I GIOCHI DI UNA VOLTA

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Eravamo piccoli bambini di un paese sperduto tra le montagne (ancora privo di strada di collegamento alla città, di luce elettrica e di acqua corrente nelle abitazioni).

Si andava a scuola, perché i nostri genitori, contadini nel sangue, con sacrifici enormi ci avevano obbligato ad andare (non erano i carabinieri a costringerci, l’obbligo era solo fino alla quinta elementare) ma la necessità ed il fine obbligato per evadere dal paese, e appunto la scuola e lo studio era l’unico scopo per poterlo fare, noi non dovevamo rimanere contadini, vita troppo dura quella vissuta dai nostri genitori, dovevamo studiare e trovare un’occupazione (magari un impiego pubblico), che ci avrebbe dato un avvenire migliore di quello delle nostre famiglie di origine.

Giustamente la scuola ci impegnava troppo poco tempo della nostra giornata, e tra un "surbizzu e n’atru", trovavamo come impegnare l’abbondante rimanenza del tempo a nostra disposizione. La televisione arrivò nel 1956 in un bar così piccolo ed angusto che per vedere le avventure di Rin Tin Tin ci stringevamo fino all’inverosimile, e chi era fortunato riusciva a stare seduto, gli altri in piedi, chi trasversalmente, chi in asse al televisore, piazzato su una finestra nella parte alta del locale, tante volte con effetto neve e strisce orizzontali e verticali dovute alla cattiva ricezione delle onde, dall’antenna posta in un terrazzo distante anche più di 50 metri.

Ebbene le nostre lunghe giornate, lunghe per i nostri genitori che ci vedevano solo la sera, passavano a giocare, a giocare sulla terra, in mezzo al fango, in piazza Municipio, allora divisa in due dal Torrente Jovani, collegata dal ponticello, passaggio obbligato la domenica all’uscita della messa delle undici delle ragazze che abitavano nella zona Sud del paese, ed ottimo punto di osservazione e lancio di occhiate fugaci, rubate alla gente che non doveva capire o indovinare i nostri innamoramenti.

Dunque i giochi erano tanti, nell’immagine solo quattro sono illustrati, tre esercitati da noi maschietti ed uno dalle femminucce, ma erano tanti e se la memoria non mi inganna si chiamavano:

"Mazza e pirigghu" – "Arco e freccia" – "A fionda" – " U carè" – "A corda" – "I rumbuli" – "I buttuni" – " cciappi" – " I brigghia" – "U circulu" – "Papagilormu" – "Peppi venatindi" – "Scarrica canali" – "A mmucciari" – "A cchiappari"– "U carru armatu", poi con il tempo ad alcuni arrivò la prima "Bricichetta", e la modernità ed il benessere fecero dimenticare i giochi sani e schietti, ma tante volte sporchi di polvere e fango di una volta.

"Mazza e pirigghu": gli attrezzi erano due, di legno, più o meno dritti e privi di nodi (l’evoluzione degli attrezzi avvenne quando comparvero nelle case le prime scope di saggina, i cui manici dritti e lisci erano il non plus ultra della maneggevolezza e della modernità), la cui sottrazione alle nostre mamme determinava rimproveri per aver rovinato una bella scopa che puliva u sularu o la terra battuta dei pavimenti delle nostre povere ma linde case. Uno della lunghezza di circa 20-25 cm. con le estremità appuntite in modo da avere un innalzamento da terra di circa due centimetri (U pirigghu), l’atra la mazza della lunghezza di circa 60-70 cm.. Il gioco era individuale o a squadre, si tracciava una riga a terra, col mazza stessa più o meno della sua lunghezza, era la casa, si "jittava u toccu" per chi doveva cominciare il gioco, si appoggiava u pirigghu sulla testa da una delle due punte e si lasciava cadere davanti a propri piedi, poi con la mazza si batteva con violenza sulla punta nella direzione opposta a quella della riga e poi mentre questo rimbalzava si colpiva a volo per farlo allontanare il più possibile dalla riga, i colpi ammessi di solito erano due, e c’erano alcuni ragazzi talmente bravi che dopo il primo o il secondo colpo, mentre ancora u pirigghu era in aria mollavano la seconda botta al volo per allontanarlo ancora di più (delle volte si raggiungevano distanze di 50 e molti più metri). La squadra che era "sutta", una volta che u pirigghu si fermava, raccolto lo stesso a turno i componenti della squadra, uno alla volta dovevano lanciarlo verso la mazza posta sulla riga tracciata per terra e se la colpiva prendeva il gioco, se invece non si riusciva la squadra avversaria con lo stesso procedimento di battitura lo allontanava il più possibile dalla riga e dopo il numero di colpi stabilito si misurava la distanza con la mazza, trenta, quaranta, cento e più mazzate questi rappresentavano il monte punti accumulati. Tantissime volte il monte era di mille mazzate e naturalmente il gioco durava ore ed ore. Vinceva la squadra che per prima raggiungeva il monte delle mille mazzate. Capitava che in Piazza Municipio, qualche vetro, che dico il vetro delle finestre del Municipio forse il solo che esisteva nelle imposte delle case dei dintorni, delle volte andava in frantumi tra un fuggi fuggi generale ed intervento della forza dell’"Ordine Pubblico", la Guardia Municipale Don Emanuele, che con cipiglio e serietà faceva finta di annotare sulla scatola dei fiammiferi il nome del colpevole.

