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Si raccolgono ancora pere nelle nostre campagne? Occorrerebbe dire ai bambini che le pere crescono sugli alberi, senza le cassette di legno, che sono divorate dagli uccelli, che cadono e imputridiscono in terra, che…

Bisognerebbe raccontare, se ancora ascoltano. Non solo di sacrifici e pene, ma anche fatti come questo.

LA PIRARA PORCINA

Quando il vecchio mi chiese una sera di qualche estate fa la disponibilità per l'indomani mattina a dargli una mano a raccogliere le pere, mi vennero in mente tutte le volte che da bambino mi aveva trascinato per le campagne e costretto a quel lavoro.

Nella nostra famiglia la coltivazione delle pere è stata un'attività che si tramandava da generazioni, forse più antica di quella delle olive, ed era mito il nonno capace di far fronte alla spedizione in alt'Italia di due vagoni alla settimana, quando mio padre e i suoi quattro fratelli erano ancora in casa, docile manodopera gratuita del patriarca. A loro volta i fratelli, ereditata terra e mentalità, continuarono l'opera, ma, per il mutare dei tempi e delle condizioni, non riuscirono mai, se non sotto costrizione e saltuariamente, a soggiogare a quel lavoro i figli che tralignarono abbandonando la campagna, la famiglia e lo stesso paese.

Col passare degli anni la produzione di pere divenne via via sempre più irrisoria e l'affinamento dei gusti del mercato, indirizzato verso prodotti più selezionati ed esteticamente più curati di altre zone, fece scomparire la domanda fino a far dimenticare persino il nome delle diverse varietà locali: messinesi, porcine, pitirene, sanamalati, papali, lisciandrune e tante altre. Ora solo uno zio, mio padre e qualche altro vecchio si ostinavano ad arrampicarsi sulle sparute piante rimaste a raccogliere stenti frutti che Pecoromascolo, il fruttivendolo, caricava sull'Ape a prezzo di rapina.

Quella sera la richiesta del vecchio era ammantata di cortesia e, pur lasciando in apparenza margini per un'eventuale diniego, nascondeva tra le pieghe dell'ironia, con l'accortezza di chi vuole obbedienza anche se sa di aver perso l'autorità del comando, il sottile ricatto che impone risposta affermativa. E non dissi di no quando chiese - a puro titolo di favore, beninteso! - se casomai avessi avuto voglia di dargli una mano a raccogliere pere, sempre che lo sforzo non costituisse un attentato alla sacralità del mio meritato periodo di ferie al paese. Certo che l'avrei fatto, ma solo per vederlo contento, come quando quella stessa mattina avevo millantato di essere andato per le campagne a verificare le pietre di limite dei nostri fondi.

Non era più l'ordine perentorio rivolto al bambino addormentato nel tepore dei lenzuoli verso l'alba, quando più dolce è il sonno e il brusco risveglio uccide ogni voglia di resistenza. Allora si partiva con il mulo e le còfane vuote mentre continuavo a dormire sulla groppa dell'animale lasciandomi cullare dall'andatura, avvinghiato alla schiena misericordiosa di mio padre, offerta a sostegno della testa ciondolante. Lo scalpiccio dei ferri sui sassi arrivava ovattato all'orecchio e si tramutava in lievi tonfi quando sentivo l'odore della polvere dei viottoli non ancora smossa da altri passi. Mi svegliava in cima alla collina il respiro fresco della montagna che alitava intermittente portando lievi aromi di resina e di origano addolciti dalla fragranza mattutina delle pere sugli alberi che costeggiavano la strada. In fondo, oltre il mare, Mongibello lontano. Tinto di rosa, era sospeso sul mare, col pennacchio di fumo che seguiva lento il corso dei venti. Dallo spartiacque cretoso che domina due fiumare argentate appariva a oriente, nel lucore delle stoppie attenuato dall'aurora, il mammellone di San Lorenzo. Oltre ancora galleggiavano le marine della Calabria greca e si fondevano con l'azzurro slavato del cielo dentro la cornice dei campi di terra rossa dell'Aspromonte e del cono in ombra di Monte Scarrone maestoso.

