioloso e, trovatolo rosso e gonfio lo medicò e lo fasciò. Quando poi seppe che il giorno dopo avrebbe cominciato a lavorare fu contrariata e disse che non avrebbe dovuto cominciare subito. Ma Cesare voleva iniziare subito a lavorare e a guadagnare e disse che si sentiva bene e che non avrebbe avuto difficoltà a cominciare la mattina dopo. In realtà era ancora debole, ma l’affetto e la gentilezza di questi fratelli e delle cognate lo avevano tonificato e si sentiva sicuro di sé e fiducioso nell’avvenire.
E cominciò a lavorare. Doveva alzarsi alle cinque per arrivare sul luogo di lavoro e fare tutte le pulizie del locale entro le sette, ora di apertura al pubblico. Sgomberare il locale dai tavoli e dalle sedie e lavare tutto il pavimento era piuttosto faticoso per lui che non aveva ancora recuperato tutte le forze. Poi c’era anche da lucidare il lungo zoccolo di legno, da pulire il banco e, infine, da lavare piatti, pentole e quant’altro. La sera non terminava mai il lavoro prima delle 20 e mai era a casa prima delle 21. Il lavoro durò un mese. Furono trenta giorni di duro lavoro, domeniche comprese e, durante quel mese, non vide mai né Giorgio che era occupato nel saloon fino a mezzanotte, né il babbo che lavorava di notte.
Pochissimo vide anche la cognata Lina perché il più delle
volte,
stanco morto, andava direttamente in camera.
Dopo un mese il Giulio disse che aveva preso
in società un cugino (Peppino Luccarini, fratello
di Arturo, il padre di Lamberto) e avrebbero
fatto da soli. Così Cesare fu licenziato e il giorno
dopo potè rivedereGiorgio e il padre. Quest’ultimo,
che era stato un mese senza vederlo, rimase sbalordito
dalla crescita che il suo ragazzo aveva fatto in quel
mese. Infatti la giacca era diventata troppo stretta
e i pantaloni non arrivavano più in fondo alle gambe.
Per il lavoro non doveva preoccuparsi : avrebbe cercato
di farlo assumeredalla Ditta Da Prato e C. Questo Da
Prato era di Barga ed era contitolare di una fabbrica
di statue di gesso nella quale erano occupati più di
ottocento operai. Intanto Cesare, coi venti dollari
guadagnati corse a comperarsi un paio di pantaloni
di giusta misura e sostituì la giacca troppo piccola
con una giacca smessa del cognato di Giorgio. Quella
era un po’ troppo abbondante ma sempre meglio
dell’altra.
Le scarpe e il berretto erano ancora quelli acquistati a Marsiglia. Così vestito il padre lo portò da un fotografo e volle fare una foto insieme a lui. Era il maggio del 1915. Cesare aveva quattordici anni e quattro mesi.
Il Da Prato non ebbe difficoltà ad assumere il ragazzo e lo invitò a presentarsi subito la mattina dopo alle sette per la colazione. Questa ditta, infatti, pagava dei salari piuttosto bassi, però dava ai dipendenti vitto e alloggio. Il vitto era eccellente, ma per dormire bisognava sistemare le brandine in un magazzino, in mezzo alle statue. (Cesare, comunque, non vi dormirà. Rimarrà ancora un po’ da Giorgio, ma dopo che Carlo, sempre estremamente suscettibile, avendo preso male qualche sciocchezza, andrà a vivere da Corrado, Cesare sarà ospitato in casa e dormirà con il cognato di Giorgio. Però, dovendosi svegliare alle 5, creando disagio anche per il compagno di camera, per poter essere allo stabilimento alle 7, lascerà anche lui la casa di Giorgio, troverà una camera in casa di due giovani sposi di Gallicano molto più vicina al luogo di lavoro e vi si trasferirà.)
Quella sera il padre Carlo si preoccupò di chiamare un paesano, l’Arturo del Mugnaio (che era un fratello del padre di quel ragazzo che chiamavano “lo Spirù”) che dormisse col figlio e, il mattino dopo, lo accompagnasse in fabbrica, perché Cesare non sapeva dov’era.
E il mattino dopo sveglia alle cinque per essere in fabbrica prima delle sette.
LA FABBRICA DI STATUINE
Cesare si presentò in direzione ove trovò un impiegato che disse di essere “un paesano”, tale Santarini fratello del Silvio padre della Sandra.
Fu assegnato al reparto di rifinitura dove lavoravano molti camporgianesi. Il suo posto di lavoro si trovava fra due operai anziani, entrambi di Camporgiano: un certo Angiolo Tonini, fratello del padre di Paola, dai grandi baffoni e un certo Fiorani, pure lui baffuto e scuro di carnagione. Di quest’ultimo aveva conosciuto le figlie che andavano a scuola con lui. Un altro suo figlio era il “Tranquillo”, padre del Ferruccio e dell’Umbertina. Fu fornito di una veste adatta e, sotto la guida degli anziani, cominciò il suo lavoro. Doveva piacergli, perché nelle sue memorie ne parla a lungo, descrivendo particolareggiatamente tutte le procedure e non solo del suo reparto. E anche l’ambiente doveva risultargli quasi familiare per i tanti camporgianesi che vi lavoravano e che, per solidarietà paesana, parlavano con lui usando modi amichevoli e gentili.
Ne conosceva continuamente di nuovi. Un giorno, mentre era al suo posto di lavoro, passò un caporale e si fermò davanti a lui per osservarne il lavoro. A un tratto, con grande sorpresa di Cesare, se ne uscì con la domanda: “Il tuo fratello Guido dove si trova ? E tu con chi stai ? Con Giorgio o con Corrado ?” Poi, visto lo stupore del ragazzo, gli disse che era un Comparini di Camporgiano. Quando si fu allontanato, l’Angiolo gli disse, con l’aria di chi comunica una notizia importante: “Lo sai chi è quello lì ? E’ il fiol del Gallo”. Cesare non aveva mai conosciuto nessun “Gallo” ma ricordò un paio di cose curiose che racconta nelle sue memorie. La prima riguarda il vecchio Gallo, che non doveva godere di buona fama. Infatti un certo “Baccan” lontano parente dei Pellegrinetti e gustoso poeta estemporaneo, in occasione di un furto che era stato commesso a Camporgiano, scrisse un sonetto che, a un certo punto, diceva:
“Tu, Natal fiol del Bona
e tu, Gallo Comparini
insegnateci i quattrini
la giornata sarà bona”
nel quale si indicavano nei due gli autori del furto. L’altra cosa che Cesare ricordava di aver sentito raccontare era questa: Quando il Gallo emigrò, molti anni prima, lo fece con tutta la famiglia. Ma, durante la traversata, la sua vecchia madre morì e fu gettata in mare. La cosa, risaputa, aveva destato una certa sensazione.
Un altro personaggio che conobbe in quella fabbrica fu un altro caporale che si chiamava Tonsoni.
Apparteneva a una vecchia famiglia di Camporgiano, di cui non era rimasto nessuno nel paese, emigrata al completo molti anni prima. A questa famiglia era stato assegnato un lotto di terra nel Michigan e qui avevano impiantato una florida fattoria. Il caporale, però, aveva lasciato la fattoria ed era venuto a Chicago per rendersi indipendente. Qui aveva sposato una vedova fiorentina con una figlia e in casa sua andò ad abitare Carlo, quando lasciò la casa del figlio Corrado.
Insomma la vita in quella fabbrica non era male e Cesare ci si era adattato piuttosto bene. Curioso era anche il sistema di pagamento praticato: Ogni fine settimana il capo freparto comunicava ad ogni operaio la cifra guadagnata e chiedeva se desideravano riscuoterla interamente o meno. Nel caso che la cifra, o parte di essa, non venisse riscossa, veniva accreditata su un libretto di risparmio.
Cesare, che aveva ancora in tasca quel che era rimasto dei venti dollari guadagnati col primo lavoro, per diverse settimane non ritirò nulla e fece accreditare tutta la paga sul libretto. Ma a un certo punto adocchiò in una grande vetrina un bel vestito e decise di comperarselo. Così si recò
nel grande magazzino che occupava diversi piani, fra cui alcuni sotterranei, di un grande grattacielo
e al commesso cercò di spiegare cosa voleva.
Il commesso, solertissimo, capiva le cose al volo e non ci furono problemi. Lo fece accomodare in
un salottino e gli prese le misure che annotò in un apposito stampato. Poi mise il vestito in un
contenitore che si mosse e portò il tutto verso i piani superiori. Disse a Cesare di attendere e lo
fece accomodare su una poltrona. Dopo un po’ il commesso si rifece vivo, invitò Cesare a seguirlo,
gli fece provare la giacca che andava benissimo, mise tutta la merce acquistata in un pacco e disse la cifra da pagare. Cesare consegnò banconote sufficienti e il commesso, dopo averle messe in una
busta, infilò questa in uno sportellino dal quale la busta fu aspirata via. Dopo un attimo la busta ritornòindietro con dentro il resto. Cesare rimaneva a bocca aperta di fronte a queste meraviglie mai
viste. Ne parlò anche con Giorgio e Lina che, sorridendo,
gli spiegavano tutto
quel che c’era da sapere sui sistemi
di vendita di quei grandi magazzini che – dicevano –
vendevano di tutto, dalla spilla all’aeroplano.
Ora Cesare, che fino ad allora possedeva soltanto quel
che aveva indosso, non solo era vestito decentemente
ma possedeva un piccolo guardaroba. Così Lina gli disse
che doveva acquistare una bella valigia grande per
conservarci tutta la sua roba. Cosa che fece subito.
Ancora una volta il padre Carlo, quando lo vide, lo
rimirava compiaciuto e volle fare di nuovo una foto
insieme a lui (vedi qui a lato).
Quel giorno andò, col padre, a visitare un paesano
che aveva fatto i soldi. Si trattava di un certo Ubaldo
Bartolomasi, fratello dell’Alessandro e, quindi, zio dei
suoi figli Gino, Giulio, Ezio, ecc. e anche zio, perché
fratello della madre, dell’Umberto , dell’Osvaldino
Micotti, ecc.
Questo signore ormai anziano e corpulento, parlava
adagio, e li ricevette dietro la cassa del suo ristorante
e saloon di lusso che si trovavano in un palazzo di sua
proprietà. La sua storia, narrata con orgoglio da lui
stesso, fu singolare. Egli, emigrato in America verso il
1870, si era sistemato a Springfield. Quando a Chicago
era tutto un fervore di opere per la ricostruzione dopo il
disastroso incendio che lo aveva distrutto e per la
costruzione di un forte a difesa contro le scorrerie indiane,
egli vi si recò a cavallo, portando due grosse ceste piene di statuine, aghi, bottoni, cotone e altre cose. Le espose cercando di venderle ma la gente, indaffarata, non gli badava. Allora lui notò lì presso una capannuccia coperta di erbe palustri e la incendiò. La cosa attirò lì intorno un bel po’ di gente che, alla fine, si avvicinò al venditore e gli acquistò tutta la merce. Non solo, ma lo invitò a ritornare e a portare tanta roba e, specialmente, whisky. E lui ritornò, più volte, e fece buoni affari. Tanto che decise di fermarsi. Acquistò una vecchia baracca abbandonata, la risistemò e ne fece un modesto ristorante per gli operai nonché una rivendita di whisky. Fu un successo immediato e, non molto tempo dopo, potè iniziare la costruzione del palazzo dove ora si trovava. Era la figura tipica dell’emigrante che aveva avuto successo e che si era fatto da sé. Carlo gli domandò notizie di un suo nipote, l’Umberto Micotti, che in uno dei suoi precedenti viaggi, aveva accompagnato in America. Lui disse che non se ne occupava perché doveva imparare a cavarsela da solo. Quando quell’uomo morì lasciò la sua fortuna ad una figlia adottiva. Lasciò, però, anche un legato di mille dollari a ciascuno dei suoi molti nipoti, cioè i suddetti figli del fratello Alessandro e della sorella madre dell’Osvaldino, nonché ai figli dell’altro fratello Carlo, padre del Nellino.
Nei mesi successivi Cesare riuscì abbastanza agevolmente a risparmiare le 300 lire che doveva restituire a Nello, che gliele aveva prestate per il viaggio, e ne fu lieto. Ora poteva guadagnare e risparmiare per se stesso. Fu un periodo felice. Il lavoro non era pesante e le domeniche si faceva festa. Cesare aveva un rapporto bellissimo col fratello Giorgio, che ammirava moltissimo e che amava. Giorgio era un uomo allegro, generoso, sicuro di sé. Amava il gioco e le donne ed era un po’ spendaccione, ma era molto affettuoso con i suoi familiari, specie con questo fratellino che aveva conosciuto soltanto in America. Ogni domenica lo portava con se a pescare, qualche volta sul lago Michigan, altre volte nel grande parco posto a sud della città. Cesare ammirava la grandiosità di quel parco, con molti laghetti circondati da grandi piante di salice dai lunghi rami che scendevano fino all’acqua, pieni di scoiattoli dalle grandi code a punto interrogativo.
I due noleggiavano una barca e pescavano fino a mezzogiorno in mezzo al lago. Poi si portavano a riva, sotto i frondosi salici e qui consumavano tranquillamente il desinare al sacco che si erano portati, con gli scoiattoli che saltellavano attorno scendendo fin quasi a rubare il cibo.
E non era infrequente che lo portasse anche in altri luoghi. Una volta, mentre stavano andando a pescare, Giorgio si fermò davanti a un saloon. Entrarono e Cesare vide con sorpresa che dietro il banco c’era il Guglielmo Suffredini, di Camporgiano, zio del Peppe martito della Milly. Egli gestiva il locale insieme al Berto Tonini, fratello dell’Angiolo che lavorava in fabbrica con Cesare.
Questo Guglielmo, però, era molto preoccupato per il comportamento del suo socio che si era infatuato di una donna che gli mangiava tutti i suoi soldi.
Un’altra volta lo portò in un paesino chiamato Sisero, abitato quasi esclusivamente da veneti. Qui mangiarono “polenta e osei” e bevvero a sazietà. Dopo mangiato ballarono tutto il giorno e Giorgio si prese una solenne sbornia.
A proposito di sbornie va ricordata anche quella che Cesare si prese in ottobre, il giorno del “Columbus dey”. Nello stabilimento del Da Prato egli era il più giovane, per cui fu dato a lui l’incarico di portare ad ogni operaio un bicchiere di whisky che la ditta offriva. E così fece il giro dello stabilimento con un gallone pieno, offrendo a ciascun operaio, sul posto di lavoro, il bicchiere di whisky spettante. Ma molti di loro volevano che anche lui brindasse con loro e, malgrado lui cercasse di evitarlo, non a tutti poteva dire di no. Quando poi arrivò al laboratorio degli scultori vi trovò uno scultore di Pietrasanta e due polacchi e costoro vollero assolutamente che bevesse anche con loro. Alla fine del giro a lui pareva di star bene e andò regolarmente in cucina a riconsegnare il gallone. Poi andò al gabinetto e…..si risvegliò la sera, quando il lavoro era già terminato e alcuni operai che dormivano nello stabilimento gli dissero di averlo trovato addormentato nel gabinetto. Aveva un gran mal di testa e quegli operai gli consigliarono una passeggiata in riva al lago prima di andare a casa. Il mattino dopo era tutto a posto, ma da quel momento non assaggiò più un goccio di whisky.
Nelle sue memorie Cesare narra un paio di fatti accaduti dal Da Prato che lo avevano molto colpito. Una domenica, dopo aver pranzato (la ditta forniva il pasto ai suoi operai anche la domenica) si attardò a visitare il reparto caricamento e imballaggio e vide il grande ascensore che portava il materiale che doveva essere imballato e spedito. E qui seppe che poco tempo prima il capo imballatore vi aveva perso la vita in modo tragico. Egli, infatti, si era affacciato per vedere se l’ascensore stava arrivando. L’ascensore arrivò, fulmineo, e lui non fece a tempo a ritirarsi e ne fu letteralmente decapitato.
L’altro fatto riguardò un operaio italiano, di Castelvecchio, che a un certo momento sparì lasciando la sua roba e il suo libretto di risparmio. Qualcuno si preoccupò di avvertire la famiglia in Italia e da qui si seppe che la moglie di questo operaio aveva avuto un figlio da un altro uomo. E il marito era stato avvertito. Passò del tempo. In autunno, quando stavano per essere accesi i termosifoni, la ditta fece ripulire, come di consueto, la ciminiera. E, in fondo ad essa, fu rinvenuto il cadavere di quel povero operaio. Era salito fin sulla vetta della ciminiera e vi si era buttato dentro. Cesare riflettè a lungo su quel fatto. Conosceva molti paesani che lavoravano lì in America ove rimanevano per anni e avevano lasciato la moglie, spesso giovane e sola, in Italia. Non era cosa buona, pensò. Era anche per questo che, a quel tempo l’emigrazione italiana non era vista di buon occhio. Questi uomini così lontani dalle loro donne erano considerati socialmente pericolosi.
In quegli anni in America erano già piuttosto diffuse le automobili e Cesare ebbe modo di notare anche delle automobili FIAT. Fu molto fiero nell’apprendere che si trattava di auto costruite in Italia, ma pensava che quel “fiat” fosse una parola latina presa a prestito da quella fabbrica per dare un nome alle sue auto. Solo molto dopo, tornato in Italia, seppe che quel FIAT significava, come tuttora significa “Fabbrica Italiana Automobili Torino”.
Ormai Cesare si era ben ambientato, conosceva diverse persone e cominciò a porsi il problema di trovare un lavoro più remunerativo. Sapeva che lavorando nei saloons si guadagnava molto di più e, la sua mentalità di emigrante gli diceva che la paga del Da Prato era troppo bassa per poter accumulare in fretta un po’ di soldi. Così cominciò a guardarsi in giro e ad offrirsi a diversi saloons come uomo delle pulizie.
Non passò molto tempo prima di trovare lavoro in un grosso saloon situato proprio nella via centrale di Chicago. Era un locale molto vasto e aveva, sul retro (backroom), un’ampia sala suddivisa in tanti “booth” (separè) da quattro posti ma, generalmente occupati da coppiette o da donnine in cerca di avventure. Il locale apparteneva ai fratelli Funai di Barga, due scapoli che avevano fatto fortuna e che, quindi, passavano a turno un anno in America e uno a Barga in vacanza. Oltre a questo possedevano un altro locale nella medesima strada che gestivano direttamente. Questo, invece, era diretto da un cognato che viveva al piano superiore in un grande appartamento dove non solo viveva lui, la moglie Mary e un figlio che aveva circa l’età di Cesare, ma anche i due Funai (o meglio: quello dei due che non era in Italia) e anche tutti i dipendenti, che erano quattro, ai quali, oltre allo stipendio, veniva offerta la pensione completa. Anche Cesare, quindi, che era uno dei quattro, si trasferì in quell’appartamento molto ospitale. E vi stette molto bene. Mary, la padrona di casa, che faceva da mangiare per tutti aiutata da un’anziana donna pisana, era molto materna con lui (“Io ho due figli” soleva dire guardando Cesare, coetaneo del suo vero figlio). E lo accudiva proprio come una madre. Era lei che vedeva quando lui aveva necessità di nuovi capi di vestiario e provvedeva lei stessa ad acquistarglieli. Ora la valigia non gli bastava più a contenere il suo corredo e dovette comperare un bel baule grande che venne presto riempito. Il fratello Giorgio, poi, quell’inverno gli regalò un bel berretto di morbida pelliccia nera e un paio di gemelli d’oro, mentre Corrado (con la affettuosissima moglie Mary) gli regalò una grossa spilla fermacravatta pure d’oro. Certo erano cambiate per lui molte cose da poco più di un anno avanti, quando girovagava per Marsiglia con gli abiti stracciati e dormiva in un fienile !
IL SALOON
E cominciò il suo nuovo lavoro. Uno dei compagni di lavoro era Nello Luconi di Camporgiano (un fratello del famoso “Taton”. Cesare lo descrive come un ottimo compagno di lavoro e come un giovane molto giudizioso. E, infatti, era riuscito in breve tempo a risparmiare il denaro per farsi costruire in Camporgiano una bella casa in Via Garibaldi (quella dove ora abita la “Terè”, il Moreno Satti e il figlio del Nello Telloli). Un altro compagno di lavoro col quale dormiva era un certo Bracaloni, pisano, buon giovane ma un po’ scioperato e sempre senza soldi.
Il nuovo orario di lavoro era il seguente: dalle 5 del mattino a mezzogiorno e dalle 18 alle 24. Erano ben 13 ore di lavoro. Il sabato, però, terminava verso le 14 e riprendeva soltanto alle 5 del lunedì mattina. Aveva, così, tempo a sufficienza per poter andare a trovare il padre, i fratelli e le cognate, specie Mary cui era particolarmente affezionato. La prima volta che andò da lei vi trovò anche il padre che, a quel tempo, viveva in casa di Corrado e Mary e fu molto gratificato e commosso dall’accoglienza affettuosa della donna che, meravigliata dal cambiamento fatto da Cesare in quei pochi mesi, lodò il suo eccellente aspetto di “giovane uomo”. Mary era veramente una donna meravigliosa e il calore che trovava in quella famiglia compensava largamente il periodo marsigliese, durante il quale erano mancati completamente una famiglia e ogni affetto. Quando uscì, accompagnato dal padre, questi gli disse che era una splendida donna e che con lei si trovava proprio benissimo. Peccato che, dopo poco più di due mesi, l’inquieto Carlo, per sciocchi malintesi abbandonò anche quella sistemazione. Era veramente un uomo dal carattere difficile.
Cesare tornò più volte a trovare Mary e la consolò del dolore che le aveva dato Carlo andandosene.
Egli amava molto anche giocare con la nipotina Margherite, molto carina.
Il suo lavoro al saloon consisteva in questo: al mattino la prima cosa era il lavaggio del pavimento, del grande banco, della ampia vetrina e la preparazione del “lunch” che consisteva nel sistemare su un apposito banco un ricco assortimento di elementi: roast-beef, affettati vari, formaggio, pane, eccetera. Tutto questo doveva essere pronto per le 6.30, ora di apertura.. Poi bisognava sistemare in cantina le botti di birra che alimentavano i rubinetti del banco. Fatto questo, egli toglieva gli abiti da lavoro e indossava un candido giacchino col davanti inamidato e un lungo grembiule, pure candido e lungo fin sotto il ginocchio. E si metteva dietro il banco come aiuto barista. Qui imparava a preparare certe bevande fatte con uova e vari tipi di liquore. E, soprattutto, imparava a servire. Anche durante il turno serale stava al banco insieme al direttore, che faceva anche il barista.
Intanto, dal 24 maggio di quel 1915, l’Italia era entrata in guerra contro Austria e Germania. Pochi giorni dopo Cesare vide l’Alfredo Borghesi che gli disse: “I bersaglieri hanno sbaragliato gli austriaci e hanno occupato Monfalcone”. Cesare, che fin da ragazzo aveva imparato a seguire gli avvenimenti del mondo, specie le guerre in cui era coinvolta l’Italia, era anche ora molto attento e molto informato. Gli piacque che quel paesano mostrasse tanto patriottismo. In seguito, però, potè notare che costui non rispose all’ordine di mobilitazione esteso anche agli emigranti e solo più tardi si arruolò nell’esercito U.S.A. E non apprezzò la cosa. Molti furono, invece, i paesani che risposero alla chiamata e rientrarono per far la guerra. Cesare ricorda: l’Arturo del mugnaio, che morì, l’Umberto Micotti, che rimase invalido, il Soletti, morto in combattimento, il Silvio Boggi, il Bartolomasi, zio della moglie del Fausto Santarini, Luccarini Osvaldo (per il quale si stava pensando a una colletta per rimandarlo in Italia perché, preso dalla nostalgia, non faceva che piangere e non riusciva a lavorare), l’Arturo Luccarini, padre del Lamberto e della Licia, uno zio del Donato che abitava a La Spezia, un De Fabio detto Periconi, fratello della Cordelia e molti altri.
Egli andava frequentemente alla stazione a salutarli mentre partivano con treni speciali, insieme ad una folla di italiani, specie meridionali della “Little Italy”, che accorrevano con grandi bandiere tricolori. Cesare aveva i fratelli Beniamino Nello, Guido e Azelio al fronte fin dall’inizio. Nello partecipò all’offensiva che portò alla conquista di Gorizia e scrisse che era fiero di essere stato fra i primi ad attraversare l’Isonzo. Beniamino e Azelio erano sul Carso. Guido partecipò all’azione che portò alla riconquista dell’altipiano di Asiago, nel 1916, e fu ferito gravemente (un proiettile gli attraversò l’intestino e fuoriuscì dalla parte opposta). Scrisse al padre una lettera fiera dichiarandosi forte come una verga di acciaio. Ritornerà al combattimento dopo poco tempo e sparirà nel turbine di una battaglia. Cesare, col cuore gonfio di patriottismo, seguiva spasmodicamente le vicende della guerra, angosciandosi quando le nostre truppe subivano qualche rovescio ed esaltandosi quando la sorte era favorevooe alle nostre armi. Egli comperava ogni giorno il “Progresso Italo-Americano” stampato a New York in italiano e anche qualche giornale americano come il “Chicago Tribune” che riportava interamente in italiano il comunicato ufficiale. Ed era lui che, durante i pasti, sia a pranzo che a cena, illustrava ai commensali che, certo, non leggevano il giornale tutti i giorni, l’andamento della guerra con speciale riferimento a quel che accadeva sul fronte italiano. Anche il Signor Funai, il proprietario, pranzava con loro e ascoltava con attenzione. E aveva messo a Cesare il soprannome di “Cadorna”, che era il comandante dell’esercito italiano.
A questo punto della sua storia, Cesare dice: “Ormai ero un giovanotto, con la sicurezza e le aspirazioni dei giovanotti. Mi sentivo forte, sicuro di me e ardito” In realtà nel 1916 aveva soltanto quindici anni, ma la vita lo aveva maturato velocemente e il suo notevole sviluppo fisico ne faceva, ormai, effettivamente, un uomo. E come tale si comportava anche sul lavoro.
Occorre sapere che nel saloon, benchè frequentato generalmente da persone per bene, capitava ogni tanto anche qualche disturbatore che provocava litigi e risse. In quei casi si provvedeva con grande tempestività a sgomberare subito il locale cacciando fuori senza tanti complimenti, usando anche il manganello, i litiganti. E anche questo rientrava fra i compiti di Cesare, che se la cavava egregiamente. Quando era necessario, svelto come un fulmine, stordiva il rissoso con un pugno in un occhio, dopo di che lo buttava verso la porta con un energico spintone e, prima di riaversi, il malcapitato si trovava sul marciapiedi sul quale, il più delle volte, rovinava a terra.
Una volta capitò un tizio ben vestito che, forse perché alticcio, cominciò a schernire un gruppetto di operai polacchi che erano appena tornati dal lavoro e, quindi, avevano abiti da fatica. Questi, che erano anche uomini robusti, si stavano irritando e, probabilmente, stavano per scatenare una rissa.
Allora Cesare, per evitare il peggio, si rivolse al provocatore invitandolo a bere la sua birra e a stare zitto. L’uomo, irritato, si rivolse a lui con fare altezzoso: “Tu, maledetto ragazzaccio, osi dirmi questo !? “ Non fece a tempo a finire la frase che Cesare, saltato il banco, lo colpì all’occhio con un violento pugno su cui scaricò tutto il suo peso. L’uomo barcollò e stava per crollare contro il muro, ma non ci arrivò. Cesare, infatti, applicando la sua tecnica, lo scaraventò verso la porta con una violenta spinta e, qui giunto, lo gettò sul marciapiedi con un altro violento pugno sulla nuca.
Un uragano di applausi dei polacchi e di altri clienti salutò quella fulminea azione e tutti vollero stringere la mano all’energico barista e tutti volevano offrirgli da bere. Per far contenti i polacchi che più degli altri insistevano accettò un bicchiere d’acqua.
Poco dopo, però, telefonò il Funai dicendo a suo cognato di mandare a casa il ragazzo perché quel cliente era andato da lui a protestare e diceva di volerlo uccidere. Ma il ragazzo non si scompose e disse che lo avrebbe atteso lì. E restò al suo posto. Per fortuna quel tizio non si fece più vivo e tutto finì lì.
Una scena analoga accadde poco dopo con un tedesco ubriaco. Era nel saloon un canadese che Cesare conosceva e col quale parlava a lungo in francese. Era un omino mingherlino e già anziano, pacifico e molto educato, che stava, anche quella volta, parlando con Cesare. A un tratto entrò il tedesco e, avvicinandosi al banco, urtò malamente il canadese che, con calma e senza far chiasso, se ne lamentò. L’ubriaco, allora, prese ad insultarlo con mille parolacce. Cesare, allora, intervenne dicendogli di smetterla, ma quello se la prese anche con lui. Il ragazzo non aspettava altro. Solito salto del banco, solito preciso pugno nell’occhio sinistro. L’uomo crollò a terra e trascinò anche Cesare, che, però, si rialzò subito. Un paio di altri pugni ben assestati lo ridussero piuttosto male e, appena riuscì a rimettersi in piedi, il solito violento spintone lo cacciò fuori sul marciapiedi. E i clienti, come al solito, approvarono la lezione data all’ubriacone.
Ed era così, molto energicamente, che Cesare faceva il suo lavoro.
Qualche tempo dopo venne a lavorare nel saloon un cugino del Funai che veniva dal Tennessee. Non era un uomo cattivo ma era decisamente sgradevole. Grasso, con le guance flaccide, si muoveva con un’andatura oscillante e rideva rumorosamente. Ma, soprattutto, era veramente rozzo e volgare. Soleva rivolgersi al povero Luconi e al Bracaloni (detto “Il Picchietto”) con lazzi sguaiati cui seguivano le sue risate fracassone. Cesare, pur non essendo mai stato importunato direttamente, era disturbato da quel suo comportamento che gli dava fortemente sui nervi. Finchè, non potendone più, disse a Cristoforo, il direttore, che si licenziava. E se ne andò. Prese alloggio in una camera a pagamento portandovi il suo baule con tutto il suo guardaroba e si mise subito alla ricerca di un nuovo lavoro. Conosceva un certo Paganucci, un ricco lucchese che aveva un grosso saloon e anche
il ristorante che aveva affittato al Giulio e nel quale Cesare aveva lavorato appena giunto in America. Il saloon del Paganucci era quello dove era avvenuto un incidente al Cecco Santarini (“il zoppo”), incidente che gli fruttò un indennizzo che gli permise di tornare in Italia con un po’ di soldi.
Il Paganucci lo salutò cordialmente ma non potè offrirgli un lavoro. Lo indirizzò, però, presso un altro saloon gestito da una donna di origine genovese che, gli disse, cercava una persona di fatica. Cesare ci andò subito e disse cosa sapeva fare. Ella, però, disse che lo trovava troppo giovane per servire nel “bachroom” e, comunque, sul momento aveva soltanto bisogno di un uomo di fatica. La paga era di 12 dollari la settimana ma non c’era la pensione completa, compresa la pulizia degli effetti personali, come era dal Funai. Però si potevano fare tutti i pasti con il “lunch”, cioè tutti i cibi che venivano offerti gratuitamente e in abbondanza a tutti i clienti (che pagavano soltanto ciò che bevevano). Restava, però, da pagare, la camera e la lavanderia. Certamente non aveva fatto un buon affare a licenziarsi dal Funai. Un carattere un po’ più tollerante gli avrebbe, forse, evitato di commettere quell’errore.
Ad ogni modo ormai era fatta e degli si mise di buona lena al lavoro. Oltre alle normali pulizie del saloon egli aveva il compito di alimentare la caldaia del termosifone a carbone, cosa che andava fatta abbastanza spesso. Inoltre nel pomeriggio la padrona lo portava a casa sua, una bella villa, e gli faceva battere i tappeti. Oppure lo mandava in un grande edificio che stava per essere adattato ad albergo a fare certe pulizie. Insomma correva un po’ qua e un po là. Ma non ci stette molto. Gli accadde, infatti, una disavventura che lo espose ai lazzi e alle sfottiture dei compagni di lavoro e dei clienti. Ecco cosa accadde:
Un giorno, mentre si trovava in cantina ad alimentare il termosifone, vide aprirsi, con regolare chiave, la grossa griglia che dal marciapiede consentiva l’accesso alla cantina per lo scarico delle merci. Tre uomini discesero e, senza badare al ragazzo, si misero ad esaminare una grande quantità di mobili, in parte ancora imballati, che si trovavano lì. Era tutto mobilio destinato all’albergo in allestimento. Poi cominciarono a portar fuori i mobili e a caricarli su un grosso camion che attendeva lì fuori. Cesare li guardava, immaginando che avrebbero portato i mobili all’albergo dove erano destinati. A un certo momento si rivolsero a lui dicendo: “Perché stai lì a guardare ? Dacci piuttosto una mano”. E lui, sicuro che si trattasse di operai al servizio della sua stessa padrona, si mise ad aiutarli pieno di buona volontà. E faticò anche un bel po’. Alla fine il camion fu carico e partì. A quel punto, dopo aver rassettato un po’ la cantina, sudato e affaticato tornò di sopra e andò in cucina ad aiutare il cuoco. Questi si lamentò per la sua lunga assenza e Cesare gli spiegò il motivo. Quello si stupì e ne parlò al barista, presso il quale erano conservate le chiavi della famosa griglia. Il barista chiamò Cesare e gli chiese quale frottola avesse raccontato, dato che la chiave della griglia era sempre rimasta al suo posto. Pensava avesse raccontato una fandonia per giustificare la sua lunga assenza. Ma Cesare confermò tutto e, allora, si pensò di interpellare la padrona che – pensarono – forse aveva una copia della chiave ed era lei che aveva incaricato qualcuno. Ma la padrona, che non aveva incaricato nessuno, si precipitò nel saloon e volle sapere da Cesare come erano andate le cose. Cesare si esprimeva male in inglese ma lei gli disse di parlare pure in italiano che avrebbe capito. E lui raccontò tutto per filo e per segno. Essa, allora, dopo aver verificato come stavano le cose in cantina, chiamò la polizia e anche a questa il ragazzo dovette ripetere la storia.
“Parla pure in italiano” gli disse la padrona “che penso io a tradurre”. La padrona non ebbe nessun rimprovero da fare a Cesare e, per lui, la cosa sarebbe finita lì. Ma i compagni di lavoro cominciarono a sfotterlo e anche molti clienti ai quali veniva raccontata la buffa storia. Tanto che Cesare, sentendosi umiliato, si avvilì e si licenziò.
Il giorno dopo andò a trovare Mary, forse la persona che sentiva più vicina, e le raccontò le sue vicissitudini. La buona Mary volle trattenerlo per la cena, così avrebbe visto anche Corrado. Infatti Corrado arrivò per la cena, durante la quale si parlò della situazione di Cesare. E Mary disse che si meravigliava di come un ragazzo così giovane fosse lasciato abbandonato a se stesso e anche che il lavorare nei saloon, specie occupandosi del “bachroom” lo esponeva a rischi di corruzione assolutamente da evitare a quell’età. “In conclusione” disse “tu ora rimarrai qui con noi mentre io, attraverso le mie conoscenze, troverò un lavoro adatto a te”. Cesare obiettò che lui non aveva mezzi per sostenersi in attesa di un nuovo lavoro e che aveva bisogno di lavorare subito. Ma la cognata e il fratello non vollero neppure ascoltarlo. Dissero che qui lui era in casa di un fratello che sentiva il dovere di occuparsi di lui che, in fin dei conti, era ancora un ragazzo. Cesare era restio, perché il padre gli aveva inculcato il principio che è assotutamente disonorevole vivere a carico di altri invece di contare solo sulle proprie forze. Ma l’insistenza dei due fu tale che si convinse e si trasferì da loro andando ad occupare la camera precedentemente occupata dal padre Carlo.
In quel periodo Cesare era afflitto da acne giovanile e, un po’ per quello, un po’ per la disavventura dei ladri di mobili, stava regredendo a uno stato psicologico caratterizzato da sfiducia e pessimismo simile a quello patito nella sua infanzia. E fu la cara Mary che lo sosteneva, con creme e ciprie gli nascondeva i brufoli e lo portò anche da un medico perché gli era venuto il sospetto che il ragazzo si fosse buscato qualche malattia venerea. Per fortuna esso risultò sano e l’acne – disse il medico – se ne sarebbe andata presto da sola.
Intanto Mary si dava da fare per trovare un lavoro adatto per il giovane cognato. Essa aveva un’amica alla direzione di una grande industria elettrica, la “Victor Elettric & C.” dalla quale non era facile essere assunti. E riuscì a far assumere Cesare come apprendista. La prospettiva, naturalmente, era quella di diventare, col tempo, operaio specializzato con salari molto alti e una posizione di prestigio.
Iniziò il lavoro. Cesare fu assegnato a un reparto che occupava un grande salone con tre file di banchi e un apprendista per ogni banco. Il lavoro era semplice: si trattava di sistemare entro un apposito contenitore dei quadratini di varie sostanze (mica, zinco e altro) per la costruzione di qualche apparecchiatura elettrica. Si trattava di una cosa un po’ noiosa ma che non comportava nessuna fatica. Il capo reparto sedeva su un alto scanno e sorvegliava gli apprendisti scendendo ogni tanto e passando fra i banchi ad osservare. La disciplina era rigorosa. Era proibito parlare e, quando qualcuno aveva qualche necessità doveva alzare il braccio e attendere l’autorizzazione a dire quel che aveva da dire. Era una vera e propria scuola molto molto seria. Cesare non era abituato a quel tipo di disciplina, ma, lungi dal dispiacergli, la gradì. L’unica cosa che non andava era il fatto che, praticamente, non erano pagati. A fine settimana ricevevano mezzo dollaro come premio.
Cesare, totalmente imbevuto dalle idee del padre, era a disagio e, quando si metteva a tavola, arrossiva per la vergogna al pensiero che quel cibo non lo aveva guadagnato. E così, malgrado l’affetto e le attenzioni di Mary e di Corrado, aveva paura di approfittare troppo della generosità di chi lo ospitava e si asteneva dal mangiare a sufficienza.
Una domenica Giorgio venne a trovarli e Cesare seppe da lui dove si trovava il padre (che era andato a vivere, come già detto, in casa dei Tonsoni). E andò a trovarlo.
Carlo, che stava scrivendo una lettera, lo accolse festosamente e volle sapere tutto di lui. E lui, naturalmente, gli raccontò tutto quello che era successo dopo il licenziamento dal Funai. Come era da prevedere il padre espresse con franchezza la sua disapprovazione per la sistemazione in casa di Corrado. Ma, soprattutto, gli disse che quella di poter diventare un elettricista specializzato era certamente un’ottima prospettiva se decideva di restare per sempre in America. Ma per lui che aveva sempre manifestato l’intenzione di tornare In Italia, senza dire che, probabilmente, presto lo avrebbero chiamato per fare il militare, era una prospettiva per niente interessante. Per lui era più conveniente cercare un lavoro ben retribuito per poter metter da parte un po’ di soldi da portare in Italia. Cesare, già di per sé scontento della situazione che stava vivendo, praticamente senza guadagnare niente, fu facilmente convinto dalla ragionevolezza di quel discorso. Ma come fare a dirlo a Corrado e, soprattutto, a Mary senza apparire ingrato per tutto quello che avevano fatto e che facevano per lui ? Egli era sinceramente e profondamente grato a entrambi, e anche affezionato alla piccola Margherite, che pure era molto affezionata a lui. Temeva che si offendessero rifiutando la loro ospitalità , il lavoro-scuola che gli avevano procurato e tutte le cose buone che facevano per lui. E non sapeva decidersi.
Intanto, però, un giorno di festa, gironzolando per la città, capitò davanti al saloon dei Funai. E vi entrò. Trovò anche il Signor Funai che gli chiese sue notizie. Lui lo informò di tutto e gli manifestò anche la sua scontentezza per la situazione che stava vivendo.
“Caro Cadorna” gli disse il Funai “se deciderai di cambiare, il posto qui nel saloon per te ci sarà sempre.” Cesare lo ringraziò e gli disse che, probabilmente, ne avrebbe approfittato.
E, infatti, dopo alcuni giorni, si licenziò dalla “Victor Elettric & C.” suscitando enorme meraviglia nell’amica di Mary.
Naturalmente dovette dirlo anche a Mary e a Corrado che rimasero stupiti ma anche grandemente dispiaciuti. Evidentemente Corrado, che aveva ormai deciso di trascorrere a Chicago la sua vita, pensava che anche Cesare avrebbe potuto sistemarsi definitivamente lì e con una bella posizione e un buon lavoro. Ma Cesare cercò di far capire loro che il vivere alle loro spalle senza lavorare per lui era insopportabile. Quando seppe che si era di nuovo occupato presso il saloon dei Funai Mary scosse il capo e disse: “Cesare, Cesare, sarà meglio che ritorni in Italia” Essa era molto preoccupata del fatto che il ragazzo sarebbe stato di nuovo a contatto con donnine facili e tipi poco raccomandabili e temeva che questi potessero corromperlo e indirizzarlo su una cattiva strada.
Ma ormai la decisione era presa e, anche se mantenne sempre i contatti con la famiglia del fratello visitandoli molto spesso, lasciò la camera e tornò a vivere dai Funai.
Al saloon aveva molti amici, compreso il padrone, e fu accolto con molte feste. Anche molti clienti che lo avevano conosciuto lo salutarono festosamente. Ma tutti crollarono il capo con disapprovazione quando seppero che aveva rinunciato al lavoro presso la “Victor Elettric & C.”
Comunque Cesare riebbe esattamente l’incarico di prima, compreso l’affidamen to esclusivo del “bachroom” che rendeva anche delle buone mance.
In quel tempo il padre Carlo ricevette una lettera da Settimo che lo mandò su tutte le furie. Bisogna sapere che Settimo era l’unico figlio che Carlo aveva fatto studiare. Esso frequentava l’Istituto Tecnico di Castelnuovo e veniva mantenuto a pensione in quella località. Ora accadde che, alla fine del 3° anno di corso, all’esame di conclusione del corso inferiore, esso fu bocciato per aver “fatto il matto” durante quell’anno. Carlo non ritenne affatto di giustificarlo e decise di fargli sospendere gli studi e di mandarlo a lavorare. Cesare, che aveva sempre avuto con Settimo un rapporto di vero amore fraterno, tentò in tutti i modi di rabbonire il padre, ma invano. Allora disse al padre che avrebbe provveduto lui a pagargli gli studi affinchè potesse, almeno, conseguire la licenza. Il padre non fu entusiasta e, sfiduciato, gli disse che avrebbe buttato via i suoi soldi. “Ma siccome li avete guadagnati voi” gli disse (fra Carlo e i suoi figli si usava il “voi”) “ fate come volete. Io, per evitare di scrivergli una letteraccia, non gli risponderò affatto. Scrivete voi a casa e limitatevi a dire che io sto bene”. E così Cesare si accollò anche quella spesa, inviando mensilmente a casa la stessa somma che prima inviava il padre. E Settimo potè, così, prendere la sospirata licenza. Non potè, però, proseguire oltre negli studi per il suo richiamo alle armi mentre era ancora giovanissimo (era un “ragazzo del ’99”).