"Arco e freccia": Nelle nostre case arrivarono anche i primi ombrelli parapioggia di tela nera che non volevano proprio saperne di parare la pioggia, e si che una volta pioveva. L’idea venne vedendo il telefilm "Penna di Falco" il sabato pomeriggio alla TV dei ragazzi. Qualcuno di noi di ingegno acuto ebbe l’idea di costruire arco e freccia con i ferri che sostenevano la tela degli ombrelli. Si utilizzava quello più lungo per l’arco a cui veniva legato dello spago alle due estremità, provviste di piccoli buchi per fissare con due punti di filo la tela allo scheletro dell’ombrello, si utilizzavano gli stessi per passare dentro il filo e bloccarlo teso abbastanza da fare arcuare il ferro, quello più corto che serviva a fissare lo scheletro a quel cilindretto scorrevole sul manico di legno dell’ombrello, era la freccia, la si appuntiva molandolo sui muri, e si scatenava la caccia a lucertole e uccelletti di vario genere. Poi il gioco divenne anche pericoloso le frecce delle volte andavano a conficcarsi su qualche gamba o gluteo di qualche malcapitato compagno di gioco, e, coscienziosamente si giocava solo a tiro al bersaglio a punti.

"A fionda": Una forcina di legno, due elastici neri (fortunato ritrovamento di qualche camera d’aria), un pezzo di tomaia di cuoio e dei legacci di spago. Si legavano le estremità degli elastici da una parte alle punte delle forcine e dall’altra al pezzo di tomaia, a cui erano praticate delle leggere fessure "i cchetti"per far scorre dentro l’elastico, in modo da formare una scarcella delle dimensioni di circa sei centimetri per quattro, il posto della munizione prima di essere scagliata stirando gli elastici facendo leva e forza sulla forcina e sulla scarcella, le munizioni erano pietruzze più o meno rotonde della grandezza di circa una nocciola. Le nostre tasche erano talmente piene e pesanti che "i bunachi" spuntavano sempre al di sotto dei nostri pantaloni rigorosamente corti anche nel pieno dell’inverno. La fionda si usava per andare a caccia di lucertole, e di uccelli di piccola taglia e come per l’arco anche per tiri di precisione a bersagli mobili o fissi.

"U carè": (Il campanaro), gioco esclusivamente femminile era il divertimento principale delle ragazzine. Si tracciavano per terra, sempre la terra polverosa e fangosa, con una pietra appuntita delle caselle così come nell’immagine in intestazione alla pagina, poi a turno, determinato dall’immancabile "toccu" singolarmente o a squadre, si lanciava all’indietro una pietra piatta "u ‘Ndocciu", delle dimensioni di 4x5 circa, con le spalle rivolte al carè cercando di farla atterrare in una delle caselle dello stesso che poi si andava a raccogliere saltellando su una gamba casella per casella ad esclusione di quella momentaneamente casa du "ndocciu", facendo attenzione di non toccare le righe o di non appoggiare l’altro piede a terra, se no si andava "sutta". Completate correttamente le caselle si ripeteva lo stesso lancio e si conquistava la casella dove si fermava la pietra lanciata, e, come segno si tracciava una grossa X contrassegno dell’una ed un O come contrassegno dell’altra squadra. Vinceva la squadra che riusciva a conquistare la maggioranza delle caselle, cioè quattro su sette. Le difficoltà sopraggiungevano quando erano conquistate le caselle di inizio da una squadra e pertanto all’altra non era consentito appoggiare sul piede di proprietà avversaria. C’erano delle bambine bravissime, capaci di a fare salti anche di tre caselle ed allungarsi in equilibrio precario ma elegante su di esse per recuperare "u ndocciu". In alcune occasioni, specie durante le ricreazioni scolastiche, anche noi maschietti non disdegnavamo a cimentarci in competizione con le femminucce.