Si scendeva accosto ad anfratti giù per la nostra campagna e sotto gli alberi sonnolenti si smontava. Il lavoro iniziava senza una parola che non fosse secco comando, mio padre in alto sulle piante e io in attesa che scendesse a rovesciare le pere nella còfana. Il sole sorto obliquo dietro le colline bruciava come vampa e le mosche cavalline contendevano a sciami di vespe i frutti maturi spiaccicati per terra. Preso in mezzo, premevo sul gonfiore delle punture l'impiastro di nepitella con il ferro della falce e, sempre attento a scansare le pere che cadevano dall'alto, le infilavo indolente con le mani attaccaticce di sugo in un vecchio sacco di juta.

Per ore continuava lenta la raccolta, fino a oltre mezzogiorno quando da un pezzo tutti erano stati stanati dal calore. Noi si stava a scuocere sotto gli alberi e a nulla valeva la mia invocazione piagnucolosa di smettere per quel giorno ché avevo fame e sete, invitando mio padre a seguire l'esempio di quelli che sentivamo passare sulla strada in cima al crestone. Invariabilmente la risposta era che per la fame e per la sete le pere costituivano il miglior rimedio possibile. Quanto agli altri, tornassero pure a casa prima di essere partiti e con le còfane piene ad un terzo. In casa nostra - questa la filosofia imperante, concetto etico della serie: un sacco deve pesare ottanta chili, di settantanove diventa un gioco - non ci potevamo permettere di trastullarci con l'asino. Noi lavoravamo e con un mulo che non aveva bisogno di cianciàne. Anzi, il valore della gente si misurava proprio dal peso dei ferri della cavalcatura: ognuno di quelli del nostro mulo pesava mezzo chilo!

Questi ricordi evocavo come sogno amaro di intere estati passate prima a scacciare i passeri dal grano battendo con un randello sulle latte, poi a trebbiare sull'aia con le vacche in tondo e quindi il doloroso capitolo delle pere che durava da giugno a settembre. E sempre ombra indolente di un padre muto, suo prolungamento recalcitrante, da addomesticare col tempo come lupino nell'acqua, da indurire alle fatiche come cuoio battuto, da raddrizzare come alberello che ha bisogno di palo.

Ma ero Pecos Bill in groppa a Turbine al galoppo per le praterie, sul basto all'ombra dell'olivo; o Akim, re di una jungla senza liane, in mezzo alle robinie della Forestale, con la vacca Fiorella diventata elefante senza proboscide e mio padre, ignaro, feroce cacciatore di pigmei. Improvviso rimbombava però l'imperioso richiamo dall'alto:

- Vieni a raccogliere le pere!

Né molceva la calura del giorno fatto la luminosità delle piante e il profumo acre della nepitella rigogliosa sotto i muri a secco, né la freschezza delle felci sulle pere delle còfane, né il delicato esalare dell'elisàntemo, pianta cara al sole.

Quella sera dopo cena ricordi sbiaditi dagli anni mi passavano davanti e svanivano assorbiti dal fumo della sigaretta mentre, con mezzo sorriso sulle labbra, osservavo mio padre sprofondato sulla sdraio, con un cuscino sformato sotto la schiena, nella stanza annerita dal fumo della stufa. La berretta calata sugli occhi, dormiva con le grosse mani incrociate, a piedi distesi e accavallati. Le dita deformate dall'artrite reggevano mollemente la pipa spenta. Dormiva abbandonato a bocca aperta il mio vecchio che non si rassegnava a tirare i remi in barca.

Tempo fa, mi avevano detto, era caduto da una pianta per la rottura della ginestra con cui aveva legato due scale troppo corte: cinque punti di sutura al ginocchio.

S'era raccomandato:

- Per carità, non dite niente ai miei figli!