D’altra parte qui dal Funai il guadagno era buono e gli consentiva anche di mettere da parte qualche soldo da portare in Italia. Perché un suo ritorno in Italia prima o poi ci sarebbe stato. Questo era fuori discussione. Non pensava, però, che avvenisse così presto. Prima, comunque, di come aveva immaginato, come vedremo.
In quei mesi Cesare ebbe anche qualche problema di salute. In quel clima gelido le mani, spesso a contatto con l’acqua, cominciarono a lesionarsi. Lungo le pieghe della pelle nel palmo delle mani si aprivano delle “setole” cioè lunghe crepature della pelle che lo facevano soffrire. Inoltre continuava ad essere afflitto dall’acne giovanile. Per questo fastidio, comunque, un mattino andò da un medico molto bravo che era cliente del saloon, il quale, dopo un’attenta visita, gli prescrisse un cucchiaino di sali di “Carlsbad” per quaranta giorni più una dieta ricca di verdure fresche. Fece la cura e, al termine dei 40 giorni, era pressochè guarito. Non così bene andò per le mani che continuarono a sanguinare per tutta la stagione invernale.
A questo si aggiunse, all’incirca nel febbraio del 1917, un altro guaio. Una domenica rientrò in casa sentendosi le membra come legate e, soprattutto, con un dolore alla mascella che gli impedì anche di mangiare. Nella notte gli gonfiò il viso in modo mostruoso e al mattino del lunedì non fu in grado di alzarsi. Il suo compagno di camera andò a chiamare il direttore del saloon e, questi, chiamò Giorgio che venne subito. Fu chiamato il medico che diagnosticò: “Grippe”, cioè una brutta forma di influenza. Fu subito curato, ma occorsero una quindicina di giorni prima che potesse riprendere il lavoro. Tutti i parenti gli furono vicini e andavano a trovarlo, specie Mary. Ma affettuosissimo fu anche Giorgio che gli diceva che lo avrebbe mandato in Florida, dove è un’eterna primavera, e laggiù di sarebbe ripreso rapidamente. Cesare apprezzava queste intenzioni, anche se sapeva che erano solo fantasie. E sognava anche lui, però, di trasferirsi al sud cercando lavoro da quelle parti.
Giorgio, è stato già detto, era un fratello affettuoso e generosissimo. Ma anche un po’ sognatore.
Nei primi tempi che Cesare era a Chicago, voleva spesso che, la domenica, egli stesse a pranzo a casa sua. Durante il pranzo parlava spesso dell’oro che era stato scoperto in Alaska e diceva al fratellino che ci sarebbero andati anche loro, avrebbero costruito una baracca e vi avrebbero impiantato un saloon con whisky e donnine per i minatori, e avrebbero fatto molti soldi. E il ragazzo si entusiasmava.
Le visite a Mary continuavano ad essere le più frequenti per l’affetto che Cesare gli portava. E lo addolorò molto il sentire, a un certo punto, che essa non stava affatto bene e accusava diversi disturbi. E addirittura si indignò quella volta che, essendo passato al saloon dove Corrado lavorava, gli chiese notizie della moglie e quello, scherzosamente, disse: “E’ un cerotto. Bisognerebbe portarla sul ponte di Brooklin e buttarla di sotto !” Malgrado fosse, evidentemente, uno scherzo, Cesare lo trovò molto sconveniente. Per fortuna Corrado, che amava molto la moglie, la portò da un buon medico italiano e risultò che tutti i suoi guai, che poi risultarono temporanei, dipendevano dal fatto che essa era di nuovo incinta. Ne fu molto felice e disse che se fosse stato un maschio lo avrebbe chiamato come suo padre mentre se fosse stata una femmina la avrebbe chiamata come la mamma di Corrado, cioè Isolina. Quando nacque, però, Cesare era già tornato in Patria e non la vide. La conoscerà molti anni più tardi quando essa verrà a trovarlo in Italia.
La frequentazione della casa di Mary fu molto importante per l’educazione di Cesare. Essa frequentava diversi compatrioti di un certo rilievo e aveva amicizie importanti. Un fratello di lei, bravo e stimato dottore, la aveva introdotta in quel giro di amicizie. Questo fratello, che era stato esiliato per aver difeso i gesuiti quando furono cacciati dalla Francia, Cesare non lo conobbe perché era già morto e – diceva Mary – era morto di nostalgia per non aver potuto rientrare in Patria. Mary fece conoscere anche a Cesare queste persone che egli cominciò a frequentare. In particolare si occupò di lui e gli fu amico un certo Monsieur Marchand che lo portava spesso con sé in un circolo ricreativo e culturale costituito dalla colonia francese di Chicago. Era un luogo lussuoso, frequentato solo dai soci, con sale di lettura, molti giornali a disposizione e una discreta biblioteca. I membri della colonia francese erano in stretto contatto con la loro ambasciata e venivano invitati a ogni manifestazione importante. E anche Cesare, insieme al suo amico, poteva partecipare. Il signor Marchand era molto felice di portare con sé quel giovanetto dall'aria così matura, dall'intelligenza viva, così minuziosamente informato sulle vicende della guerra e non solo, così fortemente impregnato di patriottismo e che, per di più, parlava un discreto francese.
In quel periodo gli Stati Uniti si preparavano, col generale Pershing ad intervenire con un corpo di spedizione nella guerra che si combatteva in Europa e fu allora che una missione francese guidata dal primo ministro Viviani e dal maresciallo Joffre, il vincitore della Marna, venne in America.
La delegazione fu ricevuta e festeggiata dalle autorità civili e militari americane al Teatro dell'Opera di Chicago e l'ambasciata di Francia fornì i biglietti d'ingresso a tutti i cittadini francesi e Monsieur Marchand ne ottenne uno anche per Cesare.
Il teatro era gremito e da tutti i settori si alzava il canto della Marsigliese e grida di evviva all'indirizzo di Viviani e di Joffre. Quando la delegazione apparve sul palco, applausi scroscianti l'accolsero. Viviani tenne un lungo e appassionato discorso che commosse tutto l'uditorio. Egli descrisse l'eroismo dei soldati francesi, il coraggio delle popolazioni, il martirio di quelle ancora sotto il tallone dell'invasore e parlò del pericolo corso dalla Francia e della vittoriosa battaglia della Marna. Quando parlò di questa battaglia il maresciallo Joffre, che ne fu l'eroe, pianse e questo aumentò la commozione di tutti i presenti. Anche Monsieur Marchand portò furtivamente il fazzoletto agli occhi. E anche Cesare, come sempre molto partecipe, si commosse. Poi cercò di parlare anche il maresciallo Joffre, ma la commozione glielo impedì. Riuscì solo a dire poche parole soffocate dagli applausi, sventolando, con le braccia incrociate, una bandierina francese e una americana. Allora Viviani e Pershing abbracciarono, commossi, l'anziano maresciallo.
Nell'uscire Cesare ringraziò l'amico per la bella opportunità che gli aveva dato e quello lo assicurò che lo avrebbe introdotto ancora di più negli ambienti della colonia francese.
Cesare ne era lieto, ma si rammaricava anche fortemente che la colonia italiana non fosse altrettanto ben organizzata.
Non molto tempo dopo, comunque, arrivò negli Stati Uniti anche una missione italiana guidata dal duca degli Abruzzi e da Guglielmo Marconi. Anch'essa fu ricevuta al Teatro dell'Opera. I due italiani erano molto noti in America, il primo per le sue esplorazioni polari e il secondo per la sua fama di scienziato. Anche questa volta fu Monsieur Marchand che si procurò i biglietti per sé e per Cesare all'ambasciata di Francia, dove erano stati inviati in gran numero dal Consolato d'Italia. Che, però, non era stato in grado di organizzare al meglio la comunità italiana.. E Cesare vi andò provando qualche imbarazzo per il fatto che era stata la Francia e non l'Italia a invitarlo.
Anche questa volta il teatro era gremito e Cesare fu consolato nel vedere che c'erano anche folti gruppi di italiani, ma soltanto italiani del sud. Erano, infatti, questi che vivevano nella "Little Italy" gli unici che si erano organizzati in gruppi, tutti muniti di bandierine e di coccarde tricolori. Anche la presenza di americani era molto più folta della volta precedente. Forse per la grande notorietà dei personaggi.
Prima parlò il Duca degli Abruzzi esaltando l’impegno e il sacrificio dei nostri soldati per liberare le terre italiane ancora soggette all’Austria. Fu molto applaudito anche dagli americani anche se, probabilmente, non avevano compreso il senso delle sue parole. Ma Cesare, facendo il confronto con l’elegante e appassionato discorso di Viviani, il primo ministro francese, lo trovò molto inferiore e ne fu deluso. Lo disse a Marchand il quale saggiamente gli disse che non essendo né il duca né Marconi degli uomini politici, era naturale che non fossero dei grandi oratori come Viviani che, invece, era un importante politico.
Dopo il Duca parlò anche Marconi, che rivolse qualche parola anche in inglese, e anche lui fu molto applaudito.
Come la volta precedente, anche questa volta nel saloon dei Funai tutti vollero da Cesare la cronaca dell’avvenimento. Nessuno degli italiani che lavoravano lì o che, comunque, bazzicavano quel luogo, era stato presente. E Cesare era ben lieto di parlare di ciò che aveva visto e udito.
Malgrado tutti questi fatti certamente per lui positivi, la sua fiducia e la sua sicurezza erano fortemente scemate a causa dell’inconveniente delle mani. Le “setole” si facevano sempre più profonde e sanguinavano, tanto che egli portava sempre i guanti, un po’ per proteggere le mani dal freddo ma anche perché si vergognava di questo sanguinamento che sporcava di sangue anche le mani che stringeva.
Proprio in quel periodo un giovane di Camporgiano, tale Domingo Tonini, classe 1897, figlio del Sisto, che Cesare aveva visto dal Da Prato solo di sfuggita, gli telefonò dicendo che si accingeva a rientrare in Italia e proponendogli di accompagnarsi a lui e rientrare in Italia giacchè lui non se la sentiva di fare il viaggio da solo. Cercò in ogni modo di convincerlo dicendo che presto anche lui sarebbe stato chiamato alle armi e anche che alla Casetta erano rimaste le zie da sole e che, quindi, era opportuno che rientrasse per non lasciarle abbandonate a loro stesse.
Cesare ne fu abbastanza infastidito. Comunque lo rassicurò dicendo che il viaggio sarebbe stato più semplice di quanto temeva e, infine, disse che doveva lavorare e troncò la comunicazione.
Ma dopo pochi giorni quello tornò alla carica dicendo che aveva parlato anche con il padre Carlo e che anche lui sarebbe stato contento del suo rientro. Cesare ebbe il sospetto che suo padre fosse stato messo in allarme da Mary, che vedeva di malocchio il suo lavorare nel saloon, lui così giovane, in un ambiente – secondo lei - pieno di tentazioni e di corruzione. Comunque andò a trovare il padre per sentire cosa gli avrebbe detto. E il padre gli disse che non intendeva forzarlo in nessun modo, ma, se avesse liberamente deciso di rientrare, lui sarebbe stato contento. E lo sarebbe stato per le zie che, con lui a casa, avrebbero avuto un valido appoggio, ma anche per Cresare stesso, perché – gli disse – “Avete avuto la grippe e ne resterete sempre soggetto. In più avete le mani ridotte così male. Tanto che penso che l’aria di Chicago non faccia per voi” .
Cesare ascoltò in silenzio, poi disse che ci avrebbe pensato. Ma le osservazioni del padre circa le sue povere mani e l’”aria di Chicago” lo colpirono. Lui stesso, infatti, aveva cominciato a pensarlo e progettava di spostarsi al sud e cercare lavoro laggiù dove il clima era mite.
Comunque volle parlarne anche con Giorgio, Corrado e, soprattutto, Mary. Mary fu categorica e gli disse che, per il suo bene, doveva fare ritorno in Italia. Ma anche Giorgio, cui aveva confidato le sua intenzione di spostarsi nel sud degli States, gli disse che laggiù era difficile trovare lavoro e le paghe erano molto più basse, per cui avrebbe guadagnato di più a rientare in Italia e – come disse – “a mettersi a coltivare verdure”.
Cesare non era affatto convinto di questa opportunità che avrebbe avuto in Italia dove, almeno in Garfagnana, la verdura non la comperava nessuno perché tutti la coltivavano da soli. Però le pressioni dei parenti e, soprattutto, lo sconforto per le sue mani devastate, finirono per convincerlo. E al Domingo che aveva continuato a tempestarlo di telefonate, alla fine disse che sarebbe partito con lui. Il Domingo sembrava pazzo di gioia.
Cesare andò subito al consolato e fece il necessario per la partenza. E seppe anche la data della partenza della nave. Ma i tempi erano difficili, i sommergibili tedeschi erano presenti in Atlantico e affondavano molte navi, per cui la partenza fu più volte rinviata. Ed ecco che, proprio in quei giorni di attesa, venne a trovarlo un conoscente italiano, di Castelvecchio Pascoli, il quale lo pregò di accompagnare il padre che doveva rientrare in Italia ma che, essendo stato colpito da paralisi, non era in grado, pur essendosi ripreso abbastanza bene, di viaggiare da solo. E Cesare, generosamente, disse subito di sì. Fu necessario prendere ufficialmente quell’impegno con una firma davanti al console perché, mancando quella, il vecchio non sarebbe stato autorizzato a partire. Successivamente andò a conoscere il vecchio e si rese conto che le sue condizioni erano molto peggiori di quelle descritte dal figlio. Però non venne meno alla promessa fatta. Disse, però, al figlio, che avrebbe dovuto venire anche lui fino a New York per aiutarlo a salire e scendere dal treno nonché a salire sulla nave.
E venne, finalmente, la conferma della partenza. Domingo telefonò nel pomeriggio precedente pregando Cesare di passare a ritirare anche il suo baule e di spedirglielo che lui non sapeva come fare e Cesare lo assicurò che lo avrebbe fatto. Nel pomeriggio successivo, infatti, Cesare noleggiò un camioncino sul quale caricò il suo baule, poi passò a caricare quello del vecchietto e, infine, passò a casa di Domingo. E qui, stranamente, trovò il padre Sisto che gli disse di non aver notizie del figlio dalla sera avanti e, quindi, di non caricare il suo baule poiché, se si fosse fatto vivo, avrebbe provveduto da solo alla spedizione. Cesare rimase veramente sconcertato. Dopo tutto il piagnucolare per la tanto desiderata partenza, alla quale, alla fine, aveva indotto anche lui, questo strano individuo era sparito senza nessuna spiegazione. Si saprà, poi, che egli si era arruolato nell’esercito americano proprio la sera prima della partenza.
La stazione di Chicago era piena di riservisti che si apprestavano a rientrare in Italia. Qui Cesare potè salutare suo padre e i suoi fratelli che erano venuti appositamente. E partì col suo vecchietto.
Per fortuna il figlio accompagnò il padre, aiutò Cesare a farlo salire sul treno, a farlo scendere e a fare tutto ciò che fu necessario fare fino all’imbarco sulla nave..
Il treno era giunto a New York all’alba del secondo giorno e, come al solito, la grande chiatta che due anni prima era sembrata a Cesare un marciapiedi , li condusse alla banchina della “Transatlantica Italiana” ove era attraccata la “Dante Alighieri”, la nave che li avrebbe riportati in Italia.
In un grande capannone una commissione medica valutò l’idoneità di tutti al rientro in Italia e il vecchietto fu giudicato idoneo in virtù del fatto che c’era chi lo accompagnava. Poi Cesare vide caricare i bagagli suoi e del vecchietto e, infine, poterono salire a bordo anche loro. Il figlio da un lato e Cesare dall’altro aiutarono anche il vecchio a salire a bordo. Egli si informò sul numero della cabina del padre (la stessa di Cesare), noleggiò una poltrona di vimini per il padre, da usare per tutta la durata del viaggio, salutò e se ne andò.
IL VIAGGIO DI RITORNO: UNA CROCIERA
La sera la “Dante Alighieri” salpò e Cesare rimase a lungo a vedere la statua della libertà che si allontanava, e con essa i due anni dell’avventura americana.
La “Dante Alighieri” era una bella nave passeggeri attualmente adibita al rimpatrio dei riservisti italiani. Aveva parte della poppa e parte delle sovrastrutture nuove. Infatti negli anni precedenti era stata adibita dalla Marina Militare al trasporto di truppe in Albania e al salvataggio dei resti dell’esercito serbo sconfitto e la marina austriaca l’aveva duramente attaccata danneggiandola gravemente. In questo viaggio trasportava tremila riservisti, sistemati in terza classe, un centinaio di passeggeri paganti allocati in seconda classe e una decina in prima classe. Cesare col suo protetto avevano trovato posto in seconda classe e il trattamento era veramente ottimo. Cesare non poteva non pensare alla differenza abissale fra questo viaggio e il precedente, che da Marsiglia lo aveva portato a New York. Le cabine erano molto confortevoli, la vasta sala da pranzo era veramente lussuosa, con tavoli ovali o rotondi e camerieri vestiti elegantemente e professionalmente impeccabili. Il vitto era scelto e abbondante. Aveva, inoltre, a disposizione dei passeggeri, un ottimo bar fornito di ogni confort, presso il quale anche Cesare, quasi ogni sera, andava a consumare qualcosa – quasi sempre un gelato - in compagnia di una signorina che aveva conosciuto sulla nave e che rientrava in Italia dopo aver accompagnato in America il suo fidanzato, un ufficiale italiano comandato presso l’esercito degli Stati Uniti che stava allestendo la spedizione per l’Europa. Le consumazioni erano care ma era piacevole fare quella bella vita da turisti che ricompensava degli atroci disagi del primo viaggio.
Naturalmente Cesare aveva il gravoso impegno di assistenza del vecchietto. Doveva aiutarlo a spogliarsi e a mettersi a letto ogni sera nonché ad alzarsi e a vestirsi ogni mattino. Lo accompagnava in sala da pranzo, lo aiutava a tagliare la carne, cosa che lui, con un braccio inutilizzabile, non poteva fare, e lo riaccompagnaca alla sua poltrona. Doveva perfino accompagnarlo al gabinetto, aiutarlo a slacciarsi i pantaloni e, poi, a riallacciarli….. Insomma era un impegno veramente gravoso che Cesare svolgeva amorevolmente. Tanto che tutti pensavano si trattasse di suo padre. E il vecchietto non faceva che manifestargli la sua riconoscenza e dirgli che non avrebbe mai potuto ricompensarlo. Diceva anche di avere una figlia, bella ragazza, lasciata quando era appena nata, che lui non vedeva se non in ritratto e che sarebbe stato così felice di dargliela in moglie. Certamente credeva che Cesare avesse assai più dei suoi sedici anni. Poi gli diceva che, in caso fossero stati silurati, egli avrebbe dovuto non pensare a lui ma solo a se stesso. Evidentemente sapeva che, in un simile frangente, per lui non ci sarebbe stata nessuna possibilità di salvezza. E, in effetti, il pericolo di essere silurati era reale. La nave era anche armata con due cannoni, uno a prora e uno a poppa, ma, soprattutto era dotata di sufficienti scialuppe di salvataggio e ogni passeggero era stato assegnato a una data scialuppa. Cesare e il suo protetto erano stati assegnati alla lancia numero 4, la più vicina alle cabine di seconda classe.
Il comandante, fin dalla partenza, aveva riunito tutti in coperta e aveva avvertito che ogni giorno, alle ore 14, ci sarebberoi state esercitazioni. A quell’ora la sirena avrebbe suonato l’allarme (un suono lungo seguito da alcuni suoni brevi) e i passeggeri avrebbero dovuto schierarsi ciascuno davanti alla propia lancia lasciando la precedenza a bambini, donne e vecchi. Aveva spiegato che solo dalla rapidità e dalla disciplina dei passeggeri sarebbe dipesa, in caso di siluramento, la loro salvezza. E ogni giorno, puntualmente, l’esercitazione veniva fatta. A ricordare l’ora della stessa si provvedeva anche con una nota sul menu posto su ogni tavolo in sala da pranzo. E tutto si svolgeva ordinatamente col rispetto dovuto delle precedenze. Donne, però, ce n’erano pochissime e bimbi piccoli nessuno.
Durante la prima parte della traversata la nave fu scortata da cacciatorpediniere e incrociatori leggeri americani che perlustravano il mare davanti e dietro. Poi, vicino alle Isole Azzorre, subentrarono navi da guerra portoghesi. Alle Azzorre la nave sostò nell’isola si San Miguel per rifornirsi di carbone. La cittadina di San Miguel appariva come un misero villaggio dove soltanto la Capitaneria di Porto e la Dogana erano ospitate in una palazzina a due piani. Il resto delle abitazioni era costituito da poche baracche di mattoni una attaccata all’altra . Subito oltre l’abitato era un vasto campo recintato in parte da un muro di mattoni e in parte da una palizzata di legno. Doveva trattarsi di un campo militare perché si vedeva spuntare, da dietro la palizzata, la canna di un fucile con baionetta inastata che andava in qua e in là. Certamente una sentinella.
Cesare osservata tutto con la consueta inestinguibile curiosità. Al di là del campo militare si estendeva una campagna di un verde intenso. Dall’abitato si dipartiva una strada sterrata che dirigeva verso un’altura che si vedeva in lontananza. Per quella strada venivano verso il porto alcuni carri trainati da buoi e carichi di ananas. I carri avevano le ruote di legno pieno, cerchiate di ferro e il particolare lo colpì. Avanti a tutti veniva un carro guidato da un uomo che camminava avanti tirando una corda legata alle corna degli animali. Sul carro stava una donna che egli scambiò per una suora, dato che era vestita esattamente così. Ma gli fu detto che quello era l’abito delle donne di campagna. Da tutto quell’insieme di immagini emanava un senso di pace e di quiete tale che egli se ne sentì preso. Immaginò come avrebbe potuto essere la sua vita se avesse potuto trovare lavoro in quei luoghi, e subito dopo il pensiero corse alla Casetta e alla sua campagna, anch’essa verde e quieta.
Ma ormai il rifornimento era completato e la nave riprese il mare. Ancora per un paio di giorni furono le navi portoghesi a scortarla, dopo di che dettero loro il cambio navi francesi e inglesi. Un giorno la nave si trovò in un tratto di mare completamente ingombro di tavole, zaini, borracce, balle di lana…..relitti di un trasporto militare francese silurato non molte ore avanti. Le navi francesi e inglesi perlustravano la zona alla ricerca di naufraghi. Il comandante della “Dante Alighieri” fu esortato a procedere a zig zag. Il giorno dopo sul menu comparve l’avviso che le esercitazioni erano cessate e che, pertanto, in caso di allarme, si sarebbe trattato di allarme vero.
Era una calda giornata estiva e Cesare, sistemato il vecchietto nella sua poltrona, si ritirò in cabina per schiacciare un pisolino. Ma, mentre stava per prender sonno, l’urlo lacerante della sirena lo fece balzare su come una molla. In quell’attimo si udì una forte detonazione che fece scuotere la nave e il pensiero di tutti fu che si trattasse di un siluro. Uscì dalla cabina e trovò il corridoio invaso da una moltitudine urlante. Riuscì a farsi largo per portarsi il più rapidamente possibile davanti alla propria lancia di salvataggio. Ma quale non fu la sua amara sorpresa quando, davanti ad essa, trovò una marea scomposta di persone che si accalcavano. Immediatamente abbandonò quel caos e si portò presso una lancia più lontana. Di quelli che avrebbero dovuto occuparla non c’era nessuno. E lui, con raccapriccio, pensò a quello che sarebbe accaduto a quei poveretti terrorizzati che, persa la testa, si erano tutti accalcati presso la lancia più vicina che, naturalmente, non avrebbe potuto assolutamente accoglieli tutti. Per fortuna ufficiali e marinai urlavano per riportare la calma, dicendo che si era trattato si una prova generale e che l’esplosione era stata un colpo di cannone sparato per esercitazione contro bersagli gettati appositamente in mare. Il comandante si affannò a dire che, così comportandosi, difficilmente si sarebbero salvati in caso di affondamento, e che occorreva tenere a posto i nervi e comportarsi come concordato. Ma, visto quello che era appena successo, era difficile credere che le cose sarebbero andate meglio alla prova decisiva. Subito Cesare corse a recuperare il vecchietto che era rimasto nella sua poltrona e lo trovò piangente. Ma alla vista del suo angelo custode si rasserenò subito. E ritornò la normalità. Il mare era un olio, il trattamento a bordo eccellente, i locali lussuosi….La sensazione era di fare una splendida crociera.
Ed ecco che la nave giunse in vista di Gibilterra. Era giorno, ma fu chiesto al comandante di tenersi al largo e di imboccare lo stretto solo di notte. E così accadde. Il comandante, per prudenza, chiese ai passeggeri di non coricarsi, ma di accamparsi alla meglio ciascuno davanti alla propria lancia.
Cesare vi portò il vecchietto, poi, con la sua amica si recò al bar dove rimase almeno un’ora conversando del più e del meno. Quindi ciascuno tornò alla propria lancia. Ma si stava scomodi e Cesare disse al suo assistito che avrebbe tentato di raggiungere la cabina per fare un sonnellino. Così volle fare anche il vecchietto. La ronda che vigilava affinchè nessuno stesse in cabina era appena passata, così pensarono che il tempo di fare un sonnellino l’avrebbero ben avuto. Comunque si coricarono vestiti.
A un certo punto Cesare sognava di essere su un treno che stava passando su un ponte di ferro con grande fragore. Alla fine il fragore lo svegliò. Guardò fuori attraverso l’oblò e vide che era giorno e che la nave era ferma. Erano giunti nella rada di Gibilterra e il fragore era quello delle catene delle ancore che venivano calate. Fra i ricordi di Cesare c’è quello di un reparto di soldati che saliva una ripida scalinata intagliata nella roccia che sovrasta il porto quasi a picco.
Lasciata anche Gibilterra, la nave seguì una rotta vicinissima alla costa, sempre con la scorta di cacciatorpediniere francesi. Passarono davanti a Marsiglia, ben visibile dalla nave, e vicinissimi all’isola d’If (quella del Conte di Montecristo). A un certo punto furono navi italiane a scortare la “Dante Alighieri” sana e salva fin nel porto di Genova. Era sera.
Sbarcarono, dopo diciotto giorni di viaggio, il mattino dopo di buon’ora e Cesare, fatto scendere il vecchietto e sistematolo nei locali della dogana, si occupò dei bagagli. I doganieri aprirono il baule e, constatatone il contenuto, applicarono le tariffe dovute per alcuni indumenti nuovi che Cesare era incaricato di portare a parenti di amici risiedenti a Calavorno. Quindi chiesero cosa contenesse la valigia. E Cesare, non consapevole delle norme vigenti, dichiarò con candore che conteneva sigari e sigarette. Infatti aveva acquistato molte sigarette per regalarle agli amici in Italia ed aveva anche una buona scorta di sigari che avrebbe dovuto consegnare al Funai che, in quel momento, si trovava in Italia, a Barga. I doganieri si guardarono stupiti, poi guardarono il ragazzo e gli dissero che rischiava di essere arrestato per contrabbando di sigarette. La sua buona fede era, però, così evidente, che essi, fattagli aprire la valigia, gli dissero che, comunque, non avrebbe potuto portare in Italia tutta quella roba. Al che Cesare disse che, se era così, le prendessero pure. Ma loro dissero che non potevano prenderle e che avrebbe dovuto distribuirle in piccola quantità a ciascuno dei presenti. Non fu certo difficile vuotare la valigia. Ma a un tratto, ecco che fra i beneficiati si fa avanti uno e, con voce stupefatta, lo chiama: “Cesare !” Dopo un attimo di incertezza Cesare lo riconobbe. Era un suo compagno di scuola, un certo Satti chiamato di soprannome “Commaiana”, che abitava alle Piane, nella casa che, allora, era di Pietro Giannotti, suo zio. Egli era orfano del padre, che era un Satti, fratello del “Rumito” e dell’Attilio, e la madre, che era emigrata a Marsiglia, lo aveva richiamato là (in un primo tempo era stato affidato al “Radeschi”, un uomo che viveva, appunto, alle Piane con la moglie ma senza figli). Ed ora stava rientrando per rispondere alla chiamata alle armi. Era del 1898 e Cesare non ha mai saputo se era ritornato vivo dalla guerra oppure no.
Intanto, sistemate le operazioni doganali, bisognò occuparsi del vecchietto che aveva urgenti necessità corporali. Così, chiamata una carrozza, si fecero accompagnare in albergo.
Qui chiesero di fare colazione e il cameriere portò loro una tazza di caffè e latte per ciascuno con una minuscola fetta di pane scurissimo e duro. Cesare chiamò il cameriere e gli chiese di portare del pane bianco e in quantità sufficiente. Ma il cameriere si mise a ridere e disse che ormai dovevano scordarsi dell’America perché qui era tutt’altra cosa e non si poteva avere che quello che era stato loro portato. E bisognò rassegnarsi.
Dopo un pranzo altrettanto frugale, nel pomeriggio, chiamata una carrozza, si recarono alla stazione dove Cesare provvide a spedire i bagagli – i suoi alla stazione di Castelnuovo Garfagnana e quelli del vecchietto a Fornaci di Barga (era lui stesso che aveva dato questa indicazione, ignorando che c’era una stazione anche a Castelvecchio. Quando lui era partito per l’America, infatti, la ferrovia arrivava soltanto a Bagni dei Lucca) – e a fare i biglietti. Nella notte la partenza.
Fu un viaggio lungo che durò tutta la notte. Spesso, infatti, il treno era costretto a lunghe soste per lasciare il passo a tradotte militari. Solo al mattino, finalmente, si giunse a Fornaci di Barga.
Noleggiata una carrozza e caricati i bagagli, i due partirono per raggiungere Castelvecchio. Per le strade non proprio bellissime del tempo la carrozza procedeva lentamente e Cesare, che la notte precedente non aveva dormito, si appisolò. Fu svegliato dai singhiozzi del vecchio. Allarmato, gli chiese se si sentisse male, ma lui guardava vanti e diceva di no col capo. Erano giunti a Castelvecchio ed egli aveva visto in lontananza la sua casa. In quel momento la carrozza sorpassò una ragazza scalza, con una secchia in capo piena d’acqua e un secchio nella mano. Non appena la carrozza la ebbe sorpassata la ragazza gettò un grido: “ O Dio ! O Dio! “ . Ella aveva appena visto sul baule l’indirizzo di casa sua e aveva capito che l’uomo sulla carrozza era suo padre. Cesare, vedendo l’emozione della ragazza, scese dalla carrozza, le tolse la secchia dal capo e il secchio dalle mani mentre la poveretta, piangendo, diceva: “O Dio ! Il mio papà !” Allora Cesare prese la ragazza per mano e la condusse davanti al padre, pure lui piangente, e gli disse: “Ecco la vostra figlia !”
La casa era a due passi e, raggiuntala, egli aiutò il vecchietto a scendere, scaricò il baule e lo accompagnò in casa. La figlia li fece sedere in un salottino. Dopo poco arrivò anche la moglie che a Cesare parve ancora in buone condizioni e non troppo anziana. Essa non parve così emozionata come la figlia. Forse l’idea di doversi occupare di quel vecchio malridotto non le sorrideva troppo. Comunque furono tutti molto gentili e insistevano affichè Cesare si trattenesse a casa loro almeno per il pranzo. Ma Cesare aveva fretta di arrivare a casa, cosicchè, dopo aver risposto a tutte le domande delle due donne e dopo averle assicurate che sarebbe passato di nuovo a trovarli dato che doveva andare a Barga dal Funai, salutò tutti e se ne andò. Pagò il vetturale che era ancora in attesa e si recò alla stazione di Castelvecchio, non molto distante. Qui seppe, però, che fino al giorno successivo non ci sarebbero stati treni e, allora, non tollerando di attendere ancora un giorno prima di arrivare a casa, si avviò a piedi. Si trattava di percorrere poco meno di dieci chilometri per raggiungere Castelnuovo Garfagnana e faceva molto caldo. Così si tolse la giacca, si slacciò i polsini e arrotolò le maniche sulle braccia. E, purtroppo, strada facendo perse i gemelli d’oro che Giorgio gli aveva regalato. Ne provò, quando se ne accorse, un grande dispiacere. Ma non c’era nulla da fare. Così, giunto alla stazione piuttosto provato, ritirò i suoi bagagli, li caricò su un calessino che aveva noleggiato e partì verso casa.
Era l’ultimo tratto del lungo viaggio. La meta era ormai vicina e Cesare era felice e disteso. Via via che il calesse procedeva riscopriva luoghi noti e ne gioiva. Giunto a Poggio, vide l’amico Giovanni Grandini e lo chiamò. Egli, che sapeva Cesare in America, lo scambiò per il fratello ed esclamò: “L’Azelio! “. Al che Cesare gridò: “ Non mi riconosci, Gioacca !?” Gioacca era il nomignolo di questo amico. Questi, allora, riconosciutolo, gridò : “Il Cesare!” e, prima ancora di correre ad abbracciarlo, si mise a gridare: “ O Checco !, O Arì ! E’ tornato il Cesare !” In un attimo tutti i vecchi amici erano intorno al calesse a salutare l’amico e a fargli festa. Quando il calesse ripartì, dovè procedere a passo d’uomo perché alcuni degli amici, i più cari, vollero accompagnarlo fino a casa.
Appena fatta la curva di Santa Lucia, si scoprì la vista della Casetta. In un prato vicino alla casa c’erano Settimo e le zie che ammucchiavano del fieno.
“ O Settimo ! E’ venuto il Cesare. E’ qui con noi !” cominciarono a gridare i ragazzi del Poggio. E subito si vide il Settimo che, lasciato il lavoro, correva per venire incontro al fratello. Quando il calesse giuse alla Roncaiana anche il Settimo stava arrivando. I due fratelli si abbracciarono e Cesare guardava stupito questo spilungone più alto di lui. E stentava a riconoscere il ragazzetto che aveva lasciato quattro anni prima.
Settimo si prese il baule in collo e tutti si avviarono verso la Casetta. Per strada incontrarono le zie e Cesare ebbe una stretta al cuore perché le trovò molto invecchiate.
Anche gli amici del Poggio scesero fino alla Casetta ove si intrattennero un po’. Poi, dopo la solenne promessa di Cesare che avrebbero ripreso a frequentarsi rinnovando la vecchia fraterna amicizia, salutarono e se ne andarono.
E Cesare potè immergersi totalmente nella atmosfera della Casetta della sua infanzia, con Settimo e le zie. Si era fatta sera. Le ombre erano calate tutto intorno e la vecchia cucina era ormai immersa nell’oscurità. La Lucrezia accese il lumino a petrolio che illuminò debolmente le vecchie cose. Cesare, mentre parlava raccontando di sè e dell’America, si guardava in giro. Tutto era come lo aveva lasciato: il tavolo di legno, le sedie, la vecchia madia….. Riconobbe le vecchie scodelle di terra rossa, le uniche stoviglie esistenti. Non c’erano piatti, non c’erano tazze, non c’erano bicchieri. Qualunque genere di cibo, dalla minestra di fagioli, alla polenta, al latte, si mangiava nelle scodelle con l’aiuto di poche posate annerite dal tempo e dall’uso. Per bere ci si alzava e si andava a bere alla secchia, usando la “ramaiola”, cioè la grossa mestola di rame.
Il lumino fumoso arrivava a fatica a illuminare le pareti della stanza. Ma illuminava i visi affettuosi dei presenti, che godevano dello stare insieme e si inviavano a vicenda muti segnali d’amore.
Cesare, che per due anni abbondanti aveva vissuto nella grande città di Chicago, sfavillante di luci sempre accese, avrebbe potuto soffrire confrontando l’opulenza di quella realtà con la dignitosa ma estrema povertà della sua casa, e sentirsi a disagio. Ma non fu così. Fu il contrario. Via via che riprendeva, per così dire, possesso e confidenza con quella sua Casetta, il cuore gli si colmava di dolcezza e di felicità. E questo ritrovarsi così a suo agio in quell’ambiente era aiutato – o, forse, addirittura determinato – proprio dall’averla ritrovata tale e quale l’aveva lasciata. Lui stesso annota nelle sue memorie: “….credo che sarei rimasto male se avessi trovato a casa mia grandi cambiamenti”.
A cena non si sentì di mangiare le tagliatelle spianate in casa con fagioli e patate e preferì una bella scodella di latte e pane. E fu gradevolmente sorpreso dal fatto che, a quanto sembrava, qui il pane non faceva difetto. Settimo glielo confermò spiegandogli che la provincia di Massa (sotto la quale si trovava allora la Garfagnana) era considerata provincia industriale e, come tale, aveva una abbondante fornitura di farina, a differenza delle province classificate come agricole (tale era, ad esempio, la provincia di Lucca) le quali avevano forniture molto più ridotte dovendo esse sopperire con la produzione locale. E, questo, determinava scarsa disponibilità di pane per chi, non essendo proprietario o coltivatore di terre, poteva contare soltanto sulle scarse forniture provenienti dall’esterno.
Dopo cena i quattro rimasero “a veglio” – come si diceva un tempo – in quella semioscurità così intima e così rassicurante, finchè non venne l’ora di andare a dormire. La zia Nonziata gli preparò il letto con lenzuola di bucato e Cesare, coricatosi, dormì fino al mattino così bene come non aveva dormito dai tempi della sua infanzia. Si svegliò soltanto quando le zie, che, puntualmente, continuavano ad andare a Camporgiano per assistere alla Santa Messa tutte le mattine, tornarono e gli prepararono una bella abbondante scodella di pane e latte.
Fu soltanto in quei giorni che potè conoscere le sue cugine Anna e Francesca, figlie di Jacopo il fratello di Carlo. Esse, infatti, avevano vissuto in Francia quando Cesare era bambino e ora vivevano a Fornaci di Barga ove Anna si era impiegata nel grande stabilimento metallurgico da poco sorto. Esse venivano alla Casetta tutti i sabati per rifornirsi di certi viveri e, soprattutto, di pane che a Fornaci di Barga, che era in provincia di Lucca, scarseggiava.
Intanto Settimo stava per partire, richiamato alle armi a 18 anni, e Cesare, che doveva andare a trovare il vecchietto che aveva assistito durante il viaggio e altri conoscenti, decise di partire insieme a lui. Lo avrebbe accompagnato fino a Castelvecchio Pascoli.
Quando il treno giunse a quella stazione i due fratelli si abbracciarono, Cesare dette a Settimo un po’ di soldi e si lasciarono. Settimo salutò dal finestrino finchè il treno non si fu allontanato.
Cesare andò subito a casa del vecchietto e lo trovò felice e contento. La moglie accolse Cesare con grande cordialità, ma si lamentò perché il marito, malgrado la proibizione del dottore, beveva vino in abbondanza e non aveva nessuna voglia di smettere. Volevano che si trattenesse con loro almeno per una settimana, ma Cesare disse che doveva proprio andare perché doveva arrivare a Barga per salutare il Funai. La donna, allora, si offrì di accompagnarlo per insegnargli le scorciatoie che lo avrebbero fatto arrivare prima. Si cambiò d’abito e, salutato il vecchietto, partirono. Per strada la donna sfogò il suo malumore nei confronti del marito dicendo che l’aveva lasciata appena sposata per andare in America lasciandola incinta del primo figlio. Dopo vari anni era tornato ma se ne era ripartito dopo poco tempo, lasciandola ancora incinta della figlia. E ora tornava ridotto in quel modo soltanto per farsi curare. Cesare era piuttosto imbarazzato e non sapeva che dire, così lasciò che la donna parlasse e si sfogasse quanto voleva. Finalmente giunsero a Barga. La donna lo accompagnò fino a casa del Funai, poi lo salutò facendosi promettere che sarebbe andato ancora a trovarli. Cesare promise ma non mantenne mai la promessa, malgrado le ripetute lettere di invito. La vita, come vedremo, lo trascinò altrove.
Il signor Funai lo accolse con molto calore e volle trattenerlo a casa sua per quattro o cinque giorni. Rise divertito a sentire della fine dei suoi sigari e volle sapere vita, morte e miracoli dei suoi parenti d’America e anche di tutti i suoi lavoranti che, evidentemente, considerava come persone di famiglia. Questi due fratelli Funai che, come ho detto, facevano una volta per uno a trascorrere un anno di vacanza in Italia, era gente ricca che sapeva godersi la vita. Ogni giorno aveva invitati a pranzo e ogni sera si radunava gente nel suo salotto. Furono giorni piacevoli anche per Cesare che, comunque, alla fine salutò, andò da qualche altra famiglia per consegnare le cose che i loro parenti avevano mandato dall’America e che Cesare aveva scrupolosamente portato e rientrò a casa.
UN GIOVANE BRILLANTE
Subito il giorno dopo si recò a Camporgiano dall’Angelina (la moglie dello stagnino che aveva insegnato il mestiere a Cesare) che aveva una bottega di articoli per la casa e acquistò una quantità di stoviglie di ogni tipo che andarono a riempire tre grosse ceste che l’Angelina portò alla Casetta facendo tre viaggi. Le zie sbalordirono: “ E dove metteremo tutta questa roba ? “ C’era, infatti, una grande carenza di mobilio in quella cucina. Allora Cesare prese in prestito gli attrezzi necessari e costruì una bella “piattaia”, cioè un mobile da appendere al muro e su cui collocare piatti e bicchieri e anche appendere pentole e tegami.
Intanto la guerra continuava e i suoi fratelli Beniamino, Nello, Guido, Azelio e Settimo erano sotto le armi. E Cesare, che qualche risparmio lo aveva portato, mandava soldi a tutti. Carlo, il figlio di Beniamino (per la durata della guerra fu a Camporgiano con la mamma) era senza scarpe e lui gliele comperò. Settimo scriveva lettere mettendo bene in evidenza la sigla “S.S.” che voleva dire “senza soldi”, e lui ogni quindici giorni gli mandava qualcosa. A Nello e Azelio che erano venuti in licenza passava lire 2,50 il giorno a ciascuno. Era presso a poco la paga di un operaio. Insomma si comportava molto generosamente tanto che la Barbera (sarebbe stata la mamma dell’Angelina Comparini che sarà la moglie di Azelio, che, allora, abitava a Battifollo) usava dire: “Il Cesare, che è il più piccolo, fa da papà a tutti i suoi fratelli”.
Oltre a tutto questo, però, per Cesare c’era anche il problema di organizzarsi per intraprendere qualche attività. Dato che in loco non c’era nessuna opportunità di lavoro, pensò che l’unico modo per tentare di guadagnare di che vivere era di avviare una attività commerciale.
A Camporgiano aveva ritrovato l’Umberto Micotti, che era a casa perché era stato ferito. Lo aveva salutato alla stazione di Chicago quando costui partì per l’Italia col primo scaglione di riservisti e lo ritrovava ora leggermente invalido per la ferita. Erano molto amici e, ragionando dell’idea di aprire un negozio, Umberto disse che lo avrebbe fatto volentieri in società con lui.. Detto fatto: decisero di iniziare con un capitale di cinquecento lire a testa, da aumentare fino a mille se se ne fosse ravvista l’opportunità. Così, affittata una stanzetta dal padre di un amico: il Giacomino Micotti, andarono a Firenze dove acquistarono porcellane Ginori e altre cose utilizzando interamente le mille lire di capitale. Cesare aveva intenzione anche di rispolverare le sue capacità di “stagnino” per costruire oggetti di latta (secchi, caffettiere, ecc.) da vendere nella sua botteguccia, per cui cercò anche di acquistare stagno e latta. Però trovò lo stagno ma non la latta perché – gli dissero – tutta la latta disponibile serviva all’esercito. Si ricordò, allora, che qualche tempo prima aveva lavorato a Filicaia per un commerciante di nome Cecchini che gli aveva fatto costruire oggetti di latta utilizzando la latta recuperata dai recipienti che contenevano il petrolio che erano, appunto, di latta. Allora tentò di procurarsi tali recipienti ma non trovò neppure quelli. Così dovette rinunciare al progetto.