"A corda": anche questo gioco, prettamente femminile era uno dei passatempi preferiti. Consisteva nel saltare una corta fatta roteare in aria da due ragazze. Si formavano le squadre che prendevano il nome dai frutti più comuni, come ad esempio: < pera, arancia, fragola, mandarino, limone, ecc. tanti frutti per quanti erano i partecipanti al gioco che poteva essere individuale o a squadre. Con l’immancabile "toccu" si determinava l’ordine di ingresso al gioco, e mentre le due ragazze facevano roteare la corda, a turno i partecipanti saltavano su un piede mentre la stessa doveva sfilare di sotto senza ostacoli al ritmico e cantilenante recitare del rosario fruttifero: pera, arancia, fragola, mandarino, limone. Il concorrente perdeva il turno e veniva momentaneamente messo in disparte se inciampava sulla corda, o, se non riusciva ad effettuare il salto della stessa ed il nome del frutto su cui inciampava dava il turno al prossimo concorrente. Ricordo ancora, quando da bambino, seduto sul terrazzo antistante la mia abitazione sentivo la cantilena del gioco provenire dalla Torre, dove c’era una scuola la cui maestra era la Signora Cognetta, oppure quando, ormai scolaro anch’io, " ‘ndo spaziu" davanti l’abitazione del Segretario, sede di un’altra scuola partecipavo a questo gioco insieme agli altri miei due compagni di scuola: Mimmo Spizzica il figlio di compare Sarbu du re del Serro e Vincenzo Cozzucoli, detto u Jocculu, dal soprannome del Padre, unici tre maschi di un’intera classe femminile.

"I rumbuli": Tra tutti i giochi dell’infanzia questo forse era il più piacevole ed esclusivo dei ragazzi. "I rumbuli", cioè le trottole, erano costruite in legno massiccio, di solito legno duro, per offrire una resistenza ai colpi ed agli eventuali "cuzzi" ( spiegherò dopo di che si tratta) da sopportare una volta persala partita. Dunque erano fatte in legno, la maggior parte di noi, dopo insistenti piagnistei riuscivano a convincere il papà a costruirle e meglio se di legno di pero selvatico, "u pirainu", a forma di cono rovesciato, con alla base un mezzo chiodo rovesciato, dalla punta rivolta verso l’esterno ed arrotondata in modo che non facesse fossa sul terreno, che serviva da perno su cui giravano, lisce oppure con delle striature a forma di vite senza fine partendo dal vertice rovesciato – il chiodo – fino a tre quarti di altezza. Per farle roteare vorticosamente sul terreno si attorcigliava un pezzo di spago, "a lazza", di circa un metro o poco più a seconda della loro grandezza o grossezza, poi si passava una delle due estremità dello spago, munita di un piccolo legnetto che serviva da fermo all’interno del dito anulare e medio della mano, poi la si lanciava in aria in modo che "la lazza" si srotolasse velocemente dando un movimento circolare che una volta toccata terra, per la forza centripeta esercitata sul chiodo, a rumbula continuasse a roteare per qualche tempo. Come di solito era a squadre o si giocava singolarmente a turno. Si tracciavano sul terreno due linee parallele distanti tra di loro circa sette-dieci metri, per determinare l’ordine di gioco e chi doveva andare sotto si tracciava un cerchio e a turno si lanciavano i rumbuli, a partire da quelle che atterravano vicino al centro si stabiliva il turno, la più lontana era momentaneamente quella che era sotto. Il gioco consisteva nel fare roteare i rumbuli, prenderle in mano, facendo in modo che la rotazione continuasse il più possibile, poi le si faceva sbattere su quella sutta spingendola da una linea all’altra, che non riusciva a far roteare abbastanza a rumbula e colpire l’altra finchè questa era viva (cioè finchè il moto rotatorio continuava), si definiva morta e prendeva il posto sutta. Di norma bisognava fare almeno cinquanta volte ("i passati") tra le linee tracciate sul terreno. Perdeva a rumbula, che alla conclusione delle passate, si trovava sutta e doveva pagare sopportando "i cuzzi" anche ‘nchiuvati ca petra" che i vincitori a turno a segno di spregio infliggevano a chi perdeva. "I cuzzi" si davano appoggiando il chiodo da rumbula vincitrice sulla sommità di quella che perdeva e per dare più forza si batteva su di essa con una pietra. I risultati a volte erano devastanti, i chiodi creavano dei buchi e gallerie sul legno, e se questo non era abbastanza duro, aprivano letteralmente in due a rumbula sutta distruggendola con conseguente pianto per avere avuto il giocattolo rotto dello sfortunato proprietario. Per lanciare i rumbuli c’erano due modi: il primo a suttamanu, il secondo a ccorpu. A seconda del modo di lancio utilizzato si doveva caricare la lazza in modo diverso. A suttamanu lo spago si teneva fisso verso l’alto della rumbula con un dito e poi cominciando dal chiodo la si avvolgeva verso l’alto, un modo da principianti che consentiva una rotazione abbastanza breve con rischio e poricolo di farla morire prima di colpire l’altra.