Alla sua età, ottanta passati da un pezzo, doveva ancora raccogliere le pere! Bene, saremmo andati con lui a dargli una mano.

L'indomani sul presto ero sceso in cucina, dove mi aspettavo il vecchio in attesa. Sul fornello spento avevo trovato la caffettiera preparata, ma di lui, già partito senza chiamarmi, l'unica traccia era rappresentata dal biglietto lasciato in bella vista sul tavolo e vergato con la sua calligrafia obliqua e spigolosa.

"Se decideti per quella facenda sono reperibbili in contrada Cropazza, pirara porcina."

Forse stanco di aspettarmi, usando il riguardo di non svegliarmi, era andato avanti con la vecchia Rénault. Mi toccava raggiungerlo a piedi per le antiche scorciatoie. Tanta delicatezza in mio padre, tuttavia, sapeva di strano. Vero era che di solito si alzava prestissimo, ma nonostante ce la mettesse tutta, il fracasso della vecchia sveglia, il rumoroso sbattere di porte, i sospiri nell'infilarsi le scarpe, operazione che svolgeva sulla rampa di scale a lato della camera dove dormivo, e la travagliata discesa scalino dopo scalino verso la cucina, avrebbero svegliato tutto il quartiere, ancorché fosse stato abitato da sordi.

Quella mattina si era levato prima del solito per via del turno settimanale dell'acqua. Nel sonno mi era sembrato di averlo sentito litigare a voce alta per qualche manciata di minuti contestati. Questi vecchi hanno così connaturato il senso della proprietà che vengono a parole, per fortuna non alle mani, per un nonnulla. Il mio è mio e guai a chi me lo tocca. Non è tanto importante irrigare le povere coltivazioni dell'orto, quanto farlo utilizzando tutta l'acqua che hanno a disposizione. Sono principi intoccabili di un ordinamento morale atavico al quale non vogliono e non possono derogare. Questo attaccamento è vita e forse litigano per convincersi di continuare a stare al mondo nella pienezza di tutte le loro prerogative, non accettando minimamente il decadimento fisico dovuto all'età.

Con un berretto in testa mi avviai lungo la strada che porta in campagna. Dopo aver percorso per un tratto in salita l'asfalto che costeggia le ultime case, imboccai il sentiero in terra battuta che si inoltra nella valletta sotto il cimitero. Una vecchia quercia con i suoi rami nasconde sul lato destro l'imbocco che a sinistra si allarga come un braccio disteso verso la fiumara. Man mano che mi addentravo lungo il viottolo scavato da passi secolari tra due muri a secco, la valletta si restringeva fino a diventare stretto letto ghiaioso di torrente, sul quale le cime dei castagni e delle querce si piegavano ad arco come modellate dal continuo passaggio di uomini e bestie.

Mi inerpicai per il sentiero che sale zigzagando per il dorso della collina. Salivo stancamente in mezzo alla polvere del viottolo e di tanto in tanto mi giravo verso la vallata per riprendere fiato e per osservare, di faccia sull'altro versante, i marmi del cimitero che biancheggiavano nel buio diradante.

Il cimitero era diventato con gli anni il paese vero, luogo deputato di antichi ricordi. E tra questi il più tenue andava ai vecchi patriarchi, frantumati dalla memoria e sbiaditi come i ritratti delle lapidi. Autorità inappellabili che pontificavano seduti all'ultima occhiata di sole, il volto arso come calcare, spigolosi, giunti a un tramonto senza speranza. In fila come pali di recinto, uguali come i giorni di marzo, grandi vecchi che se ne erano andati senza rumore, lentamente come acqua evaporata sul marmo, come rena inghiottita dal vento.