Fu chiaro abbastanza presto che gli affari della bottega sarebbero stati magri. E, quasi subito, il socio Umberto chiese di ritirarsi. E Cesare dette fondo ai suoi risparmi per rilevarne la quota.
Intanto la guerra continuava e i suoi fratelli continuavano ad aver bisogno di soldi. I risparmi, però, erano finiti, e i proventi della botteguccia erano scarsamente sufficienti anche a coprire le necessità di Cesare. Che fare ? Vicino alla Casetta sorgeva una grande quercia e un commerciante di legname, tale Bartolomasi Domenico, si offrì di acquistarla per 250 lire. Cesare la vendette. E, col ricavato, fu in grado di continuare a inviare soldi ai fratelli militari. La cosa, però, ebbe delle spiacevoli conseguenze. Quando, nella primavera successiva, il padre Carlo rientrò dagli U.S.A., scatenò un pandemonio. Anzitutto rimbrottò duramente Cesare, ribadendo che il padrone della Casetta e del podere era lui e che lui soltanto poteva disporre delle sue cose. Poi minacciò di denunciare il Domenico che aveva acquistato roba da un minorenne. Questi si spaventò e venne alla Casetta con una cesta piena di salumi, dichiarandosi disposto a dargli le 250 lire che, incautamente, aveva dato a Cesare. Carlo non volle i soldi ma si tenne i salumi (che, forse, valevano anche di più) e dichiarò che, per questa volta, avrebbe lasciato correre, ma nessuno doveva dimenticare che il padrone era lui e che solo lui poteva disporre delle sue cose.
Cesare, che aveva speso quei soldi per fornire di qualche soldo i fratelli militari, dopo aver speso tutti i suoi, e che aveva speso soldi anche per rifornire la Casetta di stoviglie e di altro, ci rimase male, anche se capì le ragioni del padre. Nelle sue memorie, infatti, tenta di spiegare i comportamenti del padre come dovuti a un esagerato attaccamento alle sue proprietà che voleva mantenere integre, nonché a un esagerato timore che potesse essere messa in discussione la sua autorità di capo della casa. Probabilmente la necessità di trascorrere molto tempo lontano dalle sue cose, che restavano pressochè abbandonate durante le sue assenze, accentuava questi sentimenti.
Cesare ricorda anche un altro episodio in cui questi aspetti caratteriali del padree erano emersi.
Poco prima di terminare le scuole – aveva nove anni – accadde che il padre, appena rientrato da uno dei suoi viaggi, vide un campo di grano che era stato seminato in sua assenza e ordinò che venisse mietuto. Nello, che allora aveva sedici anni, gli fece osservare che il grano non era ancora maturo. Ma Carlo insisteva di sì. Allora Nello prese una spiga, ne tolse alcuni granelli e, schiacciandoli con le dita, fece vedere che ancora “facevano il latte”, cioè erano ancora verdi. Apriti cielo ! Carlo si infuriò : “Non lo sapete che qui comando io ? Che sono io a dare gli ordini ? E voi pensate di poterli dare a me !? “ Il povero Nello diventò rosso e tacque. Anche in questo caso, dunque, il timore che potesse essere messa in discussione la sua autorità lo aveva indotto a comportarsi in quel modo, forse anche un po’ ridicolo.
Dopo questi fatti, comunque, la vita proseguì più o meno con lo stesso ritmo. Un piacevole diversivo fu rappresentato da una visita che Cesare e Umberto fecero a un amico che avevano conosciuto a Chicago. Si trattava di un cognato del Soletti (il padre del marito della Rina Bartolomasi) che abitava a Montecarlo in lucchesia. Egli li aveva invitati calorosamente e li trattenne a casa sua alcuni giorni, portandoli anche a visitare tutta la Val di Nievole fino a Montecatini. Era l’autunno del 1917 e le vigne di Montecarlo erano gravide d’uva.
Dicevamo che la vita aveva ripreso il consueto “tran tran”. L’Umberto lavorava la notte facendo il guardiano notturno nella piccooa centrale elettrica del Grilli, da poco costruita. Al mattino dormiva e il pomeriggio era libero di incontrare gli amici. Cesare, dal canto suo, al mattino apriva la sua botteguccia vendendo quel poco che gli capitava di vendere. Spesso andavano a scambiare quattro chiacchiere con lui in francese un paio di donne che avevano fatto le balie in Francia. Una era la nonna paterna del Milvio Focacci, chiamata “la Bianca”. Abitava proprio di fronte alla botteguccia e ogni mattino, affacciandosi a una finestra, lo salutava festosamente con un “Bon jours Cesar”, ricevendone in risposta un “Bon jours a vous, Madame”. Essa era gentile e garbata. L’altra, invece, era fracassona e piuttosto rozza. Essa era la moglie di un Luccarini e madre del “Lupo”, del suocero del Rino Boggi e di altri. C’era, poi, la Mary (madre del Primo Tortelli e della Zara) , una donna simpatica e allegra con una gran voglia di ridere e di divertirsi che, quasi ogni pomeriggio, andava alla botteguccia a trovare Cesare e a invitarlo a casa sua, che era situata in fondo al Borghetto. E Cesare vi andava volentieri, trovandosi a suo agio con lei e con gli amici che frequentavano la casa.
Una di questi era la Marietta Santarini, poi si aggiunse l’Umberto Micotti (così erano in quattro per fare partite a carte) e, poi, anche un certo Ottavio Magnani (che fu, poi, marito della Nanda che, rimasta vedova, sposerà l’Amos Mazzei).
Altro gradevole passatempo erano le festicciole familiari che certe sere si tenevano nella villa della signora Maria, vedova del Saulle Micotti (padre di Ulisse). Essa era tedesca ed era soggetta a certe limitazioni (non poteva allontanarsi dal paese) per cui, essendo sola, cercava di rendere la sua vita meno noiosa. Così invitava ragazze, villeggianti (quell’anno c’erano due romane), i militari in licenza e anche Cesare. Essa aveva simpatia per Cesare e lo mandava a chiamare spesso anche da solo per fare quattro chiacchiere con lui. Purtroppo comiciarono a circolare pettegolezzi di paese e il padre di Cesare, venutolo a sapere, indusse il figlio a interrompere quell’amicizia.
La combriccola di amici costituita da Umberto Micotti, Nellino Bartolomasi, Attilio Santarini (il fratello di Marietta), Giacomino Micotti e, naturalmente, Cesare, usava, poi, quasi ogni domenica, recarsi a Riocavo ove era un’osteria gestita da una Grilli (sorella del Pasquale, che sarà, poi, il mugnaio del Grilli).
Naturalmente continuavano le allegre riunioni da Mary, con la Marietta, l’Umberto e il Magnani.
E fu qui che, un giorno, Cesare trovò la Lina dei Baccetti, che conosceva soltanto di vista.
LA LINA
Quella sera, arrivando da Mary, trovò che Umberto era già lì e sia lui che la padrona di casa lo accolsero allegramente come al solito.
- Penso che conoscerai bene la Lina – disse Mary indicando la bella ragazza che, pure, si trovava lì.
- L’ho vista qualche volta di sfuggita in farmacia insieme alla Giustina – rispose Cesare.
Giustina Bartolomasi, grande amica di Lina, era, appunto, la moglie del farmacista Leandro Telloli.
- Come !? – intervenne allora Lina ridendo – sono la cognata di tuo fratello Settimo e non mi conosci ? –
- Ah ! Ma allora sei sorella della Delfina ! – rispose Cesare. E continuarono a conversare del più e del meno.
Lina, che evidentemente sapeva molte cose di lui, parlava scherzosamente delle avventure galanti di Cesare, della ragazza che aveva a Poggio, della ragazza che aveva a Riocavo…..
Effettivamente questo discreto giovane, ben vestito e che veniva dall’America aveva fatto colpo sulle ragazze, che se lo contendevano. Aveva una ragazza a Poggio, una ragazza a Petrognano (si vedevano a Riocavo dove venivano organizzate festicciole) e correva voce che piacesse anche a qualche sposina col marito lontano. Probabilmente anche Lina era molto incuriosita da questo giovane di cui tanto si parlava. E così, parlando e scherzando, i due entrarono subito in sintonia simpatizzando molto. Tanto che verso sera, quando lei se ne andò, i due si promisero, come vecchi amici, di ritrovarsi il giorno dopo.
La mattina dopo, mentre andava con un secchio ad attingere acqua alla fontana, essa passò dalla bottega di Cesare per salutarlo. Lui fu contento di vederla. E rinnovarono la promessa di vedersi da Mary, quel pomeriggio.
Cesare, lusingato dall’interesse che la ragazza mostrava per la sua persona e molto interessato lui stesso da questa bella ragazza, andò da Nellino, il sarto, che aveva la sartoria nella stessa casa dove Aniceta Bertoi, la zia di Lina, aveva un negozio di stoffe, per avere notizie di questa Lina che aveva fatto irruzione nella sua vita. E Nellino fu prodigo di notizie. Disse di chi era figlia e chi erano i suoi parenti. Disse che era considerata una delle più belle ragazze del paese e che di lei si era innamorato l’avvocato Nutini. Lei, però, aveva preferito un giovane pisano, parente della “Bianca”, col quale era fidanzata. In quell’occasione Cesare seppe anche che essa aveva quattro anni più di lui ma la precoce maturità di lui, molto superiore alla sua età anagrafica, rendeva quel particolare insignificante. E poi, ormai, egli era fortemente preso da quel bel viso dolce e sorridente incorniciato da graziosi riccioli biondi.
Certo non gli fece piacere il sapere che essa era fidanzata. Tuttavia era evidente che gli incontri a casa di Mary facevano piacere a tutti e due. E così li continuarono. E non erano infrequenti le visite che essa faceva alla bottega di Cesare.
Da Mary gli incontri erano sempre piacevoli. Spesso si organizzavano merendine da consumarsi in casa o, nella bella stagione, al fiume Serchio, presso il quale si facevano scampagnate. Generalmente Mary e Marietta facevano i dolci, Lina portava un fiasco di vino (suo padre aveva una bella vigna in Calabricchia) e il Magnani (che era sergente maggiore e stava sempre in divisa) alcune bottiglie di vino “di scelta”. Talvolta faceva saltare il collo alle bottiglie con un colpo di baionetta come – diceva – facevano al fronte.
Umberto, poi, suonava il flauto e spesso lo portava da Mary. Allora, al suono flebile di quel flauto, si ballava. Naturalmente Cesare e Lina ballavano spesso insieme, diventando sempre più intimi. Finchè non fu evidente che i due si erano innamorati perdutamente.
A quel punto Lina decise di rompere il fidanzamento con il ragazzo pisano e gli scrisse. Fu una cosa imbarazzante. Con la famiglia di questo giovane, infatti, la madre di Lina aveva un debito di riconoscenza. Essa, un tempo, aveva dovuto essere operata agli occhi all’ospedale di Pisa e aveva avuto bisogno di essere ospitata per un certo periodo in casa di queste persone. Ed era lì che Lina, che aveva accompagnato la madre, aveva conosciuto il giovane, al quale non aveva saputo dire di no per i suddetti motivi di riconoscenza. Il giovane ci rimase male e scrisse una letteraccia chiedendo la restituzione delle sue lettere.
E così, sciolto quel legame, Cesare e Lina poterono vivere intensamente e felicemente il loro sogno d’amore.
Intanto i magri affari della botteguccia indussero Cesare a chiuderla. Tutte le stoviglie che ancora vi giacevano furono portate alla Casetta e Cesare si dedicò di buona lena alla coltivazione dei terreni della Casetta, rimasti a lungo pressochè abbandonati. Vangò tutti i campi e li seminò, assicurando, così, un raccolto sufficiente a sfamare anche tutti i suoi fratelli che presto sarebbero tornati a casa. Il 4 novembre 1918, infatti, la guerra finì e, piano piano, tutti i militari furono smobilitati. La fine della guerra, il ritorno della pace, il rientro a casa dei militari che avevano trascorso lunghi anni lontano da casa, determinò un clima di euforia e di voglia di divertirsi e di godersi la vita. Anche a Camporgiano furono giorni di festa. Esistevano, all’epoca, nel paese, due piccoli teatri in ciascuno dei quali si esibiva una compagnia di filodrammatici locali. Si davano, quindi, frequenti spettacoli e anche simpatiche feste da ballo. Continuava a pubblicarsi anche il giornale “Il Camporgiano” che dava notizie di questi spettacoli e di queste feste. Insomma la reazione al periodo oscuro della guerra aveva determinato quel clima festaiolo e godereccio che aveva contagiato un po’ tutti, ma specialmente i giovani. Quel clima, però, non poteva durare a lungo.
Superato il senso di precarietà che sempre caratterizza i periodi bellici e il clima di euforia che era seguito, fu naturale cominciare a pensare al futuro. E il futuro che Cesare immaginava era, naturalmente, con Lina. Ma occorreva pensare a un lavoro che desse da vivere. Che fare ? La soluzione a portata di mano, e che Cesare in passato aveva dato per scontata, era di tornarsene in America. Ora non sarebbe stato più un novellino e avrebbe saputo sistemarsi a dovere. E, questo, sarebbe sicuramente avvenuto se, nel frattempo, non si fosse innamorato di Lina. Ma ora tale soluzione appariva a Cesare come un sacrificio inaccettabile. E allora che fare ? Bisognava risolversi a trovare lavoro in Italia. In Garfagnana non esistevano possibilità, ma Cesare sapeva di un certo Radames Santarini, di Camporgiano, che lavorava all’arsenale di La Spezia. Così, d’accordo con la sua ragazza, gli scrisse chiedendogli se pensava che avrebbe potuto trovare lavoro anche lui in arsenale.
La risposta fu affermativa e Cesare fu invitato ad andare subito a La Spezia. Era la fine di gennaio del 1919. Cesare si fece sistemare un po' un vestito, si fece fare un paio di scarpe dall'Annibale Focacci che, essendo anziano, era stato smobilitato fra i primi e partì. Radames lo accolse amichevolmente e gli fece fare subito la domanda di assunzione. In attesa dell'esito di questa, poi, gli trovò subito lavoro con una ditta esterna che lavorava in arsenale. La qualifica era "picchiettatore" e il lavoro consisteva nello sverniciare della vernice vecchia le navi che dovevano essere riverniciate. Il lavoro non era pesante ma la sera si usciva sporchi di polvere e scaglie di vernice. Comunque la paga era di 12 lire per ogni giornata che durava 9 ore. Radames aveva anche provveduto a sistemarlo presso una sua zia, tale Gioconda, che faceva la sarta ma ospitava anche un paio di pensionanti. Il trattamento non era eccellente: soltanto la sera poteva mangiare un buon minestrone, ma il pranzo che la Gioconda gli dava da portare al lavoro consisteva in un bel pezzo di pane e in una frittata con troppe cipolle che Cesare buttava a mare e sostituiva con un po' di formaggio o di mortadella che acquistava in una botteguccia vicino a porta Sprugola (ingresso all'arsenale per gli operai). Però la pensione costava poco. Ma di risparmi se ne facevano ben pochi, anche perché c'erano frequenti scioperi. Nella primavera di quell'anno i socialisti occuparono le fabbriche e saccheggiarono la città. E i negozianti furono costretti a vendere le merci che avevano salvato dai saccheggi ai prezzi dell'anteguerra. La Gioconda ne approfittò e comperò un taglio di stoffa per Cesare con cui gli confezionò un vestito.
Perdurando la confusione e lo sciopero, Cesare tornò a Camporgiano dove trovò anche Azelio in licenza di convalescenza e gli dette qualche soldo, malgrado non ne avesse molti. Tuttavia, avvicinandosi ormai la stagione estiva, riuscì a comperarsi un vestito estivo e un bel paio di scarpe gialle. Se non altro si era rivestito un po', essendo gli abiti portati dall'America ormai logori. Naturalmente passò la maggior parte del suo tempo con la sua Lina. Dopo qualche giorno la situazione si normalizzò ed egli poté riprendere il suo lavoro. Nel frattempo la direzione dell'arsenale aveva accolto la sua domanda ed egli, ora, era un dipendente di ruolo dell'arsenale. Fu assegnato ai bacini di carenaggio e il lavoro gli piaceva molto. Purtroppo la paga era bassa: soltanto 9 lire al giorno. Il posto era sicuro, ma il risultato economico era veramente modesto. E i frequenti scioperi, che continuavano, facevano diminuire ulteriormente la già modesta retribuzione.
Durante uno di questi scioperi andò a Monzone a trovare una zia, sorella di suo padre, di nome Matilde che viveva lì facendo la maestra, insieme a Francesco, suo marito.
Quando era da poco tornato dall'America, Cesare era andato a trovarla col fratello Nello che gli aveva proposto di andare a piedi, attraverso i monti per fare una bella scampagnata. Nello, allenato da anni di militare, procedeva con disinvoltura, ma Cesare gli stava dietro a fatica. E, quando arrivarono, si prese un gran febbrone a causa dello strapazzo e dovette fermarsi sette o otto giorni. Dovette far rimettere a posto anche i vestiti e le scarpe che si erano mal ridotti per la faticosa marcia per la quale, fra l'altro, non erano adatti. La zia, comunque, fu molto affettuosa con lui e si dimostrò molto lieta di poterlo conoscere un po' meglio di quanto aveva potuto fino ad allora. E si fece promettere che sarebbe andato ancora a trovarla. Ed ecco che, approfittando dello sciopero, finalmente lo fece. E l’accoglienza fu ancora più affettuosa. Tanto che la zia Matilde e suo marito vollero che egli andasse da loro ogni sabato e trascorresse con loro il fine settimana. Così nacque fra loro molta confidenza e Cesare raccontava loro del suo lavoro, della sua ragazza che aveva intenzione di sposare e della paga troppo bassa che riceveva in arsenale.
E fu uno di quei sabati che Francesco gli rivelò che la Ditta Walton, ditta inglese che sfruttava le cave di marmo del Sagro e aveva una grossa segheria a Monzone basso, detto “Il Ponte”, gli aveva chiesto la concessione di una sua proprietà nella quale era stata scoperta una cava di marmo “Portoro” molto pregiato. Francesco era disposto a concedere il terreno ma aveva chiesto che, oltre alle normali condizioni che si usavano in quei frangenti, venisse assunto come marcatempo un suo nipote, che sarebbe stato, poi, Cesare. Il direttore aveva detto che la cosa era fattibile. Desiderava, però, prima di chiudere il contratto, conoscere questo nipote onde potere giudicare la sua idoneità al compito che lo attendeva. Cesare fu molto interessato alla cosa, perché la paga, che era molto alta per i lavoratori delle cave, sarebbe stata, per lui, di ben 24 lire al giorno. Certo non valutò i vantaggi che offriva l’occupazione in arsenale: sicurezza del lavoro e, soprattutto, pensione statale assicurata al termine dell’attività. Con la Ditta Walton non avrebbe avuto né una cosa né l’altra (all’epoca i lavoratori delle ditte private non avevano nessuna assicurazione previdenziale). Egli, infatti, pensava all’immediato: a una buona paga che gli avrebbe consentito di sposarsi subito e di vivere abbastanza bene del suo lavoro. Così fu pronto, quando Francesco gli disse che avrebbe dovuto presentarsi al direttoire della Walton Italia Signor Vico, ad andare, insieme a Francesco, all’appuntamento. E l’incontro andò benissimo. Il Signor Vico, giudicato Cesare idoneo al compito che lo attendeva, dette ordine al geometra Bondielli di preparare il contratto coi dati catastali del terreno, dopo di che si sarebbe dovuto attendere soltanto l’assenso di Londra che, però, - egli disse – era solo una semplice formalità. L’assunzione sembrava, ormai, cosa fatta.
Cesare, fiducioso nel futuro, il mercoledì riprese il lavoro a La Spezia. Ma la sera, quando rientrò nella pensione della Gioconda, questa gli porse un telegramma dicendogli che era giunto due giorni prima. Stupito egli lo aprì e lo lesse, rimanendone piuttosto turbato. Era Lina, la sua ragazza, che gli telegrafava da Barga chiedendogli di andare subito da lei che lo avrebbe atteso a Fornaci di Barga. Non c’erano spiegazioni per cui il giovane rimase molto perplesso e ansioso di sapere cosa poteva essere successo. E anche preoccupato, visto il ritardo con cui aveva ricevuto il telegramma.
Il giorno successivo dovette andare al lavoro ma fu preoccupato e inquieto tutto il giorno. E la sera tornò a Monzone dagli zii ai quali raccontò la cosa. Francesco era per non dargli peso:
- E’ una ragazzata ! Scrivigli e chiedigli spiegazioni –
- Porco d’un destin ! Ma come !? Si riceve un telegramma urgente di chiamata e si scrive per sapere cosa si desidera ? Se dimostri tanta indifferenza vuol dire che non le vuoi bene ! – fu,
invece, il parere della zia Matilde. E Cesare ne fu convinto e decise di partire la mattina dopo. Scese col treno fino a Gragnola dove avrebbe dovuto trovare un calesse che andava a Piazza al Serchio. Ma era già partito, per cui non ci fu altro da fare che partire a piedi. La strada era lunga e giunse a Piazza al Serchio all’ora di pranzo. Mangiò qualcosa poi, subito, riprese la via per Camporgiano. Qui giunto nel primo pomeriggio andò subito a casa di Lina e la trovò che stava lavorando di cucito. Era la prima volta che entrava in quella casa. Salutò Mariuccia, la mamma di Lina, che parve felicemente sorpresa, poi Lina lo condusse in un salottino per parlare. Subito Cesare le spiegò le ragioni del suo ritardo, ma Lina disse che lo aveva ben immaginato. Poi gli raccontò tutta la storia.
Onde rendere ben comprensibile tutta la storia gioverà dire due parole sulla famiglia Bertoi, che era la famiglia di Mariuccia, la madre di Lina. Si trattava di una famiglia di contadini con quattro figlie e due figli. Il lavoro era tanto ma la resa era buona e consentiva perfino di mettere da parte, facendo dei sacrifici, qualche soldo. Così maturò l’ambizione di fare un figlio prete. Il più anziano dei maschi, Domenico, mostrava una certa predisposizione per cui, con l’aiuto del parroco del luogo, venne mandato in seminario. Ma i preti, all’epoca, dovevano avere una dote consistente, in genere, in una proprietà terriera. Allora il lavoro, per la famiglia Bertoi, diventò più frenetico e i sacrifici aumentarono di pari passo. Finchè, al momento di essere ordinato prete, Domenico potè avere la sua dote: un piccolo podere e una discreta casa padronale, oltre a una casupola per i contadini. Naturalmente tutto fu intestato a Don Domenico che, intanto, ebbe la sua parrocchia, quella di San Romano, con relativa canomica e “beneficio parrocchiale”, cioè un bel poderetto dotato di mezzadro. Intanto i vecchi della famiglia Bertoi erano morti, il fratello più piccolo era emigrato in Argentina, la figlia Filomena era andata a fare la “perpetua” al fratello, la figlia Teresa aveva sposato Alessandro Bartolomasi, un benestante, la figlia Mariuccia aveva sposato il Giovanni Tortelli che aveva lavorato a lungo in Francia, la figlia Aniceta, che aveva una botteguccia di stoffe, aveva sposato un Borghesi ma era rimasta presto vedova. Mariuccia e Aniceta non avevano una casa propria per cui vivevano nella casa del prete, per sua concessione, e sfruttavano il suo poderetto. Erano, pertanto, in debito con questo fratello prete che aveva concesso loro questo beneficio. E il prete, per ripagarsi, almeno in parte, pretendeva che le due figlie di Mariuccia, Delfina e Lina, nonché la figlia di Aniceta, Lina pur essa, andassero a turno a San Romano a fare da serve in canonica. Da anni andava avanti questa storia e per le ragazze si trattava di un sacrificio notevole. Oltre al fatto che dovevavo recarsi a San Romano a piedi, oltre al lavoro che c’era da fare in canonica, specie in occasione di feste con conseguente inevitabile pranzo, c’era il fatto che sia il prete che la sorella, avarissimi, erano pieni di pretese e di continui rimproveri per questa cosa o quella che non era fatta a dovere, per questa o quella cosa che – a parere loro – era stata sprecata o non bene utilizzata. Comunque le tre ragazze, sia pur bofonchiando, continuavano a fare questo servizio alternandosi. Purtroppo, però, a un certo punto, Don Domenico e Filomena, soprattutto quest’ultima, cominciarono a non essere più soddisfatti delle prestazioni di Delfina e della Lina Borghesi, che ritenevano sciatte e poco precise, e a pretendere che fosse sempre l’altra Lina, la ragazza di Cesare, a prestare i suoi servizi a San Romano. Il che, ovviamente, rappresentò un onere sempre meno sopportabile per la ragazza.
Ora accadde che un giorno Lina era finalmente tornata a casa dopo diversi giorni di lavoro a San Romano e sperava di riposarsi un po’. Tanto più che a Camporgiano ci sarebbe stata, in quei giorni, una festa religiosa alla quale essa desiderava partecipare. Ed ecco che capita Filomena, la “perpetua”, la quale, dovendo trattenersi a Camporgiano per qualche motivo, chiamò Lina e le disse che avrebbe dovuto subito ripartire per San Romano per servire il prete che era solo. La ragazza trovò la cosa insopportabile e protestò dicendo che, questa volta, facesse andare la sorella o la cugina. Ma Filomena, dura e sprezzante, le ordinò: “Se volevo quell’altre l’avrei chiesto a loro. Quindi smetti di fare storie, prepara il tuo fagottino e parti”.
Lina era esasperata. Fece, sì, il suo fagottino, ma invece di andare a San Romano andò a chiamare l’amica Marietta e, insieme, scapparono di casa. Fu un colpo di testa da ragazzina. Infatti non avevano nessun programma ragionevole e l’unica cosa che fecero fu quella di spedire il famoso telegramma a Cesare, sperando che egli potesse portarla via con sé.
La cosa finì senza danno per le due che furono presto raggiunte alla stazione di Fornaci di Barga dalla sorella Delfina e dalla cugina Lina Borghesi, e riportate a casa.
Ma gravi conseguenze ebbe nei rapporti con lo zio prete. Il quale, infuriato e scandalizzato, fece sapere a Mariuccia e a Giovanni che non avrebbe più permesso a Lina di vivere in casa sua. Essa se ne doveva andare. E se non avessero ottemperato subito alla richiesta avrebbe scacciato di casa tutta la famiglia. Ovviamente questo gettò nella disperazione i poveretti che non avrebbero saputo dove andare e di che vivere.
Questo fu l’accorato racconto di Lina che concluse dicendo che la sua speranza era che egli la sposasse e la portasse via. La cosa era grossa e si spiega soltanto col tremendo aut aut che il poco caritatevole zio prete aveva posto a Lina e ai suoi familiari. Quello che non può non stupire è il comportamento di Cesare, questo ragazzo poco più che diciottenne, con pochi soldi, senza una casa, con un lavoro poco remunerativo (anche se c’era la speranza di un nuovo miglior lavoro)
Egli, infatti, anche se preso alla sprovvista, non esitò. Disse che lo avrebbe fatto quanto prima. La situazione non era facile. Non avevano i mezzi per mettere su casa, almeno nell’immediato. Avrebbe, forse, potuto portare la sposina alla Casetta, o collocarla in casa di qualche parente in attesa di poter avere una casa. All’arsenale guadagnava troppo poco, ma c’era la prospettiva di essere assunto dalla Walton… Insomma: in qualche modo avrebbero fatto. C’era, però, un problema: eravamo alla fine dell’estate del 1919 e Cesare non aveva ancora diciannove anni. Era, cioè, minorenne. Occorreva, quindi che suo padre desse il consenso alle nozze. Cesare aveva un rapporto troppo poco confidenziale con il padre e non osò chiederglielo direttamente. Pregò, quindi, la Nonziata di fare da tramite. La cosa andò bene. Il padre si mostrò favorevole e lo disse direttamente a Cesare con parole affettuose che calarono nel cuore di Cesare come un balsamo. Gliene fu molto grato. Non c’erano più impedimenti. Verso il 20 di settembre, accompagnati dal padre di lei e dal padre di lui, si presentarono davanti al sindaco (che era Alessandro Bartolomasi, marito di Teresa Bertoi e, quindi zio di Lina) e, davanti a due testimoni (che erano il “Trivella”, guardia comunale e l’Ottorino, impiegato comunale) diventarono legalmente marito e moglie. Contemporaneamente presentarono le pubblicazioni in chiesa dove, a breve, avrebbero celebrato il matrimonio religioso.
A quel punto lo zio prete consentì che Lina rimanesse in casa fino al matrimonio religioso. E quel primo problema fu così risolto. Cesare, intanto, tornò a La Spezia e riprese il lavoro in arsenale. A fine settimana andò, come di consueto, a Monzone e informò gli zii su tutta la storia. Gli zii rimasero meravigliati, però si dichiararono subito disposti a prendere in casa i due sposini in attesa di una sistemazione migliore. E anche questo grosso problema risultò, così, almeno provvisoriamente, risolto. Ora bisognava che la Walton si sbrigasse ad assumerlo, dopo di che avrebbero fatto il matrimonio religioso e si sarebbero trasferiti a Monzone. Cesare, accompagnato da Francesco, tornò dal direttore Vico della Walton e questi disse che tutto era a posto e si attendeva solo il visto da Londra che sarebbe giunto a breve. Quando seppe che Cesare intendeva sposarsi, però, obiettò che era meglio si sposasse subito onde non essere costretto ad interrompere il lavoro subito dopo l’assunzione per la celebrazione delle nozze. Inoltre lo consigliò di licenziarsi subito dall’arsenale per essere pronto in ogni momento a iniziare il nuovo lavoro.
E Cesare, sicuro, ormai, di avere un nuovo lavoro, si licenziò, comperò gli anelli e un bel cappello per la sposa e partì per Camporgiano, dove si sarebbe sposato nella locale chiesa parrocchiale.
Quando arrivò a Camporgiano incontrò suo fratello Nello che, alzando gli occhi al cielo, disse: “Meno male che sei arrivato ! Eravamo tutti preoccupati, anche il babbo. Pensavamo che te la fossi squagliata. Come mai non hai più scritto ? Sono passato quaranta giorni !” Cesare rise. Effettivamente in quei quaranta giorni non si era più fatto vivo. In realtà si era preoccupato, fino al licenziamento, di lavorare e guadagnare qualche soldo in più e, dopo, di predisporre le cose nella casa dove sarebbero andati a vivere.
Il matrimonio avvenne il 1 novembre 1919, nella chiesa parrocchiale che, all’epoca, era situata proprio nella piazza del paese.
I GIOVANI SPOSI
Era il primo matrimonio che si celebrava a Camporgiano dopo la guerra e, anche per questo, ci fu grande partecipazione alla cerimonia. Fu una cerimonia semplice ma dignitosa. Facevano da testimoni il Silvio Cardosi e l’Ottorino Santarini. Dopo il “sì” , pronunciato alle ore 16, ci fu un piccolo rinfresco al quale parteciparono i parenti e qualche amico. Della famiglia di Cesare erano presenti soltanto il padre e il fratello Nello, che era già stato congedato. Azelio e Settimo evidentemente erano ancora soldati e gli altri erano all’estero. Subito dopo il rinfresco gli sposi noleggiarono la carrozza del Boggi, vi caricarono il baule e la valigia entro cui Lina aveva stivato il suo corredo e partirono fra la commozione dei parenti molti dei quali piangevano. Andarono a Lucca dove pernottarono e, il giorno dopo, partirono per La Spezia dove si sarebbero trattenuti quanche giorno. Appena giunti si recarono dalla Gioconda, che era la donna presso la quale Cesare alloggiava quando lavorava alla Spezia, per salutarla e farle conoscere la sposa.
E qui ebbero una sgraditissima sorpresa. Ci trovarono, infatti, il Francesco (marito della zia Matilde) il quale comunicò loro che aveva rotto le trattative con la Walton perché aveva trovato un tizio che, per quarantamila lire, avrebbe comperato il giacimento. Questo significava che l’impiego considerato ormai sicuro era definitivamente sfumato.
Fu un duro colpo. I due sposini avevano una casa, perché Francesco manteneva la promessa di ospitarli, ma non avevano un lavoro e, quindi, erano completamente privi di ogni fonte di reddito.
Ma non si scoraggiarono.
Comincia, qui, una storia difficile ma bella di un periodo pieno di difficoltà ma anche caratterizzato dallo spirito di iniziativa e dalla creatività dei due giovani che lottarono per conquistare una vita dignitosa e un discreto benessere.
La notte parlarono a lungo della loro situazione e presero la decisione di avviare, con i pochi denari che ancora Cesare aveva in tasca un piccolo commercio di articoli per la casa.
Non posero tempo in mezzo: subito il mattino dopo Cesare andò ad Aulla da un grossista di terraglie e acquistò un quantitativo di pentole, tegami, casseruole, ecc. che caricò su un barroccio e portò a casa. Con questa roba aprì una botteguccia a Monzone Alto, in casa di Francesco e Matilde. Ma il paese era piccolo e appartato, per cui non c’era transito di altre persone e gli affari andavano male. Oltre tutto Francesco non aveva concluso nessun affare e non versava in buone condizioni economiche per cui pretendeva dai due sposi una corposa contribuzione alle spese di casa. E la botteguccia non dava guadagno sufficiente.
Cesare non si perse d’animo e fece un altro progetto. Si trattava di aprire il negozio al Ponte, cioè a Monzone basso che era più popolato e, soprattutto, era quotidianamente frequentato dalla gente dei paesini dei dintorni che non avevano negozi e, quindi, scendevano a Monzone per i loro acquisti nonché per prendere il treno.
E non era tutto. Egli, infatti, pensò che avrebbe potuto mettere a frutto quello che aveva imparato da ragazzo facendo l’apprendista lattoniere dal Valentini. Subito ne parlò alla Lina alla quale chiese di andare subito a Camporgiano per fare due cose: Prima: cercare un prestito con cui acquistare nuova merce per la bottega; Seconda: passare dalla Angelina Valentini, la vedova del vecchio lattoniere che era morto in guerra, e farsi dare tutti i ferri del mestiere, compresi i modelli per poter costruire oggetti di latta. Detto fatto, la Lina partì mentre Cesare cercava e trovava a Monzone basso un locale dove aprire il negozio. Lo trovò in un palazzo delle signore Agnini. Era un bello stanzone che in passato era stato un negozio di alimentari e che aveva un secondo stanzone adiacente che, coi fornelli a carbone che le padrone di casa fecero prontamente costruire, avrebbe potuto benissimo servire da cucina. Dopo un paio di giorni la Lina tornò con cinquecento lire avute in prestito dal Silvio Cardosi che era un commerciante zio di Lina (aveva sposato Teresa, sorella di Mariuccia, la mamma di Lina) e con tutta l’attrezzatura avuta dalla Valentini.
Portarono tutta l’attrezzatura nel nuovo negozio e, subito il giorno dopo, Cesare si alzò alle cinque per prendere il treno per Aulla. Qui prese contatto con un certo Bernardi Felice che, oltre ad avere un grosso negozio di pentolame di smalto, rame e bronzo, aveva anche un’officina da stagnino, cioè da lattoniere. Cesare ha sempre ricordato questo signore che lo aiutò molto con consigli pratici che gli consentirono di riprendere la professione con una certa sicurezza. Da lui acquistò diversa roba, con pagamento dilazionato, che, chiusa in una cassa, fu spedita per ferrovia.
La mattina dopo ritirò la cassa e la portò con molta fatica al negozio. Insieme a Lina la aprirono e gioiosamente tirarono fuori tutto quel che era stato acquistato. E qui lascio la parola a Cesare anche perché è stupefacente come egli, scrivendo queste cose dopo cinquantadue anni, riuscisse a ricordare con precisione tutto quel che aveva acquistato. Dice egli, dunque, che tirarono fuori dalla cassa “…una serie di pentoole di smalto rosso e blu, di casseruole, di tegami dello stesso materiale: 1 pezzo per ogni misura; alcuni paioli di rame di unica misura, tre teglie di rame di misure diverse, una secchia, 1 bacile, due catinelle e una brocca di smalto bianche. Inoltre diversi lumi a petrolio e 1 pacco di tubi per gli stessi oltre a un certo quantitativo di cordella (chiamavasi calzetta) per i lumi stessi.”
Erano felici come bambini (e poco più che bambini erano ma con molta iniziativa e molto spirito pratico) ed erano sicuri che il loro avvenire sarebbe stato bello e che presto avrebbero raggiunto il benessere economico.
Il negozio, però, non aveva scaffalatura né banco, ma solo una vecchia ma ampia credenza a muro. Cesare, allora, portò giù da Monzone alto un vecchio e grosso tavolo che a Francesco non serviva e lo fece servire da banco di vendita e anche da banco da lavoro. Poi, dopo aver collocato nella credenza quanto ci poteva stare, fissò al muro, con dei grossi chiodi, diversi fili di ferro ai quali appendere, con dei ganci, il materiale che non era entrato nella credenza .
Ora il locale aveva l’aspetto di un vero negozio e i due sposi ne gioirono. Nei giorni seguenti, poi, Cesare cominciò il suo lavoro di stagnino costruendo dei secchi di latta, delle caffettiere, delle lanterne e altro. E anche questo arricchì la dotazione del negozio. E cominciò anche ad eseguire le prime riparazioni e a guadagnare qualcosa.
Ragioni pratiche (essere sempre presenti in negozio) e anche il grande desiderio di indipendenza li indusse, quasi subito, a organizzarsi per fare dell’altra stanza la loro cucina e sala da pranzo.
Comperarono un tavolo che fu il loro primo mobile, salutato da Lina con grande gioia, da Francesco ebbero due vecchie sedie, due cucchiai, due forchette e un coltello. E, con due piatti, due bicchieri e due tazze acquistate da un ambulante, più alcune pentole prese nella loro bottega (anche qui Cesare, nelle sue memorie, è straordinariamente preciso “…prendemmo una pentola di terra (cioè di terracotta), una casseruola, un tegamino e un bricco per il latte, tutto di terra rossa, nonché una caffettiera da me costruita e un grosso catino verde per l’acqua, nonché una paiolina (un secchio) sempre da me costruita”), cominciarono a vivere l’intera giornata in bottega e nella cucina adiacente. Da Francesco salivano soltanto la sera per dormire.
All’inizio il guadagno era modesto, ma essi lo facevano bastare conducendo una vita spartana. Al mattino colazionavano con latte e pane, a pranzo il primo era una minestra consistente in “… pasta bollita in acqua salata e condita con un certo soffritto che dicevi (nelle sue memorie Cesare si rivolge a Lina, da poco defunta, in un dialogo ideale, rievocando il loro passato) di aver imparato da tua madre: lardo e olio”, il secondo era solo formaggio e pane. La sera cenavano ancora con latte e pane. Solo quando furono in grado di sostenere la spesa dello zucchero cominciarono a usare il caffè d’orzo.
Piano piano, però, i guadagni cominciarono a farsi più consistenti e, di conseguenza anche il loro tenore di vita migliorò considerevolmente. Anche in virtù degli ottimi rapporti che avevano instaurato col vicinato, specie con i Damiani, che, in cambio di lavoretti di ricamo fatti da Lina, li rifornivano abbondantemente di frutta e verdura. Cesare, aiutato da Bernardi di Aulla, aveva imparato a far bene il suo mestiere che comprendeva anche la riparazione delle pompe per dare l’acqua ramata e i guadagni crescevano. E anche le vendite andavano bene. Il 15 maggio 1920 a Monzone basso (Il Ponte) c’era la fiera. Per la bottega fu un successo strepitoso. A sera essa era quasi completamente vuota. Avevano venduto moltissimo. L’incasso fu importante e subito il mattino dopo Cesare dovette andare a rifornirsi abbondantemente. Più il tempo passava e maggiore era il numero degli articoli che trattavano. Erano passati poco più di cinque mesi dall’inizio dell’avventura ed erano riusciti a garantirsi un reddito soddisfacente.
Intanto Lina era incinta di circa sei mesi e aveva bisogno di nutrirsi bene. E grande era la soddisfazione di poterlo fare senza problemi, con varietà ed abbondanza. Le ristrettezze erano finite, la loro attività e la loro costanza aveva decretato il loro successo.
E la data del parto si avvicinava. Mariù, la mamma di Lina, insisteva perché Lina venisse a Camporgiano a casa sua per partorire. E che non aspettasse l’ultimo momento.
Così ai primi di Luglio fu presa la decisione di partire per Camporgiano. Il problema era serio perché le strade del tempo erano disastrose. Si era presa in considerazione la possibilità di usare il treno che, però, avrebbe costretto a un lungo giro: Monzone-Aulla-Santo Stefano-Viareggio-Lucca-Castelnuovo Garfagnana. Fortuna volle che proprio in quel periodo fosse inaugurato un servizio di autobus Fivizzano-Reusa-Castelnuovo. E fu quella la soluzione. Pernottarono a Fivizzano presso una signora conosciuta e, la mattina dopo, partirono e giunsero felicemente a Camporgiano. Lina portava con sé un po' di denaro per le sue necessità e anche le 500 lire da restituire al Silvio Cardosi. Erano bastati poco più di sei mesi per saldare il debito. E, questo, era un bel risultato.
Il parto avvenne il 4 agosto del 1920 e nacque un bel maschietto sano e robusto. Cesare ne fu informato con un telegramma e, subito dopo, con una lettera di Lina che lo pregava di non venire subito ma di attendere il battesimo che ci sarebbe stato prestissimo. Ciò perché, anche se non lo disse nella lettera, essa aveva avuto un parto doloroso, con lacerazione dei tessuti e non stava molto bene. Poco dopo ci fu il battesimo e Cesare arrivò. L’emozione di essere padre a soli 19 anni e la gioia furono immensi. Ma a tutto questo si accompagnò il dolore nel vedere la sua Lina che era ancora pallida e sofferente e si stava, sì, rimettendo, ma molto lentamente. Egli si trattenne qualche giorno e assistè amorevolmente la moglie sofferente.
Ma, fatto il battesimo del piccolo Giorgio Guido (questi furono i nomi imposti ma, in realtà, fu sempre chiamato Guido a ricordo dello zio morto in guerra), Cesare tornò a Monzone e alle sue attività con accresciuta lena.
Ma un evento doloroso e di grande risonanza era in agguato.
Pochi giorni dopo, alle 7,50 del 7 settembre 1920, mentre era a letto a casa della zia Matilde, fu svegliato all'alba da una fortissima scossa di terremoto che gli fece temere il peggio. Invece la casa resse e i danni a Monzone furono minimi. Tanto che lui scese al Ponte e aprì tranquillamente il suo negozio. Ma notizie di gravi danni a Casola, Fivizzano e dintorni giunsero ben presto e Cesare si unì ad altri a formare squadre di soccorso che andarono a Gragnola e Casola e soccorsero i feriti, caricandoli su un treno ospedale che era giunto nel frattempo.