A ccorpu lo spago veniva tenuto fisso alla punta del chiodo, lo si faceva passare dalla parte superiore della rumbula e giunto di nuovo al chiodo si arrotolava verso l’alto. Per stringere di più a lazza e farla aderire alla rumbula spesso la si insalivava in particolare nel primo tratto di circa 30 centimetri. Ricordo che c’erano dei ragazzi così capaci che mai le loro "rumbule" subivano l’onta dei cuzzi, ed altri ancora che già nel lancio stesso colpivano la rumbula sutta, e rarissime volte, ma è capitato, il colpo era talmente violento che la rumbula sutta colpita dal quel proiettile roteante si spacca i due e più pezzi tra l’ilarità e del malcontento dei presenti, l’ilarità perché si distruggeva in sol colpo il giocattolo dell’avversario a terra, e malcontento perché si finiva il turno di gioco e doveva cominciarne un altro. Il tempo così trascorreva per ore ed ore lontano dai pericoli veri e propri. C’era ancora una particolarità nelle rumbule, se queste roteando incontravano filo, erba o lanuggine di vario genere lo arrotolavano al chiodo si definivano ladre, se non sbaglio, era causato dalla squilibratura delle stesse e dal chiodo troppo appuntito, e da bravi maestri si provvedeva ad equilibrarle…. Come?, sfilando il chiodo dal suo alloggiamento ed inserendo una piccola quantità di sterco di asina alla sua base rimettendo tutto al suo posto dopo una doverosa stretta per fissare il chiodo per bene al legno. Altra importanza rivestiva la qualità dello spago con cui si faceva la lazza, meglio se questo era dello steso tipo della lenza o del filo a piombo dei muratori. Ricordo infine personalmente di avere avuto una bella "caddiata" da mio fratello più grande, perché avevo scoperto e consumato in pochi giorni, un gomitolo regalato a mio padre da suo fratello dell’America, di autentico e fine "rumaneddhu", utilizzato da me o venduto a lire cinque a lazzata ai compagni di giochi.

"I Buttuni": Erano i nostri spiccioli, e come tutti gli altri un gioco di terra. Si costruiva sul terreno una piccola buca profonda circa 5 cm. e larga circa 10, ad una certa distanza da questa si lanciava a turno in aria un pugno di bottoni, solitamente di diversa forma, colore e grandezza, appartenenti ai diversi giocatori, ed una volta sparsi sul terreno, si cominciava a spingerli verso la fossa con colpi ("i zziccardati") dati con il dito medio appoggiato sul pollice che faceva da fulcro alla leva che si veniva a creare. Di solito per rendere difficile e lungo il gioco era una sola zziccardata da dare ad ogni bottone, che diveniva di proprietà se dopo il colpo andava a finire dentro la buca, si perdeva il turno se non si riusciva con le zziccardate stabilite a farli entrare nella buca. Il turno era determinato come al solito dal sempre presente "toccu". Spesso per mancanza di materia prima si strappavano i bottoni delle camicie o dei panatloni, e se la fortuna ci aiutava si faceva "razza" vincendo, e le nostre tasche "bunache" erano talmente piene da provocare un tintinnio ad ogni passo che si faceva. Era ben guardato colui che camminando provocava un ticchettio o tintinnio continuo, segno che era un ricco proprietario di bottoni.