Arrivato in cima, nonostante il fiatone, accesi la prima sigaretta e seduto su un masso sporgente, accosto alla carcassa di un'auto bruciata, tornai a rivedere dopo molti anni, nel paesaggio che si stendeva sotto di me a perdita d'occhio, il sussulto come agitarsi marino delle ginestre al vento. Su questo crestone che divide netto le due valli, una aperta come un ventaglio, l'altra chiusa e stretta nella morsa della fiumara, il vento non si ferma mai e si rincorre scompigliando i rami degli alberi, radi in cima alle colline come solitari vecchi artritici. Il vento precipita dall'altopiano portando i primi colori del giorno che si rompono sul viso e le pupille si rimpiccioliscono ad abbracciare l'orizzonte netto in controluce. Il suo suono non si trasforma mai in ululati e lamenti, è imperioso ed intermittente, con lunghe studiate pause, e si infrange su antiche arenarie e sulla corteccia di tronchi secolari. Il vento in queste vallate accarezza con mano robusta i contorni dei burroni, descrive la geometria degli spuntoni, avvicina punti lontani, ravviva i colori, gioca come un bambino innamorato delle sue cose. Giù nelle fiumare, rettili biancobaluginanti, si contorce, rimbalza, si imbizzarrisce come un mulo all'abbeverata che si rotola nella polvere, si rialza con impeto selvaggio, si sdraia con prudenza e di colpo ritorna in piedi.

Mi apparve davanti agli occhi velati il bambino che fui sulle scorciatoie arroventate dal sole di un giorno solitario, carico di un sacco di pere, per non appesantire troppo il mulo che tornava per la fiumara con mio padre. Un ricordo che alitava respiro affannoso.

Steccati di rovi e sporte consunte dei frantoi delimitano orti riarsi in fondo alla fiumara, giallo mare di bruciato immobile sotto la palla incandescente del sole. Mosche e tafani sul collo, aria che respiro a strappi, morso d'arsura. Il rubino, illusione d'ombra smagliata, canta la monotona canzone dei fruscii.

Fumo cinereo di incendi lontani, sparso per i costoni, vampe di calore denso, sudore lacrimoso di salmastro. Il sugo delle pere peste dentro il sacco cola sul collo e giù nella polvere sporca d'escrementi in buchi umidicci di piscio ribollito. Estate d'erba!

Montagne di gramigna secca sotto querce e il respiro lento degli ulivi. Mosche, mosche, mosche e cicale nascoste tra i rami. Note di insonnia, sistole e diastole, nell'arroventata strada dell'aria.

Dorme il lontano paese, dorme la campagna con sparsi casolari diroccati, dormono le lontane case di calcina, dormono le bestie soffocate dalla calura, dorme lo stradale in lontananza.

Non dormo e mi trascino a passi lenti per la salita farinosa con la tortura dei peli del sacco sulle carni. Non apro l'occhio bruciato dal sale, non mi fermo all'assalto delle mosche cavalline, non mollo. Maledetto sugo di pera che le attira, maledetto sole e maledetto vento che non spira! Almeno avessi un mazzo di foglie di castagno a ricreare le spalle martoriate. Anche delle spine del rubino porterei il peso. Ma il sacco no. Il sacco morde come corde strofinanti, come dente di cane arrabbiato.

Oh, il contadino incrociato sul sentiero mi desse in cambio la sua strada fatta per la mia!

In un angusto slargo della strada che in leggera salita raggiunge il crinale, con il davanti rivolto verso di me, la vecchia Rénault bianca sembrava di vedetta sulle robinie della Forestale che il sole, spuntato dietro la collina di San Colmo, cominciava a lambire.

La bocca si asciugava in fretta e la lingua si incollava al palato in quei primi giorni di agosto. Il sole era rovente fin dal primo mattino e come un enorme rogo di ginestre bruciava le campagne. Lo sentivo saettare sulla pelle come mille aghi incandescenti e a mala pena facendo solecchio con la mano sulla fronte riuscivo a porre schermo alla luce abbagliante. Era agosto, con le campagne abbandonate come deserti, con le pere che marcivano sugli alberi, le bestie atterrite dal calore, un oceano di arso di foglie ed erba. Il rado verde, immerso nel seccume, era l'unica boccata d'aria per gli occhi.