Cesare si preoccupava di ciò che avrebbe potuto temere la Lina nell'apprendere dei morti e dei feriti di Fivizzano, Casola e dintorni. E tentò di telegrafarle, ma il telegrafo era interrotto. Non immaginava che anche in Garfagnana il terremoto avesse colpito. Ma quando arrivarono i giornali e lesse "Camporgiano raso al suolo", si precipitò come impazzito alla ricerca di mezzi per raggiungerlo. Facendo anche tratti a piedi, vi giunse, alfine, e, con grande sollievo, trovò Lina e la sua famiglia sani e salvi. Nella loro casa era crollata una parete alla quale era appoggiata la culla di Guido, però, fortunatamente, era crollata dall'altra parte coprendo il piccolo soltanto di polvere. Nel gran polverone che si era sollevato parve crollata tutta la casa e lo spavento fu tanto. Delfina, comunque, con grande prontezza afferrò il piccolo Guido e tutti si precipitarono fuori sani e salvi. Cesare si trattenne forse un paio di giorni, dormendo nella tenda che l'esercito aveva fornito e che il fratello Nello aveva montato ma, poi, appena possibile, prese moglie e figlio e li portò a Monzone.
Li aiutò a caricare i bagagli il fratello Settimo che era stato mandato in licenza. Ma Lina era preoccupata per la sorella Delfina che, per un grave disturbo intestinale (enterocolite ?), era gravemente deperita. Così chiese al marito di poterla ospitare finché non si fosse rimessa. Le condizioni economiche della famigliola erano ormai abbastanza buone tanto che ospitare un'altra persona non costituiva un problema. Così Delfina venne a Monzone (andò a prenderla Cesare) e si trattenne fin verso Natale rimettendosi completamente.
Gli affari continuavano ad andare bene e l'anno 1921 si preannunciava molto positivo. Ma ecco che Cesare viene chiamato alla visita di leva. Egli, avendo un fratello morto in guerra, chiese l'esenzione dal servizio e, in effetti, nell'esercito non fu chiamato. Ma poco dopo venne chiamato a visita dalla Marina Militare in quanto aveva lavorato all'Arsenale di La Spezia. Si presentò e risultò abile. Cesare tentò ancora di avere l'esenzione ma gli fu negata perché nel lontano 1907 ne aveva beneficiato, per altri motivi, il fratello Giorgio. Così nella seconda metà di ottobre del 1921 dovette presentarsi a La Spezia.
La cosa creava grossi problemi perché Lina non sarebbe stata in grado di gestire il negozio da sola.
Allora Cesare risolse il problema lasciando la gestione del negozio allo zio Francesco che avrebbe dovuto mantenerglielo in attività per restituirglielo in buone condizioni al suo rientro dal servizio militare.
Nel frattempo Lina sarebbe tornata a vivere a Camporgiano con i suoi. Cesare le aveva lasciato duemila lire, ma mille di queste furono prestate a Delfina e Settimo che dovevano sposarsi perché lei era incinta e non avevano un soldo (1).
NOTE:
(1) In realtà io ho sempre sentito parlare da mia madre Lina di cinquecento lire e non di mille. Che, poi, non furono mai restituite.
MARINAIO
Ed ebbe inizio la "naja" di Cesare. Presentatosi a La Spezia, fu assegnato al C.R.E.M. (Corpo Reale Equipaggi Marittimi) di Venezia. Qui venne imbarcato su un rimorchiatore come fuochista (era una nave a vapore alimentata a carbone), che era una qualifica che comportava lavori particolarmente duri e faticosi, come quello di introdursi nella fornace, ovviamente spenta ma ancora con temperature elevatissime, per ripulirla. Cesare, dotato di alto spirito del dovere e di elevato senso della disciplina, eseguì sempre il suo lavoro senza lagnanze e fu molto apprezzato dai superiori. Poi, dopo aver acquisito una certa anzianità, fu promosso marinaio scelto e, con tale qualifica, avrebbe potuto risparmiarsi il lavoro più duro, lasciando che lo facessero le nuove reclute della classe 1902.
Ma egli li vedeva come ragazzini spaventati, che spesso si mettevano a piangere quando c'era da pulire la fornace, cosicché, alla fine, il lavoro più duro lo faceva sempre lui, anche se i superiori lo esortavano a far lavorare le reclute. Tale era il carattere di Cesare. Egli, pur avendo soltanto un anno più delle reclute, si vedeva come un uomo maturo, forgiato da una vita dura che lo aveva visto capace di sopravvivere da solo fin dall'adolescenza, e quei ragazzini spaventati e piangenti gli facevano tenerezza e gli facevano assumere un atteggiamento protettivo. Purtroppo, e forse proprio a causa di quella vita dura, cominciò a soffrire di due malanni che lo accompagneranno per tutta la vita: la piorrea che lo porterà, piano piano, a perdere tutti i denti e a soffrire molto, e le emorroidi.
Tuttavia nei suoi ricordi della vita da marinaio c'erano anche cose piacevoli. Per la benevolenza dei superiori egli godeva costantemente di libera uscita fino a mezzanotte, il che gli consentiva di trascorrere ore a terra ove spesso cenava con delle ottime pizze (fu qui che le conobbe e le assaggiò per la prima volta) insieme ad amici. Ed ebbe anche la possibilità di venire spesso in licenza.
Lina, durante quel lungo periodo di circa due anni, aveva vissuto senza problemi. Infatti, oltre ai soldi che Cesare le aveva lasciato, essa ebbe dei soldi anche da Francesco, come parte degli utili del negozio e anche qualche soldarello che Cesare riusciva ad inviarle infilando un biglietto da dieci lire in ogni lettera.
Essa, però, in quel periodo, avendo ritrovato a Camporgiano le vecchie amicizie, aveva ripreso a fare vita un po' troppo da signorina, frequentando feste da ballo e divertimenti vari. E, questo, ebbe la riprovazione della madre e, soprattutto, alimentò dei gravi dissapori col marito. Dissapori che furono superati a fatica e diversi anni dopo.
Venne, comunque, anche il momento del congedo, anticipato, a norma di un decreto, per i marinai coniugati. E verso la fine di Giugno del 1923 Cesare tornò a casa. E si recò a Camporgiano.
Ma non dovettero essere tempi facili. Nelle sue memorie Cesare doveva aver scritto qualcosa, forse un giudizio severo sul comportamento della moglie Lina, ma, poi, ha strappato la pagina. Resta, comunque, qualche accenno al fatto che egli era diventato irascibile e che dubitava perfino che Lina fosse una buona madre. E resta, soprattutto, questa frase: ""Certo quei giorni che dovetti restare a Camporgiano furono fra i peggiori di tutta la nostra vita in comune"".
Così quando Cesare annunciò a Lina che il giorno appresso sarebbero partiti per tornare a Monzone, Lina piagnucolando chiese di essere lasciata ancora un po' a Camporgiano. Evidentemente la preoccupava il ritorno a vivere con quel marito che si era fatto, a seguito delle sue leggerezze, così duro e risentito. E, infatti, anche il quell'occasione, egli la minacciò di prenderla a schiaffi e le intimò di farsi trovare pronta il giorno dopo. E andò a dormire alla Casetta.
Il giorno dopo, come previsto, rientrarono a Monzone. Qui trovarono che Francesco aveva fatto dei debiti con la bottega e voleva continuare a gestirla fino a ripianare il debito. Ma Cesare disse che ci avrebbe pensato lui e si fece dare la chiave. Poi andò a Camporgiano ove ottenne duemila lire di prestito (1000 da Azelio e 1000 da Silvio Cardosi tramite Aniceta) con le quali sistemò tutti i debiti. E fece grande rifornimento di merci.
E gli affari ripresero a prosperare. I prezzi che Francesco teneva spropositatamente alti furono tosto riportati ai giusti livelli e le vendite aumentavano.
Ma una nuova tegola minacciò la ripresa. Il primo settembre 1923, a seguito dell'uccisione di una missione italiana nell'Epiro, fu occupata Corfù e mobilitata la Marina. E Cesare fu immediatamente richiamato. Questa volta, però, fu Lina stessa a mandare avanti il negozio, mercé l'aiuto, anche se modesto, che le fu dato dalla cugina Lina Borghesi che si trasferì a Monzone. Per fortuna la crisi passò e il primo ottobre, cioè appena un mese dopo, Cesare fu congedato e poté tornare a casa.
Intanto (poco prima che Cesare fosse richiamato) si era liberato l’appartamento nel palazzo del Signor Giannetti Mario e Cesare lo chiese e lo ottenne in affitto. Era vicinissimo al negozio e, quindi, comodissimo. E fu una fortuna perché il negozio era ormai stracolmo di merci, che avevano invaso anche la seconda stanza e fu addirittura necessario utilizzare una stanza del nuovo appartamento come magazzino.
L’attività di Cesare si fece frenetica. Trovò nuovi fornitori anche a Milano (ordinava direttamente alle fabbriche) e perfino in Austria, in Carinzia, dove acquistava falci e falcetti. E non trascurava certo il lavoro. Nella primavera del 1924 nella valle del lucido arrivò la corrente elettrica e Cesare, con l’aiuto di tale Icilio Agnini elettricista, si fece elettricista lui pure e, acquistato un forte quantitativo di materiale elettrico, riuscì, dopo qualche difficoltà (1), a fare molti impianti e a guadagnare molto.
Note:
(1) Era accaduto che la ditta fornitrice dell’energia (si trattava di una piccola centrale di un certo Veschi) aveva un proprio elettricista che faceva gli impianti per cui a Cesare rimase invenduto tutto il materiale elettrico acquistato. Ma la corrente fornita era insufficiente e le lampade facevano pochissima luce per cui, dopo un po’, intervenne un’altra ditta seria, la C.I.E.L.I. di Reggio Emilia che affidò a Cesare non solo l’esclusiva dei lavori di costruzione degli impianti domestici ma anche l’incarico di procurare e far sottoscrivere nuovi contratti. E anche chi aveva il contratto con Veschi lo disdisse e si allacciò con la nuova ditta.
E C’E’ ANCHE LA POLITICA
Si era intanto giunti al Natale del 1924. Cesare dice, nel suo diario, che spesso era “molto distratto dal mio lavoro dai frequenti richiami in servizio della Milizia”, per cui Lina, che spesso rimaneva sola anche la notte, doveva darsi da fare molto per badare al negozio e al bambino.
Bisogna, quindi, dire qualcosa a proposito della partecipazione di Cesare alla vita politica. Egli si era iscritto al Partito Nazionale Fascista presumibilmente nel 1923, al termine del servizio militare. Va, però, detto che egli aveva sicuramente aderito al Fascismo fin dagli inizi, anche se solo idealmente. Il Fascismo era un partito di ex combattenti e Cesare, pur non essendo stato un combattente, aveva avuto ben sei fratelli che lo erano stati; il Fascismo era un partito patriottico e Cesare era visceralmente patriottico; il Fascismo combatteva i disordini provocati dai partiti di sinistra e Cesare è sempre stato un uomo d’ordine; infine il Fascismo era capeggiato da Mussolini, ex socialista e aveva un programma sociale avanzato, e Cesare è sempre stato per uno stato sociale e dalla parte dei lavoratori. Per tutte queste ragioni Cesare fu fascista e, come vedremo, rimase coerente con i suoi ideali finchè visse.
Così dal 1923 egli fece parte della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (M.V.S.N.) e fu molto impegnato nelle azioni tese al consolidamento del governo fascista. Il suo entusiasmo era pari alla purezza dei suoi ideali e alla sua profonda onestà. Purtroppo non tutti i fascisti erano così e la presenza di opportunisti e profittatori lo amareggiò molto e gli fece anche passare dei guai, come vedremo.
Intanto gli anni passavano e gli affari continuavano ad aumentare. Il 1925 e il 1926 furono anni proficui anche per la gran quantità di lavoro che portarono gli impianti elettrici domestici che Cesare continuava a fare, naturalmente oltre al resto. Ma nel 1926, probabilmente in estate, mentre Lina e Guido erano a Camporgiano, gli accadde un incidente che rischiò di fargli perdere un occhio. Infatti una sera, essendo andata via la luce per un temporale, egli stava scendendo la scala al buio con in mano un recipiente pieno di acido muriatico (indispensabile per le saldature a stagno ma molto caustico). A un tratto scivolò su un gradino, il braccio scattò involontariamente verso l'alto e l'acido gli cadde sul viso penetrando nell'occhio sinistro. Il dolore fu atroce, ma egli ebbe la presenza di spirito di scaraventarsi fuori sotto il temporale e qui, con l'acqua abbondante che riempiva delle grosse pozzanghere, si lavò e si rilavò l'occhio ustionato. E, questo, fu forse ciò che gli salvò l'occhio. Dovette, però, ricoverarsi all'ospedale oftalmico di Carrara per una decina di giorni, e rimanere a riposo per un po' anche dopo. Naturalmente Lina, avvertita con un telegramma, rientrò immediatamente con Guido e garantì l'apertura della bottega.
Superato l'incidente, comunque, tutto riprese ad andare per il meglio, salvo il fatto che i disturbi di cui Cesare aveva preso a soffrire durante la vita militare (emorroidi e piorrea) si erano ulteriormente aggravati e lo facevano soffrire. E il suo carattere si faceva sempre più aspro e irascibile. Tanto che una volta, infuriato per un piccolo incidente capitato a Guido, ( si era allontanato con un amichetto ed era tornato piangendo perché l'amico gli aveva tirato un sasso in testa) ritenendo la moglie responsabile di non aver badato convenientemente al piccolo, la colpì con uno schiaffo facendola, addirittura, cadere. Nelle sue memorie Cesare rievoca questa cosa dicendo che quella fu l'unica volta e che il rimorso per averlo fatto l'ha perseguitato per tutta la vita. Comunque poco dopo, essendosi calmato e pentito di quel che aveva fatto, le chiese scusa e fu perdonato. E l'armonia dovette tornare fra i due. Narra, infatti, sempre nelle sue memorie, un episodio dal quale emerge l'amore e la tenerezza che univa i due coniugi. Erano a cena fuori, in un prato, come spesso facevano e Cesare era sdraiato con Guido vicino che avendo visto fra i capelli del papà qualche filo bianco, tentava di strapparglielo. Lina diceva a Guido di non fargli male, poi, guardando Cesare con occhi pieni d'amore, sussurrò i versi di una vecchia poesia: ""…ad ogni fil d'argento un bacio scocca la fida bocca, l'adorata bocca…."". Cesare ne fu profondamente commosso (e la commozione, dice, si rinnova ogni volta che lo ricorda) , non disse nulla con la voce ma ricambiò lo sguardo che diceva tutta la sua commozione e gratitudine.
Ho accennato, prima, ad alcuni guai che capitarono a causa della sua attività politica. C'era, in quel tempo, a Monzone, un maresciallo dei carabinieri molto ostile ai fascisti e particolarmente ostile a Cesare. Tanto che, fornendo informazioni esagerate sugli ipotetici suoi guadagni, provocò l'imposizione di tasse sproporzionate ai guadagni reali. Ma il fatto più grave accadde un'altra volta. Era accaduto che, non so bene a seguito di quali fatti, l'Eldo Folegnani, un fascista suo carissimo amico, era stato convocato in caserma e qui era stato ferocemente picchiato. Cesare, allora, non appena fu informato del fatto, si recò a sua volta in caserma per chiedere spiegazioni e per protestare. Ma il maresciallo assunse un atteggiamento offensivo e provocatorio. Egli, allora, preso da uno dei suoi attacchi di furia, gli rovesciò la scrivania addosso, colpì con un pugno un carabiniere che tentava di sbarrargli il passo e uscì di corsa dalla caserma. Il fatto era grave e c'era il pericolo di essere arrestato. Egli allora passò velocemente a casa per avvertire Lina, dopo di che lasciò Monzone a piedi e, passando da Equi e da Ugliancaldo, raggiunse Minucciano e poi Camporgiano, dove si nascose per alcuni giorni. Appena lui fu uscito i carabinieri irruppero in casa per arrestarlo ma non poterono che constatarne l’assenza. Trascorso il periodo di flagranza e scongiurato il pericolo di arresto, poi, tornò ai suoi affari e la cosa, in qualche modo, fu composta senza conseguenze. Naturalmente anche queste tensioni contribuivano a peggiorare il suo carattere.
Intanto anche Delfina e Settimo avevano avuto un figlio, Olinto, che aveva poco meno di Guido. Le due famigliole si frequentavano e i due bambini erano molto uniti. Fu, quindi, grande il dolore quando Olinto, per una grave malattia intestinale, a circa quattro anni di età venne a mancare.
I due costernati genitori furono invitati a Monzone e qui si trattennero per molto tempo, aiutati amorevolmente a elaborare il loro grave lutto.
E venne il 1927. Gli affari prosperavano. Addirittura facevano anche un po' di commercio all'ingrosso rifornendo piccoli negozi di Gassano, Serricciolo, Pallerone e altri.
Ma ecco che un fatto grave e pericoloso tornò a minacciare la piccola famiglia: Guido si ammalò di scarlattina. Si trattò di una grave epidemia che fece anche molte vittime. Anche a Monzone. Si può, quindi, immaginare la preoccupazione dei genitori. Fortunatamente la malattia fu superata. Un particolare curioso : durante la malattia e la lunga convalescenza una gallina (a quel tempo le galline razzolavano tranquillamente per le vie ed entravano anche nelle case) si inerpicava sui ferri delle sponde del lettino e se ne stava lì per ore a far compagnia a Guido al quale la cosa piaceva molto. Poco dopo una sospetta difterite rinnovò le preoccupazioni, ma anche questo fu felicemente superato. E arrivò il 1928.
IL SINDACALISTA
Nei primi mesi di questo 1928 Cesare, su segnalazione delle autorità politiche, fu nominato rappresentante sindacale della Confederazione dei sindacati fascisti dei lavoratori per tutta la Valle del Lucido, Fivizzano, Casola e Fosdinovo. La notizia della nomina, che fu pubblicata anche dalla stampa, giunse inaspettata. E anche poco gradita. Cesare, infatti, temeva che questo nuovo impegno potesse distoglierlo dai suoi affari ed era deciso a rinunciare. Ma gli amici, comprese le persone più influenti del paese (il vecchio Damiani, Pietrino Bernardini, Mario Bondielli, Mario Giannetti) si congratularono con lui e lo esortarono ad accettare. E anche Lina si mostro favorevole. Cesare, allora, si convinse e accettò.
E cominciò la nuova avventura. C'era da organizzare soprattutto i lavoratori del marmo, sia quelli che lavoravano alle cave, del Sagro e di Equi, sia quelli che lavoravano alla segheria di Monzone, e Cesare si dette da fare. Il suo merito fu subito riconosciuto e gli fu fissato uno stipendio di 500 lire mensili che non erano disprezzabili, anche se con il suo lavoro avrebbe guadagnato di più. C'era ancora, comunque, l'attività commerciale, portata avanti quasi esclusivamente da Lina. Accadde, poi che, quando allo scioglimento della Confederazione unica furono costituite varie confederazioni (Industria, Commercio, Agricoltura, ecc.) egli fu incaricato di rappresentare, oltre ai sindacati dell’Industria, anche i sindacati dell'Agricoltura ed ebbe altre 500 lire mensili di stipendio.
Saranno questi introiti sicuri che consentiranno al negozio di superare senza danno la terribile crisi economica del 1929.
LA CRISI
Il 1928, in realtà, era cominciato sotto buoni auspici per il negozio di Cesare e Lina, anche se Cesare era sempre più assorbito dalla nuova attività di sindacalista. Ma verso la fine dell'anno si cominciò a parlare di crisi.
Il primo grave segnale si ebbe nella primavera del 1929 allorché la Ditta Walton non riaprì le cave del Sagro e, poco dopo, andò in liquidazione volontaria. La quasi totalità delle maestranze della valle del Lucido rimase senza lavoro. Molti si dettero da fare e trovarono da occuparsi altrove, ma gli operai di Vinca, abituati a lavorare esclusivamente alle cave del Sagro, rimasero totalmente disoccupati.
E la crisi incalzava. I prezzi crollarono andando, addirittura, al di sotto del prezzo pagato dal commerciante per l’acquisto, per cui molti commercianti fallirono. Questo accadde, naturalmente, anche nel negozio di Cesare ma, come ho detto, lo stipendio percepito con la nuova attività sindacale li salvò dal fallimento. Per fortuna con i prezzi così bassi le vendite continuarono e, piano piano, la grande quantità di merci che era in magazzino, fu smaltita e l'acquisto di nuova merce pagata a un prezzo adeguato, consentì di ridurre le perdite.
La situazione drammatica della disoccupazione nella zona, comunque, richiese un grande impegno di Cesare che disperatamente cercava di creare opportunità di lavoro.
Un importante gerarca fascista era, all'epoca, Renato Ricci, di Carrara e Cesare , col suo aiuto, riuscì a far finanziare un lotto della Galleria del Lupacino (sulla linea ferroviaria Lucca-Aulla) ove trovarono occupazione oltre 160 operai. Poi si recò a Roma, sempre da Ricci, che era presidente dell'Opera Nazionale Balilla, per indurlo ad acquistare marmi di Equi Terme, ove erano altre cave, per lo stadio dei marmi, alla Farnesina, che era in costruzione. E per circa due anni tutti gli operai di Equi ebbero lavoro.
Ma il 1929 portò altre novità nella famiglia di Cesare. La prima - lieta - fu che Lina disse di desiderare un altro figlio. E Cesare ne fu ben lieto. La seconda - dolorosa - fu che Giovanni, il padre di Lina, mentre si recava a Minucciano a trovare Delfina, con l'intenzione, poi, di proseguire fino a Monzone per visitare l'altra figlia, fece notte per strada e cadde malamente danneggiandosi la spina dorsale in maniera irreversibile. La cosa non fu di estrema gravità, giacché riuscì ancora a camminare, però si muoveva lentamente col bastone e, inoltre, aveva perso agilità nelle mani. Era, insomma, ormai un invalido. A ciò si aggiunga che egli, avendo dovuto restaurare una casa danneggiata dal terremoto per andare ad abitarla (Don Domenico Bertoi, lo zio di Lina, aveva lasciato la parrocchia di San Romano e si era ritirato nella sua casa di Camporgiano, costringendo i genitori di Lina, che erano sempre vissuti lì, a sistemarsi altrove) aveva dovuto contrarre dei debiti che, alla fine, gli avevano fatto perdere la casa e anche una bella vigna che possedeva sul Colle Aprico (in dialetto: Calabricchia). Per tutti questi motivi Mariuccia, la mamma di Lina, chiese aiuto e Lina, dopo aver fatto avere loro dei soldi, capì che non erano più in grado di vivere da soli per cui li andò a prendere e li portò con sé a Monzone.
Questo accadde nel 1930, dopo la nascita di Mario, il secondo figlio di Cesare e Lina. Infatti, dopo una gravidanza serena e senza problemi, il 9 agosto, verso le due di notte, Lina partorì con un po' di sofferenza ma senza particolari problemi. Il bambino fu battezzato coi nomi di Mario Gian Carlo.
Il secondo nome, Gian, in onore del nonno materno Giovanni e il terzo, Carlo, in onore del nonno paterno Carlo. Ma il primo nome, Mario, con il quale poi sarà sempre chiamato, lo scelse Guido, che in quei giorno era a Camporgiano dai nonni materni. I padrini furono due signori del luogo, amici di famiglia: Pietrino Bernardini e sua sorella Anita, moglie di Mario Bondielli.
La nascita di questo secondo figlio fu sicuramente fonte di gioia. Però - come dice Cesare nelle sue memorie - "" ebbe fine la nostra epoca eroica fatta di preoccupazioni ma anche di grandi soddisfazioni per l'incremento da noi dato al nostro commercio""
Infatti, con Cesare sempre più preso dai suoi impegni sindacali e politici e Lina impegnata dall'allevamento del piccolo Mario, il negozio fu piuttosto trascurato. Ma non abbandonato. Quando, infatti, Mario fu abbastanza cresciuto (e guardato amorevolmente ma ossessivamente dalla nonna Mariuccia ora trasferita a Monzone) Lina riprese a gestire, praticamente da sola, il negozio e gli dette nuovo impulso.
Intanto la crisi continuava a mordere e Cesare era sempre più angosciato per le tristi condizioni degli operai e sempre più impegnato ad aiutarli. Fece distribuire della farina di grano e riuscì perfino a far riaprire, con uno speciale contratto a cottimo, le cave del Sagro. Purtroppo le cose andarono stentatamente e, dopo poco più di un anno, il Segretario dell'Unione Sindacale dei Lavoratori dell'Industria, sfiduciato, fece fallire la ditta. Cesare era contrario perché in questo modo gli operai non avrebbero recuperato che una parte dei crediti, ma non poté nulla.
Ad aggravare gli impegni di Cesare giunse la nomina a commissario straordinario di tre Fasci che erano nel caos: Viano, Lorano e Gragnola. Fu una cosa laboriosa ma, alla fine, le due fazioni del fascio di Gragnola furono pacificate e i fasci di Viano e Lorano furono riorganizzati con l'aiuto di due valenti amici: Bonafedi Marcello che fu segretario di Viano e Morelli Guglielmo che fu segretario di Lorano. Entrambi rimarranno cari amici di famiglia.
La crisi continuò anche nel 1931, nel 1932 e con essa gli impegni e le responsabilità di Cesare.
La corrispondenza con le autorità sindacali e politiche era continua, per sollecitare provvedimenti che aiutassero i tanti operai senza lavoro. Ma frequenti erano anche i viaggi per contattare di persona tali autorità e notevole lo strapazzo. Tanto che i disturbi, in special modo le emorroidi si aggravarono considerevolmente, con frequenti emorragie che lo stremavano.
Qualche risultato c'era. Fu, infatti, finanziato un altro lotto della galleria del Lupacino e molti operai vennero occupati. Ma non era sufficiente. Naturalmente questa crisi nuoceva anche agli affari e la bottega vendeva molto meno. Anche perché, con le nuove attività di Cesare, molti articoli erano stati dismessi. Tuttavia dava ancora un certo reddito.
Alla fine del 1932 fallì la Ditta Peccioli Gemma che gestiva una fornace per la calce e anche un bar. Essa aveva nel paese una casa vasta e ben collocata e questa, ai primi del 1933 fu venduta all'asta insieme alla fornace e agli altri beni. La casa fu acquistata da un certo Rossi di Tenerano. Subito Cesare si rivolse a costui chiedendo tale casa in affitto. E l'affare fu fatto. Era una casa molto comoda. Oltre, infatti, ai locali occorrenti alla famiglia (un'ampia cucina, un vasto salottino, tre camere da letto, una sala, più locali di passaggio e di servizio, una grande cantina, un giardino e un orto) c'era un vasto e luminoso locale per il negozio e un grande magazzino retrostante. C'erano, inoltre, i locali per l'ufficio sindacale. Insomma era una sistemazione ottimale sotto tutti i profili.
E nell'aprile del 1933 ci fu il traferimento.
Nell'estate Cesare ebbe 20 giorni di ferie e fu deciso di trascorrerle a Camporgiano alla Casetta, nella casa del padre Carlo. Furono
giorni distensivi e
piacevoli anche
per i figli. Col piccolo Mario a
cavalcioni sulle spalle Cesare e il
tredicenne Guido fecero lunghe
passeggiate nella campagna, specie
lungo il torrente Edron, sotto ombrose
foreste di ontani.
Sempre nel 1933 rimpatriò dall'
America Gino Bartolomasi cugino
di Lina e fece una graditissima visita
a Monzone con la moglie Bruna e il
padre Alessandro. Furono fatte delle
foto e fu un motivo di gioia. E ancora:
nell'ottobre di quell'anno Guido poté essere iscritto alla prima ginnasio nel collegio di Soliera.
Ma la salute di Cesare non era buona. In qualche modo cercò di sistemare la dentatura, rimettendo alcuni denti, ma le emorroidi andavano sempre peggio. Per fortuna si stava superando la crisi economica. Nel 1934 le fabbriche di munizioni e di divise cominciarono a lavorare a pieno ritmo e ben presto furono arruolati per l'Eritrea un migliaio di operai. Di fatto il problema della disoccupazione era quasi risolto (il problema rimase per gli anziani e per i giovani in attesa di prima occupazione). Comunque iniziarono a breve anche gli arruolamenti nella Milizia. Naturalmente fu un grosso lavoro l'arruolamento e, poi, il trasferimento di tutti fino ad Aulla, dove sarebbero stati raccolti da un treno apposito. Ma fu una grande soddisfazione.
Il 1935 fu caratterizzato da una ulteriore ripresa dell'economia e da un miglioramento dell'occupazione. Anche perché si stava preparando la campagna etiopica e la classe 1911 fu interamente richiamata.
In quell'anno Guido superò brillantemente la prima ginnasio e si iscrisse alla seconda. E lo zio Settimo fu mobilitato nell'85° Battaglione Camicie Nere e assegnato alla costituenda divisione "1° febbraio". Nel gennaio di quel 1935 Settimo aveva avuto la seconda figlia Mirella.La prima, Anna, era nata nel 1929. Cesare andò a Lucca, dove il battaglione era in partenza, per salutarlo. Con qualche rammarico. Anche Cesare, infatti, avrebbe voluto andare, ma la sua scadente dentatura e le condizioni generali di salute non buone glielo impedirono.
PROBLEMI DI SALUTE
Fu verso l'autunno che la situazione precipitò. Una sera Cesare, dopo aver partecipato a un pranzo offerto da un certo Pelli, giunse a casa a fatica e a fatica salì le scale per gettarsi sul letto. Il dolore era insopportabile, le emorroidi spaventosamente gonfie per cui fu chiamato il dottore che provvide a fargli una puntura di morfina. Gli disse, però, che ormai l'operazione era indifferibile e lo consigliò di farla quanto prima, non appena le condizioni fossero un po' migliorate e fosse in grado di camminare.
Dopo alcuni giorni, presi i necessari contatti
con l'Ospedale
di Pontremoli, raggiunse faticosamente la stazione e salì sul
treno aiutato dall'amico Oliviero, che faceva pratica nell'ufficio.
Giunto all'ospedale, fu subito visitato dal primario chirurgo
Prof. Fantozzi il quale disse che lo avrebbe operato dopo alcuni
giorni, quando si fosse rimesso un po' in forze.
E venne il giorno dell'operazione. Quel giorno era arrivata
anche Lina, per assistere il marito. A Cesare venne praticata
l'anestesia locale e, appena pronto, venne messo nella posizione
adatta. A quel punto il chirurgo si avvicinò per operare ma,
appena iniziato, si rese conto che oltre alle emorroidi c'era
un prolasso intestinale che, pure, occorreva operare. Apriti cielo !!
Furioso per non essersene accorto prima, cominciò a sbraitare e
a bestemmiare e a dire che non era possibile operare senza preparazione a quel modo. Nello stesso tempo però, stava operando. Cesare, che era cosciente e sentiva tutto, fu preoccupato da tutto quel baccano ma, non sapendo che fare, si turò le orecchie per non sentire le bestemmie del chirurgo e si raccomandò a Dio. E Dio lo ascoltò. In qualche modo l'operazione fu portata a temine felicemente e il paziente venne riportato in camera.
Al risveglio il dolore fu insopportabile e fu necessario iniettare morfina, che provocò la cessazione del dolore e l'assopimento. Quando si risvegliò era ormai notte. Ripresa coscienza del luogo, si accorse che accanto al letto, insieme ad una suora, c'era anche sua moglie Lina. Fu stupito e le chiese come mai non era ritornata a casa dove aveva le cure della bottega oltre a quella della famiglia. Lina, allora, disse che aveva sistemato le cose in modo da potersi trattenere finché lui non fosse dimesso dall'ospedale.
La ripresa fu lunga , difficile e dolorosa. Il professor Fantozzi era anche incoraggiante a modo suo, però manifestava anche preoccupazione per il decorso post-operatorio, dicendo ."Deve capire che quel luogo dove io ho operato è un acquaio, e se i punti dovessero marcire sarebbe un guaio…." E raccomandando di non muoversi e non tossire per evitare il rischio che si strappino i punti. Insomma Cesare ebbe molte sofferenze. Fra l'altro non era in grado di orinare stando sdraiato, per cui fu necessario siringarlo finché non poté alzarsi.
Il suo superiore, segretario provinciale dell'Unione Sindacale venne a trovarlo con tutti i colleghi e questo fece molto piacere a Cesare. Più volte venne anche Oliviero da Monzone, portando notizie della famiglia e riportando a casa le notizie dall'ospedale e le istruzioni che Lina mandava a sua madre per la gestione della bottega.
Alla fine, quando Dio volle, Cesare fu dichiarato guarito e dimesso. E ci fu il ritorno a casa che fece tutti felici. Purtroppo la Nella, figlia della Marietta, la domestica, che aveva dormito con Mario per non lasciarlo solo, aveva i pidocchi. E, ora, li aveva anche Mario. Bisognò, quindi occuparsi anche di questo problema e risolverlo.
Ed ebbe presto inizio il 1936. C'era la guerra d'Africa, cioè la conquista dell'Etiopia e tutti seguivano con grande interesse gli eventi. Cesare riceveva ogni mattina due giornali: "Il popolo d'Italia" e "Il Telegrafo", per cui l'aggiornamento era costante. Inoltre c'era un forte interesse personale: Settimo, il fratello di Cesare, partecipava a quella campagna col grado di Sergente Maggiore. Fra i due fratelli c'era una abbastanza fitta corrispondenza. Alla quale - fatto singolare - partecipava anche il piccolo Mario. Egli, infatti, un po' sui libroni di storia di Paolo Giudici e un po' sui bollettini di guerra, aveva imparato a leggere e scrivere prima di andare a scuola. E, così, scriveva anche lui all'amatissimo zio Settimo. Una volta, gli inviò la "quarantana". Bisogna sapere che la "quarantana" non era altro che uno spago con quaranta nodi. Ma dietro a quei nodi ci stavano quaranta preghierine recitate con convinzione affinché lo zio fosse salvato dai pericoli. E lo zio Settimo rispose commosso ringraziando. Ma - da quello spirito beffardo che era - scrisse anche:
"Durante la prima guerra mondiale ( lui, ragazzo del '99, era negli Arditi) non avevo un cane che pregasse per me e me la sono cavata senza neanche un graffio. Non vorrei che, questa volta, tutte queste preghiere mi spedissero diretto in Paradiso".
Quando tornò la primavera si cominciò a pranzare, come di consueto, anziché nella calda cucina, nel salottino, con la sua intera parete di vetri colorati, luminosissimo. Ed era qui che si discutevano le notizie che arrivavano dall'Africa e si leggevano le lettere di Settimo. Tutto era pace e serenità. Poi venne maggio, la guerra d'Africa finì e Mussolini col discorso del 9 maggio proclamò l'Impero.
A quel tempo gli italiani erano tutti fascisti e orgogliosi di esserlo. La crisi era ormai passata e molti italiani andavano nell'Impero, l'Africa Orientale Italiana, a lavorare e a fare affari. Cesare era particolarmente orgoglioso e felice. Purtroppo, però, la sua salute non era ottima: la piorrea continuava a insidiargli i denti, il cuore pareva un po' affaticato e aveva dei fastidiosissimi dolori ai talloni. Solo anni dopo risolverà il problema dei denti con una protesi e gli altri disturbetti, stranamente, spariranno totalmente con il ricomparire delle emorroidi.
Ora gli era stato assegnato l'Ufficio di Aulla, molto più importante ma distante venti chilometri da Monzone. E i treni non erano per nulla comodi. Per arrivare presto in ufficio bisognava prendere il treno delle sette. E il ritorno a casa poteva avvenire soltanto alle venti. Gli era stata assegnata anche una motocicletta (Una Bianchi 250) ma le strade erano brutte e l'inverno era lungo per cui raramente poteva usarla. Così, su suggerimento di Lina, nell'inverno si sistemò in una pensione e veniva a casa solamente ogni qualche giorno.
Fu in quell'inverno che la salute di Giovanni, il padre di Lina, cominciò a peggiorare. Non era più lucido e si muoveva a fatica.
Nel 1936 - forse nell'estate - Cesare aveva acquistato un apparecchio radio di marca Phonola che veniva molto utilizzato e con grande piacere di tutti. Naturalmente si ascoltavano i notiziari, ma Lina amava molto ascoltare le commedie e anche le canzoni. La radio stava in cucina, su un tavolinetto appoggiato alla parete che divideva la cucina dal magazzino. E il magazzino era la via normalmente seguita per arrivare alle scale e salire in camera. Ora accadde che una sera la Mariuccia, madre di Lina, invitò il marito Giovanni ad alzarsi per andare a letto. Ma Giovanni, udendo le voci provenienti dalla radio, credette provenissero dal magazzino e disse preoccupato: "Ma come faremo a passare dal magazzino con tutta quella gente !" E tutti risero. Ma era un segnale preoccupante del decadimento della salute del nonno.
Fu nella primavera del 1937 che Giovanni morì. E fu sepolto nel cimitero di Monzone.
Quell’anno il figlio Guido, che aveva 17 anni, frequentava in collegio la Quarta Ginnasio. Era, infatti, indietro di due anni a causa della tardata istituzione della Quinta classe elementare a Monzone. Andava molto bene a scuola, cosicchè decise di tentare di superare l’esame di 5^ Ginnasio a Ottobre, nella sessione autunnale,
studiando privatamente durante le vacanze
estive. Non era
un’impresa facile, tuttavia
Cesare volle accontentarlo e lo portò a La
Spezia da un buon professore di materie
letterarie. Questo lo sottopose ad una prova
di traduzione dal latino e lo trovò
sufficientemente preparato, per cui sentenziò
che si poteva tentare. Trovati anche gli altri
professori, Guido fu sistemato in una
pensioncina e studiò accanitamente tutta
l’estate. A ottobre sostenne l’esame a Carrara
e lo superò brillantemente. Fu grande gioia per
tutta la famiglia e anche per i frati del collegio
di Soliera dove aveva studiato fino alla quarta
ginnasio. E così, all’inizio dell’anno scolastico
1937/1938 potè iscriversi alla Classe Prima del
Liceo Classico di La Spezia. Ma non fu un anno
facile. Lo sforzo sostenuto nell’estate l’aveva
esaurito e l’adattamento alla nuova scuola fu
faticoso. Andava a La Spezia col treno tutte le
mattine e anche questo fatto contribuiva a
spossarlo. Tanto che prima non riuscì ad
evitare la bocciatura. L’anno dopo si iscrisse
di nuovo alla prima ma l’insuccesso dell’anno
prima lo tormentava. Ora era di nuovo due
anni indietro negli studi. Resistè fino a gennaio
del 1939, poi decise di ritirarsi. Con l’ambizioso
proposito, però, di sostenere, a luglio, addirittura
l’esame di maturità. Ancora una volta i genitori lo sostennero e, con un notevole sforzo finanziario (che, tuttavia, potevano permettersi) lo sistemarono a La Spezia nella solita pensioncina ed egli studiò privatamente con i soliti buoni professori. Come vedremo le cose andarono bene ed egli, al termine dell’anno scolastico 1938/39, fu promosso conseguendo, così, la maturità classica all’età di 19 anni, senza ritardo.
Il 1938, però, fu anche un anno doloroso. Addirittura, per certi versi, tragico. Nella primavera, era il secondo giorno di Pasqua, Cesare era in giardino a sistemare le aiole. Il piccolo giardino che c’era dietro la casa, prima dell’orto, era un luogo ameno e molto gradevole. Tutti i membri della famiglia lo amavano. Due lati – quello verso la casa e quello verso la ferrovia – erano delimitati da due lunghe aiole nelle quali erano coltivati molti topinanbur dai lunghi steli e dai grandi fiori gialli. Gli steli erano tanto alti e fitti da formare una siepe compatta. Erano più alti del muro che divideva il giardino dalla ferrovia, tanto che, quando passava il treno sferragliando, la famiglia che, d’estate, cenava in giardino, era riparata dagli sguardi dei passeggeri del treno dalla siepe di fiori gialli. Il lato opposto a quello della ferrovia era delimitato dal muro della cantina mentre quello verso l’orto non aveva nessuna limitazione per cui dal giardino si passava direttamente nell’orto. Vicino al tavolo di marmo che Cesare aveva fatto collocare nell’angolo vicino alla casa, c’era una notevole pianta di oleandro. Era un vero e proprio alberello, tanto che il piccolo Mario vi si arrampicava sopra. C’erano, poi, diverse aiole rotonde con diversi fiori fra cui le “rose turche”, all’epoca molto apprezzate e, fra le aiole, graziosi vialetti ricoperti di sassolini bianchi che Mario, con la nonna, avevano pazientemente raccolto nel greto del vicino torrente Lucido. E c’era anche, proprio nel mezzo, un piccolo “bersò” di rose, all’interno del quale Lina metteva, d’estate, una grossa vaschina piena d’acqua a riscaldare al sole, dopo di che vi faceva fare il bagno al piccolo Mario. Cesare stava volentieri, tutte le volte che poteva, in quel giardino, a curare i fiori o a fare continuamente qualche piccola miglioria. E anche quel giorno di primavera era lì, felice e sereno, insieme a Mario che lo aiutava volentieri. Ma a un tratto, a turbare quella serenità, venne recapitato un telegramma urgente. Veniva da Camporgiano ed era stato inviato dal fratello Azelio. Diceva: “Accaduta grave disgrazia. Vieni subito.” Cesare, subitamente turbato, lo disse a Mario e immaginò che fosse improvvisamente morto suo padre. E, rapidamente preparatosi, stava per partire in motocicletta allorchè venne Leone, figlio di Azelio, che con una macchina stava andando ad Aulla per avvertire il fratello Giannetto che era in seminario, e comunicò la molto più grave disgrazia: Beniamino, il più grande dei fratelli di Cesare, era venuto da Marsiglia col figlio Roberto a trovare il padre e il fratello. Il 17 aprile, lunedì di Pasqua, che avevano trascorso col padre alla Casetta, era trascorso e, la sera, essi erano andati a trovare il fratello Azelio che abitava in località “Le Piane”, dalla parte opposta del paese. Si trattennero fino a tardi e rientrarono alla Casetta verso mezzanotte. Saliti di sopra, prima di andare a letto entrarono nella camera del padre Carlo per augurargli la buona notte. E, qui, accadde la tragedia. Purtroppo Carlo aveva l’abitudine di dormire col fucile carico appoggiato a capo del letto. A un tratto il fucile, col movimento del letto causato da Carlo che si era alzato a sedere, cadde. Roberto, che aveva 11 anni, gridò in francese “Attenzione papà !” e cercò di afferrare il fucile. Probabilmente toccò inavvertitamente il grilletto e il colpo partì. Beniamino, che era proprio di fronte, fu colpito alla gola. Il sangue schizzò copioso. Beniamino fece appena a tempo a portarsi una mano alla gola, poi cadde. E nel cadere appoggiò la mano sporca di sangue al muro lasciandovi una tragica impronta. Morì subito. E la tragedia continuava. Carlo, ancora sul letto, rimase inebetito e in uno stato confusionale. E Roberto, visto che sul nonno non poteva assolutamente contare, uscì nella notte e percorse di gran carriera i due chilometri abbondanti che lo separavano dalla casa di Azelio per chiedere aiuto. E fu Azelio che intervenne e prese in mano la situazione.