"I cciappi": Nella nostra fanciullezza non esisteva la Panini di Modena con le sue figurine. Fortunatamente la Ferrero di Alba, magari per incentivare il consumo di formaggini, sulla carta esterna che li avvolgeva erano incollate delle figurine ("i cacci") di forma triangolare, poi rettangolare e poi di forma circolare addirittura metalliche, raffiguranti uccelli, animali, alberi e poi verso l’inizio degli anni sessanta calciatori ( le figurine rotonde e metalliche ). Le si raccoglievano, ma ancora non esistevano gli album su cui incollarle, raggiunto un certo numero (da cinquecento a mille), quando passava il rivenditore le si consegnavano e si aveva diritto al premio, un pallone N° 3 completo di allacciatore, che ci veniva consegnato al successivo giro di vendite, almeno dopo tre mesi di attesa e speranza di essere il proprietario di un pallone N° 3 completo di allacciatore". Con i doppioni, spesso merce di scambio con gli altri collezionisti, si giocava e "cciappi", sempre gioco di terra. Utilizzando una pietra piatta ("u re") e di piccolo spessore delle dimensioni di 4x5 cm. appoggiata a terra sul lato più lungo, si ponevano dietro le figurine messe l’una sull’altra e da una certa distanza si lanciavano contro il re delle pietre piatte, meglio se pezzi mattonelle in disuso, fortunato chi riusciva a trovarle, facendole atterrare in prossimità del re che percorrendo l’ultimo tratto scivolando sulla terra andavano a sbattere contro facendolo cadere in modo da sparpagliare sul terreno le figurine di cui era la protezione. Le figurine che si trovavano più vicine alla cciappa lanciata e più lontane dal re divenivano di proprietà. Il turno di lancio era determinato dal toccu. Con il passare degli anni le figurine vennero sostituite dalle monetine da cinque e dieci lire e si diventava ricchi quando magari si raggiungeva il gruzzolo cospicuo di cento lire. Il tintinnio ovattato (perché sporche di fango) di queste nelle nostre tasche era, come per i bottoni, segno di ricchezza e di rispetto dei nostri coetanei meno fortunati.

"I Brigghia": I birilli, a dire il vero questo era uno gioco che si faceva una volta raggiunta l’età di almeno dieci/dodici anni, era di diritto un gioco di adulti che, a posto delle figurine o delle cinque lire mettevano le cinquanta o le cento lire, un capitale non alla portata di noi ragazzini. Sul re, o birillo mastro si ponevano in colonna le monete, una, due o un numero superiore per ogni giocatore a seconda delle regole stabilite prima dell’inizio del gioco, poi a turno da una distanza molto ampia, delle volte anche 20 metri, ogni giocatore lanciava il proprio birillo contro il re cercando di farlo cadere e spargere sul terreno le monete, che divenivano di proprietà se più vicine al proprio attrezzo che si lasciava sul terreno fino a quando ricominciavano il turno di gioco. Succedeva anche, che il giocatore maldestro che non riusciva a colpire il re, ma che colpito dal o dai giocatori seguenti spargeva le monete in prossimità del suo birillo e pertanto ne diveniva proprietario (il cosiddetto "culu"), e alla fine del gioco era diventato se non il più ricco almeno uno dei vincitori. C’erano alcuni giocatori adulti che erano talmente bravi che a primo colpo, con scivolata del birillo sul terreno andava a colpire il re con una botta ben assestata mandandalo molto lontano, e le monete cadevano nel raggio massimo di un metro dal proprio birillo, che diventavano tutte o quasi tutte di sua proprietà, generando commenti di ammirazione da parte di chi assisteva al gioco e maledizioni velate da parte degli altri concorrenti. Ricordo che tra i migliori giocatori adulti Sarbu Billari, Paolu Scaramuzzino soprannominato "Calenda" e Cumpari Vicenzu Musulinu du Ruvulu.