Dall'alto vidi in quel deserto mio padre affaccendarsi tra gli alberi, poi lento sistemare la scala sui rami di un pero e salire con un sacco arrotolato che con lo stecco di legno aveva assicurato alla cinghia dei calzoni. In testa portava un fazzoletto con quattro nodi. Indossava una camicia nera stinta dal sole che risaltava sulla luminosità della pianta.

La nostra campagna era in forte declivio e quei pochi peri rimasti, che nessuno aveva mai potato, punteggiavano di verde-giallo la distesa degli ulivi. Il vecchio in cima alla pianta era come un solitario eroe che irriducibile continua la lotta quando tutti si sono arresi.

- Capitano! - chiamai dall'alto.

- Ai vostri comandi!

Scesi giù per il viottolo che si stendeva come un serpente di polvere in mezzo all'erba secca e, arrivato sotto la pirara porcina, vidi che poche cose erano cambiate in tanti anni: non c'era più il mulo e le còfane erano state sostituite dalla cassette di legno. Due di queste, riparate all'ombra di un ulivo, erano piene di pere stente e macchiate. La scala era ben piantata nel terreno argilloso, ma in continuazione traballava per il precario appoggio sulle cime dei rami.

- Buongiorno e buoncicresca!

- Buona venuta a voi, cavaliere! Siete arrivato? Perché non andate a portare le cassette piene alla macchina che intanto finisco questo ramo?

Fu dura risalire il viottolo appena disceso con gli spigoli della cassetta che mordevano le carni e quando ritornai giù il vecchio era ancora sull'albero e con fatica tentava di raccogliere le poche pere rimaste sulle cime.

- Fai attenzione a non cadere. - gli dissi - Sono pirare vecchie e i rami si spezzano con facilità.

- Non cado, io!

Credendo che stessi preparando il terreno per salire al suo posto, cosa in realtà vera, la risposta assunse un carattere duro e pieno di sarcasmo.

E subito dopo:

- Piuttosto di stare a badare a me, vai portare l'altra cassetta.

Con mala grazia mi caricai del fardello e ripresi la salita. Stavolta avevo messo un sacco vuoto a protezione della spalla. Arrivato col fiatone sulla strada, feci cadere pesantemente la cassetta su un mucchio di terriccio. Le carni non abituate erano striate di rosso. Asciugandomi il sudore con un lembo della camicia mi sporsi sul bordo della strada. Lontano oltre la fiumara inargentata si vedevano i riverberi delle automobili che contro sole affrontavano le curve dello stradale. In basso mio padre continuava lento il lavoro di raccolta, la cui monotonia era rotta dal leggero schianto di qualche rametto, seguito dalla bonaria imprecazione:

- Malanova, a te e a tutte le pirare !

Guardavo il vecchio e consideravo che non ne valeva proprio la pena di stare a raccogliere quelle pere che non lo ripagavano nemmeno delle spese per la benzina. Ma su quella pianta rappresentava l'ultimo baluardo frapposto all'abbandono delle campagne e delle colture. Sotto quel sole si rovinava la vita per non venir meno al suo ruolo di ultimo paladino di un mondo al tramonto e di cui si rifiutava di accettare la fine.

Ridiscesi e, appoggiando le mani alla scala, dissi:

- Pa', scendi che salgo io e in quattro botte finiamo.

- Lana, lana! Ti ho detto: raccogli le pere per terra, se hai voglia, che a queste ci penso io.

- Se ci vedesse la gente, tu vecchio d'ottant'anni sull'albero ed io, grande e grosso, a terra a inghiottire mosche, che figura ci faremmo?

- Che figura e figura? A te la gente fotte e pensa!

A questa risposta con decisione scossi la scala per rafforzare la richiesta.

- Andiamo! Scendete, prima che perda la pazienza.

- Le cassette le hai portate alla macchina?

- Come avete comandato. Ora giù!

- Senti una cosa: comincia a raccogliere le pere per terra.