Cesare, sapute tutte queste cose, inforcò la motocicletta e partì per Camporgiano. Andò subito alla Casetta dove trovò, oltre ad Azelio, anche l’altro fratello Settimo e altre persone. C’era anche Carlo, ancora del tutto inebetito e quasi incapace di parlare. Cesare ne fu stroncato.
Ripartì il giorno dopo – gli impegni di lavoro esigevano la sua presenza – portando con se Roberto, il figlio di Beniamino, per allontanarlo dal luogo della tragedia. Roberto, in attesa che venisse la madre dalla Francia a riprenderlo, stette a Monzone poco meno di un mese. Era poco più grande di Mario e passava tutto il tempo con lui divertendosi e rasserenandosi. Purtroppo accadde che un giorno, mentre stavano giocando sul torrente, cadde e si fratturò un braccio. Malgrado quello, però, stette bene e si riprese dalla terribile esperienza. Chi si riprese molto più lentamente fu Cesare, che rimase prostrato per diversi mesi. E anche il padre Carlo non si riprese più completamente. Dopo essere stato un po’ con Azelio voleva ritirarsi in un ospizio. Allora Settimo lo portò a casa sua a Minucciano e lì parve riprendersi un po’. Cesare andò a trovarlo e lo trovò benino. Ma prima che l’anno finisse, a novembre, un ictus lo colpì e in pochi giorni lo condusse a morte. Cesare, avvertito, era subito accorso ma lo trovò già in coma. In pochi mesi aveva perduto un fratello e il padre.
Il 1938 fu caratterizzato anche dalla grave crisi internazionale causata dall’espansionismo tedesco, che fece temere una guerra. Ma l’azione diplomatica di Mussolini riuscì, con il Congresso di Monaco, a salvare la pace. Che sarebbe durata ancora un anno.
E venne il 1939. Per Cesare fu un anno buono. E’ vero che si erano riproposte le fastidiosissime emorroidi, ma senza dolore. E, soprattutto, col loro riapparire, erano spariti gli altri preoccupanti disturbi (eczema, disturbi cardiaci) che lo avevavo afflitto dopo l’operazione. Così era di nuovo in forma e molto attivo. Il lavoro andava bene e dava soddisfazione. Di fatto non c’erano più disoccupati. A Monzone la ditta Lazzerini di Carrara aveva rilevato la segheria e riaperto le cave del Sagro. Un’altra ditta, inoltre, aveva aperto delle cave e uno stabilimento per l’estrazione e la lavorazione del quarzo. Molti operai, poi, si recavano in Africa Orientale, in Libia, in Albania, a Pantelleria. E nei pressi di Aulla, alla Quercia, la Marina Militare iniziò grandi lavori per la costruzione di una base.
A luglio, come già detto, Guido conseguì la maturità e fu una gioia per tutti. In autunno si iscriverà all’università di Pisa – facoltà di lettere.
L’estate, per 20 giorni, Cesare, Lina e Mario (Guido, che ormai aveva la ragazza, preferì rimanere a Monzone) andarono di nuovo – e fu l’ultima volta – a trascorrere una vacanza alla Casetta. Furono, come al solito, giorni sereni e felici.
Il negozio, pur avendo, ormai, limitato gli articoli in vendita (trattava, ormai, quasi esclusivamente stoviglie e altri articoli per la casa) continuava a funzionare sotto la direzione ormai pressochè esclusiva di Lina. Quell’anno fu fatta una grossa ordinazione alla ditta Clerici di Lucca e la merce, per la prima volta, fu consegnata direttamente con un camion della ditta. Fu un fatto che andò a sottolineare la buona salute del negozio che continuava a procurare buoni guadagni.
Lina era ormai una donna matura, di 42 anni. Era molto ingrassata ma era ancora una donna piacente che teneva a se stessa. Una sera Cesare la trovò afflitta e, chiestale la ragione, si sentì dire che essa aveva scoperto di avere dei capelli bianchi. Cesare che, pur avendo solo 38 anni, pure aveva già parecchi capelli bianchi, la consolò e le disse che, comunque, per lui era ancora la donna più bella del mondo. Ella ne fu consolata e fu particolarmente affettuosa. Dice Cesare nel suo diario che era dal 1923 che non faceva più tali complimenti alla moglie. Come mai ? Certo aveva influito l’attività frenetica di tutti quegli anni che non lasciava tempo per le tenerezze. Ma, forse, erano stati anche i dissapori di quegli anni lontani, non ancora completamente sopiti. E’ da credere, comunque, che si rinnovò proprio da questo perido una tenera intimità.
Sembrava che tutto andasse per il meglio. Ma si avvicinava il settembre. E la guerra.
LA GUERRA
Il 1 settembre 1939 le truppe tedesche invasero la Polonia e ne occuparono circa metà. L’altra metà verrà occupata dall’Unione Sovietica. Immediatamente Francia e Germania, che avevano un trattato di alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla Germania. Ma non all’U.R.S.S..
Anche l’Italia aveva un patto di alleanza con la Germania e tale patto prevedeva l’intervento dell’alleato qualora una delle due nazioni fosse stata attaccata. Così si temette che anche l’Italia sarebbe entrata subito in guerra. Ma così non fu e il 1939 per la famiglia di Cesare non fu affatto cattivo. Guido, come già detto, aveva conseguito la maturità classica a luglio e ora frequentava l’università di Pisa. Ancora una volta i genitori si sobbarcarono la spesa non indifferente di una pensioncina dove Guido viveva stando a Pisa. L’anno finì felicemente. Le feste di Natale videro la famiglia unita e felice, in condizioni economiche abbastanza floride e senza grossi problemi.
E anche i primi mesi del 1940 furono abbastanza sereni e, tutto sommato, buoni. La guerra che si combatteva in Europa non aveva, per ora, provocato grandi ristrettezze e la speranza era che le cose continuassero così. Cesare era molto occupato a reclutare operai per la Libia, l’Albania e, particolarmente, per la Germania. Di disoccupazione davvero non si parlava più. I lavoratori che chiedevano di andare a lavorare in Germania dovevano avere il benestare della Questura e, questo, era un lavoro in più per Cesare che doveva richiederlo. A ognuno di questi operai veniva fornito un corredo completo, naturalmente nuovo, contenuto in un’enorme valigia di fibra. Si voleva che gli operai facessero bella figura in casa dell’alleato.
Nei primi mesi dell’anno fu chiamata alle armi la classe 1920, la classe di Guido che, però, essendo studente universitario venne, per il momento, esentato. La guerra si faceva sempre più vicina anche per l’Italia. Ormai si attendeva da un giorno all’altro la notizia della dichiarazione di guerra.
Accadde il 10 giugno. Ne fu dato annuncio dallo stesso Mussolini con un discorso alla nazione che fu trasmesso per radio e che fu ascoltato nelle piazze e anche nelle scuole. Ci fu chi si preoccupò ma ci furono anche grandi manifestazioni di entusiasmo. La Germania, infatti, aveva sbaragliato i nemici e occupato gran parte della Francia, e le previsioni erano di una guerra che sarebbe finita presto. A Monzone c’era un maresciallo dei carabinieri che si chiamava Meloni e che era fascistissimo. Egli guidò i ragazzi della scuola elementare lungo tutto il paese, facendoli cantare e scandire slogan anti inglesi e anti francesi. Anche Mario, che frequentava la quarta elementare, c’era, insieme all’amico Rino, figlio del maresciallo, e cantava e gridava a squarciagola insieme a tutti gli altri.
Ma i disagi cominciarono subito. Immediatamente i prodotti alimentari vennero tesserati e cominciarono a scarseggiare. E, purtroppo, cominciò a manifestarsi il brutto fenomeno della “borsa nera”. Il caffè venne proibito e bisognò accontentarsi dell’orzo. Fu, questo, un sacrificio sentito dai Pellegrinetti, che amavano particolarmente gustare una tazzina di caffè dopo i pasti, specie la sera, quando anche Cesare era presente. Accadeva talvolta che fosse presente la Suora. Questa suora faceva l’infermiera all’”Ospedaletto” (che era un piccolo presidio sanitario dove aveva l’ambulatoprio il medico condotto che fungeva da primo soccorso per gli operai che si infortunavano alle cave, cosa tutt’altro che infrequente) e prestava la sua opera anche a domicilio quando, per esempio, c’erea bisogno di fare delle iniezioni a qualcuno. E a casa dei Pellegrinetti veniva volentieri la sera perché, oltre al modesto compenso che riceveva, poteva gustare una tazzina di caffè, che trovava particolarmente buono. Ora che il caffè non c’era più si tentava di sostituirlo con dei surrogati. Ma il risultato era sconfortante. Fu giocoforza ricorrere alla “borsa nera” per sopravvivere. Un decreto del governo aveva bloccato i prezzi e gli stipendi, ma solo i prezzi dei generi tesserati e, quindi, venduti alla luce del sole, furono bloccati. Alla “borsa nera” i prezzi salirono immediatamente e di parecchio, facendo diventare subito insufficienti gli stipendi. Per fortuna il negozio di Lina (ormai è così che bisogna chiamarlo) continuava a rendere benino per cui la famiglia potè affrontare anche questo periodo con relativa tranquillità.
Un altro provvedimento venne a creare un grosso disagio a Cesare che, ora, aveva ripreso a recarsi ad Aulla, dove aveva il suo ufficio, tutti i giorni in treno, utilizzando una corsa abbastanza comoda che partiva da Monzone alle ore 7. Quella corsa venne soppressa per risparmiare carbone e rimase, come unica possibilità, il treno operaio delle 5.
Partire tutte le mattine a quell’ora rappresentava un disagio difficilmente sopportabile. C’era la vecchia Moto Bianchi 250, è vero, ma c’era scarsità di benzina e, comunque, durante l’inverno sarebbe stato impossibile usarla. E così Cesare cominciò a prendere in considerazione la possibilità di trasferire tutta la famiglia ad Aulla. Se ne discorse a lungo in casa.
Abitare ad Aulla avrebbe comportato una serie di vantaggi. In primo luogo avrebbe consentito a Cesare di avere l’ufficio vicino a casa. Ma anche per Guido sarebbe stato più comodo per andare a Pisa. Guido, inoltre, come studente di lettere, aveva ottenuto un incarico provvisorio di insegnamento presso la scuola di avviamento professionale di Terrarossa, che poteva essere raggiunta addirittura in bicicletta. Infine anche per Mario, che nell’anno scolastico 1940/41 avrebbe frequentato la quinta elementare, sarebbe stato possibile, nell’anno successivo, raggiungere la scuola media a La Spezia in treno senza eccessivo disagio. Ma c’era un grosso ostacolo: il negozio.
Come abbiamo detto esso contribuiva validamente, coi guadagni che produceva, al buon tenore di vita della famiglia e il rinunciarvi avrebbe significato una riduzione di tale tenore.
Il problema era grosso e costituì certamente per la famiglia argomento di grandi riflessioni. Ma, alla fine, prevalse la decisione di trasferirsi. Occoreva, pertanto, vendere il negozio e, quindi, trovare un compratore.
I mesi trascorsero. Alla fine un compratore si fece vivo. Era l’Italia Cecchini, che già gestiva un negozio di alimentari. E, negli ultimi mesi del 1940, l’affare fu fatto. Tutta la merce venne ritirata e trasferita in un nuovo locale di proprietà dell’acquirente. Furono giorni tristi per tutta la famiglia. Lo stanzone della bottega, prima rilucente di vetri, specchi e cristalli, ora era vuoto e così il magazzino, per cui nell’attraversarli i passi risuonavano negli ampi spazi vuoti e davano un’infinita tristezza. Ma ormai il dado era tratto.
Passò ancora qualche mese. Cesare, infine, aveva trovato un confortevole appartamento al primo piano di un edificio in località Groppino di Aulla nel quale, al piano terra, sarebbe stato sistemato anche l’ufficio. Così Cesare poteva accedere all’ufficio senza nemmeno uscire fuori. Tale edificio era in fase di completa ristrutturazione e bisognò attendere che fosse pronto.
Finalmente lo fu e il 10 aprile 1941 fu fatto il trasferimento. Al mattino venne un grosso camion sul quale furono caricati tutti i nostri mobili, salvo i più vecchi che furono venduti a qualche paesano che ne aveva bisogno. Cesare col figlio Mario salirono in cabina con l’autista mentre Lina e sua madre sarebbero andate col treno. Guido era a Terrarossa e a fine mattina ci avrebbe già trovato nella nuova casa. Ma al momento della partenza ci fu un inconveniente doloroso, specie per Mario. Bisogna sapere che la famiglia Pellegrinetti era sempre stata amica dei gatti. Quando Mario aveva tre o quattro anni il vicino Rizieri Moscatelli gli regalò un gattino tigrato che fu allevato con amore. Una volta cresciuto risultò essere una gatta e il suo nome fu, per sempre, solo e unicamente La Gatta. Essa era molto prolifica: partoriva regolarmente due volte l’anno. E ogni volta Mario voleva tenere almeno un gattino della nuova cucciolata. Ma, disgraziatamente, tutti questi gattini finivano, prima o poi, sotto il treno che passava subito di là dall’orto. Finalmente, però, uno si salvò e potè diventare un gatto adulto. Era completamente nero, di un bel nero lucidissimo, con una stella bianca sul petto. Mario lo chiamò Lollo e lo amò assai. Era diventato un gatto enorme e da quel grande maschiaccio che era, cominciò a battere tutta la zona circostante in cerca di gattine ma anche di prede. Con la sua notevole forza riusciva a sfondare le conigliere e a rubare i coniglini, per cui era molto malvisto dai vicini. E aveva poco tempo per stare con Mario. Ma un paio di anni dopo si riuscì ad allevare un altro gatto, questa volta bianco e nero, e Mario lo chiamò Rico e lo amò svisceratamente. Questo era un gatto molto domestico e quando Mario era in casa stava sempre con lui. Ora i gatti erano tre: La Gatta, Lollo e Rico. Ma non bastò. Un giorno Mario sentì miagolare disperatamente nella vicina selva delle Angelini e, avvicinatosi, vide un gattino piccolo piccolo che era salito su un castagno e non era più capace di scendere. Mario salì sull’albero, lo prese e lo portò a casa. Fu il quarto gatto e Guido lo chiamò Artaserse. Negli ultimi tempi, però, le cose erano un po’ cambiate. Era accaduto che La Gatta, dopo uno dei suoi tanti parti, era morta e Artaserse era stato regalato a un uomo di Vinca da mamma Lina che, forse, era un po’ stufa di gatti.
Così al momento del trasferimento c’erano solo Lollo e Rico. Mario avrebbe voluto portarli ad Aulla entrambi ma Lollo, ormai, veniva a casa soltanto ogni tanto e quella mattina non era in vista. Rico invece era a casa, come sempre e Mario decise che lo avrebbe portato con se sul camion. Così prese un paniere, vi mise dentro Rico che, placido com’era, non fece obiezioni, lo coprì con un panno che legò intorno al paniere e lo portò con se in cabina. Fu sistemato dietro i sedili e, fatti tutti i saluti, il camion partì.
Ma fece appena in tempo a passare il passaggio a livello e giungere alla Mancina che Rico, terrorizzato dal rombo del motore, cominciò a miagolare esageratamente e a cercare di uscire dal paniere. Al che l’autista fermò il camion e scese dalla cabina dicendo che lui con quella belva dietro la testa si rifiutava di partire. Al che fu giocoforza aprile il paniere. E Rico, come un razzo, guizzò fuori e scomparve. Con grande dolore di Mario che lo vide per l’ultima volta.
Giunti ad Aulla scaricammo la roba anche con l’aiuto di Guido che, finita la lezione a Terrarossa, era arrivato alla nuova casa.
La casa era nuova e bella ma non grande come quella di Monzone. Entrati dal portone, si saliva un’ampia e bella scala di marmo per giungere su un vasto pianerottolo sul quale si aprivano quattro porte. Due, una a destra e una a sinistra, erano le porte dei due appartamenti (il nostro era quello a sinistra) e due erano le porte dei due gabinetti, uno per ciascun appartamento. Per usare il gabinetto, quindi, occorreva uscire sul pianerottolo. Entrati nell’appartamento si trovava un lungo e ampio corridoio sul quale si aprivano: a destra la porta della cucina e, più avanti, la camera di Guido e della nonna; a sinistra la porta della sala e, più avanti, la camera di Cesare e Lina e Mario che dormiva nella stessa camera, nel suo lettino di ferro.
In fondo al corridoio fu montata una grande libreria che conteneva tutti i libri ad eccezione di quelli di studio che erano nella camera di Guido in un apposito scaffale.
Zavia, la domestica di Monzone, aveva seguito la famiglia e dormiva in sala sul divano trasformabile in letto. Erano state portate anche le galline, che vennero sistemate in un pollaio costruito sul retro della casa dove c’era un piccolo spazio.
Ed ebbe inizio la nuova vita nel nuovo luogo.
qui I TRAFERIMENTI : PRIMA AULLA POI MASSA
Mario prese a frequentare la classe quinta nella scuola di Aulla dove venne presentato come un piccolo genio per una poesia sulla guerra che aveva scritto a Monzone e che era stata inviata alla Direttrice e, da questa, al Federale e per la segnalazione di questo fatto che la direttrice di Fivizzano aveva fatto all’atto del trasferimento. E, in realtà, Mario si trovò bene anche in questa nuova realtà scolastica. Purtroppo, però, quando ormai erano gli ultimi giorni di scuola, si ammalò di epatite (allora si chiamava itterizia) e non potè concludere l’anno scolastico. Il maestro, però, lo promosse a pieni voti e portò personalmente a casa la pagella. A ottobre, poi, sostenne l’esame di ammissione, (all’epoca necessario per passare alla scuola media), a Pontremoli e fu iscritto alla scuoola media di La Spezia. Anche qui si trovò bene. Era in classe con Bertino di Monzone (Carlo Alberto Giorgi, un amico d’infanzia) e con un certo Fontani, di Aulla. Tutti e tre andavano a La Spezia in treno tutte le mattine e rientravano quasi sempre a casa per il pranzo. Ogni tanto, però, avevano lezione fino a tardi e, allora, pranzavano a La Spezia al Dopolavoro Ferroviario. Guido continuava ad insegnare a Terrarossa e, quando poteva, andava a Pisa per sostenere esami o per altri motivi connessi con la sua qualità di studente di lettere. Ora che non c’era più la bottega anche lo stipendio di Guido contribuiva al benessere della famiglia. Quanto a Cesare, ora che aveva l’ufficio sotto casa, per lui la vita non poteva essere più comoda. Il suo lavoro, però, continuava ad essere pieno di problemi e di conflitti. Egli prendeva molto sul serio la funzione del sindacato che era di tutela dei lavoratori e, questo, spesso lo metteva in conflitto coi datori di lavoro. Oltre a tutto ciò, la piorrea ormai avanzatissima, lo costrinse a togliere tutti i denti e a farsi la dentiera.
La vita non era affatto facile e procurarsi qualcosa da mangiare in più rispetto a quello che si poteva avere con la tessera annonaria era un’impresa costosa e faticosa. Lina era continuamente in giro e si recava, persino, e a piedi, fin nel comune di Podenzana dove c’era un macellaio, tale Madan, dal quale si poteva avere un po’ di carne. E da un mulino che era vicino a casa nostra, il mulino Petriccioli, si potè avere un po’ di farina con la quale si poteva far fare un pane ogni tanto per la dieta di Mario quando fu ammalato. Che per Lina fosse un impegno gravoso e defatigante è dimostrato dal fatto che, in quel periodo, essa perse ben 17 chili di peso.
Abbiamo accennato ai problemi che Cesare aveva col suo lavoro. In particolare gli creò problemi una questione che ebbe con un capitano che comandava il servizio di presidio al Polverificio di Pallerone che era militarizzato e con lo stesso direttore del Polverificio. Lo scontro fu molto duro. Intervennero le autorità provinciali e le autorità militari e fu chiesto il trasferimento di Cesare ad altra sede. Ma il segretario provinciale del sindacato lo rifiutò e sostenne Cesare e la sua posizione.
Purtroppo il segretario fu richiamato alle armi e fu sostituito da un altro. A questo le autorità militari chiesero di nuovo il trasferimento di Cesare e lui non ebbe abbastanza carattere per difendere le ragioni di Cesare e del sindacato. Intervennero anche le autorità politiche e, alla fine, fu deciso il trasferimento di Cesare a condizione che fosse traferito anche il capitano.
E così nel gennaio del 1942 Cesare dette le consegne dell’ufficio e si trasferì a Massa. In realtà di trattò di una promozione essendo l’ufficio di Massa più importante, però per Cesare finì la vita comoda. Egli, infatti, si recava tutte le mattine a Massa col treno e rientrava la sera.
E’ evidente che si imponeva la necessità di pensare a un nuovo traferimento della famiglia. Però si decise di rimandarlo alla fine dell’anno scolastico.
E così fu. Alla fine di maggio si chiuse l’anno scolastico e Mario fu promosso. E il 10 giugno, con lo stesso camion che aveva trasportato le nostre masserizie da Monzone ad Aulla, tutte le nostre cose furono caricate e trasportate a Massa. Qui Cesare, con l’aiuto di una signora di Camporgiano che abitava a Massa, tale Armida Boggi, aveva trovato un appartamento in affitto al piano terra di un vecchio palazzo situato in Via del Forte, vicino a Piazza Mercurio.
La casa era vecchia ma abbastanza ampia e comoda. C’era una cucina che dava su un minuscolo cortiletto di proprietà, una saletta da pranzo adiacente alla cucina, una sala, due camere, uno studio, un bagno, alcuni ripostigli e un ampio ingresso.
Ma la vita, a Massa, era più difficile che ad Aulla. Trovare qualcosa oltre i generi tesserati era veramente difficile e richiedeva lunghe code ed evoluzioni varie. Per avere un po’ di latte, ad esempio, Lina doveva andare incontro alla lattaia clandestina fin fuori città. E per avere il carbone per cucinare occorreva alzarsi all’alba e fare lunghe code.
Cesare, poi, scontento del traferimento e in cattivi rapporti col nuovo Segretario provinciale che al suo trasferimento aveva acconsentito, andava avanti con difficoltà ed era sempre più scontento. Anche il suo lavoro era tormentato dalla continua e insistente richiesta di mano d’opera da parte delle ditte (Fra Massa e Carrara era stata insediata una importante zona industriale), richiesta che non poteva essere soddisfatta che in parte, perché la maggior parte degli uomini era sotto le armi.
Nell’estate di quel 1942 Guido fu chiamato alle armi e spedito al corso allievi ufficiali a Pietra Ligure. Mario, invece, passò un’estate tranquilla. Prese confidenza con questa nuova realtà ed esplorò ben bene la città girottolando tutti i giorni in bicicletta. Andava spesso anche a Marina di Massa, distante pochi chilometri, lungo il bellissimo viale Roma. Non aveva ancora amici ma l’esplorazione dei luoghi lo assorbiva completamente. Ed era contento della nuova casa. Passava del tempo anche ad ascoltare la radio, in particolare il Giornale Radio e le bellissime “Canzoni del tempo di guerra” che ogni giorno venivano trasmesse subito dopo. Spesso andava anche a trovare il padre in ufficio dove, talvolta, fungeva da telefonista divertendosi molto. Oltre a ciò c’era nell’ufficio, con funzioni di portiere, un certo Dell’Amico, invalido di guerra, che nella guerra di Spagna era stato ferito e aveva, all’interno di un polmone, un proiettile di fucile che non era stato possibile estrarre e col quale, quindi, conviveva. Egli, fascistissimo, era molto affezionato a Cesare e, spesso, veniva a trovarlo anche a casa. A Mario questo tipo era molto simpatico e ascoltava volentieri le storie che raccontava. Molto suggestiva era la storia di una grande quantità di oggetti d’oro che egli aveva trovato in Spagna e che, chiusi in una valigia, aveva nascosto seppellendoli in un certo luogo. Egli diceva che, appena possibile, sarebbe andato a riprenderli e sarebbe diventato ricco. Era una storia – chissà se vera – che sembrava una storia di pirati e di tesori e Mario ne era affascinato.
L’alimentazione era scarsa ma, per fortuna, lo zio Settimo riusciva a farci avere un po’ di farina di castagne ed altro. Inoltre Lina aveva scovato un macellaio dal quale poteva avere, ogni tanto, della carne di cavallo che tutti trovavano ottima.
E l’estate passò. Mario fu iscritto alla seconda classe della scuola media e cominciò a frequentarla nella scuola di Via Palestro, vicino all’ufficio di Cesare, nello stesso edificio che ospitava anche l’Istituto Magistrale. Ora si era fatto molti amici fra cui un certo Roni Giandomenico che era di Calomini in Garfagnana e che viveva nel convento dei cappuccini dove suo zio era il priore.
Ma ecco che, verso i primi di novembre, arriva a Cesare la cartolina precetto: subito il giorno dopo doveva presentarsi al deposito della Milmart a La Spezia. In realtà Cesare, che aveva 41 anni, non aveva nessun obbligo militare. Ma il fatto è che, fin dal 1941, egli aveva fatto domanda per essere arruolato volontario in marina. La risposta fu che, avendo compiuto i 40 anni di età, non poteva essere arruolato in marina e che, pertanto, la sua domanda sarebbe stata passata alla Milmart. Ora la domanda era stata presa in considerazione ed ecco….la cartolina.
Cesare saltò dalla gioia. Ormai il lavoro con quel superiore piemontese che non lo aveva difeso e lo aveva fatto trasferire gli era diventato odioso e insopportabile, per cui considerava quella chiamata una liberazione.
Subito telefonò a questo antipatico segretario provinciale e gli chiese di mandare subito un funzionario per le consegne perché lui, il giorno appresso, avrebbe dovuto presentarsi alle armi. Il segretario gli disse di mandargli la cartolina che lui gli avrebbe fatto subito ottenere l'esonero, date le funzioni che svolgeva, ma Cesare rispose che lui non ci pensava nemmeno, che non voleva fare l'imboscato e che il mattino dopo si sarebbe regolarmente presentato.
Il piemontese rimase esterrefatto e per Cesare fu un vero godimento immaginare la sua faccia. Bisognò senza indugio mandare il funzionario per le consegne e Cesare fu libero.
Tornato a casa informò tutto allegro la famiglia, che non si preoccupò più di tanto, sia perché la gioia di Cesare contagiava un po' tutti, sia perché la speranza era che egli sarebbe stato assegnato a una qualche batteria antiaerea
operante sui monti
de La Spezia, cioè vicino. Mario, poi,
fu molto fiero di questo padre intrepido che sceglieva di
andare alla guerra.
Ed effettivamente Cesare aveva presentato la domanda
proprio perché desiderava ardentemente fare la sua parte di
combattente in questa guerra che l'Italia stava combattendo.
Già lo zio Settimo, l'adorato e ammirato zio Settimo, il
fratello più vicino e più caro di Cesare, si era arruolato
volontario e aveva fatto la campagna di Grecia, e Cesare,
ardente patriota, soffriva per non aver potuto fare come lui.
E così egli era felice. Si preparò e il mattino dopo si presentò
al deposito Fu visitato, dichiarato abile, arruolato e assegnato
alla 3^ batteria della 2^ Legione Milmart. Subito un camion
lo portò sul Monte Albano, dove era piazzata quella batteria,
con la sua divisa e tutto il relativo corredo. Presentatosi in
fureria gli fu indicata una galleria che era il dormitorio per gli uomini
del 4° pezzo al quale era stato aggregato. Era ormai sera per cui si stese nel letto a castello assegnatogli e provò a dormire. Ma era difficile dormire in quella nuova situazione in cui era stato scaraventato dall'oggi al domani. Così si mise seduto per fumare una sigaretta. Ma ecco che suona l'allarme, ed egli corre con gli alti in batteria dove viene sommariamente istruito su quello che sarebbe stato il suo compito. Egli è pronto, ma per quella notte non c'è incursione e suona il cessato allarme.
LA VITA MILITARE
E così comincia la vita militare dell'ex marinaio ed ora artigliere contraereo Pellegrinetti Cesare.
Egli trovò anche dei
conoscenti di Massa, si adattò subito a quella vita e continuò ad essere
felice. Lo rendeva felice anche il pensiero che la sua famiglia, Lina, sua
madre Mariuccia e Mario ora avevano una maggior quantità di generi alimentari
disponibili. Infatti le tessere annonarie di Guido e di Cesare non erano state
ritirate per cui essi avevano a disposizione cinque razioni anziché tre.
Inoltre Lina continuava a riscuotere l'intero stipendio del marito che ora era
molto più congruo essendo soltanto in tre ad utilizzarlo. Cesare, infatti, dato
che ai militari passavano anche le sigarette, praticamente non aveva bisogni e
non riusciva a spendere neppure tutta la sua decade, cioè la sua paga da
soldato.
Essendo così vicino, poi, egli poteva avere frequentemente dei brevi permessi per venire a casa e, allora, era una festa per tutti. Specie per Mario che non si stancava di sentir raccontare le avventure del papà soldato. Oltre a tutto il resto, c'era il fatto che Cesare non consumava tutta la razione di pane e quello che avanzava lo conservava e lo portava a casa quando veniva in permesso (aveva 48 ore di permesso ogni 15 giorni). Era, questo, un altro prezioso aiuto che dava alla sua famiglia. Lina, infatti, oltre a farci delle saporite zuppe, ne scambiava una parte con altri generi come zucchero o altro.
Dopo la prima notte Cesare fu assegnato al telefono e, quindi, ebbe come dormitorio un'altra galleria dove in luogo dei letti a castello, c'era la possibilità di appendere la branda all'uso di marina e ciò a lui, vecchio marinaio, fu molto gradito e poté riposare comodo e tranquillo.
Era, insomma, per lui, un momento veramente felice. E anche se la vita era dura e anche pericolosa, lui la viveva pienamente e con gioia, al punto che nel suo diario, scrive ""…affermo che la baraonda degli scoppi, del rombo assodante delle artiglierie, degli incendi furiosi, dell'urlo dei motori delle formazioni nemiche, mi davano un'ebbrezza che mi esaltava. In quei momenti vivevo appieno la mia vita e penso di non essere mai stato perfettamente bene e a mio agio come in quei momenti ""
Il Natale del 1942 fu un Natale felice, Guido venne in licenza e Cesare ebbe il solito permesso di 48 ore. Si ritrovarono, così, tutti insieme. Guido era contento e raccontava delle esercitazioni che facevano al corso. Lui era sempre stato un tipo sportivo per cui le faceva volentieri e senza sforzo. Cesare era splendidamente in forma. Il non avere più le grane dell'ufficio e la soddisfazione di essere finalmente un combattente ne avevano esaltato il morale e anche i suoi disturbi fisici sembravano spariti. Certo è che egli non li avvertiva più. Era un uomo ancora molto giovanile e pieno di energia.
E venne il 1943.
IL MILLENOVECENTOQUARANTATRE
Le sorti della guerra andavano facendosi sempre più incerte. Enormi formazioni di bombardieri attaccavano quotidianamente le nostre città e le nostre strutture militari. E anche La Spezia, nel cui munitissimo porto stazionava quasi tutta la nostra flotta, era continuamente attaccata dall’aria. Nel gennaio un pesantissimo attacco a ondate successive impegnò per quasi tutta la notte le batterie contraeree che spararono senza interruzione costringendo gli aerei a volare a quote molto alte il che rendeva più difficile sganciare con precisione le bombe. Malgrado ciò, però, la città subì gravissimi danni. Gli attacchi si ripetevano con sempre maggiore frequenza. Nel maggio un altro violentissimo attacco, in pieno giorno, costrinse le batterie a un fuoco continuo e furioso. Alcune navi furono colpite, la caserma Duca degli Abruzzi fu incendiata e molte bombe piovvero anche intorno alle batterie. Ormai le formazioni nemiche erano inarrestabili e il timore che presto anche Massa, con la sua zona industriale, sarebbe diventata un obiettivo dei bombardamenti indusse Cesare a pensare che la sua famiglia sarebbe stata più sicura altrove.
Ne parlò con la moglie che subito scrisse a suo cugino Gino Bartolomasi chiedendogli di trovargli un appartamento a Camporgiano in affitto per i mesi estivi. Egli se ne occupò e scrisse di averlo trovato in casa Guasparini. Così, appena Mario ebbe finita la scuola, ai primi di giugno tutta la famiglia partì in treno portando le poche cose indispensabili per l’estate. L’appartamento consisteva in una vecchia ma comoda cucina, con un gran camino e una grande credenza e in due ampie camere al piano superiore. C’era l’inconveniente che le padrone di casa, Editta e Rita, dovevano passare dalla nostra cucina per andare nella stanza accanto che serviva loro da dispensa. Ma erano persone gentili e cordiali e subito familiarizzammo, per cui non ci davano nessun fastidio.
Mario trovò subito degli amici, ogni tanto andava alla Casetta a trovare il prozio Jaccò (una volta volle trattenerlo a pranzo e gli fece una squisita polenta di granturco con i ceci) e Lina e Mariuccia ritrovarono vecchie conoscenze, cosicchè tutti si trovarono a fare una gradevole villeggiatura.
Nell’estate anche Cesare venne in permesso e trovò tutti allegri e in buona salute.
E venne il 25 luglio 1943. Mussolini fu arrestato e fu nominato capo del governo il maresciallo Badoglio. Alla Milizia furono tolti i fasci dalle mostrine e sostituiti con le stellette. E anche la camicia nera fu sostituita con la camicia grigioverde. Quando Cesare tornò in permesso era un po’ avvilito e anche un po’ preoccupato perché aveva saputo che a Carrara c’era stata qualche violenza contro dei fascisti. Lui, vecchio e fervido fascista, soffriva di questa brutale eliminazione del fascismo dal governo d’Italia, in una situazione tristissima, col nemico che era sbarcato sul territorio nazionale e lo stava piano piano conquistando. Anche Mario, ormai tredicenne e cresciuto con sentimenti fortemente patriottici e fascisti, era turbato dal fatto che al papà avevano tolto i fasci dalle mostrine. Cesare li aveva conservati e li aveva portati a casa. Allora Mario ne prese uno e lo mise all’occhiello della giacca, esibendolo con ostentazione. Qualche novello antifascista (che era stato fascista fino al giorno prima) ebbe da ridire e volle redarguire il ragazzo. Che, però, rispose per le rime e si tenne il suo fascio.
La guerra, comunque, continuava, e continuava a sopravvivere la speranza che le cose sarebbero migliorate e che forse l’invasore sarebbe stato ricacciato in mare. Ma i fatti non sostenevano questa speranza.
E venne l’8 settembre 1943. Verso le ore 20 fu comunicato alle batterie di cessare il fuoco perché l’Italia aveva firmato un armistizio senza condizioni. Ma fu anche ordinato di restare in armi per reagire a eventuali attacchi tedeschi. Passò la notte. Al mattino gli artiglieri italiani di una batteria tedesca che era nei pressi si sbandarono tutti. Alle 9 Cesare, che era telefonista, telefonò per ordine del comandante di batteria al comando di gruppo. Ma non rispose nessuno. Allora chiamò il comando di legione e lo passò al comandante. Il comando di legione ragguagliò sulla situazione di sfacelo che aveva fatto seguito a quello strano armistizio. Il comandante radunò il reparto e disse che dai comandi superiori non arrivavano più ordini e che, quindi, chi voleva andarsene poteva farlo. Disse che dopo il rancio di mezzogiorno avrebbe fornito a ciascuno abbondanti viveri, dopo di che i magazzini sarebbero stati aperti alla popolazione. Consigliò di non scendere a La Spezia ma di scendere dalla parte opposta del monte, verso Bocca di Magra, dove pareva che una divisione alpina fosse ancora in armi. Si poteva, così, sperare, di non essere catturati dai tedeschi che cominciavano a rastrellare gli sbandati. Fece mettere fuori uso i cannoni e la centrale di tiro e disse che, quando tutti se ne fossero andati se ne sarebbe andato anche lui.
Dopo il rancio tutti ebbero abbondante scatolame, zucchero e una borraccia di vino e subito partirono scendendo verso Bocca di Magra. Così fece, naturalmente, anche Cesare. Giunti a Bocca di Magra trovarono una gran confusione. La divisione alpina si era sbandata e c’erano anche una quantità di cavalli e muli abbandonati. Cesare si fermò a parlare con alcuni alpini che ancora non se ne erano andati e uno di loro lo pregò di prendere il bel cavallo del suo comandante che se ne era andato e un altro lo pregò di prendere un mulo che, a suo dire, era forte ma molto buono. Erano affezionati a quelle bestie e non sopportavano di abbandonarle senza nessuno. Cesare pensò che avrebbe potuto salire in groppa al cavallo per fare un po’ di strada e accettò di prendersi cura delle due bestie. Il cavallo era senza sella ma Cesare, condottolo vicino a un muretto, riuscì ugualmente a salire in groppa. Dopo di che, trascinandosi dietro per la cavezza anche il mulo, si avviò verso Aulla. Per un po’ le cose andarono abbastanza bene ma, giunto nei pressi di Caprigliola, il cavallo con una sgropponata lo disarcionò. Era accaduto che lo zaino affardellato che Cesare aveva sulla spalle, col movimento avanti-indietro che egli faceva assecondando il passo del cavallo, andava a battere periodicamente sulla schiena dell’animale che, infastidito, aveva sgropponato. Non ancora rassegnato ad abbandonare le due bestie che, fra l’altro, rappresentavano anche un valore e avrebbero potuto rendergli qualcosa, fece un secondo tentativo e risalì in groppa. Ma dopo breve tempo lo zaino riprese a infastidire il cavallo e, questi, ancora una volta disarcionò il cavaliere. A quel punto Cesare desistette e, trovato un contadino interessato alla cosa, gli lasciò sia il mulo che il cavallo. E proseguì a piedi. La strada era percorsa da lunghe colonne di tedeschi con carri armati e cannoni che si dirigevano verso La Spezia. Fortunatamente andarono per la loro strada ignorando gli sbandati.
Cesare arrivò ad Aulla a notte inoltrata e si ricoverò nella stazione ferroviaria con la speranza che il mattino dopo un treno lo avrebbe condotto a Equi Terme, da dove avrebbe proseguito per Minucciano per raggiungere il fratello Settimo e, poi, proseguire per Camporgiano. Egli era completamente sudato, la notte era fredda e ben presto forti brividi lo colsero, sintomi di un attacco di febbre piuttosto alta. In qualche modo, comunque, la notte passò e il mattino dopo, a una certa ora, partì il treno e lo condusse a Equi Terme. Vi giunse, estremamente provato per la stanchezza e per la febbre, verso mezzogiorno. Per fortuna trovò un operaio di Camporgiano, tale Boggi Umberto, che lui stesso aveva fatto assumere dalla ditta che lavorava alla galleria del Lupacino. Questi lo accolse a casa sua, lo fece riposare un po’ e lo ristorò con una tazza di brodo che fu particolarmente gradita. Prima di notte, però, Cesare voleva arrivare a Minucciano, per cui si rimise presto in cammino, accompagnato per un buon tratto dal Boggi. Per fortuna faceva la stessa strada con un asinello un industriale di Carrara, tale Fregosi, sfollato in Garfagnana e costui caricò sull’asinello lo zaino, la coperta e il cappotto di Cesare che, alleggerito da quei pesi, potè proseguire più agevolmente. Giunse a Minucciano verso sera e trovò Settimo che, preavvertito dal Fregosi che gli aveva consegnato le cose di Cesare, lo stava attendendo. In casa di Settimo potè riposare e rimettersi in salute. Subito fece avvertire la moglie che era a Minucciano e sarebbe arrivato quanto prima a Camporgiano, però si trattenne per alcuni giorni, finché la febbre non fu passata.
Poi prese la corrierina che faceva servizio fino a Piazza al Serchio e, da qui, col treno arrivò a Camporgiano. Mario, preavvertito, era alla stazione ad attenderlo. Quando scese dal treno fra padre e figlio vi fu un lungo, tenero abbraccio. Ma dissero poche parole e, sempre tacendo, si diressero verso casa. Qui, dopo i saluti affettuosissimi con la moglie, salirono tutti in camera e qui, seduti sul lettuccio di Mario, questi finalmente parlò e, con la voce rotta dalla commozione, disse: “Papà, ma allora abbiam perso !?”
“ Eh, ho paura proprio di sì” rispose Cesare. Mario, allora, non riuscì più a trattenere le lacrime e abbracciò il papa piangendo a dirotto. Al che anche Cesare non si trattenne e pianse anche lui, abbracciato a suo figlio. Mentre Lina, che non amava perdere il controllo, cercava in tutti i modi di calmarli. Non solo il patriota Cesare, ma anche il figlio Mario, cresciuto nel culto della Patria che avrebbero voluto sempre vittoriosa, erano prostrati da quella catastrofe.
Oltre a questo c’era la preoccupazione per Guido che, trovandosi l’8 settembre a Livorno in servizio di prima nomina, fu catturato dai tedeschi e portato prigioniero in Polonia. Una cartolina della Croce Rossa ci aveva fornito questa notizia proprio in quei giorni.
Tuttavia avere il padre a casa sano e salvo era una gioia per Lina, per Mario e anche per Mariù, la nonna, che era molto affezionata al genero. La maggior parte della gente era contenta, perché si illudeva che la guerra fosse effettivamente finita, ma Cesare capiva bene che non era così e che d’ora in poi la guerra sarebbe stata ancora più brutta.
Intanto si ebbe notizia della liberazione di Mussolini che era prigioniero sul Gran Sasso e, dopo pochi giorni, si seppe che egli avrebbe costituito una Repubblica e avrebbe ripreso a combattere a fianco degli alleati. E cominciò a rifiorire la speranza. Cesare che agognava di poter riprendere quanto prima a combattere, era in attesa che la milizia si ricostituisse. Nel frattempo si seguivano con ansietà gli avvenimenti e si commentava la nefandezza del re e di Badoglio che avevano vilmente tradito l’alleato e se ne erano fuggiti mettendosi nelle mani dei nemici. E tutto questo avevano fatto lasciando tutto l’esercito senza ordini e abbandonato a se stesso. Ed era questa che veniva considerata la vigliaccheria più grande.
Intando il settembre stava scorrendo lentamente.
LA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA
Fu ai primi di ottobre che i militi della Milmart furono invitati a ripresentarsi a La Spezia dove il maggiore Amerio stava ricostituendo un gruppo di batterie contraeree per la difesa di quella piazza.
Cesare decise immediatamente di presentarsi ma, prima di partire, concordò con la moglie Lina che lei, la madre e il figlio Mario non sarebbero rientrati a Massa e sarebbero rimasti a Camporgiano come sfollati per tutto il tempo della guerra. Mario avrebbe continuato i suoi studi a Castelnuovo Garfagnana e così, si sperava, sarebbero stati al sicuro. La casa di Massa fu subaffittata dopo che erano state sistemate in casse le cristellerie e altre cose di qualche valore e dopo che erano stati portati a Camporgiano gli abiti e le altre cose necessarie per una permanenza non più solo estiva. Purtroppo alcune cose (coperte imbottite e altro) che erano state spedite per ferrovia non giunsero mai a destinazione e bisognò farne a meno.