"U Circulu". Si andava alla ricerca continua di cerchi di ferro dello spessore di un cm. circa, meglio se saldato alle estremità della circonferenza, in mancanza i meno fortunati si accontentavano dei cerchi delle botti di lamiera ("raietta") di scarsa qualità con le etremità sovrapposte e fermate da punti metallici sporgenti, causa di ‘mpuntamenti ad ogni giro del circolo sulla martellina. La martellina era di filo di ferro usato per stendere i panni o ferro da 5 liscio senza zigrinature lunga circa 50 cm. con una estremita ricuva ad U e piegata ad angolo retto verso l’asse lungo, si spingeva "u circulu" con essa e si percorrevano strade, viottoli, scale, muri parapetti senza farlo cadere e continuamente in rotazione, si facevano le corse di velocità o percorsi di destrezza con ostacoli di vario genere che aumentavano le difficoltà. Per spingere il cerchio si utilizzava la martellina in due modi, a ruota libera o a manu d’intra.

A mano libera si spingeva solamente e non si poteva frenare o rallentare la corsa del "circulu", riuscendo con difficoltà a fare manovre di "lavota", cioè inversione di marcia, passaggi stretti, superamento di ostacoli o scalini.

A manu d’indtra era molto più facile, si faceva passare la martellina verso l’interno del "circulu" e roteandola di circa 180 gradi verso l’esterno la parte ricurva ad U bloccava il "circulu" alla martellina consentendo una maneggevole spinta e scorrevolezza dello stesso. Consentiva frenate anche brusche, facili manovre su curve strette e nelle discese teneva il "circulu" sempre vincolato alla martellina. Normalmente le gare erano di velocità, ma anche di destrezza sul greto delle fiumare saltando "timpe" o sui muri a difesa dei torrenti al centro del paese, della larghezza di appena 50 cm. ed una altezza sul piano stradale da un lato di circa un metro e di svariati metri sul lato del torrente. Era tanto assiduo e frequente il gioco del "circulu" che l’artrito tra lo stesso e la martellina, per il continuo uso, generava un piccolo solco sulla curvatura ad U che nel giro massimo di quindici giorni ne consumava il ferro spezzandolo. Non ricordo mai cadute di qualcuno sul lato più alto, ma verso il piano stradale erano molto frequenti, con sbucciature ed ammaccature alle ginocchia e sangue che colava fino a quando per tamponare le ferite e facilitare la coagulazione veloce dello stesso ci buttavamo sopra polvere o fango, non avendo tutti "u maccatureddhu" per fasciarle e coprirle. Per avere un "circulu" perfetto di circonferenza e spessore e addirittura elettrosaldato, non ebbi paura a disfare con pinza e tenaglia un braciere di rame nuovissimo, dato in dote alla mia povera mamma dalla nonna materna e tenuto conservato gelosamente nel magazzino di casa, per darlo poi in dote ad una delle mie sorelle.

"Papagilormu": Era una specie di palla prigioniera e palla liberata senza palla. Mi spiego meglio non c’era nessuna palla, a toccu si determinava chi doveva fare il "Papagilormu" che era proprietario di un pezzo di terreno delimitato da una linea semicircolare che chiudeva di solito verso un muro o ostacolo fisso non superabile, all’interno dei questo terreno "u papagilormu" aveva libertà di correre a difesa di prigionieri che catturava nelle sortite della proprietà con un semplice tocco di fazzoletto sulla persona inseguita. La difficoltà per lo stesso consisteva nel fatto che all’esterno della sua casa doveva procedere saltellando a "zoppa a zoppa" su una gamba, mentre all’interno della stessa aveva la facoltà di correre su tutte e due le gambe. I giocatori con sortite improvvise tentavano di violare la casa entrando dentro i suoi confini e liberavano con un tocco i prigionieri lì custoditi, prestando la massima attenzione a non farsi toccare dal "papagilormu", diventando essi stessi prigionieri. Se il papagilormu, nelle sue sortite "zoppa zoppa", malauguratamente si stancava, al grido di "a ritirata" su tutte e due le gambe, che determinava la fine della caccia, rientrava nella sua casa e se nel tragitto veniva raggiunto dai giocatori erano mazzate, tumpuluni e scorci i coddhu che buscava per esser venuto meno all’obbligo del "zoppa a zoppa". Esso poteva nominare tra i prigionieri delle persone di fiducia che chiamava suoi figli con il nome degli stessi, che demandava nelle uscite a caccia di altri prigionieri. Al grido di "nesci u papagilormu cu tutti i so figghi, c’era un fuggi generale perché (come si dice l’unione fa la forza), più alto era il numero dei figli più facilmente si diventava prigionieri. Al contrario, quando la sortita era del solo "papagilormu" e di uno o di pochi dei suoi figli era più facile sottrarsi alla cattura ed al momento della "ritirata" dare più scappellotti, spintoni e botte da "orbi".