Cesare, presentatosi al deposito, fu assegnato ad una batteria tedesca ed era l'unico italiano. Aveva, così, delle forti difficoltà a comunicare con gli altri che non parlavano italiano. Presto il comandante lo fece chiamare e gli propose di giurare fedeltà al Furer e alla Germania. Ma Cesare si rifiutò dicendo che lui avrebbe giurato fedeltà soltanto alla Repubblica Sociale Italiana. Il comandante fu comprensivo e lo trasferì a una batteria italiana del gruppo in via di costituzione. Ritornò, così, dopo circa un mese, sul forte di Monte Albano, dove era stato fino all'8 settembre e dove si stava allestendo una nuova batteria.
Dopo poco, però, fu trasferito a un'altra batteria che si trovava a nord della città, cioè dall'altra parte del golfo, sul monte Viseggi.
In novembre ottenne il primo permesso di quattro giorni. Giunse a Castelnuovo col treno delle otto circa e, alla stazione di Castelnuovo, trovò Mario che aspettava l'ora per andare a scuola. Egli, infatti, a causa del ridotto servizio ferroviario, era costretto a utilizzare il treno che partiva da Camporgiano al mattino alle 5,20 e giungeva a Castelnuovo alle 6 circa. E, qui, era costretto ad attendere fino alle 8,30, orario di inizio delle lezioni. Lo abbracciò affettuosamente come sempre ma rimase addirittura angosciato vedendolo infreddolito, senza cappotto, e anche un po' assonnato. Cosicchè, giunto a casa, ne parlò con Lina e si mostrò preoccupato per il grave disagio che Mario, e anche Lina stessa, dovevano subire a causa degli scomodissimi orari. Purtroppo a questo non c'era soluzione. Volle però, provvedere affinché, almeno, fosse un po' più protetto dal freddo e dalle intemperie. E gli comperò un impermeabile che lo riparasse dalla pioggia e anche un po' dal freddo.
Nel marzo Cesare ebbe un nuovo permesso ma poco dopo, nell'aprile 1944 ,tutto il suo gruppo fu trasferito a Verona a difesa di quella città, e sistemato sulle colline circostanti. Ora era stato nominato furiere della batteria ed era sistemato provvisoriamente in una villa di proprietà di un famoso scrittore. E ripresero i duri combattimenti contro le formazioni nemiche che martoriavano la città sganciando anche bombe al fosforo che generavano spaventosi roghi. Quando le azioni erano più impegnative anche Cesare correva al pezzo a dare man forte agli artiglieri. E una volta per poco non ci lascia la pelle. Era notte ed egli, uscito fuori dal bunker, stava correndo al buio intorno alla piazzola per raggiungere l'accesso al pezzo, allorché la bocca da fuoco esplose un colpo da posizione molto inclinata, a pochi centimetri dalla sua testa. Il colpo fu tremendo, tanto da lasciarlo stordito e traballante. Tuttavia si riprese e corse al suo posto di combattimento. Ma continuava ad essere stordito ed era completamente sordo. Ci vollero giorni per riacquistare l'udito che, tuttavia, non tornò più come prima. La pellaccia, però, era salva.
Nel giugno ebbe ancora una licenza di dieci giorni e fu con difficoltà che giunse a Camporgiano. Il treno, infatti, ripetutamente colpito dai mitragliamenti aerei che avevano distrutto tutte le locomotive disponibili, sulla linea Lucca-Piazza al Serchio non funzionava più ed egli dovette avvalersi di mezzi di fortuna. Furono giorni felici passati in famiglia. A quel tempo anche le preoccupazioni per Guido erano svanite. Egli aveva aderito alla R.S.I. e si trovava a Grafenwor in Germania in addestramento con la divisione "San Marco" una delle quattro allestite in Germania con ex prigionieri italiani aderenti alla R.S.I. e con i giovani di leva della classe 1925. Cesare indossava una divisa estiva tedesca, color kaki. Gli artiglieri contraerei italiani (Ar.co.), infatti, erano stati aggregati all'aeronautica repubblicana ma non erano ancora stati dotati delle divise grigio-azzurre che riceveranno qualche tempo dopo. Tale divisa tedesca creava spesso equivoci ma faceva anche comodo. Tutti i mezzi di trasporto, civili e militari, infatti, erano prontissimi a fermarsi per caricare un militare tedesco.
Venne presto il tempo di rientrare. Cesare doveva partire con l'avvocato Nutini, segretario comunale de La Spezia ma originario di Camporgiano ove periodicamente ritornava a trovare la sorella e il fratello. Egli, infatti, si trovava a Camporgiano e doveva rientrare a La Spezia con la sua auto. Salutata la famiglia, Cesare salì in macchina con l'avvocato e partirono verso Piazza al Serchio. Attraverso il passo dei Carpinelli avrebbero raggiunto la Lunigiana , Aulla e, poi, La Spezia. Ma ecco che dopo pochi minuti i due erano di nuovo in piazza a Camporgiano. Era accaduto che, giunti al ponte di Petrognano sul Serchio, lo avevano trovato distrutto: i partigiani lo avevano fatto saltare. Che fare ? L'avvocato chiese informazioni e seppe che per la via d'Arni, allora in costruzione, forse si poteva passare. La lunga galleria, infatti, era stata appena aperta e in casi eccezionali veniva consentito il passaggio. Ripartirono, quindi, in direzione di Castelnuovo dove imboccarono la via d'Arni, piuttosto disastrata e, raggiunta la Versilia, arrivarono a La Spezia da dove Cesare poté raggiungere piuttosto agevolmente Verona.
Ormai, dopo l'interruzione della linea ferroviaria, era difficile comunicare. Per un po’, comunque, Lina riuscì a scambiare lettere con Cesare facendole portare da un operaio all’Avvocato Nutini che, da La Spezia, poteva spedirle e riceverle da Cesare. Dopo un po’, però, si interruppe anche quella via.
Intanto Guido, rientrato dalla Germania nel luglio 1944, aveva ottenuto una licenza ed era venuto a Camporgiano. Era arrivato vestito in borghese, con un pacchetto in mano nel quale aveva la sua pistola d’ordinanza, una P38 Mauser. Era accaduto, infatti, che, giunto ad Aulla, aveva deciso di passare da Monzone per poi raggiungere lo zio Settimo a Minucciano e, da qui, raggiungere Camporgiano. Ma, giunto a Monzone, aveva trovato la sua fidanzata Lisetta che lo aveva informato sul rischio di essere catturato dai partigiani. Allora lui lasciò la divisa a Monzone a casa di Lisetta che gli procurò una camicia e un paio di pantaloni borghesi. Poi proseguì per Minucciano. E qui trovò che il paese era in mano ai partigiani. Ma, stante la presenza dello zio Settimo che conviveva, ormai, con quella situazione e stante il fatto che era in borghese, non ebbe noie e fu lasciato proseguire. E così giunse a Camporgiano, accolto con gioia immensa dalla famiglia. Mario era ormai cresciuto. Aveva 14 anni ed era, quindi un adolescente. Seguiva con grande interesse il succedersi degli avvenimenti e avrebbe voluto anche lui arruolarsi volontario nell’esercito repubblicano. Così stava a lungo con Guido che gli parlava delle sue esperienze e gli insegnava a sparare con la P38. Intanto il tempo passava e la licenza era scaduta. Ma Guido, trattenuto dalla madre che non voleva lasciarlo ripartire, si tratteneva ancora. Accadde, poi che il 10 ottobre i partigiani prelevarono lo zio Settimo e, allora, Guido tornò a Minucciano a parlare con i partigiani per avere notizie e per sostenere con la sua presenza la zia Delfina e le due figlie di 15 e 9 anni. Ma i partigiani lo trattarono molto bruscamente, gli dissero che Settimo era stato ucciso e che se ne doveva andare subito per non rischiare di essere ucciso lui pure.
Per tutti questi motivi quando nel dicembre decise di ripresentarsi, fu trattato come i renitenti che, dopo essere stati nascosti fino ad ora, si presentavano in gran numero. Come si seppe poi egli fu aggregato alla Divisione “Italia” e inviato nel parmense. Ma di lui, che non sapeva come comunicare con la famiglia, non si seppe più nulla fino alla fine della guerra.
Lina non ne aveva mai parlato con Cesare per non farlo preoccupare, fiduciosa di ricevere, prima o poi, notizie del figlio. Il tempo, però, passava senza che qualche notizia arrivasse per cui ella pensò che era necessario avvertirlo, affinchè ne facesse ricerca. Ma l’avvocato Nutini, temendo di essere catturato dai partigiani, che avevano già ucciso suo fratello, non veniva più, per cui non sapeva come comunicare. Alla fine trovò un soldato che andava verso nord e gli affidò una lettera affinchè la imbucasse là dove la posta funzionava ancora. Il soldato la prese assicurando che l’avrebbe fatto. E fu così. Dopo qualche giorno – eravamo ormai alla fine di marzo – la lettera, imbucata a Milano, giunse a Cesare. In essa Lina gli diceva che Guido non aveva più dato notizie e che lei con Mario e la madre Mariuccia si era rifugiata a Minucciano a causa dei bombardamenti che, ormai, colpivano frequentemente anche Camporgiano. Il fronte di guerra, infatti, era ormai a poco più di dieci chilometri dal paese. E proprio a Camporgiano aveva sede un ospedale militare e il comando di divisione col generale Mario Carloni Nella lettera Lina diceva che tutti stavano bene, nascondendogli la morte di Settimo, pure lui ucciso dai partigiani. Gli diceva, però, del pericolo rappresentato dai partigiani e lo esortava, quando fosse finita la guerra, a non venire subito a casa andando, magari dalla sua cugina Anna a Fornaci di Barga, evitando, comunque, di passare dalla Lunigiana dove egli era conosciuto come fascista.
Cesare, preoccupato per tutte queste cose ma, soprattutto, per la scomparsa di Guido, mostrò la lettera al comandante di batteria il quale gli disse di mettersi subito a rapporto con il comandante di gruppo, il maggiore Amerio onde ottenere una licenza. E, senza ulteriore indugio, telefonò al comando di gruppo chiedendo che Cesare venisse ricevuto. Gli fu risposto che poteva presentarsi il mattino successivo.
Il mattino successivo, infatti, Cesare, che aveva percorso a piedi i 18 chilometri che separavano la batteria dal comando-gruppo, si presentò e fu subito ricevuto dal Maggiore Amerio. Questi fu molto comprensivo. Gli disse che le truppe della R.S.I. erano in continuo movimento (“noi stessi” gli disse, “entro aprile dovremo ritirarci verso il Brennero”) per cui non era possibile avere notizie. L’unica cosa possibile era che lui stesso – Cesare – andasse a cercarlo nei luoghi ove presumibilmente, si trovavano i reparti della “San Marco”. E, conseguentemente, gli concesse una licenza di 15 giorni per le località di Genova, Savona, Chiavari, La Spezia e Camporgiano, dicendogli che anche un suo eventuale ritardo sarebbe stato considerato giustificato.
Ringraziato il comandante, Cesare partì per rientrare in batteria. Uscendo incontrò il cappellano militare, tale Don Filippetti (si trattava del fratello del maestro Filippetti, capo partigiano della banda di Minucciano. Ma questo Cesare non lo sapeva) il quale gli consegnò una lettera pregandolo di farla giungere, possibilmente, alla sua famiglia a Minucciano, cosa che Cesare, come vedremo, riuscirà a fare.
Rientrato in batteria, fu circondato affettuosamente dal Comandante, dal Tenente, dal Maresciallo e da tutti i commilitoni che lo aiutarono a preparare lo zaino, lo rifornirono di generi alimentari (pagnotte, formaggio, uova, scatolette di carne, zucchero…) e di munizioni per il moschetto (Cesare rifiutò le bombe a mano). Lo sollecitarono anche a portare la famiglia a Verona e si impegnarono a trovare il necessario alloggio. Inoltre il comandante ordinò a un soldato (tale Ciuffi di un paesino vicino a Massa) di accompagnarlo fino al posto di blocco di Verona (distante 20 chilometri) portandogli zaino e moschetto e di stare con lui fino alla partenza. Cesare ne fu commosso e ancora più fu commosso quando, trovato posto su un camion carico di frumento che andava a Milano, salutò Ciuffi che, abbracciandolo, scoppiò a piangere e, tratta dal portafoglio una immaginetta sacra, la consegnò al partente dicendo che l’avrebbe protetto nel viaggio.
E l’odissea ebbe inizio. Milano, Pavia, Voghera, Genova. Qui si recò al comando di piazza e seppe che un battaglione della divisione San Marco, rientrando dalla Garfagnana, sarebbe giunto a Chiavari l’indomani o poco dopo. E allora subito via al posto di blocco ad attendere un passaggio per Chiavari. Lo trovò e arrivò a Chiavari nel tardo pomeriggio. Era stremato dal viaggio. Le emorroidi gli erano fuoruscite e non poteva sedersi. Aveva viaggiato appollaiato su camion stando in ginocchio e seduto sui talloni, unica posizione possibile, per due giorni. Aveva dormito soltanto poche ore nel pomeriggio a Pavia, in attesa della partenza che avvenne la sera. Così si recò subito al comando di piazza per avere un posto per dormire. Fu inviato in un vicino albergo dove ottenne una camera. E qui, finalmente, potè posare zaino, fucile, cappotto e giacca e sdraiarsi sul letto. Con grande sforzo e molto dolore riuscì, comprimendole, a far rientrare le emorroidi, ma il dolore era intenso tanto che pensò perfino di farsi ricoverare in ospedale. Ma poi, piano piano, il dolore cominciò a diminuire ed egli, vinto dalla stanchezza, si addormentò e dormì fino al mattino.
Nella notte era arrivato un altro soldato che ora dormiva nel lettino accanto. Ma lui non se ne era accorto tanto profondo era il suo sonno.
Appena alzato constatò che le emorroidi non dolevano più, ma aveva le gambe intorpidite per lo sforzo dei giorni precedenti. Sceso di sotto chiese di poter usare il telefono e cercò di rintracciare il Dino Cardosi (figlio di una cugina di Lina, di Camporgiano) che sapeva impiegato di banca. Dopo alcuni tentativi lo trovò. Appena sentì chi era che lo cercava si mostrò molto circospetto, comunque gli disse di andare da lui in banca. Appena arrivato, Dino gli indicò una stanza in cui entrare. Lui venne subito dopo e chiuse subito la porta. Disse che doveva essere cauto perché a Chiavari tutti avevano contatti coi partigiani ed era molto pericoloso. Appena Cesare gli ebbe detto il motivo della sua presenza lì e la sua intenzione di raggiungere anche la Garfagnana mostrò grande meraviglia e gli chiese: “Ma la situazione della Garfagnana la conosci ? Marino è stato ammazzato. E il Silvio Santarini. E l’Ingegner Nutini. E, purtroppo, anche tuo fratello Settimo. Non devi assolutamente andare in Garfagnana. Difficilmente ti salveresti ! “”
Cesare rimase di sasso. Lina gli aveva detto che molti fascisti erano stati ammazzati e molti erano fuggiti al nord, ma non gli aveva fatto nomi e, soprattutto, gli aveva taciuto la morte del fratello Settimo. Il dolore fu lancinante. E la volontà di arrivare in Garfagnana per avere notizie precise su la sua famiglia e la famiglia di Settimo fu rafforzata.
Ma, prima, doveva trovare Guido. Così salutò il prudentissimo Dino e andò direttamente al tribunale militare. Qui chiese di vedere se, per caso, Guido era stato denunciato e processato per il suo ritardo. Ma, esaminati tutti i nominativi elencati, quello di Guido non risultava. Era già una buona notizia. Allora chiese notizie del battaglione della San Marco in arrivo e seppe che era in marcia e che alcuni ufficiali erano già arrivati per provvedere agli accantonamenti. E, infatti, appena uscito in strada ne incontrò due. Si presentò e chiese di Guido. Uno di loro lo aveva conosciuto ma non ne aveva notizie.E neppure sapevano dove fosse il comando di divisione. Cesare ringraziò e si recò al posto di ristoro ove, finalmente, potè avere un pasto caldo.
Subito dopo si portò al posto di blocco in attesa di un mezzo per raggiungere La Spezia. Il posto di blocco era posto in una baracca di una sola stanza ed era circondato da para-schegge in caso di bombardamento, che potevano servire anche da trincea in caso di attacco partigiano. Nel mezzo della stanza c’era una stufa di ferro alimentata con blocchetti di tritolo recuperati da bombe solo parzialmente esplose. Tutto intorno alle pareti c’erano delle tavole appoggiate ad appositi sostegni che fungevano da sedili. All’interno vi erano molti borghesi in attesa di un mezzo di trasporto. Ma venne la sera senza che qualche mezzo fosse passato. Nella sera, a un tratto, due violente esplosioni e il grido della sentinella ruppero il silenzio. Cesare balzò fuori col moschetto e, insieme alla sentinella, cominciò a sparare verso una vigna dalla quale, assicurava la sentinella, erano state lanciate le bombe. Dopo alcuni minuti di fuoco, alcuni militi della Brigata Nera che presidiavano il luogo si lanciarono nel vigneto oltre la strada ma non trovarono nessuno. Evidentemente i partigiani se l’erano subito squagliata.
Il resto della notte passò tranquillo, ma di mezzi di trasporto neanche l’ombra. E anche la mattina trascorse senza che passasse alcun mezzo. All’ora di pranzo Cesare preferì non allontanarsi e mangiò un po’ di pane secco che aveva con se con un po’ di formaggio e una scatoletta.
Soltanto nel pomeriggio inoltrato passò un autocarro militare della Divisione Monterosa e caricò Cesare e diversi civili portandoli fino a Sestri Levante. Qui furono fatti scendere, con l’avvertenza che il viaggio verso La Spezia sarebbe ripreso alle quattro del mattino. Cesare andò subito verso un grande albergo per avere una camera ma seppe che l’albergo era tutto requisito dal personale della Divisione San Marco. Allora egli si rivolse alla sentinella e, spiegatone il motivo, chiese di parlare col comandante. Dopo una certa attesa fu condotto dal comandante e gli espose il caso mostrandogli la lettera di Lina. Questi la lesse attentamente ma, restituendola, disse che non poteva dare nessuna notizia. Solo il comando marina de La Spezia avrebbe potuto metterlo in contatto con il comando di divisione. Ancora una volta le ricerche non avevano approdato a nulla.
Cesare ringraziò e si mise alla ricerca di una camera per passare la notte.Una delle donne che aveva viaggiato con lui sul camion gli si mise dietro, certamente pensando che a un militare sarebbe stato più facile trovare un ricovero. Infatti dopo poco trovarono una camera in una casa privata e il vecchietto che l’abitava disse che avrebbe messo a loro disposizione la camera. Pensava, evidentemente, che si trattasse di marito e moglie. Cesare chiarì l’equivoco ma il vecchietto disse che lui aveva solo quella camera. Poi offrì un piatto di minestra in brodo che fu oltremodo gradita.
Dopo di che i due viaggiatori non poterono far altro che recarsi a dormire nella stessa camera.
Per essere poi, alle quattro del mattino, puntuali all’appuntamento con gli alpini. Dopo una certa attesa, la partenza. In cabina l’autista con due alpini armati. Sul cassone, oltre a Cesare, un tedesco armato di mitra e diversi civili in prevalenza donne.
Dopo un certo tratto di strada il camion si fermò e gli alpini avvertirono che si stava entrando in una zona pericolosa per cui era necessario che Cesare e il tedesco si piazzassero uno da un lato e uno dall’altro, pronti a rispondere al fuoco dei partigiani che in quella zona tendevano agguati.
Si riparte. Ma all’inizio della salita del Bracco il camion è costretto di nuovo a fermarsi. In mezzo alla strada c’è un cadavere con le braccia aperte e, tutto scansato a monte, un autocarro. I due alpini, Cesare e il tedesco balzano a terra per spostare il cadavere su un lato. Non c’è altro da fare. E si riparte. Ed ecco il primo agguato partigiano: una mitragliatrice dirige una raffica contro il camion ma non colpisce nessuno. Alla immediata reazione la mitragliatrice tace. E così ancora altre volte, finchè, giunti ormai vicini al passo, un’altra sparatoria e, questa volta, una donna viene colpita a una spalla. Il camion prosegue rapido fino a un edificio adibito a infermeria. Qui la donna viene fatta scendere per essere medicata. E il camion prosegue. Prima di mezzogiorno arriva a La Spezia.
Giunto a La Spezia, Cesare andò subito in Municipio per incontrare l’Avv.Nutini, Segretario Comunale Capo di quel Comune. Questi era un amico che lo accolse con gioia e volle condurlo a pranzo a casa sua. Fu molto gentile e Cesare, sempre molto sensibile all’amicizia e alle gentilezze gliene fu molto grato. Parlarono un bel po’ della situazione generale e della situazione particolare della Garfagnana, ma presto Cesare lo lasciò, salutandolo cordialmente, per recarsi al Comando Marina. Qui gli fu detto di presentarsi al mattino dopo e, allora, bisognò cercare un posto per dormire. Il Comando di Piazza lo assegnò all’albergo Venezia, nei pressi della stazione. Il mattino successivo si presentò al comando marina ove lo assicurarono che si sarebbero messi in contatto col comando della divisione “San Marco” per aver notizie di Guido, ma che la risposta sarebbe giunta solo dopo alcuni giorni. Egli, allora, che aveva urgenza di recarsi in Garfagnana alla ricerca della sua famiglia, li pregò di comunicare le informazioni ricevute all’avvocato Nutini presso il Municipio. Dopo di che si recò, per pranzare, alla mensa ferrovieri che era stata sistemata sotto una galleria. Subito dopo si recò al posto di blocco di Migliarina ove trovò subito un camion che partiva per Aulla carico di operai. Vi salì e il camion si avviò rapidamente. La distanza, circa 20 chilometri, non era grande e il camion vi sarebbe giunto entro breve tempo. Se non che a un certo punto comparve un aereo nemico che si mise in posizione per l’attacco. Naturalmente tutti saltarono giù dal camion per trovare un riparo, ma l’aereo, a seguito di una salva di cannonate partite dalla contraerea di Podenzana, per fortuna desistette e si allontanò. Risaliti sul camion, in breve furono ad Aulla. Cesare scese al vecchio passaggio a livello ove era un posto di blocco. Chiese se c’erano mezzi per la Garfagnana e gli fu detto che in serata sarebbero passati dei camion della divisione Italia diretti a Piazza al Serchio. Era ormai notte, con un bellissimo chiaro di luna, quando tre autocarri arrivarono, pronti a partire. Caricavano sia militari che civili. Cesare salì sull’ultimo dove, oltre ai civili, vi era solo un altro militare tedesco. Così, un armato per parte, il camion si avviò.
Fra i civili c’era un uomo che disse di essere di Casola Lunigiana. Cesare gli chiese se sarebbe stato in grado di far pervenire una lettera alla famiglia Filippetti e lui disse di sì. Così la lettera gli fu consegnata e anche quell’incombenza era stata assolta. Era ancora notte quando il camion giunse a Piazza al Serchio, vicino al vecchio albergo Rocchiccioli. Qui trovò subito alcune carrette cariche di viveri in partenza per il fronte. Prese posto su una di esse e, dopo circa una mezz’ora, giunse a Le Piane, alla periferia di Camporgiano, dove era il Carcere Mandamentale di cui il fratello Azelio era custode. Qui scese pensando di trovare il fratello ma, invece, vi trovò solo un reparto di polizia che non sapeva nulla del vecchio custode. Allora Cesare proseguì a piedi per il paese e, giunto in piazza, vide che dove era il negozio di calzature del Dino Mazzei vi era un posto di blocco con un corpo di guardia. Vi entrò e chiese notizia dei civili del paese. Gli fu detto che il paese era deserto perché la popolazione era tutta sfollata. Era ancora notte per cui, in attesa che venisse giorno, Cesare si liberò di zaino e fucile e si distese su una di quelle scaffe che, un tempo, erano occupate dalle scatole delle calzature. Appena fu giorno, riprese la sua roba e fece un giretto nei dintorni della Rocca estense. E vide, con stupore, uscire del fumo da un’apertura scavata nel vecchio e possente muro del castello. Si avvicinò e, visto che vi era stata scavata una galleria, vi si inoltrò finchè vide una luce accesa e degli uomini attorno a un fuoco. Essi, all’improvvisa comparsa di un militare armato, si alzarono in piedi allarmati. Ma fu un attimo. Erano, infatti, operai di Camporgiano che lavoravano per i militari e stavano predisponendo un rifugio sotterraneo per il comando di divisione per cui presto riconobbero il Cesare e lo festeggiarono. Egli si trattenne un po’ chiedendo notizie e seppe che Azelio viveva nella galleria di Battifollo, vicino alla Casetta, proprietà dei Pellegrinetti. Allora, salutati i compaesani, scese nella ferrovia e si diresse verso la galleria che ospitava Azelio. Vi giunse che era appena l’alba e vide con stupore che, all’interno della galleria, alle due imboccature della quale erano stati costruiti, con le traversine della ferrovia e pietre, dei grandi paraschegge, vi erano numerose capannelle, molte con pareti di paglia, dentro le quali vivevano molte famiglie che si riparavano, così, dai numerosi bombardamenti aerei che investivano tutta la zona, che si trovava, come già detto, a poco più di dieci chilometri dal fronte di guerra. Percorse tutta la galleria senza veder nessuno poiché, data l’ora, la gente stava ancora dormendo. Solo all’interno dell’ultimo capannello c’era una lampada accesa e si udivano delle voci. Cesare scostò una vecchia coperta che fungeva da porta della capanna e chiese permesso. Si trovò davanti l’Angelino Luccarini e la moglie Togna, genitori di Matilde e delle sue sorelle che venivano chiamate “balie asciutte”. I due a vedere il militare ebbero un moto di apprensione, ma quasi subito lo riconobbero e lo salutarono commossi. All’interno, sopra un misero focherello, bolliva una pentola appesa a una catena fissata a un grosso chiodo piantato nel muro. I due raccontarono della dura vita che facevano in quelle condizioni e dissero che anche Azelio era in quella galleria, in una baracca fatta con delle tavole e, quindi, un po’ migliore di quelle di paglia. Dopo un po’, mandarono una figlia a svegliarlo e ad avvertirlo che era arrivato suo fratello Cesare. Subito Azelio si precipitò fuori e abbracciò il fratello piangendo per la commozione nel rivederlo e anche per il dolore per la morte di Settimo, di cui parlarono a lungo.
Cesare fu ospitato nella baracca ove salutò anche Angelina, la moglie e Leone il figlio di Azelio, e rifocillato. L’altro figlio di Azelio, ex carabiniere, era internato in Germania.
Più tardi Leone andò a Casatico e trovò qualcuno che andasse a Minucciano ad avvisare Lina del ritorno di Cesare.
Il giorno dopo arrivarono, naturalmente a piedi, la moglie Lina e il figlio Mario.
Furono momenti di gioia. Ma Cesare vide con una stretta al
cuore che Mario, pur cresciuto e in buona salute, era vestito poveramente e che
Lina, pure molto poveramente vestita, era dimagrita a dimostrazione delle
privazioni imposte dalla guerra e aveva sul viso un disturbo che gli arrossava
il naso e gli zigomi. Seppe, fra l'altro, che da alcuni mesi essa non riceveva
più lo stipendio (fino a qualche mese prima lo aveva riscosso a Massa per
delega un operaio che per ragioni di lavoro faceva la spola fra Massa e la
Garfagnana, ma da un paio di mesi non si era visto più). Cesare aveva in tasca
seimila lire e le dette subito a Lina per consentirle di andare avanti per un
po'. Ma il pensiero di quello che sarebbe accaduto a tutti loro dopo la
catastrofe della guerra non poteva non offuscare la gioia di quel fugace
ricongiungimento. Comunque Lina e Mario si trattennero per alcuni giorni. Per
mangiare erano ospiti di Azelio e mangiavano nella baracca in galleria. Per
dormire, invece, furono ospitati dal vecchio Jaccò, zio di Cesare, che viveva
nella sua casetta poco sopra la galleria, incurante dei bombardamenti. Durante
il giorno si usciva dalla galleria (pronti a ritornarci in caso di attacco
aereo) per stare un po' con Jaccò o anche alla Casetta. Essa era occupata da un
reparto di bersaglieri della divisione "Italia", ma il salotto, che
era la prima stanza a destra di chi entrava, era rimasta ad Azelio che vi
esercitata la professione di sarto per arrangiarsi un po'.
Eravamo in aprile e il tempo era splendido, Cesare e Mario facevano lunghe passeggiate nella campagna circostante che, essendo scarsamente frequentata ed essendo da anni non più praticata la caccia, era ricca di selvaggina: uccelli ma anche lepri che fuggivano rumorosamente all'arrivo dei due. E anche dei grossi serpenti che se ne stavano al sole a riscaldare le spire intirizzite. Un giorno, mentre si trovavano nei pressi della Casetta, sulla strada che conduce a Battifollo, videro uscire precipitosamente dal cancello due militari tedeschi uno dei quali aveva un apparecchio radio sotto il braccio. Subito dopo uscì Azelio con un paio di bersaglieri dicendo che quei due avevano rubato la radio. In quei giorni avevamo conosciuto, fra quelli acquartierati alla Casetta, un bersagliere di nome Turchi, non più giovanissimo e che aveva vissuto nei balcani delle avventure spaventose. Egli, prima di poter rientrare in Italia, aveva vissuto per un po' con una banda di partigiani serbi. E, raccontava, di averli visti brindare col sangue dei nemici sgozzati e di essere stato costretto a berlo anche lui. E, con una sorta di voluto cinismo, diceva di averlo trovato buono. Questo Turchi, che era uscito calmo e senza fretta dalla casa col fucile sotto il braccio, ci chiese dove si erano diretti i due e, saputo che si erano diretti lungo la strada per Battifollo, si avviò, sempre senza fretta, alla ricerca dei due ladruncoli. Non passò molto tempo, ed ecco che lo si vide tornare, sempre con il fucile sotto braccio, spingendo avanti a sé i due tedeschi che aveva prestamente rintracciati e catturati. Mario rimase molto ammirato da questo Turchi del quale ascoltava volentieri i racconti di guerra.
Purtroppo i giorni della licenza erano volati e Cesare si preparò a rientrare al suo reparto. Mario e Lina lo salutarono con un lungo abbraccio e ripresero la via per Minucciano.
Cesare, caricatosi di nuovo del suo zaino e del suo fucile, lasciò Azelio e la sua famiglia e raggiunse il posto di blocco di San Michele. Ma quando chiese se c'erano mezzi per andare verso Aulla gli fu risposto che i camion erano, sul momento, senza benzina e che, comunque, era iniziata la ritirata e che per lui sarebbe stato impossibile raggiungere Verona. Era, infatti, già caduta Bologna e non era più possibile attraversare il Po. Così l'ufficiale comandante il posto di blocco lo esortò a ritornarsene a casa che, tanto, ormai la guerra era finita.
Con le ultime carrette che portavano il rancio alla retroguardia che ancora reggeva il fronte, quindi, la mattina dopo Cesare rientrò a Camporgiano e tornò da Azelio. Due giorni dopo le ultime retroguardie si ritirarono e avanzarono i negri americani della divisione “Buffalo”che, piazzate le loro artiglierie nella selva della Roncaiana, cannoneggiarono per tutta la notte le truppe in ritirata.
IL LUNGO E TORMENTATO DOPOGUERRA
Per la Garfagnana la guerra era finita. Nei giorni successivi Azelio andò a Minucciano a dire che Cesare era alla Casetta sano e salvo. Non appena i nemici in avanzata ebbero superato anche Minucciano, Mario volle partire da solo per andare di nuovo da suo padre. Da Minucciano lungo la strada carrozzabile si raggiungeva la località “Al pontaccio” poco prima di Nicciano. Da qui si lasciava la strada e, attraversato il torrente, si saliva per un sentiero fino a raggiungere la località “Cermaggiora” nei pressi di Casciana e, poi, Casciana stessa. Da qui si scendeva a Riocavo e si proseguiva per la strada provinciale fino a Camporgiano e alla Casetta. Furono altri giorni felici per Mario e per Cesare. Poi Mario tornò a Minucciano.
Di Guido, però, non si avevano ancora notizie. Allarmata, Lina progettò di andare alla sua ricerca con Mario e si fece rilasciare un lasciapassare dai partigiani del luogo. Per fortuna, proprio mentre si preparavano alla partenza, Guido arrivò. A piedi, con una divisa sdrucita e un paio di vecchi sandali che – come raccontò – gli erano stati dati da una signora caritatevole di Salsomaggiore. I partigiani che lo avevano catturato e, dopo qualche giorno, rilasciato, infatti, si erano presi le sue scarpe. La gioia fu immensa. Mario non si stancava di ascoltare la storia delle vicende di Guido. Anche la vedova di Settimo, la Delfina, e le sue due figlie Anna e Mirella erano felici per la buona sorte toccata a Cesare e Guido. Ma non potevano dimenticare il dolore per l’uccisione di Settimo e, anche, la preoccupazione per l’avvenire, ora che Settimo, che era l’unico portatore di reddito, non c’era più. Naturalmente tutti, compresa Delfina e le sue figlie, erano impazienti di tornare definitivamente a Camporgiano, ma bisognava trovare una casa dove andare ad abitare. La Casetta, di cui Cesare era comproprietario, una volta partiti i soldati era stata rioccupata dai contadini che, però, avevano dovuto lasciare una cucina e due camere per Azelio. Egli, infatti, non aveva potuto riprendere il suo posto alle carceri perché l’edificio che le ospitava era stato fatto saltare dalle truppe in ritirata.
Lina, Mario e Guido, sempre a piedi, scesero a Camporgiano dopo pochi giorni. L’incontro di Guido col babbo fu particolarmente commovente. Usciti incolumi dalla tempesta della guerra, si rivedevano dopo due anni e mezzo. I primi giorni si sistemarono in maniera del tutto precaria: mangiavano in casa di Azelio e, per dormire, Cesare e Lina avevano trasformato in camera la stanza superiore della “capannina”, una piccola costruzione in muratura vicinissima alla casa. Essa, con pavimento di legno e con una finestra senza infissi, serviva da fienile. La finestra fu chiusa con delle tavole e un vetro che lasciava passare la luce, il letto fu rimediato fra le vecchie cose della Casetta. Mario e Guido, invece, dormivano nello stesso letto con Leone e Giannetto, che, nel frattempo, era rientrato dalla Germania. Ma fu per pochi giorni. In un terreno adiacente a quello della Casetta coltivato a vigna sorgeva una piccola costruzione a due piani. Al piano terra era una vasta cantina con due enormi tini, mentre al primo piano, cui si accedeva per una scala esterna, era un’ampia stanza con due finestre e un caminetto. Il vecchio proprietario che l’aveva costruita, Micotti Arnaldo, era morto e ora il proprietario era un suo nipote, tale Ruggero Micotti. Il contadino che coltivava la vigna si chiamava Satti Francesco e, di soprannome “il Rumito”. Così quell’edificio veniva chiamato indifferentemente “casina dell’Arnaldo” o “casina del Rumito”. Non fu difficile ottenere dal Ruggero la casina in affitto a un prezzo modesto. Fu fatto l’attacco della corrente elettrica, furono rimediate poche suppellettili essenziali e, nel giro di pochi giorni, quella stanza divenne cucina e camera dei due figli. Per la verità c’era posto soltanto per un lettino, posto nell’angolo opposto alla porta, e quello era il lettino di Guido. Per Mario fu costruita, con delle tavole e un’amaca della marina, una capace branda, subito detta “il brandone” che, di giorno, veniva chiusa e sistemata dietro il letto di Guido mentre la sera, quando Mario e Guido rimanevano soli, veniva aperta e trasformata in un comodo letto. L’arredamento era costituito da un tavolo in mezzo alla stanza con quattro sedie, una vecchia madia, una vecchia piattaia appesa al muro, una cassa a due scomparti per contenere la farina, un trabiccolo a due piani, posto vicino alla porta, su cui trovavano posto: al piano superiore due secchi per l’acqua e, al piano inferiore, un paiolo, un laveggio e un laveggino. In un altro angolo c’era un secondo tavolo dietro il quale si trovava un vecchio scaffale da cucina adattato a libreria. Questo era l’angolo-studio. Mario e Guido, infatti, erano studenti e pensavano di continuare ad esserlo. Fra lo studio e la porta c’era uno specchio appeso al muro e, davanti ad esso, un lavabo di ferro con catinella e brocca.
Qualche giorno dopo scesero definitivamente da Minucciano anche Delfina con le due figlie e la nonna Mariù. Delfina ebbe una stanza alla Casetta che serviva da cucina e da camera da letto (fu una sistemazione molto precaria). La nonna, invece, andò a dormire nella capannina con Cesare e Lina. Naturalmente loro tre, di giorno, si trasferivano nella “casina del Rumito” che era la cucina. Qualche giorno prima Cesare e Mario, ottenuto l’uso di un camion dell’organizzazione UNNRA, erano andati a Minucciano e avevano caricato tutta la mobilia di Delfina portandola a Camporgiano e sistemandola provvisoriamente in un locale messo a disposizione.
Sempre in quei giorni di metà maggio Mario, Guido e Lina decisero di andare a Massa a vedere cosa ne era stato della loro casa.
Bisognò andare a piedi. C’erano, sfollati a Camporgiano, due famiglie: Armida Boggi con due figlie e Accorsini Giulio con moglie e figlio, le quali avevano abitato a Massa nella stessa Via del Forte dove abitavano anche Cesare e la sua famiglia. Anche loro non avevano saputo più nulla delle loro case e volevano sapere che ne era stato. Così concordarono con Cesare e Lina di andare a vedere. Ma, a quel tempo, nessun mezzo di trasporto era stato ancora ripristinato. Così fu deciso di andare a piedi, attraversando le Apuane per il passo del monte Tambura a mille e seicento metri di altitudine.
Una bella mattina, all’alba, sempre intorno alla metà di maggio, insieme agli amici suddetti partirono Lina coi due figli Guido e Mario. Cesare non venne perché venne giudicato pericoloso.
Da Piastrella si prese la strada fino al Molino della Rocca, poi si entrò nella strada di Vagli e si raggiunse il paese Fabbriche di Careggine (ora sommerso dal lago). Da qui si raggiunse Piari, poi Vagli Sopra, la valle di Arnetola e, su su lungo la settecentesca via Vandelli, si raggiunse il Passo della Tambura. Lungo la strada era tutto un via vai di gente, massesi e carrarini, che continuavano ancora, come avevano fatto durante la guerra, a venire a piedi in Garfagnana portando sale e olio e portando via farina di castagne il cui raccolto, quell’anno, fu abbondantissimo.
Era ormai mezzogiorno per cui la comitiva si fermò a consumare il pasto al sacco che si erano portati, all’ombra di un’antica galleria di una miniera di ferro da secoli abbandonata. Dopo pranzo si inziò la discesa verso Massa: Resceto, poi Forno, poi Massa. Giunsero stremati. Ma subito ognuno andò alla sua casa sognando un riposo fra le cose note e ritrovate. Lina e i due figli andarono subito alla porta della loro vecchia casa. La trovarono aperta ed entrarono. Come una mazzata li colpì l’evidenza che tutto era caos e distruzione. Dei vecchi mobili era rimasto qualche povero residuo. Entrarono in quella che era stata la camera di Cesare e Lina: era vuota, salvo l’armadio ormai mal ridotto e una bicicletta – ma non la nostra – appoggiata a un muro. Entrarono in quella che era stata la bella sala e, con stupose, trovarono che, in luogo nei nostri mobili, c’era un letto sul quale dormivano due prostitute. Le due dissero cose confuse e cominciarono ad alzarsi. Mentre Lina cercava di avere delle spiegazioni, Mario e Guido entrarono nello studio: Tutti i nostri libri erano spariti insieme ai mobili. In terra c’era una cassa piena di libri. Sperammo che fossero i nostri ma non era così: erano libri di fisica e matematica di qualcuno che, evidentemente, li aveva portati lì sperando di salvarli. Trovammo solo due o tre dei nostri libri e li prendemmo portandoli con noi. Intanto le due prostitute, temendo, forse, che volessimo cacciarle o, addirittura, accusarle del furto della nostra roba, cominciarono a sussurrare oscure minacce, dicendo che i partigiani avevano visto quadri di Mussolini e altre cose e cercavano i proprietari ritenendoli fascisti. Erano tempi pericolosi e i tre preferirono soprassedere e, lasciata la casa, andarono a casa di Armida, la compagna di viaggio. La sua casa, che, forse, aveva affidato a qualcuno, era integra e ospitò Lina e i due figli in qualche modo. La mattina dopo Lina si mise in moto per vedere se era possibile fare qualcosa per riavere le nostre cose. Riuscì a parlare con un parente del marito di Armida che era un capo partigiano e, questo, gli disse che sul momento era bene che lasciassero Massa in fretta perché c’era del pericolo reale. Lina rientrò precipitosamente e, salutati gli amici, in fretta e furia riprese coi due figli la via del ritorno.
Appena rientrati, Cesare li informò che un sedicente “tribunale del popolo” si era riunito a Camporgiano (ogni Comitato Comunale di Liberazione doveva costituirne uno) lo aveva convocato e lo aveva processato. In realtà si era trattato di un processo farsa. Lo presiedeva un certo Marchiò di Petrognano e, fra i componenti, c’era anche un vecchio anarchico di nome Valentini che era il fratello di quel Valentini lattoniere presso il quale Cesare era andato, da ragazzo, per imparare il mestiere. Dopo avergli chiesto le generalità il presidente gli aveva posto la domanda che per loro era la prima e doveva essere fondamentale:
- Voi siete stato fascista ? –
- Sì, lo sono stato –
A quel punto il vecchio anarchico si era alzato ed era andato a stringergli la mano dicendo:
- Finalmente uno che ha il coraggio di ammetterlo senza paura –
- E perché siete stato fascista ? – aveva ripreso il presidente.
- Perché ritenevo che quella fosse la strada per risollevare la mia Patria dal disordine e dalla miseria e garantirgli un avvenire di ordine, di sicurezza e di prosperità –
- Eravate arruolato nella Brigata Nera ? Avete partecipato a rastrellamenti ? –
- No. Io appartenevo alla milizia contraerea e, come tale, sono sempre stato nella mia batteria e non ho mai partecipato a rastrellamenti. –
A quel punto il presidente, che, forse, non sapeva più che chiedere e che, forse, non voleva tirarla tanto per le lunghe, pose una domanda che suonò piuttosto ridicola:
- E quanti aerei avete abbattuto ? –
- Con precisione non lo so. Posso dire che per ogni aereo abbattuto si verniciava un cerchio intorno alla canna del cannone e i cerchi arrivavano quasi alla bocca del cannone. – Cesare non aveva resistito e aveva risposto con quella piccola vanteria. Si era, forse, ormai reso conto che quel processo era un rito dovuto ma non aveva nulla di pericoloso.
- Ve li faremo rifare ! – bofonchiò il presidente, rendendo la situazione ancora più ridicola.
Dopo di che Cesare fu libero di tornarsene a casa senza nessuna condanna.
Era stato convocato anche Guido e Cesare lo giustificò dicendo che era a Massa. Non ci furono commenti e Guido non fu mai più riconvocato.
Lina e i suoi figli ascoltarono il racconto con attenzione, poi ne parlarono tutti insieme per concludere che, forse, non c’era motivo di preoccuparsi.
Motivo di maggior preoccupazione fu il fatto che, qualche tempo dopo, del partigiani della Lunigiana vennero in paese e chiesero al Bruno Mazzei, un commerciante di alimentari, notizie di Cesare. Egli, che era un amico, finse di non sapere nulla e disse che da tanti anni Cesare e la sua famiglia vivevano in Lunigiana. Così quelli se ne andarono e non si fecero più vedere.
Ma i motivi di preoccupazione erano altri e erano grossi. Le organizzazioni sindacali fasciste erano state sciolte e Cesare era senza un lavoro. Si era costituita, naturalmente, un’altra organizzazione sindacale, la C.G.I.L. (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) e Cesare, quando la situazione fu un po’ più calma, andò a Massa a chiedere se assumevano sindacalisti.
Gli dissero di sì, che ne avevano un gran bisogno, però era necessario essere iscritti a uno qualsiasi dei partiti che in quel momento formavano il governo: Partito Comunista, Partito Socialista , Democrazia Cristiana, Partito Liberale, Partito Repubblicano, Partito d’Azione. La famosa esarchia.
Cesare si infuriò.
- Come !? Avete demonizzato il Fascismo dicendo che dava lavoro soltanto a chi possedeva la tessera di partito e ora, che dovremmo essere in regime di libertà, siete voi che imponete la tessera a chi vuol lavorare !? E’ una vergogna –
E se ne andò sbattendo la porta.
Quando tornò a casa e raccontò la cosa tutti furono solidali con lui, specialmente i figli. Ma, spente le speranze di poter avere un lavoro, rimase l’angoscioso interrogativo: Come sarebbero sopravvissuti ?
Per l’immediato essi possedevano cinquanta chilogrammi di farina di castagne. Glieli aveva donati lo zio Azelio che aveva venduto un suo piccolo campetto ricevendone in cambio alcuni quintali di farina che non era in grado di consumare da solo. Oltre a ciò nel piccolo podere dei Pellegrinetti c’era il contadino e, quindi, produceva grano turco, grano, vino e latte (c’erano due mucche nella stalla). A Cesare spettava un terzo della metà di spettanza al proprietario, che, in concreto, consisteva in circa mezzo quintale di mais, altrettanto di grano, un paio di damigiane di vino e un paio di litri di latte al giorno. Inoltre Lina aveva ancora qualche soldo e altri potè procurarsi tornando più volte a Massa dove potè vendere i pochi mobili rimasti e alcune cose d’oro che aveva conservato. Per la verità quei pochi mobili mal ridotti avevamo progettato di andarli a prendere, per arredare un po’ meno miseramente la camera di Cesare e Lina, dove c’erano soltanto un letto grande e uno piccolo. I pochi indumenti venivano conservati dentro a cassettine di legno che erano stati contenitori di proiettili da cannone. Così fu contattato il Nilo Santarini, che aveva un camioncino e fu concordato che una data mattina sarebbero andati a Massa a caricarli. Quella mattina, però, Cesare e Mario aspettarono a lungo sulla strada l’arrivo del Nilo. Egli, forse pensando che potesse esserci del pericolo, non venne e rinunciò al trasporto. Fu allora che Lina andò e li vendette.
L’estate del 1945 stava, così, lentamente passando. La famiglia finalmente riunita dopo tante tribolazioni, viveva felicemente questa ritrovata unione. Tutti hanno sempre ricordato con grande emozione la prima volta che si ritrovarono insieme nella “casina del Rumito”, ben misera casa ma “casa nostra”. Seduti ai quattro lati del tavolino, mentre la luce estiva ancora inondava la stanza attraverso le due finestre aperte, consumarono la cena a base di caffellatte e pane.
Il caffellatte, scaldato nel laveggino pieno di toppe, fu versato nelle quattro capaci tazze, un pane da un chilo fu diviso in quattro con un taglio in croce e ognuno, presa la sua fetta, la spezzò inzuppandola nella tazza. E la mangiò. Per tutti loro fu, quella, la miglior cena della loro vita. I cuori erano pieni di gioia, la guerra era alle spalle e i gravi problemi che li attendevano furono per quella sera accantonati.
Il giorno dopo, però, i problemi erano ancora lì. Cesare in quell’estate coltivò piccoli ritagli di terreno che il contadino non lavorava e ne fece degli orticelli nei quali seminò soprattutto fagioli. Anche quello fu un utile contribuito all’alimentazione della famiglia. I figli Guido e Mario passarono quell’estate abbastanza spensieratamente. Mario aveva sostenuto con successo l’esame di terza media e il problema di come continuare gli studi fu rimandato all’autunno. Lo stesso fece Guido, che doveva riprendere l’università. Passavano molto tempo al fiume a bagnarsi nelle acque allora limpide del Serchio, facevano molta ginnastica e giocavano. Mario era ancora un ragazzo con i suoi 15 anni ma anche Guido, venticinquenne, viveva felicemente e giocosamente quella ritrovata giovinezza spensierata dopo le ambasce della guerra. La meno serena era Lina che, era alle prese quotidianamente col problema del “cosa mangiare”, non poteva dimenticare la tragica situazione in cui si trovavano e guardava con estrema preoccupazione l’inverno che sarebbe arrivato.
Intanto la posta aveva ripreso a funzionare regolarmente e Cesare riprese i contatti con i fratelli che vivevano in America: Giorgio, Nello e la vedova di Corrado. Nell’estate arrivò qualche pacco da loro, con dei generi alimentari e anche un po’ di vestiario. Ma, soprattutto, questi aiuti andavano a Delfina, pure rimasta completamente senza reddito e senza marito.
Il generale Carloni, che aveva comandato le truppe italiane sul fronte della Garfagnana e che aveva il comando proprio a Camporgiano, al momento della ritirata lasciò al commissario prefettizio dei soldi destinati ad alleviare le difficoltà dei profughi (erano soldi che, almeno in parte, erano stati inviati da Mussolini per aiutare le popolazioni della Garfagnana durante la guerra). Quando ciò fu reso noto, anche Lina si presentò per avere un aiuto. Anche la sua famiglia, infatti, rientrava nella categoria dei profughi. Ma colui che allora era sindaco, tale Amos Mazzei, primo sindaco del dopoguerra, nominato dal C.L.N. la trattò con acrimonia dicendole: - A voi fascisti è assai se abbiamo lasciato gli occhi per piangere –
Non c’era dubbio: il mondo attuale era nemico e bisognava lottare per sopravvivere. E tutto da soli.
Questa ostilità dell’Italia antifascista, il dolore per la guerra perduta e la Patria mutilata, il dolore per la morte di tanti amici e parenti, però, anziché abbatterli, provocò una reazione forte e un grande desiderio di rivincita. Per Cesare e Guido, che avevano militato nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana non era prudente svolgere attività politica. Ma Mario era un ragazzo di quindici anni e, in quell’estate del 1945, insieme ad altri quattro ragazzi, fondò una sezione dell’appena nato “Partito dell’Uomo Qualunque”. Era stato creato da un certo Giannini che, dopo aver fondato un giornale con lo stesso nome, visti i molti consensi, aveva fondato anche il partito. Era, sostanzialmente, un partito di ispirazione liberale, ma era l’unico che combatteva con decisione i social-comunisti e che riconosceva agli ex fascisti il diritto di esistere e di partecipare alla vita politica. La cosa fece clamore, i comunisti della zona erano infuriati e la famiglia se ne preoccupò un poco. Ma non accadde nulla di negativo e la cosa andò avanti. Più tardi si iscrissero molte altre persone, quasi tutti ex fascisti, finchè, nel 1947, passeranno tutti, come vedremo, al neonato Movimento sociale Italiano. I fascisti erano di nuovo in politica.
Venne l’autunno. Cesare aveva deciso di ricominciare dal vecchio mestiere di lattoniere e di stagnino, che già lo aveva salvato ventisei anni prima. Aveva preparato una serie minima di attrezzi di fortuna per poter lavorare e, una bella mattina, mise i suoi ferri nella cassettina di legno che serviva come valigetta a Guido quando era in collegio, la prese in collo e si avviò a piedi verso il fiume. Mario, che aveva conosciuto suo padre sempre vestito elegantemente e sempre impegnato in attività di ufficio, provò una stretta al cuore vedendolo andare con poveri abiti da lavoro a fare un umile lavoro che non gli aveva mai visto fare.
L’intenzione era di esercitare il mestiere di stagnino ambulante. Così, sceso al fiume, lo attraversò e raggiunse il piccolo paese di Sambuca, nel comune di San Romano. Qui giunto cominciò a bussare alle porte chiedendo se avevano paioli o altro da riparare. La guerra era passata da poco, la gente era povera e non aveva soldi per rinnovare le attrezzature da cucina, cosìcchè furono in molti che corsero a far riparare paioli, ramaiole, secchi e simili. Cesare si sistemò in un angolino, all’aperto, ed eseguì le riparazioni. A sera, quando giunse a casa, disse che aveva guadagnato cinquecento lire. All’epoca era, più o meno, la paga giornaliera di un operaio. Con quella avremmo potuto, sia pure a fatica, sopravvivere. Ed ebbe inizio, così, la sua vita di stagnino ambulante. Visitò tutti i paesi di quel comune e potè lavorare tutti i giorni. Più tardi cominciarono a capitare anche lavori da lattoniere, ovvero canale da riparare o da montare nuove sui tetti. A Cesare occorreva un po’ di capitale per acquistare canale e lamiere.
Come fare ? In quel tempo si erano riallacciati i rapporti anche con l’Anna Pellegrinetti, figlia di Jaccò e, quindi, cugina buona di Cesare. Essa veniva frequentemente a trovare il padre che continuava a vivere nella sua casetta. Cesare chiese e ottenne da lei cinquemila lire in prestito e, con quelle, si rifornì del materiale necessario per eseguire lavori alle canale e anche per costruire oggetti di latta – secchi, imbuti, caffettiere, lanterne, eccetera, che, poi, vendeva ai suoi clienti. La vita era dura, si viveva al limite della povertà, ma si viveva.
Alla ripresa dell’anno scolastico Guido riprese contatto con l’Università andando a Pisa con mezzi di fortuna o, addirittura, in bicicletta. Quando si trattò di pagare le tasse universitarie, però, i soldi non c’erano. Allora Lina andò a Castelnuovo e vendette, a buon prezzo, il caffè che avevano mandato i parenti americani mentre Cesare terminava affannosamente un lavoro di canale. La sera, quando Cesare e Lina si rividero, contarono il denaro che avevano procurato e, con un sospiro di sollievo, videro che erano sufficienti alla bisogna. Le tasse universitarie furono pagate, e Guido potè riprendere i suoi studi. Dava anche qualche lezioncina procurandosi qualcosa anche in quel modo. Mario, che avrebbe dovuto iscriversi alla quarta ginnasio, non potè farlo perché mancavano i mezzi per farlo frequentare (avrebbe dovuto andare a Lucca e la ferrovia era ancora interrotta). Così fu deciso che si sarebbe preparato privatamente per dare l’esame di quinta ginnasio a giugno.
Era tutto molto precario ma, insomma, anche Mario cominciò a studiare con l’aiuto di Guido e con i libri che in qualche modo si era procurato.
Nel tardo autunno il vecchio cuore di nonna Mariuccia cominciò a cedere. I disagi della guerra, le fatiche (a 86 anni aveva dovuto andare a piedi a Minucciano, camminando nella neve), i disagi del dopoguerra (con la cucina nelle “casina del Rumito” e la camera alla Casetta), ne avevano minato la resistenza. Lucida fino all’ultimo, seguiva con attenzione gli avvenimenti condividendo i giudizi con il resto della famiglia, con la quale era sempre stata solidale anche politicamente. Viste le sue condizioni critiche, la Delfina lasciò libera la camera che aveva nella Casetta andandosi a sistemare a casa di Jaccò. Così Cesare, Lina e Mariuccia poterono lasciare la capannina, dove, comunque, non avrebbero potuto sopravvivere nell’inverno. E nella nuova camera, una sera di novembre, Mariuccia, la Mariù, sentì arrivare la fine. Allora chiese a Cesare, che aveva sempre amato come un figlio essendone sinceramente ricambiata, di tenergli la mano, Lui gliela strinse e la tenne così, vegliandola fino a che essa non esalò l’ultimo respiro. Cesare chiese cinquemila lire in prestito al fratello per fargli un funerale dignitoso.
Ora l’inverno era alle porte. Per Cesare non era più possibile lavorare all’aperto. Così a San Romano, dove aveva trovato anche alcuni amici, prese in affitto una piccola stanzetta ed ebbe, così, un posto riparato dove lavorare anche d’inverno. Ma anche a casa occorreva provvedere al riscaldamento. Nella “casina del Rumito” c’era il caminetto. Occorreva la legna. Nei pressi della ferrovia non funzionante, c’erano molte traversine o pezzi di esse che i soldati e anche i civili avevano divelto per fare legna da ardere, costruire paraschegge e altro. La gente dei dintorni, compresi i contadini e lo zio Azelio, la raccoglievano per farne legna da ardere. E così fece Cesare, aiutato da Mario. Mario e Guido, poi, avevano provveduto a segarle e a schiapparle per farne pezzi di legna maneggiabili. E il fuoco fu alimentato gagliardamente. Quella legna era impregnata di catrame e bruciava benissimo. Purtroppo, però, emanava un fumo catramoso che insudiciava dappetutto, cose e persone. Però nella casina c’era caldo, malgrado che la porta, che si apriva direttamente sull’esterno, fosse un po’ sconnessa e lasciasse passare non solo l’aria ma anche la neve.
Ma un’altra tegola doveva colpire la disastrata famiglia. Un giorno piombò alla Casina un maresciallo dei carabinieri che contestò il furto delle traversine, non volle sentire ragioni e denunciò Cesare per furto. La cosa, cui certo Cesare e i suoi non erano abituati, li sconvolse. E fu necessario rivolgersi all’avvocato Bertoli di Poggio per la difesa. Il quale, però, si comportò in maniera inqualificabile. Non si occupò di nulla, non seguì la causa e, dopo un po’ di tempo, arrivò, come una tegola, la notizia che Cesare era stato condannato in contumacia per furto a sei mesi di carcere con la condizionale. Chiaramente delle conseguenze pratiche non ce ne sarebbero state e, forse, l’avvocato aveva pensato che la cosa andasse bene così. Ma Cesare non avrebbe accettato mai di avere la fedina penale macchiata da un reato che considerava infamante. Così si rivolse a un avvocato amico di Lucca (piano piano si stavano riallacciando i rapporti fra i vecchi fascisti sopravvissuti) e ricorse in appello. Naturalmente tutto ciò avrebbe comportato delle spese che avrebbero messo ancor più in crisi l’economia familiare. Ma Cesare, e la sua famiglia solidale con lui, avrebbero, se necessario, fatto a meno del cibo pur di cancellare quell’ingiusta condanna. A suo tempo, cioè un paio di anni dopo, venne discussa la causa presso la corte d’Appello di Firenze, Cesare parlò e fece una straordinaria difesa di se stesso spiegando l’origine reale di quella legna, vero e proprio residuato di guerra, mostrando le mani nere per il lavoro, parlando dei suoi figli che studiavano con tanti sacrifici….. tanto che l’avvocato lo abbracciò commosso. E il giudice, commosso egli pure, lo assolse con formula piena e cioè “per non aver commesso il fatto”.
Quando, alla sera, arrivò a casa la moglie e i due figli lo abbracciarono in un unico abbraccio e fu una grande gioia. Per tutti.
Intanto l’inverno stava passando, Cesare continuava il suo lavoro recandosi a piedi a San Romano tutti i giorni, dove si tratteneva fino a sera (il pranzo lo consumava in negozio, riscaldando la minestra sul fornelletto dove scaldava i saldatori). Il lavoro non era moltissimo ma nella piccola stanza venivano spesso i suoi amici, anche loro fascisti, che lo stimavano molto e contribuivano ad alzare il suo morale, malgrado le difficoltà. Per l’epifania Lina non volle far mancare un regalino ai suoi figli: qualche arancia e qualche noce. Ormai i figli erano grandi, ma la ripresa di quella tradizione serviva a riaffermare la volontà di riprendere in condizioni di normalità la vita di famiglia, a stabilire una continuità col passato, a non mollare.
Guido aveva ripreso a dare esami e Mario continuava la sua preparazione, anche se, forse, con poca organizzazione. E il peggio fu che, quando Guido andò a presentare la domanda affinchè Mario potesse sostenere l’esame, si sentì dire che il termine era scaduto e che, per quell’anno, non ci sarebbe stato nulla da fare. Fu una comprensibile svista. Ma bisogna anche dire che, forse, la famiglia, concentrati gli sforzi per far concludere a Guido i suoi studi, dato che era così vicino alla meta, vedeva come una cosa difficilmente realizzabile il proseguimento degli studi di Mario. Comunque nessuno ne fece una tragedia e si convenne che l’anno successivo avremmo fatto le cose come si deve.
Quando tornò l’estate tutto fu di nuovo più facile. Cesare continuava il suo lavoro che consentiva di tirare avanti alla meglio, Guido dava qualche lezioncina. Mario aiutava il papà a coltivare le fagiolaie e andava, coi figli del contadino, a cercare legna nella campagna.
Nell’autunno del 1946 Guido iniziò un nuovo anno universitario e Mario si organizzò per preparare l’esame di terza magistrale. Si era infatti discusso sul suo destino di studente e si era convenuto che occorreva abbandonare l’idea del ginnasio e ripiegare sulle magistrali, che avrebbero consentito di conseguire un diploma di scuola media superiore che abilitava a una professione senza necessità di fare l’Università. Mario non ne fu felicissimo, perché aveva sempre pensato che avrebbe seguito la stessa strada di Guido, ma si adeguò. Il tempo, però, era passato, egli cominciava a guardare le ragazze e la preparazione fu approssimativa. Anche perché, oltre alle ragazze, c’era la politica che lo interessava. Il 16 marzo 1947, insieme a Guido e ad altri cinque giovani, aveva fondato una sezione del Movimento Sociale Italiano e ne frequentava assiduamente la sede. Così l’esame che sostenne a giugno fu un disastro. Evitò una bocciatura secca ma fu rimandato in ben otto materie. Fu un colpo duro per il suo orgoglio e, mentre tutti lo esortavano a lasciar perdere, lui studiò accanitamente per tutta l’estate. A settembre riuscì a recuperare cinque delle otto materie ma in tre fu di nuovo bocciato. La bocciatura, però, era avvenuta con una media superiore al cinque, per cui aveva diritto alla ammissione alla terza. Il che significava che non doveva più occuparsi di lingua straniera (che si studiava solo fino alla seconda) il che era, comunque un risultato. Ma, soprattutto, aveva fatto una preziosa esperienza: aveva conosciuto l’ambiente magistrale, s’era fatto degli amici con cui mantenersi in contatto, aveva acquisito consapevolezza di come avvenivano le interrogazioni e di come occorreva prepararsi. E si ripromise di rifarsi l’anno successivo. La mamma Lina era scettica, ma non interferì in queste aspirazioni. Il padre e Guido, invece, lo sostennero senza riserve.
Una cosa notevole di quel 1947 fu che, le carceri mandamentali erano state ricostruite e Azelio aveva ripreso il suo posto lasciando libere le sue tre stanze alla Casetta. Questo consentì alla famiglia di Cesare di poter avere altre due stanze ( La cucina, però, la prese Delfina). Il 10 marzo la casina del Rumito fu, così, abbandonata e ci fu, oltre all’ex-salotto adibito a cucina, una camera per Cesare e Lina e una per Mario e Guido. La cosa rappresentò un notevole miglioramento nelle condizioni di vita della famiglia, che guardò l’avvenire con maggior fiducia.
Era, ormai, autunno. Mario si mise di buona lena e con una buona organizzazione a preparare l’esame di quarta, cioè l’esame finale di abilitazione all’insegnamento. Passò l’inverno ed egli continuava a studiare. Adalberto Cucurnia, un amico che aveva dato con lui l’esame di terza e che era stato promosso, ora frequentava la quarta a Barga e gli forniva preziose informazioni su quelle che erano le richieste dei professori. Verso marzo si accorse di essere un po’ indietro con la preparazione e, allora, si liberò della ragazza con cui intratteneva una relazione e che gli faceva perdere tempo e si impose un orario di studio massacrante: studiava 4 ore al mattino, 4 ore al pomeriggio e 4 ore la sera dopo cena. Quando venne il tempo dell’esame si sentì pronto e andò abbastanza sicuro. Fece degli ottimi scritti (italiano, latino e matematica) e dei buoni orali. Aveva qualche dubbio per fisica e storia ma era sicuro per il resto. Il risultato fu superiore alle aspettative: promosso con una media del sei e mezzo. Per un privatista un risultato ottimo. Quando Mario lo comunicò in casa la mamma non voleva crederci e lui ci rimase piuttosto male. Poi, però, fu gioia per tutti.
Guido, che aveva finito di sostenere gli esami nel 1946, ebbe dei problemi con la tesi. Cominciò col prepararne una su la “Chanson de Roland” col professore di filologia romanza, ma non riusciva a soddisfare il professore. Finchè, dopo aver perduto mesi di tempo, prese una nuova tesi con il professore di storia moderna su “Giovanni delle Bande Nere”. Questa volta le cose andarono bene e, dopo un lavoro accurato, la presentò nel febbraio 1948 e si laureò con un buon voto. Fu, insomma, un anno fortunato per gli studi dei figli di Cesare. Guido, fra l’altro, aveva ottenuto un incarico di insegnamento in un corso “C” di una scuola popolare (lo avrà per due anni: un anno a Gorfigliano e un anno a Camporgiano) e cominciava a guadagnare qualcosa.
Tutto questo incoraggiava la famiglia ad andare avanti, anche se il lavoro di Cesare non procurava che modesti guadagni.
Egli continuava ad andare a San Romano a piedi tutte le mattine, a pranzare in condizioni disagiate, specie in inverno, quando il minuscolo fornellino non era certo sufficiente a scaldare un po’ l’ambiente, e a ritornare, la sera, sempre a piedi. A cena la famiglia si ritrovava unita. Si parlava molto: ci si raccontavano i fatti della giornata e si parlava anche di politica, che Cesare seguiva con attenzione. Dal 1947 Mario e Guido, come si è detto, erano iscritti al Movimento Sociale Italiano, costituito quasi interamente da reduci della R.S.I., mentre Cesare, frenato da Lina che temeva per lui, non si era ancora iscritto. Però collaborava dall’esterno e organizzò il partito a San Romano dove un suo amico, Vincenzo Pellicioni Marazzini, nel 1948 fu anche candidato alla Camera per quel partito. Nel 1948, infatti, il 18 aprile ci furono importanti elezioni politiche. Il blocco social-comunista minacciava di prendere il potere in Italia, contrastato da tutti i partiti anticomunisti. Anche il M.S.I. partecipò alle elezioni e Mario e Guido furono fortemente impegnati nella campagna elettorale. Guido tenne anche dei comizi. E il partito ottenne i primi deputati in parlamento. La sezione di Camporgiano, sorta fra le primissime della provincia, si distinse ed ebbe l’onore di una visita dell’onorevole Almirante, segretario nazionale del partito.
Passata l’estate, Cesare ottenne da un altro amico di San Romano, il geometra Peretti, un posto da impiegatuccio per Mario nell’esattoria comunale di Castelnuovo. Lo stipendio era modesto, solo ventimila lire al mese, ma era pur sempre qualcosa per sostenere le misere finanze della famiglia. Fu in quel periodo che Cesare, sempre tramite gli amici di San Romano, ottenne l’incarico di esattore per conto della Società Valdarno, che forniva l’energia elettrica nella zona. L’incarico non prevedeva uno stipendio, ma solo una percentuale sugli incassi. Si trattava di recarsi nei vari paesi, presentare direttamente agli utenti le bollette e riscuoterne l’importo. Erano tutti paesi di montagna, in gran parte privi di servizi pubblici, per cui ci si doveva muovere a piedi e con notevole disagio. Cesare lo faceva generalmente nei giorni di festa per non dover chiudere la botteghina di San Romano. Ma quando si recava nel comune di Careggine, per riscuotere le bollette in quella miriade di piccoli paesini, doveva perfino trattenersi a dormire fuori. Per fortuna a Capricchia, che era una chiesa isolata che serviva, insieme alla scuola elementare i paesini dei dintorni (a Capricchia c’era soltanto la chiesa, la scuola e la canonica) era parroco un certo Don Fausto Cecchini, che proveniva da Monzone e che Cesare conosceva bene. Questo parroco aveva con se, come perpetua, la sorella, pure ben conosciuta da Cesare. Essi accolsero Cesare molto amichevolmente e lo ospitarono tutte le volte che egli doveva dormire in loco. Nei giorni festivi, poi, anche Mario e Guido partivano a piedi e lo aiutavano a riscuotere le bollette nei paesi di Vagli Sotto, Piari, Vagli Sopra e Roccalberti.
Era indubbiamente un aiuto economico anche quel piccolo guadagno, ma creava anche dei problemi. Accadeva che, nel corso del mese, si accumulavano in casa molti soldi. E Lina vi attingeva per le spese di casa, pensando di utilizzare soltanto la provvigione spettante. In realtà spesso finiva per spendere di più per cui, alla fine del mese, quando Cesare doveva versare le somme raccolte, mancavano sempre dei soldi. C’era, per fortuna, lo stipendio di Mario che veniva utilizzato quasi interamente per pareggiare i conti. Il livello di vita della famiglia, comunque, si era notevolmente innalzato. Anche per merito dei conigli e dei polli che, ora, venivano allevati in abbondanza.
Il 1949 iniziò abbastanza bene. Guido ebbe ancora un incarico nelle scuole popolari e Mario continuava a lavorare in esattoria. Per Mario, però, ci furono due episodi piuttosto spiacevoli. Il primo si verificò il 19 marzo, festa di San Giuseppe. Insieme ad alcuni amici era andato a fare le frittelle, come da tradizione, nella vecchia casa del Borghetto dove aveva vissuto Lina e dove era nato Guido. Avevano bevuto più del necessario per cui lui e due amici (Osvaldo Comparini e Renato Accorsini) fecero la bravata di percorrere il paese cantando canzoni fasciste. Un ex partigiano andò in caserma a protestare dai carabinieri e il maresciallo ordinò il nostro arresto.
Rimasero in cella fino al mattino pensando che, al mattino, li avrebbero mandati a casa con una ramanzina. Invece rilasciarono soltanto il Renato mentre Mario e Osvaldo furono denunciati per apologia di Fascismo e trasferiti nel carcere di Lucca, dove vennero chiusi in una cella della terza sezione, quella dei politici. Cesare si attivò subito e andò a Lucca a parlare con l’avvocato Campetti, un fascista, il quale fece subito il necessario per ottenere la libertà provvisoria. Dopo qualche giorno la libertà provvisoria fu concessa e i due rilasciati. Qualche tempo dopo, però, fu celebrato il processo e i due furono condannati a sei mesi di carcere con la condizionale. La cosa non fu affatto piacevole e si ricorse in appello. Ma l’avvocato Campetti sconsigliò di farlo perché i tempi erano durissimi per i fascisti. E così accettarono la condanna che, per fortuna, non ebbe effetti pratici negativi. Infatti il geometra Peretti non solo gli fece riprendere il suo lavoro in esattoria ma, addirittura, fu fiero di avere un dipendente condannato per apologia di Fascismo.
Pochi mesi dopo, però, accadde un altro episodio che minacciò di essere ancor più spiacevole.
Accadde che un giorno, mentre Mario era uscito per prendere un caffè, un ladruncolo si introdusse in esattoria e rubò l’incasso della giornata di oltre ottocentomila lire. Vennero subito i carabinieri e iniziarono le indagini. La sera, mentre egli stava per salire sul pullman per rientrare a casa, un carabiniere lo fermò e disse che doveva presentarsi in caserma. Mario disse che non aveva altri mezzi per rientrare a casa ma il carabiniere disse che doveva comunque andare in caserma. Vicino al pullman in partenza c’era Cesare e Mario potè informarlo succintamente di quanto era successo e consegnargli la borsa. Era anche presente un cognato del Peretti il quale gli disse che, per rientrare a casa avrebbe potuto usare la sua bicicletta. In caserma il maresciallo cominciò a interrogarlo e, senza mezzi termini, lo accusò di essere l’autore del furto. Mario si difese dicendo che era assurdo che lui avesse preso quel denaro che, in massima parte, era rappresentato da un assegno che, evidentemente, non avrebbe potuto incassare. Ma il maresciallo insisteva, minacciandolo e fingendo di volerlo avviare alle carceri. Solo dopo mezzanotte Mario fu lasciato libero. Evidentemente il maresciallo si era convinto. Ma la cosa era sgradevolissima, perché anche altri avrebbero potuto sospettare che l’autore fosse proprio lui. Per fortuna dopo due o tre giorni il vero colpevole fu trovato e arrestato. Mario e tutti i suoi familiari tirarono un bel sospiro di sollievo.
Prima della fine dell’anno Guido ebbe un incarico di insegnamento nel collegio di Soliera dove era stato collegiale e dove era stimato e ben voluto e Mario fu chiamato a visita dalla Capitaneria di Porto di Viareggio. Aveva, infatti, chiesto di essere iscritto nella leva di mare. Fu giudicato abile e assegnato al Battaglione San Marco.
Finito l’anno e iniziato il 1950, Mario chiese di partire col primo contingente e, verso la fine di Gennaio, lasciò il lavoro in esattoria che era noioso e scarsamente retribuito, salutò Marisa, la sua nuova ragazza e andò a fare il militare.
Fu quell’anno che Cesare migliorò sensibilmente il suo reddito. Ebbe in concessione, infatti, la vendita di fornelli a gas liquido in bombole e la distribuzione delle bombole stesse. Dotò subito di fornello a gas anche la moglie Lina migliorando, così, sensibilmente anche la funzionalità della loro cucina. Tuttavia, quando, nella tarda primavera, Guido decise di sposarsi con la sua Lisetta, andò solo Cesare al matrimonio perché Lina non riteneva di essere vestita abbastanza dignitosamente. I due sposini si sistemarono a Monzone cosicchè Guido uscì definitivamente dalla Casetta e dalla famiglia. E anche il 1950 corse via rapidamente. Mario veniva abbastanza spesso in permesso ma era ansioso di terminare il suo servizio di leva. Era stato destinato all’ufficio maggiorità del battaglione per via del suo titolo di studio per cui, sostanzialmente, era finito di nuovo a fare l’impiegato e si annoiava. Fortunatamente per lui i marinai del Battaglione San Marco avevano la stessa ferma dell’esercito (12 mesi circa) per cui per il Natale era già a casa congedato.
Cesare in quell’anno decise di occuparsi di nuovo di politica e si iscrisse al M.S.I. Poco dopo il federale di Lucca, sapendo della sua esperienza come sindacalista, lo incaricò di organizzare la Confederazione Italiana Sindacato Nazionale Lavoratori (C.I.S.N.A.L.) nella provincia.
Cesare vi si dedicò con entusiasmo ma a titolo pressochè gratuito e con l’inconveniente che questa nuova attività sottraeva tempo al suo lavoro. Per fortuna in quel periodo egli aveva un pollaio affollato che produceva molte più uova di quante se ne consumassero. Egli, perciò, quando andava a Lucca per il Sindacato, portava una grossa latta piena di uova che gli venivano acquistate da un negozio, felicissimo di avere uova fresche della Garfagnana. E, con quello, integrava un po’ le sue entrate.
Mario, rientrato in famiglia, cominciò a lavorare come supplente nella scuola elementare. Ma si trattava di incarichi saltuari. Dal gennaio al giugno di quel 1951 lavorò per poco meno di quattro mesi. Non era moltissimo ma, per lo meno, potè provvedere da solo al suo guardaroba e alle sue necessità spicciole. Nell’autunno, poi, prima si impiegò come marcatempo in un cantiere di lavoro a 500 lire il giorno e, più tardi, ci fu il censimento della popolazione ed egli fu impiegato per circa un mese come ufficiale di censimento.
Intanto la sua relazione con Marisa Mazzei, la sua ragazza, si faceva sempre più seria e, verso la fine dell’anno i due giovani maturarono la decisione di sposarsi e di trasferirsi in Australia dove Marisa aveva uno zio e due zie delle quali una era piuttosto benestante e avrebbe potuto aiutarli a sistemarsi e, soprattutto, anticipar loro i soldi per il viaggio. I genitori sia di lei che di lui erano piuttosto preoccupati per questa decisione. Le cose, però, andarono avanti, Marisa rimase incinta e, il 23 febbraio 1952 i due si sposarono. Anche questa volta fu presente solo Cesare perché Lina, anche quella volta, si riteneva non adeguatamente vestita per l’occasione. Si sposarono a Montenero vicino a Livorno e, con qualche soldo guadagnato coi suoi lavoretti più qualche soldo regalato, fecero un piccolo viaggio di nozze a Venezia. Ma passarono anche da Viareggio dove Marisa aveva una zia e dove era anche Guido perché Lisetta aveva avuto, in gennaio, la piccola Marzia e provvisoriamente stava dalla sorella.
Purtroppo il sogno dell’Australia svanì, perché il marito della zia che avrebbe dovuto aiutarli ebbe gravi motivi di salute mentale per cui la zia rispose negativamente. Il problema era grosso perché Mario non aveva ancora un lavoro stabile. Così decisero, per il momento, di andare a vivere alla Casetta con Cesare e Lina. Per fortuna i contadini se ne erano andati per cui ora Cesare aveva a disposizione un vero appartamento costituito da cucina, salottino e due camere. Così Mario e Marisa arredarono alla meglio la loro camera coi mobili prestati dall’Anna di Fornaci e iniziarono la loro vita coniugale. Il contributo di Mario alle spese di casa era minimo e il reddito della botteghina di San Romano era modesto. Cesare, allora, chiese e ottenne in prestito dal Giulio Accorsini 200000 lire con le quali arricchi la bottega di nuovi articoli.
Purtroppo nel maggio di quell’anno, esattamente il 28, Marisa perse il suo bambino e, questo, recò dolore a tutti ma, particolarmente ai due giovani che si trovarono di fronte al primo vero dolore della loro vita.
Proprio quel giorno riprese a funzionare la ferrovia, che era interrotta dal 1944 e, quindi, anche la stazione di Camporgiano riebbe il suo Assuntore. Questi, tale Francesco Mastronaldi, era un fascista reduce dalla R.S.I. e, dovendo assumere un aiutante, offrì a Mario quel lavoro. Era un lavoro per solo 5 ore giornaliere, con uno stipendio di una diecina di mila lire mensili, ma era un lavoro sicuro e continuativo e, soprattutto, tale da consentirgli di continuare a lavorare nella scuola come supplente. Quindi accettò con entusiasmo e, da allora, fu in grado di dare mensilmente un piccolo contributo per le spese di casa. Nell’inverno, poi, Marisa rimase di nuovo incinta e, siccome pareva ci fossero dei problemi, sua madre volle che ritornasse a casa sua. Mario ne fu piuttosto irritato ma, alla fine, accettò la soluzione di andare a dormire anche lui a casa di Marisa. Avrebbe pranzato e cenato alla Casetta per poi recarsi a dormire a Camporgiano.
Cesare, intanto, si era lasciato riprendere dalla politica e, nella primavera del 1952 era stato anche eletto consigliere comunale in una lista di destra capeggiata dal sindaco Orsi. Purtroppo, però, tale carica non portava denaro per cui egli era ancora costretto ad andare faticosamente a piedi a San Romano tutte le mattine per racimolare di che vivere.
In quello stesso anno fu anche all’Aquila per il congresso nazionale del M.S.I. in qualità di delegato. E continuò a prodigarsi per il sindacato.
Il 1953 non portò, nei primi mesi, delle novità sostanziali. In primavera, però, ci furono le elezioni politiche e sia Cesare che Mario lavorarono molto per il partito. Il Pelliccioni di San Romano, che era candidato, aveva procurato a Cesare una motoretta affinchè potesse spostarsi rapidamente da un paese all’altro per la propaganda elettorale. La cosa fu molto utile anche per Mario che potè usarla qualche volta per recarsi a fare supplenze.
Verso settembre Mario lasciò definitivamente la Casetta per andare a vivere a Camporgiano nella casa dei suoceri. Era accaduto che lo stipendio della ferrovia, ora che Mario era stato regolarmente assicurato, era salito a circa 25000 lire che si aggiungevano ad altre 15000 lire che egli riceveva da certe suore di Fornaci di Barga per un incarico di insegnamento a dei ragazzi handicappati. A questo punto la giovane coppia era in grado di versare ogni mese 10000 lire come contributo alle spese di casa. Oltre a ciò avrebbero provveduto personalmente a tutte le spese per l’allevamento del primo figlio, Fabrizio, che nacque il 25 settembre di quell’anno.
Naturalmente Lina e Cesare erano felici nel vedere che i figli, sia pur faticosamente, si andavano sistemando. E si adattarono a vivere da soli nella loro Casetta. Dopo la partenza dei contadini il podere era stato diviso bonariamente fra Cesare, Azelio e Delfina e ognuno avrebbe provveduto alla coltivazione della propria parte. Cesare, naturalmente, non avrebbe avuto il tempo di coltivare realmente la sua parte, per cui i campi furono trasformati in prati da cui si ricavava del fieno che veniva venduto. Egli, però, si improvvisò viticultore e riuscì veramente a diventarlo, tanto che, da allora, coltivò da sé la piccola vigna. E coltivò abbondanti ortaggi. Naturalmente poteva dedicarsi all’agricoltura solo la domenica e, nell’estate, quando viene notte tardi, un po’ la sera al ritorno dal lavoro. La cosa lo gratificava molto e anche Lina era contenta e beveva volentieri il vino da loro stessi prodotto, anche se di qualità non eccellente.
Venne rapidamente anche il 1954. Ora Cesare e Lina erano soli e le spese erano molto diminuite rispetto a quando c’erano ancora i figli. Ma erano diminuiti sensibilmente anche i guadagni. Infatti a San Romano era sorto un altro negozio e le vendite nel negozietto di Cesare erano crollate. Era veramente faticoso tirare avanti.
I due figli si stavano sistemando discretamente: Guido continuava il suo insegnamento a Soliera guadagnando uno stipendio non ricchissimo ma sufficiente. E anche Mario, lavorando un po’ in ferrovie, un po’ nella scuola e un po’ in comune, se la stava cavando. Ma non erano ancora in grado di aiutare i genitori. Né essi mai lo chiesero né, forse, lo avrebbero accettato.
Però Mario che, vivendo a Camporgiano era a stretto contatto con i genitori, si rese conto delle difficoltà del padre e gli propose di cercare, sempre nell’ambito del commercio, qualche altra attività più redditizia. Così ne parlò con Guido, che ne parlò con suo cognato, il quale conosceva un certo Icardi, rappresentante di dolciumi disposto a concedere una sub rappresentanza dei prodotti da lui trattati. Subito Cesare andò a Viareggio per incontrarlo e ritornò con il necessario (campioni, fogli per le ordinazioni, ecc.) per iniziare il lavoro.
Mario, che voleva aiutare il babbo a ripagare il debito di 200000 lire che era stato fatto al momento del suo matrimonio, si mise subito di buona lena al lavoro. Purtroppo non avevano mezzi di trasporto per cui dovevano utilizzare i mezzi pubblici per spostarsi. Tuttavia trovarono buona accoglienza presso i negozi della zona e raccolsero un discreto quantitativo di ordini. E non solo. Poiché per i grossisti c’era uno sconto del 10%, decisero di ordinare anche un discreto quantitativo di merce per loro stessi. La avrebbero venduta direttamente ai negozi, specie quelli più piccoli che non erano in grado di fare ordini diretti. La merce arrivò con grave ritardo. Evidentemente sia Icardi che la Ditta Maggiora avevano chiesto informazioni dato il notevole quantitativo di merce ordinata. Passò il Natale e la merce arrivò il 26 dicembre sia ai negozi che avevano fatto l’ordine, sia a Cesare. I negozi furono molto soddisfatti della merce e, questo, fu incoraggiante. Ma c’era da vendere la merce acquistata e che, provvisoriamente, fu immagazzinata in casa di Marisa. Cesare possedeva un enorme valigione di fibra e fu deciso che sarebbe stato usato quello, insieme a dei grossi cartoni legati con uno spago, per il trasporto della merce. Era tutt’altro che agevole salire sui mezzi pubblici con tali ingombranti bagagli, ed era estremamente faticoso spostarsi da un negozio all’altro trascinandosi dietro tali voluminosi oggetti. Malgrado tali difficoltà, Cesare nei paesi sulla sponda sinistra del Serchio e Mario sulla sponda destra fino a Castelnuovo Garfagnana andarono, utilizzando il poco tempo libero dagli altri impegni e, quasi miracolosamente, in due giorni vendettero fino all’ultimo biscotto. Già il 28 dicembre inoltrarono un altro ordine urgente. E cominciarono a sperare di aver trovato il modo per risolvere i problemi economici di Cesare. Ma la cosa non era affatto di facile realizzazione. Ci sarebbe voluto un mezzo di trasporto, ma mancavano i denari per acquistarlo. Così si continuò per un po’ di tempo a usare il valigione e i cartoni. Ma non era possibile sviluppare un giro d’affari accettabile in quel modo. Così Mario, dopo un paio di mesi, si decise ad acquistare una Vespa 125, un’agile motoretta della Piaggio. L’avrebbe pagata a rate con i propri soldi ma l’avrebbe anche usata per trasportare le merci. Fece, infatti, costruire un ampio portapacchi da applicare dietro il sedile del guidatore (togliendo il secondo sedile) e cominciò ad andare in giro, sempre nei ritagli di tempo, in maniera molto più agevole. Il giro di affari si estese a tutta la Garfagnana, comprese le zone alte, con un certo aumento delle vendite. Cesare, però, era ancora costretto a girare col valigione e, questo, non andava bene. Così, passata l’estate, presero la importante decisione di acquistare un’auto. Naturalmente usata. Il cognato dell’amico Pelliccioni aveva una vecchia Fiat Balilla e la cedette a Cesare per 100000 lire. Cesare non aveva quella somma, così chiese al “Tera”, un Bartolomasi benestante, di essere garante per ottenere un fido bancario. Questo avrebbe fatto comodo anche per il pagamento delle fatture quando non si riusciva a vendere tutta la merce prima della scadenza. La firma di garanzia fu messa e l’auto potè entrare in funzione. Però soltanto Mario aveva la patente, per cui poteva guidarla solo lui. Subito sostituì la Vespa nelle zone servite da lui. Ma si pose il problema di allargare il giro d’affari per cui, un giorno la settimana, lui e il padre partivano insieme alla conquista di nuovi clienti lungo la valle del Serchio. Arrivavano fino a Ponte a Moriano, ma l’acquisizione di nuovi clienti era faticosa e andava a rilento. E, per di più, ora c’erano le spese della macchina da pagare, per cui spesso il giro si concludeva senza guadagno, se non addirittura con una rimessa.
E così il 1955 andò avanti con tante difficoltà. La botteghina di Cesare, infatti, finiva con l’essere trascurata a causa della nuova attività e dava sempre minori guadagni. E la nuova attività di guadagni ne dava ancora meno.