"Peppi venatindi": Gioco molto simile a quello di "cchiappari e mmucciari" combinati insieme. La mamma cioè colui che era sutta, contava di solito fino a trenta e trentuno appoggiato ad un palo o ad un muro, mentre gli altri si nascondevano. Quando si raggiungevano nascondigli sicuri si dava l’inizio al grido di "peppi venatindi", cioè si autorizzava chi era sutta ad iniziare la ricerca di chi si nascondeva. Questi di corsa, sempre di corsa scovava i partecipanti al gioco e bloccatili li faceva suoi prigionieri fino a quando l’ultimo veniva bloccato, naturalmente, come il "papagilormu" c’era una prigione dove portava i suoi ostaggi, che, se non ricordo male, non potevano essere liberati. Era un gioco di resistenza e fiato da parte di "peppi venatindi" che a turno rincorreva tutti gli altri, il campo di gioco non aveva limiti e si svolgeva per tutte le stradine del paese, poco illuminate. Era un gioco che di norma si faceva nelle sere d’inverno forse perché le trafelate corse di noi ragazzi servivano a tenerci caldi, non esistevano infatti né giubotti di piuma d’oca, né cappotti, ma maglioni di lana che si comprava dal pecoraio filata e tessuta ai ferri dalle nostre mamme e nonne. Ricordo le nostre facce sempre rosse per il freddo ed il moccolo penzolante dai nostri nasi quando, nella frenetica corsa del gioco, non si riusciva nemmeno a "zzucari u nasu" o a sfregarlo sul dorso delle maniche all’altezza dei polsini per asciugarlo.

"Scarrica canali": Anche questo era un gioco che impegnava il nostro tempo libero, e si che ne avevamo di tempo libero nella nostra infanzia, "i surbizza" li facevamo di rado, "i lizioni" di scuola non ne parliamo. L’importante era trascorrere il tempo, ed in ozio non poltrivamo quasi mai. Dunque questo gioco di norma era praticato in luoghi coperti, specie nelle giornate piovose o quando nevicava, una volta nevicava ed anche tanto, serviva anche per riscaldarci. Le squadre erano due, una andava "sutta" e l’altra comandava il gioco. I giocatori che andavano sutta, 4 o 5, si appoggiavano al bordo di un muro uno dietro l’altro con il capo chino e la schiena incurvata in avanti in modo da formare una lunga schiena d’asino, gli altri giocatori, prenendo una breve rincorsa, appoggiando le mani sulla schiena dell’ultimo della fila per avere maggiore slancio, andavano ad atterrare a cavalcioni sulle schiene di quelle che erano sutta. Succedeva che sulla schiena di un solo ragazzo trovavano posizione delle volte anche di due, con sofferenza e sopportazione per il peso. I giocatori che si trovavano a cavalcioni sulle schiene degli altri non dovevano assolutamente appoggiare i piedi a terra se non andavo sutta a loro volta. Il gioco si ripeteva per periodo anche abbastanza lunghi. Mi ricordo che ci si accaniva in modo particolare con coloro con cui al momento non correva buon sangue, e si faceva in modo di caricarli di peso, in modo che dopo, per la fatica sopportata "pisciavunu u lettu", un modo per spiegare la spossatezza di coloro che durante tutta una partita facevano sempre da soma.