Fu solo nel 1956 che le cose cominciarono a migliorare. Anzitutto Mario aveva vinto il concorso come maestro elementare, per cui aveva abbandonato tutti i precedenti lavoretti per dedicarsi solo all’insegnamento. Così aveva più tempo da dedicare alla vendita dei biscotti. Inoltre aveva il giovedì libero, per cui ogni settimana con Cesare poteva dedicare alla vendita l’intera giornata. Le vendite, però, continuavano ad essere scarse. Malgrado i magri affari, tuttavia Cesare aveva cominciato a farsi notare in giro come venditore di dolciumi. Così un certo Pieri, titolare di una torrefazione, ci mise a disposizione un furgoncino Fiat 500 a patto che, insieme ai biscotti, vendessimo anche il suo caffè. Fu una piccola fortuna. Mario andò a ritirarlo a Livorno e le cose migliorarono un bel po’. Fra l’altro il furgoncino era più economico della Balilla che, infatti, fu lasciata in garage. Il passo successivo fu, per Cesare, quello di prendere la patente. Lo fece nei primi mesi del 1956 e, subito, cominciò a usare il furgoncino anche per recarsi a San Romano, con notevoli vantaggi. Oltrechè, naturalmente, per andare in giro a vendere i biscotti e gli altri dolciumi.
Verso l’autunno accaddero due cose molto importanti. La prima riguardò la Balilla. Mario aveva avuto la sede di Vagli Sopra e altre quattro maestre che insegnavano a Vagli Sotto, gli proposero di risistemare la Balilla e di andare insieme quotidianamente dividendo tutte le spese. A Mario parve una occasione eccellente e rimise a nuovo il motore più altri lavoretti per una spesa pro-capite di poco più di ventimila lire. Ora Mario faceva scuola soltanto di mattina per cui aveva tutti i pomeriggi liberi. Così utilizzò la macchina anche per portare in giro la merce da vendere, mentre Cesare lo faceva col furgoncino.
La seconda importantissima cosa fu che un bel giorno arrivò un nuovo rappresentante di Maggiora. Era un giovane di nome Roberto Calciati il quale disse che la ditta puntava a una grande espansione avendo messo in vendita tutti i suoi prodotti in convenientissime confezioni che si vendevano al pubblico a 100 lire l’una. Ci disse anche che avrebbe lasciato a Cesare l’esclusiva in tutta la zona e propose, infine, di fornirci un furgoncino Fiat 500 perfettamente reclamizzato a condizioni estremamente favorevoli. Infatti avrebbe aggiunto allo sconto del 10% un ulteriore sconto del 4%. Tale ulteriore sconto sarebbe stato trattenuto dalla ditta fino al completamento del pagamento del furgone che era usato e che fu valutato 360000 lire. Mario, a casa del quale il rappresentante si era presentato con la giovane moglie, lo condusse subito alla Casetta ove, insieme a Cesare fu concluso l’accordo. E, naturalmente, fu subito commissionato un ordine piuttosto consistente dei nuovi prodotti. Mario andò subito a Torino a ritirare il furgoncino che Cesare cominciò subito ad usare.
Fu un incredibile successo. Le vendite aumentarono immediatamente e di molto e, in breve tempo, tutti i debiti poterono essere saldati. Ora le cose andavano veramente bene.
A quel tempo Mario abitava in un appartamentino in affitto e aveva a disposizione anche un garage dove potevano essere ricoverate le due auto (il furgoncino del Pieri fu restituito perché non più necessario e perché il suo caffè aveva uno scarsissimo mercato). Lì vicino era stata affittata una stanza che serviva da magazzino. Prima di allora la merce contenuta era relativamente poca e il locale risultava più che sufficiente. Ma ora si riusciva a stivare a fatica le merci che ci venivano consegnate mensilmente, a camion interi.
Nel giro di poco tempo Cesare dovette abbandonare il lavoro al sindacato e anche la botteghina di San Romano per dedicarsi completamente e a tempo pieno alla vendita dei dolciumi.
Nel 1957 Mario si trasferì in una nuova e più comoda abitazione che aveva anche un ampio locale a piano terreno utilizzabile sia come magazzino che come garage. Nel giro di poco tempo, poi, fu necessario affittare, sempre nel medesimo fabbricato, un secondo magazzino per contenere la quantità di merce che diventava sempre maggiore.
Cesare lavorava i primi tre giorni della settimana lungo la valle del Serchio mentre gli ultimi tre li lavorava in Lunigiana, fino ad Aulla e Terrarossa. Durante i primi tre giorni poteva far rientro a casa ogni sera, ma in Lunigiana doveva trattenersi dal venerdì alla domenica. A Monzone c’era la casa di Guido e Lisetta, disabitata perché essi abitavano a Massa, e questa fu la base dove Cesare poteva dormire. Il buon andamento delle cose avevano rialzato il morale anche a Lina e risvegliato il suo spirito combattivo e la voglia di dare il suo contributo. Così lei e Cesare cominciarono, il venerdì, a partire insieme. Il vantaggio per Cesare era evidente. Essa, che si sarebbe trattenuta a Monzone per tutti e tre i giorni, faceva trovare, la sera, il fuoco acceso e la cena calda pronta rendendo Cesare, che apprezzava molto questo contributo, ancora più determinato nel suo lavoro. La domenica mattina rientravano a Camporgiano tranquilli e sereni.
E Mario preparava il carico per la partenza del lunedì.
Purtroppo nell’aprile del 1957 accadde un brutto incidente. Mario si trovava a Gramolazzo con la Balilla a vendere dolciumi in quella zona e aveva con sé il figlio Fabrizio di neppure quattro anni. A un tratto un camion che procedeva in senso opposto perse il controllo e gli piombò addosso spingendo l’auto a ruzzolare in una breve scarpata e ruzzolando lui stesso fino a schiacciare la Balilla rovesciata, per rovesciarsi poco oltre. Per fortuna Mario , malgrado il colpo al capo che gli fratturò un seno frontale, non perse i sensi e, forzando con i piedi, riuscì ad attenuare la forte pressione dello sterzo che stava schiacciandolo. Finchè arrivarono subito dei soccorritori che, sollevando la macchina, fecero uscire Mario. Fabrizio, miracolosamente, era incolume. Mario, accompagnato da un collega, si fece sommariamente medicare e ripulire dal sangue che gli aveva inondato la faccia, poi accompagnò Fabrizio a casa ove cercò di tranquillizzare Marisa, poi andò all’ospedale dove dovrà rimanere per un po’ di tempo. Tutto sommato si può dire che il danno alle persone non fu gravissimo. Ma l’auto con tutto il suo carico andò distrutta.. Il padrone del camion, vecchio e sgangherato, era un poveraccio e non era assicurato. Così solo dopo qualche mese fu possibile ottenere qualche soldo di risarcimento. Con i quali Mario acquistò una vecchia Fiat 1100 usata.
Malgrado tutto ciò il lavoro di Cesare procedette senza intoppi e, nell’estate, Mario andava spesso con lui aiutandolo validamente.
Nel novembre del 1959, poi, Mario andò di nuovo a Torino a ritirare un nuovo furgone Fiat 600 molto più grande e comodo, ottimamente reclamizzato dal Biscottificio Maggiora e ceduto con pagamento in comode rate.
La vita di Cesare, ora, era più serena. I rapporti di Cesare con Mario e la sua famiglia erano, necessariamente, strettissimi e, spesso, Lina e Cesare erano a pranzo a casa di Mario. Ma anche Guido e la sua famiglia venivano abbastanza spesso a trascorrere brevi periodi a Camporgiano e, allora, era piacevole ritrovarsi tutti insieme a parlare delle vicende passate e anche del futuro, che appariva, ora, meno problematico.
Le cose andavano sempre meglio ma Cesare cominciava ad accusare la stanchezza per la vita così stressante. Allora fu studiata una nuova strategia di vendita: Anziché partire con la macchian sovraccarica di merce (era necessario caricare anche il portapacchi sul tetto), per effettuare la cosiddetta “tentata vendita”, Cesare partiva il lunedì e faceva tutto il giro della Valle del Serchio semplicemente prendendo le ordinazioni. Il martedì si riposava mentre Mario preparava i pacchi con le varie ordinazioni e li caricava razionalmente sul furgone. Il mercoledì Cesare effettuava le consegne. Il giovedì andava a prendere gli ordini in Lunigiana, il venerdì riposava e Mario caricava, il sabato andava per le consegne. In questo modo, molto più razionale, si lavorava di più e meglio e Cesare si stancava molto meno e aveva anche il tempo per dedicarsi alla sua vigna, al suo pollaio e al suo orto.
Ora Cesare si riforniva anche da altre ditte per avere una gamma di prodotti la più ampia possibile, ma il lavoro grosso lo faceva con il biscottificio Maggiora. Ogni mese veniva, per rifornirci, un grosso camion della ditta col rimorchio. Destavano stupore questi giganteschi rifornimenti. Naturalmente c’erano anche delle spese da sostenere e Cesare non aveva certo raggiunto la ricchezza. Tuttavia ora i suoi guadagni gli consentivano una vita tranquilla e senza le ristrettezze degli anni precedenti. Insomma: Ancora una volta il suo coraggio, la sua costanza, il suo impegno avevano avuto la meglio sulle avversità. Ancora una volta ce l’aveva fatta a risollevarsi dall’abisso di povertà in cui l’aveva ridotto la guerra perduta.
E anche Mario, pur non ricevendo denaro dall’azienda, poteva attingere liberamente dal magazzino biscotti e altri dolciumi per cui, in definitiva, anche la sua vita ne traeva beneficio. E, particolarmente, quella dei suoi figli.
Qualche tempo dopo Orsi Sirio aveva comperato una Fiat 500 giardinetta e chiese di poter lavorare con Cesare, andando a vendere nelle zone che Cesare non frequentava. Cesare gli forniva i biscotti con lo sconto del 10% (riservando per sé l’ulteriore 4%) con pagamento a merce venduta e gli consentiva di ricoverare la sua auto nel secondo magazzino. La cosa era positiva per entrambi, per cui andò avanti e si sviluppò. Tanto che Mario, ormai fortemente impegnato nella gestione del magazzino, gli cedette anche le sue zone. E più tardi, quando Cesare, la cui salute non era ottima, ebbe bisogno di maggior riposo, una settimana sì e una no gli fece fare anche la Lunigiana.
Si arrivò, così, agli anni sessanta. In
quegli anni Cesare, che molto previdentemente aveva continuato a versare volontariamente
i contributi per una pensioncina dell’I.N.P.S. cui era stato iscritto fin dal
1927 o 1928 (al tempo dei suoi primi incarichi nel sindacato), ebbe
riconosciuta l’invalidità a causa di un enfisema polmonare e di
un malridotto sistema bronchiale ed ebbe liquidata
la pensione. Poco dopo anche Lina, che,
dopo la partenza dei contadini, era stata iscritta
all’I.N.P.S. come coltivatrice diretta, ebbe liquidata
la sua pensioncina. E, questo, rappresentò la sicurezza
di un reddito fisso che, aggiunto ai guadagni del
commercio, consentì ai due coniugi di fare anche
qualche piccolo risparmio. E li rese particolarmente
sereni.
La loro vita scorreva tranquilla. Cesare era molto
meno stressato e poteva rimanere a casa per parecchi
giorni. Fabrizio andava spesso a trovare i nonni e
anche Marzia, la figlia di Guido, trascorreva spesso
dei periodi anche abbastanza lunghi alla Casetta,
specie d’estate o quando Guido era in commissione
d’esame e si trasferiva per circa un mese con la moglie nelle sedi d’esame. Questo rendeva Cesare e Lina particolarmente felici.
Comunque la vendita dei biscotti andava avanti regolarmente. Cesare, con l’aiuto di Sirio, visitava settimanalmente tutti i clienti coi quali, ormai, s’era instaurato un rapporto di stima e di amicizia. Ancora dopo molti anni è accaduto a Mario di rivedere più d’uno dei vecchi clienti e sempre questi continuavano a ricordare Cesare come una persona gentile, cordiale, disponibile e straordinariamente corretta. Accadeva sempre più spesso, però, che durante l’inverno egli si ammalasse di bronchite e dovesse fermarsi per alcuni giorni. In quei casi, mentra la Lunigiana veniva senza problemi servita da Sirio, era Mario che doveva fare il giro della Valle del Serchio. Poiché al mattino era impegnato con la scuola, doveva partire nel primissimo pomeriggio per fare affannosamente in mezza giornata, quel giro che ne richiedeva una intera. Comunque si tirava avanti, anche se Cesare cominciava a pensare: “ Fino a quando riuscirò a fare questa vita?” e Mario era sempre più preso dalla sua professione che lo impegnava anche oltre l’orario di insegnamento.
Venne il 1964. In quell’anno Mario sostenne un concorso “per merito distinto” ed ebbe un notevole avanzamento di carriera (3 anni) con un buon aumento di stipendio e un bel po’ di arretrati. Allora decise di cambiare macchina e acquistò una Fiat 500 giardinetta dando indietro la Fiat 500 vettura che aveva acquistato nel 1960.
Nel novembre dello stesso anno, poi, andò a Torino a ritirare un nuovo furgone Fiat 750 ancora più grande e funzionale del precedente. Che, però, venne tenuto e usato da Sirio quando andava in Lunigiana. La prospettiva, quindi, era di durare ancora a lungo. E, in realtà, tutto andava per il meglio: Con la nuova organizzazione delle vendite l’impegno lavorativo di Cesare era sopportabile e il suo morale era alto. Ma verso la fine del 1965 si verificò un fatto che lo scoraggiò. Accadde che vi fu una visita della Guardia di Finanza che verificò la regolarità delle entrate e delle uscite di merci dal magazzino. E, purtroppo, il risultato fu che risultarono meno le merci fatturate in uscita di quelle in entrata, con circa un milione di lire di I.G.E. non pagata. In effetti Cesare aveva difficoltà a fatturare molte delle merci in uscita perché si trattava di molti piccoli quantitativi pagati in contanti da piccoli negozianti che rifiutavano la fatturazione. Ma la cosa grave fu che egli, poco pratico della gestione amministrativa e del magazzino, di cui si occupava il figlio, frastornato da quella visita, che avvenne di mattina, quando Mario era a scuola, non mostrò il secondo magazzino che era al piano seminterrato dell’edificio e che conteneva una considerevolissima quantità di merci. Cosicchè la merce in uscita non fatturata risultò essere molta di più del reale. Il fatto avrebbe comportato anche una contravvenzione di alcuni milioni che, per fortuna, fu abbuonata da un’amnistia. Quindi, in definitiva, non restò che pagare il milione circa di I.G.E. evasa e di proseguire nell’attività. Non si trattava certo di un disastro irrimediabile..
Ma il morale di Cesare crollò. Si ritenne responsabile, almeno in parte, di quell’incidente e cominciò a pensare di vendere l’attività.
Ne parlò in giro e, dopo un po’ di tempo, si presentò un giovane di Aulla interessato all’acquisto. Le trattative andarono per le lunghe anche perché l’acquirente era incerto. Alla fine si decise e l’affare fu concluso. Egli ritirò, pagando tutto con delle cambiali, tutta la merce in magazzino e anche il nuovo furgone Fiat 750. Il furgone Fiat 600, invece, fu trattenuto da Cesare che lo utilizzò ancora per anni per i suoi spostamenti. Naturalmente anche Mario fu d’accordo sulla vendita dell’azienda. Egli si era reso conto che Cesare, ormai sessantacinquenne, aveva bisogno di riposarsi. Inoltre i suoi impegni erano aumentati essendosi iscritto alla Scuola Ortofrenica di Calambrone e dovendosi recare, più volte la settimana, a lezione a Calabrone o a Pisa. Così, dopo circa undici anni, si concludeva l’attività che aveva consentito a Cesare di risalire la china e di assicurare a sé e alla moglie una esistenza dignitosa e senza ristrettezze. Con la completa liquidazione di tutte le pendenze non rimase praticamente nulla salvo il furgone. Ma Cesare poteva contare sulla sua pensione e su quella della moglie, capaci di assicurare una vita serena e tranquilla.
Così, ormai libero da altri impegni, poté dedicarsi senza affanno ai lavoretti agricoli che lo gratificavano assai. Furono anche fatti dei lavoretti alla Casetta, per renderla più confortevole e, per diversi anni, i due vissero in pace e in buona armonia, visitati spesso dai figli e dai nipoti che amavano molto i nonni.
LA MALATTIA E LA MORTE DELLA MAMMA
Ma non furono molti anni. Nel maggio 1970 Lina, che da anni soffriva di ipertensione arteriosa, fu colpita da un ictus. Cesare ne fu sconvolto. Chiamò i vicini che provvidero a chiamare il dottore e Marisa (Mario, che nel frattempo aveva vinto il concorso di direttore didattico, lavorava a Montefiorino (Modena) e rientrava solo verso le quindici). Lina fu ricoverata per alcuni giorni e fu necessario assisterla notte e giorno. Cesare andava ogni giorno ma doveva anche accudire al numeroso bestiame (conigli e galline) per cui era terribilmente stressato.
Fu subito chiaro che Lina e Cesare non avrebbero potuto continuare a vivere alla Casetta, lontano dal paese e da tutti i servizi. Così bisognò trovare un appartamentino in affitto nel paese.
Era, inoltre, indispensabile, trovare una donna di servizio che aiutasse Cesare nelle faccende domestiche. Mario e Guido si misero alla ricerca e, trovata la donna, decisero che l’avrebbero retribuita loro, metà per ciascuno. Regalarono anche una lavatrice e una stufa a cherosene sufficiente per riscaldare il piccolo appartamento. Quando tutto fu pronto Lina lasciò l’ospedale e con Cesare si stabilì nella nuova dimora. Guido viveva lontano ma Mario abitava in paese e poteva accorrere per ogni necessità. Subito fecero installare il telefono, sia a casa di Cesare che a casa di Mario, in maniera che eventuali chiamate potessero essere fatte direttamente e velocemente. E cominciarono a trascorrere i mesi. Cesare smise l’allevamento del bestiame e abbandonò pressoché completamente anche la cura della vigna (da allora sarà Mario che ne avrà cura) per dedicarsi totalmente all’assistenza della moglie. Essa aveva perduto l’uso della parola ed aveva la parte destra paralizzata. Tuttavia, anche per le cure assidue di Cesare, recuperò l’uso della gamba e, quindi, potè uscire a passeggio al braccio del suo Cesare e potè persino tornare a far visita alla Casetta. Poteva, però, nutrirsi solo con cibi morbidi e con fatica. Tuttavia affrontò questo triste periodo della sua vita con molta rassegnazione e pazienza. Ogni tanto, malauguratamente, subiva una ricaduta, dalla quale si riprendeva con sempre maggior difficoltà. Per Cesare, che continuò a sperare in una ripresa fino all’ultimo, furono mesi di grande sofferenza, scarsamente attenuata dall’amore dei figli e dei nipoti. Per ben 21 mesi durò questa vita fatta di speranze e di abbattimenti, finchè, il 29 febbraio 1972 la lunga agonia ebbe termine.
Nessuno dei suoi figli e degli altri parenti si rese conto della incommensurabile sofferenza di Cesare. Solo leggendo le sue memorie, ritrovate molti anni dopo,se ne resero conto e ne soffrirono.
GUIDO PORTA CESARE A MASSA, A CASA SUA
Subito dopo la morte di Lina Guido decise che il padre avrebbe vissuto a Massa con lui. Ed egli, docilmente, si lasciò portare a Massa dove, verosimilmente, visse il momento del grande sconforto e della voglia di morire. Poi trovò modo di sfogare il suo dolore scrivendo un diario nel quale si rivolgeva a Lina in un colloquio ideale e la invitava a ricordare con lui i lunghi anni felici della loro unione. Cominciò a scriverlo il 14 giugno 1972. Da qualche giorno era ritornato nella casa dove si era consumata tutta la sofferenza della povera Lina e che aveva voluto tenere proprio per poterci ritornare ogni tanto o, forse, anche per sempre. E qui, rivivendo gli angosciosi giorni della dolorosa agonia di Lina, cominciò quel suo colloquio quasi quotidiano con la sua perduta compagna. E continuò a scrivere, riempiendo numerosi quaderni, fino al 25 maggio del 1973, riuscendo a rievocare, con descrizioni ricche di dettagli, tutta la storia della sua vita con Lina, da quando, nel 1918, lui diciassettenne appena tornato dall’America, l’aveva conosciuta. Moltissimi particolari di questa storia sono tratti proprio da questa sua lunga rievocazione. Vivendo in quella casa, però, i ricordi erano troppo dolorosi e per lui insopportabili. Così, dopo circa un mese, abbandonò definitivamente la casa e tornò a Massa da Guido. E continuò a scrivere il suo angosciato diario, rievocando la sua vita con Lina quasi momento per momento.
La cosa gli fece bene. Piano piano il dolore si fece meno intenso e Cesare ricominciò a vivere. A Massa ritrovò vecchi amici e ex commilitoni coi quali passava ore distensive. Riprese l’attività politica iscrivendosi al M.S.I. di Massa e, soprattutto, l’estate successiva, quella del 1973, decise che sarebbe venuto a passarla alla Casetta. E, ai primi di giugno, era a Camporgiano. Si organizzò benissimo e provvedeva da solo a tutte le sue necessità per quanto riguarda il cibo. Sapeva cucinare e mangiava di gusto quello che cucinava. Soltanto la domenica Mario lo portava a casa sua al mattino. Qui faceva un bel bagno, si cambiava e pranzavano tutti insieme. Al lavaggio della sua biancheria provvedeva Marisa, la moglie di Mario. Mario, come ho detto, aveva preso a occuparsi della Casetta, curando la vigna, l’orto e il pollaio che aveva di nuovo impiantato e che curava con l’aiuto della moglie e delle figlie e, durante la sua permanenza alla Casetta, anche di Cesare. Così quasi tutti i pomeriggi era alla Casetta e trovava il tempo per fare, col padre, delle lunghe chiacchierate. Cesare aveva preso l’abitudine di tenere una buona scorta di birra e amava, nelle ore più calde dei lunghi pomeriggi estivi, bere una birra col figlio, comodamente seduti nelle poltrone che si trovavano nel fresco ingresso della Casetta. Fu durante quei pomeriggi, mentre il padre, come sempre, narrava vicende della sua vita che Mario, ascoltandole, pensò di suggerirgli di scriverle (1) affinchè non andassero disperse. Cesare rispose un po’ vagamente che avrebbe anche potuto farlo. Ma non sembrava molto deciso. Fu dopo la morte della moglie che trovò conforto nel rievocare la sua vita con lei e scrisse a lungo, praticamente raccontando tutta la sua vita. Ma non ne parlò con nessuno. Solo dopo la sua morte Mario ha trovato i voluminosi quaderni. In quel periodo anche i nipoti venivano spesso a trovarlo e anche a cucinare per lui. A quel tempo era ancora viva la Delfina, cognata di Cesare, che abitava a Livorno, e anche lei veniva a passare l’estate alla Casetta con la figlia e la famiglia di questa. Così aveva assicurato una costante compagnia. Egli aveva ripreso interesse per le cose della vita e, con l’aiuto di Mario, fece negli anni successivi, diversi lavori alla Casetta ( nuovo grande pollaio in muratura, pavimenti all’andito, alla cucina e al salotto, gabinetto, copertura del terrazzino di accesso al gabinetto, costruzione di una grande tettoia per ricovero di materiali, ecc.) Quel 1973 si trattenne tutta l’estate e ne fu felice. Il constatare che poteva vivere da solo ne tonificò il morale e lo rese felice. Era anche molto attivo e aiutava volentieri Mario nei lavori della campagna, ricavando anche da ciò la consapevolezza di essere ancora utile. Infine pensava che, stando tre mesi alla Casetta, alleggeriva della sua presenza la famiglia di Guido. Egli, infatti, ha sempre temuto di rappresentare un peso e un fastidio per Guido, cosa che non è mai stata vera, e ha anche pensato, qualche volta, di ritirarsi in un ricovero per vecchi.
Da quell’anno, puntualmente, il primo di giugno arrivava a Camporgiano, accolto alla stazione
da Mario che, poi, lo accompagnava alla Casetta e si tratteneva felicemente fino alla fine di settembre. Ai primi di ottobre rientrava a Massa.
Passarono gli anni. Quasi ogni inverno Cesare cadeva ammalato. Un enfisema polmonare e i bronchi malandati facevano sì che ogni inverno non passasse senza che lui si buscasse la solita bronchitella. Ma col tornare della bella stagione stava meglio, l’estate tornava a trascorrerla alla Casetta e sembrava rifiorire.
In quegli anni ebbe anche la gioia di vedere
Maria, la figlia del fratello Nello e Isolina, la figlia di Corrado, nipoti che
non aveva mai conosciuto e che erano
venute dall’America per abbracciarlo. Isolina, che portava il nome della mamma
di Cesare, era figlia di quella Mary che tanto affettuosa
era stata con lui quando fu a Chicago. Essa era ancora
viva e Isolina gli parlò a lungo di lei e di quanto ancora
ricordava il “giovane uomo” di allora.
Intanto Marzia, la figlia di Guido, si era sposata e aveva
avuto Marco, il primo figlio. Cesare ora era bisnonno e
si era affezionato molto a quel bisnipotino, simpatico e
affettuoso. E anche questo fu motivo di felicità.
Arrivarono gli anni ottanta e a Cesare gli anni cominciarono
a pesare. Era consapevole della sua salute non eccellente
e sentiva che non avrebbe vissuto molto a lungo. Tuttavia aveva ancora voglia di vivere e, a ogni fine estate, prima di lasciare la Casetta faceva sempre qualche progetto per l’estate successiva, dicendo: “Quest’altr’anno, se ci sarò sempre, faremo questo lavoro” E si trattava di lavoretti alla casa o alla campagna. Era molto contento nel vedere Mario che aveva preso passione alla campagna e voleva che fosse sempre fornito dell’attrezzatura necessaria. Così, nel tempo, gli aveva regalato una decespugliatrice e anche una motosega.
Ma nel 1982 mentre era alla Casetta, Marzia stava per dare alla luce Giorgio, il suo secondo figlio e Lisetta disse a Cesare che sarebbe stata molto impegnata per aiutare la figlia per cui era necessario che lui non rientrasse a Massa e si fermasse a Camporgiano da Mario. Era, infatti, impensabile che potesse trascorrere l’inverno alla Casetta, ove l’unica fonte di riscaldamento era il caminetto in cucina.
Così, ai primi di ottobre, si trasferì a casa di Mario. Per fortuna Fabrizio si era sposato l’anno prima e aveva lasciato libero il suo letto. Che, però, non era un letto in una camera indipendente ma soltanto un divano-letto nello studio. Cesare si sistemò lì meglio che potè e cercò di adattarsi al cambiamento. La perdita dei contatti con i vecchi amici di Massa, però, lo rattristò molto. E il clima molto più freddo di Camporgiano non giovò certo alla sua salute. Inoltre lo preoccupava, come era nella sua natura, il timore di essere un fastidio per la nuova famiglia e, questo, gli impediva di essere completamente sereno. Eppure versava a Marisa, come aveva sempre fatto con Lisetta, una somma mensile che copriva abbondantemente le spese per il suo mantenimento, per cui questo avrebbe dovuto tranquillizzarlo. Comunque iniziò questa nuova fase della sua vita cercando di crearsi nuovi amici, leggendo e seguendo attentamente le vicende della politica italiana. Purtroppo Mario, con la riapertura delle scuole, era molto impegnato col suo lavoro e non aveva molto tempo da trascorrere con lui come durante l’estate.
Per aumentare la temperatura nello studio dove dormiva e dove trascorreva molte ore quando il tempo era cattivo, aveva comperato una stufetta a gas che integrava il calore del termosifone. Ma non poteva e non voleva stare sempre chiuso là dentro. E, quando usciva, trovava una temperatura ben più rigida di quella di Massa.
Così poco dopo il Natale trascorso felicemente, si ammalò di bronchite e dovette rimanere in casa febbricitante per alcuni giorni. Però riuscì a superarla e riprese anche ad uscire per andare al bar a scambiare quattro chiacchiere con i nuovi amici.
Qualche tempo dopo, però, ed eravamo ormai oltre la metà di febbraio, cominciò a soffrire di una grave forma di stitichezza. Dopo diversi giorni temette addirittura un blocco intestinale e consultò il medico, che gli prescrisse un forte purgante.
Il mattino dopo il purgante ebbe un effetto disastroso. I suoi disturbi emorroidari avevano ridotto la sua sensibilità nella zona anale e, forse, ridotto la capacità di controllo degli sfinteri, per cui si sporcò e sporcò anche il bagno. Ne fu sconvolto. Cercò di pulire tutto meglio che poté ma, infine, angosciato, lo disse a Marisa. Ella cercò in ogni modo di tranquillizzarlo e, alla fine, sembrò calmarsi. Ma il suo morale ne fu distrutto. E, probabilmente, anche il suo cuore, già affaticato per l’enfisema, ne ebbe danno.
Passarono pochi giorni. Un mattino Mario, ritornando dal lavoro per il pranzo notò che Cesare aveva un tono di voce diverso dal solito, la voce era più cavernosa, come quando i bronchi gli si coprivano di catarro. Preoccupato chiese al padre se gli stava tornando la bronchite. Ma Cesare disse di no, che stava bene. Pranzarono, poi Mario dovette assentarsi di nuovo. La sera a cena Mario notò che la voce era sempre più cavernosa del solito e lo fece notare al padre che, però, confermò di non avere problemi ai bronchi. Anche il giorno successivo la voce continuava ad essere cavernosa, ma Cesare continuava a dire di sentirsi bene.
Dopo cena Cesare usava sedersi su una poltroncina vicino al caminetto e guardare la televisione. Anche quella sera lo fece, e Mario si sedette al suo fianco.
Insieme a tutto il resto della famiglia seguirono i programmi della serata. A un certo punto, però, Mario notò che il padre muoveva il capo come per eliminare un qualche tipo di fastidio e ne chiese la ragione. Cesare, allora, disse che sentiva un fastidio alla nuca, come se qualcuno lo tirasse all’indietro. Non sembrava nulla di grave, tuttavia Mario chiamò subito il medico.
Questi venne sollecitamente come sempre e lo visitò lasciandolo seduto in poltrona. Quando ebbe finito disse che il cuore era un po’ stanco e questo determinava una leggera ischemia. Gli fece un’iniezione per tonificare il cuore e consigliò riposo. Cesare parve tranquillizzato e lasciò finire la serata seduto nella sua poltroncina.
Quando si alzò per andare a letto, però, si accorse che camminava con difficoltà e, giunto all’inizio della scala, non riuscì a sollevare i piedi per salirla. Allora Mario lo prese in braccio (era leggerissimo) e lo portò di sopra. Lo accompagnò in bagno e qui Cesare manifestò una certa mancanza di equilibrio e, soprattutto, non riuscì ad orinare. Non insistè troppo e andò a coricarsi. Non lamentava nessun disturbo particolare e si mise a letto.
Anche Marisa e Mario si erano coricati ma nutrivano una certa preoccupazione e dormivano, come si suol dire, con un occhio aperto.
Verso l’una sentirono dei rumori nella camera di Cesare e subito accorsero temendo si sentisse male. Lo trovarono in piedi che cercava di vestirsi. Gli chiesero cosa era successo. Lui rispondeva che non era successo nulla ma continuava a vestirsi.
“ Ma papà, è l’una di notte, perché ti vuoi vestire ? “ insisteva Mario. Ma Cesare dava risposte evasive e continuava a vestirsi. Alla fine, all’insistente domanda di Mario e Marisa sul perché volesse alzarsi, mostrò il letto bagnato. Non avendo potuto orinare la sera, si era addormentato e, senza accorgersene, aveva orinato a letto. La sua umiliazione era troppo grande per cui Marisa e Mario sdrammatizzarono la cosa, dissero che era un inconveniente da nulla, Marisa sistemò il letto e, alla fine, Cesare si convinse a coricarsi di nuovo. Ma dopo qualche tempo si udirono ancora dei rumori, e di nuovo Mario e la moglie accorsero. Lo trovarono che aveva messo i piedi giù dal letto e cercava, senza riuscirci, di mettersi a sedere per poi prendere il vaso da notte che era stato posto sotto il letto per evitargli di dover andare nel bagno. Lo aiutarono a farlo, dopo di che si mise ancora a dormire.
Il mattino dopo era la domenica 27 febbraio e Mario, appena sveglio, andò in camera del padre e lo trovò profondamente addormentato. Sembrava dormire serenamente per cui evitò di svegliarlo. Ma alle dieci passate dormiva ancora e, allora, Mario tentò di svegliarlo affinchè potesse far colazione. Ma per quanti tentativi facesse, Cesare non si svegliava. Allora cominciò a preoccuparsi e telefonò al dottor Gabriello Angelini. Ma questi era fuori sede. Attese ancora un po’ poi chiamò il proprio medico dottor Domenico Mazzei, che venne subito. Mario gli spiegò la situazione e lo condusse in camera. Appena il dottore fu vicino al letto Cesare si svegliò e osservò i presenti con qualche stupore. Il dottore si rivolse a lui e gli chiese se lo riconosceva, al che Cesare rispose con accentuato stupore: “ Certo, è il dottor Mazzei”. Seguì una breve visita che non rilevò nulla più di quanto rilevato la sera avanti, dopo di che il dottore se ne andò.
Cesare, però, rimase a letto senza manifestare la voglia di alzarsi. Ma era sereno e , addirittura, allegro. Pranzò in camera mangiando normalmente e trascorse la giornata chiacchierando con Mario e anche con Guido che, avvertito, era venuto a trovarlo. Le sera cenò di buon appetito, sempre mostrandosi allegro e sereno. Mario, però, notò una leggerissima difficoltà a pronunciare certi suoni. Ma non disse nulla. Più tardi, dopo aver usato il “pappagallo” per orinare, raccontò la storia di un suo vecchio amico che, durante il servizio militare fu ricoverato in ospedale e, come sempre raccontò in seguito, fu stupito da un infermiere che, gridando per la corsia, urlava “ Pappagaudo numero uno”. Aveva, infatti, una curiosa pronuncia della “elle” per cui pronunciava così la parola “pappagallo”.
Mario gli chiese più volte come si sentiva e, sempre, Cesare rispondeva “Bene” con tanta convinzione, come uno che, dopo una brutta malattia, si sente rinascere.
Mario, però, ebbe la netta sensazione che egli fosse ben consapevole della fine vicina e la accettasse senza timore e senza dolore. Ormai convinto di essere un peso e un fastidio per gli altri, desiderava andarsene a raggiungere la sua Lina diletta. E questo pensiero, lungi dall’addolorarlo o dallo spaventarlo, lo rendeva addirittura allegro.
Quella notte Mario portò una poltrona nella camera di Cesare e rimase lì tutta la notte, appisolandosi di tanto in tanto ma, sostanzialmente, vegliando. Non era tranquillo.
Cesare dormì tutta la notte senza agitarsi. Ogni tanto alzava un braccio sopra la testa e rimaneva così per qualche tempo. Poi lo ridistendeva sopra le coperte. Il respiro era normale ma forse leggermente affannoso.
All’alba si alzò Marisa e Mario andò a distendersi un po’ sul letto. Dormì forse un paio d’ore.
Quando si svegliò udì il respiro di suo padre e gli parve rumoroso e ancora un po’ più affannoso. Ma a un tratto, mentre lo stava ascoltando, improvvisamente il respiro si fece lentissimo e profondo, come il respiro che si trae dopo essere stati per un po’ in apnea. Mario si alzò e andò al capezzale del padre. Sembrava disteso e tranquillo, ma il respiro continuava ad essere lentissimo e profondo. Provò a svegliarlo ma non ci riuscì. Più tardi venne il medico, constatò che non aveva più orinato e gli applicò una flebo. Poi gli fece delle iniezioni per sostenere il cuore ma si mostrò poco ottimista.
Passarono le ore. Venne l’ora di pranzo e si tentò ancora di svegliarlo ma senza successo. Ormai le speranze si affievolivano. Dopo pranzo Mario tornò presso il padre e non si mosse più.
Osservava quel padre che si stava spegnendo e si affollavano alla sua mente mille ricordi degli anni passati. A un tratto ricordò che la nonna Mariù, quando sentì che la sua ora era giunta, chiese a Cesare che l’assisteva di reggergli la mano.
Allora prese quella mano scarna e la tenne stretta mentre i respiri si facevano sempre più lenti e profondi. Verso la metà del pomeriggio ci fu un respiro ancora più profondo. E fu l’ultimo.
Erano le 16 di lunedì del 28 febbraio 1983.
NOTE
(1) Mario, all’epoca, descrisse così quel momento:
“” C'era come un'attesa nell'aria. La calura estiva si affacciava alla porta della Casetta col suo alito denso e affannoso, pero` nell'ingresso si stava bene. L'ombra del “bersò” di bosso che si protendeva fin quasi alla porta faceva fresco.
Eravamo comodamente seduti nelle grandi poltrone di paglia intrecciata, io e mio padre. La paglia lasciava circolare l'aria e anche questo faceva fresco. Si stava bene.
E' c'era questa attesa nell'aria.
Mio padre aveva appena finito di raccontare un episodio di tanto tempo fa, di quando era giovane, prima della guerra quindici-diciotto, quando nel paese non si era ancora mai vista un'automobile.
Ed io immaginavo nitidamente la piazza, le strade, le persone del racconto appena udito. Le immaginavo con tanta chiarezza perche` i racconti di mio padre erano sempre ricchissimi di particolari, precisi, circostanziati.
E altri particolari, anche minuti, mio padre mi avrebbe fornito quando io glieli avessi chiesti, perche` aveva una memoria sicura di quei fatti lontani, di quel mondo passato, di quelle persone.
Aveva questo modo un po' pignolo di raccontare le cose, mio padre, ed anche quando ripeteva il racconto di un evento gia' piu' volte raccontato, il suo modo era sempre quello , non tralasciava mai nessun dettaglio, era sempre preciso, completo.
Ricordo che la mamma ridacchiava di questo suo raccontare cosi` meticoloso e ripetuto, e spesso lo prendeva bonariamente in giro.
Io, invece, non ho mai provato fastidio ad ascoltare i suoi racconti, anche quando li ascoltavo per l'ennesima volta, sempre ugualmente precisi, dettagliati, rifiniti con tutti i particolari.
Anzi, provavo sempre un grande piacere nell'ascoltarli, perche`sempre, ogni volta, riuscivo a immaginare con estrema nitidezza, gli scenari del racconto.
Era come ammirare un quadro. Un quadro, infatti, puo` essere guardato piu` volte, puo` essere gustato ripetutamente, senza noia.
Ed ora avrei fatto delle domande, lo facevo sempre, e mio padre mi avrebbe dato delle risposte, e lo avrebbe fatto volentieri perche` sentiva che ero veramente interessato a questi racconti molte volte sentiti e ogni volta ammirati, come un quadro.
Ed ogni risposta mi avrebbe consentito di mettere meglio a fuoco un dettaglio qualsiasi, un particolare qualunque di questo mio quadro.
Il babbo stava sicuramente aspettando le mie domande, e sono sicuro che anche lui aveva, come me, davanti agli occhi il quadro , lo scenario del racconto, e lo esaminava attentamente preparandosi a rispondere.
E cosi` c'era quest'aria di attesa.
Una lucertola fece una rapida comparsa sulla soglia, poi saetto` via, ma non fece rumore.
Niente faceva rumore. In quel caldo primo pomeriggio estivo tutto taceva, tutta la campagna riarsa che si intravedeva attraverso la porta spalancata era silenziosa, come addormentata.
Ed io mi preparavo a fare delle domande, con quel quadro davanti agli occhi, con quella nitida immagine di un passato che aveva preceduto la mia nascita ma che io, me ne stavo rendendo conto in quel momento, sentivo mio. Si , effettivamente quel passato mi apparteneva, era come se lo avessi vissuto, era veramente mio.
Provai un grande benessere, mi sembro` molto bello quello che stavo provando, sentivo che in qualche modo, con l'appropriarmi dei ricordi di mio padre, avevo prolungato all'indietro la mia vita, come se fossi nato molto tempo prima.
Ed ora avrei fatto delle domande, e mi sarei appropriato di altri ricordi, e avrei arricchito ancora di piu' di ricordi questa mia vita precedente.
Voltai lentamente il capo e guardai mio padre. Era immobile ,il suo viso scarno era sereno e disteso. Aveva appoggiato il capo alla spalliera della poltrona e guardava fuori, davanti a se`. I suoi capelli candidi tagliati corti , alla tedesca diceva lui, erano ben pettinati. Indossava una camicia chiara, con i polsini slacciati e le maniche leggermente rimboccate. Appoggiava le mani, con tutto l'avambraccio, sui lunghi braccioli di legno della poltrona.
Guardai il suo capo. Quante memorie, quanti episodi vissuti o uditi o letti erano racchiusi in quella testa ? Quanti dettagli , quanti minuti particolari di tutti quegli episodi potevano da lui essere evocati ?
E a me bastava fare, come di consueto, qualche domanda, per ottenere informazioni su informazioni.
Mi resi conto acutamente di quanto questa fonte di informazione fosse importante per me, di quanto fosse stata importante per legarmi cosi` saldamente a quel passato che ora sentivo tanto mio e che certamente aveva contribuito a fare di me quello che ero e che sono.
Era, per me, la fonte del passato, alla quale potevo continuamente attingere per sapere cio` che era quando io non ero , per sapere dove affondavano le mie radici , per conoscere sempre di piu` mio padre, per conoscere sempre di piu` me stesso.
Ma nello stesso tempo, e altrettanto acutamente, mi resi conto che prima o poi questa fonte si sarebbe esaurita e provai smarrimento e quasi orrore al pensiero che di tutta quella enorme quantita` di conoscenze racchiuse in quel capo che stavo guardando, prima o poi non sarebbe rimasto assolutamente niente.
Ora provavo un gran dolore al pensiero che mio padre sarebbe un giorno morto, ma sentivo anche questo senso di smarrimento causato dalla consapevolezza che , allora, non avrei piu` potuto avere risposte, che, allora, lui non avrebbe piu` potuto fornirmi informazioni di nessun genere, che, allora, non avrei piu` potuto
contare sui ricordi suoi, ma mi sarei trovato solo con i miei ricordi.
Che, in quel momento, mi sembrarono terribilmemte pochi.
Immerso in questi pensieri continuavo a tacere, quando mio padre volse il capo verso di me.
Allora ebbi paura che potesse leggere i miei tristi pensieri e parlai.
- Papa` - dissi - perche` non provi a scrivere tutti questi tuoi ricordi, via via che ti affiorano alla memoria ? -
L'avevo chiamato "papa`" , come sempre quando mi rivolgevo a lui.
Anche quando parlavo di lui con la mamma, lui era il papa`. Mio fratello, invece, lo ha sempre chiamato "babbo", e quando noi parlavamo di lui, lui era il babbo anche per me.
- Eh - rispose - potrei anche farlo.- E mentre parlava sorrideva un po' mestamente, almeno cosi` mi parve. Forse aveva intercettato il filo dei miei pensieri e anche lui aveva pensato alla sua morte.
Subito dopo parlammo d'altro , ma il giorno dopo gli portai un grosso quaderno e una penna nuova. “”