"A mmucciari": In italiano a nascondino. C’era sempre u toccu che decideva chi andava sutta, che con la faccia appoggiata ad un palo, un bordo di muro, cioè la casa del gioco, per non vedere dove gli altri andavano a nascondersi. Doveva contare fino a trentuno prima di mettersi alla ricerca di coloro che si erano nascosti, che una volta scovati venivano momentaneamente esclusi dal gioco. Se chi era sutta riusciva con ordine a trovare tutti i giocatori, il primo ad essere visto doveva fare lui u sutta. Era consentito ai giocatori salvarsi toccando la casa senza essere visto, oppure raggiungendola prima du sutta. L’ultimo rimasto in gioco aveva l’opportunità di salvare tutti i giocatori. Risuona ancora nelle mie orecchie la cantinelante conta: uno, due, tre …….. trenta e trentunu cu si mmucciau mmucciau, sinnò non si mmuccia cchiù, oppure l’urtimu sarba a tutti.

"A cchiappari": Sempre il solito unu era sutta che doveva, delle volte correndo a perdifiato, acchiappare gli altri uno alla volta, chia era cchiappatu doveva fermarsi sul posto, in attesa di qualcuno di coloro che ancora erano liberi per essere liberati. Il gioco finiva quando tutti erano presi e ricomnciava subito dopo un altro e a fare u sutta era il primo che era stato acchiappato. D’inverno era piacevole dopo poche corse sentirsi accaldati dalla testa ai piedi, ma in estate le sudate, e che sudate, per poi recarsi ad una delle poche fontane pubbliche esistenti, dissetarsi, magari spingendoci tra di noi, e poi bagnarsi la testa per rinfrescarsi. A pensarci bene, tutti questi giochi di gruppo avevano la caratteristica comune del correre, correre per non farsi prendere. Probabilmente che li aveva pensati per prima aveva scoperto il modo più sano per tenersi caldi in inverno e per tenere il fisico sempre in movimento il corpo. Poi l’appetito non mancava, con grande soddisfazione dei nostri genitori che ci vedevano mangiare volentieri: fascioli chi cavuli con dentro carchi pezzu i saliprisa e pani cottu, cordi i saddizzu e suppizzati, furmaggiu pecurinu, fica e castagni ‘nfurnati, ecc., ecc.

"U carru armatu": Chi ha avuto la fortuna di avere dei cuscinetti a sfera (per l’esattezza 3) ed un papà disponibile aveva costruito il suo " carru armatu ". Fatto con una tavola di circa 70 cm. di lunghezza e 30 cm. di larghezza, un asse posteriore di legno dello spessore del cuscinetto a sfera, un buco centrale nella parte anteriore attraverso il quale con una forcella di legno ed un’asse trasversale, lo sterzo, era collegata a alla ruota anteriore. Era una specie di Skate board a tre ruote, ma non si andava in piedi, ma bensì sdraiati sulla pancia e giù per le discese terrose. Ma succedeva che la terra intasava i cuscinetti poco lubrificati e bloccava il loro rotolamento, ed allora si andava tutti in piazza davanti alla chiessa, allora l’unico spazio disponibile in cemento. Oppure dietro l’esempio di qualche temerario sui muri che facevano da argine al torrente Jovani, in precario equilibrio con il pericolo di cadere al di là sul greto del torrente. E’ anche successo a qualcuno con qualche ammaccatura e null’altro, il greto del torrente era di terra e perfino pulito. Si andava da soli, in due o anche in tre, e spesso il terzo quando la velocità rallentava doveva spingere per riacquistare " furienza ".

Poi incominciò ad arrivare anche in paese il benessere, e si poteva vederlo. Comparvero le prime biciclette, prima appannaggio dei figli di papà, con tromba ( pli-plò) a fiato oltre i campanello, con delle stringhe in plastica colorata che pendevano dai lati del manubrio. Era un’infanzia innocente, non c’erano invidie, il figlio di papà giocava con il figlio del proletario, tutto nella normalità di un mondo semplice e privo di catticeria. Forse la cattiveria che esisteva in noi era solo una forma di vendetta contro coloro che ci stavano antipatici, non si rivolgeva la parola, o tutt’al più ci si faceva qualche piccolo dispetto.

Poi siamo cresciuti, i nostri genitori ci hanno mandato a scuola, siamo usciti dal paese, abbiamo trovato una sistemazione, ci siamo creati una famiglia, e a Fossato i giochi di una volta, forse sono rimasti un lontano ricordo nella nostra mente. Le generazioni di giovani che sono venuti dopo di noi, hanno avuto i motorini, le vespe, le macchine, il portafoglio pieno, il loro è diventato un divertimento solitario, si parte, si va in giro, si consuma benzina e … non ci si diverte. E’ il benessere ! ! !