- O pa', è un lavoro che potresti fare tu senza stare in cima alla pianta come un equilibrista. Non è più cosa per uno della tua età, che cadi come l'altra volta.

- Ah! Ti hanno fatto relazione gli amici?

- Lo hanno fatto per il tuo bene. Ora scendi.

- Scendo, scendo, e le pere chi le raccoglie? A ognuno il mestiere che conosce. Le pere vanno raccolte con calma e metodo: la pratica fa maestro.

- Va bene, professore delle pere. Ora scendete dalla scala.

- Guarda, guarda. Anche le pulci hanno la tosse!

Diedi un deciso strattone alla scala, ma non tanto vigoroso per non rischiare di buttarlo giù. Si avvinghiò ai pioli e per un momento restò immobile. Poi, quando ebbe soppesato le parole, sbottò:

- Ora basta, santodià! Al mondo ognuno ha il suo posto. E' una vita che faccio il mio lavoro e, all'occorrenza, comandando altri. Ora vieni tu a dirmi: alzati di qua e vai là. Se tu avessi voluto veramente raccogliere le pere, avresti dovuto alzarti per tempo e non presentarti in campagna a quest'ora. Ma voi siete stati abituati agli agi e non potete affrontare i sacrifici di questa vita.

- Cosa c'entra? Ma guarda tu, mio padre si rovina la poca salute sull'albero, per quattro pere fradice, e io sotto in contemplazione degli equilibrismi di un vecchio che a stento riesce a stare in piedi?

- Questo non è un circo equestre. Se proprio fosse necessario scenderei. Non mi diverto qua sopra all'aria fina. Ora ti lascio salire e, per la tua furia di finire, è capace che ti dirupi e ti devo portare anche sulle spalle! E poi a me non mi comanda nessuno, manco il Padreterno, tanto meno mio figlio!

Era evidente come il sole che non mi avrebbe fatto salire. Tanto valeva abbozzare masticando amaro. Mi misi a raccogliere le pere per terra in silenzio. Ecco svelato, mi dicevo, il mistero della delicatezza paterna di quella mattina. Dovevo arrivare a opera quasi ultimata esclusivamente per sottomettermi, solo per il necessario lavoro di facchinaggio, di cui volentieri mi sarei anche fatto carico. Ma se anche mi fossi svegliato all'alba, non avrebbe in nessun modo abdicato al suo ruolo. E mi aveva trascinato in campagna, dove si sentiva signore incontrastato! Gli anni, per quanto lo riguardava, erano trascorsi senza lasciare traccia: lui, il padre che dispone e comanda e in cambio si addossa la responsabilità del lavoro; io, il figlio, in cambio dovevo sottostare alla sovranità paterna e in silenzio obbedire come un incapace.

Accosto al muro a secco, dove una volta avremmo collocato il basto del mulo, vidi un sacco vuoto e sul sacco un’ascia. Lasciai le pere e con furia la afferrai.

- Pa', scendi!

Non era una richiesta, era un ordine. Non rispose.

Improvviso partì il primo colpo di sbieco che fece volare in aria la corteccia del tronco.

- Cosa stai facendo? - domandò allarmato in cima alla scala.

Un altro colpo vibrato orizzontalmente.

- Scendi, ho detto.

Ma sei innimalito?

Il terzo colpo non si fece attendere. Poi il quarto ed il quinto, mentre l'acciaio dell’ascia penetrava in profondità nel legno vivo. I colpi si susseguivano veloci, obliqui dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto. Sentii alle mie spalle la scala vibrare concitatamente. Il vecchio stava scendendo a precipizio.

I colpi continuavano senza requie e l'ascia mordeva il cuore del fusto facendo schizzare per aria scaglie rosate di legno.

- Fermati, incosciente! Guarda, guarda cosa devono vedere i miei occhi! Figlioli, figlioli, che mi deve imbattere!

Vistomi deciso e fuori da ogni grazia di Dio, con le mani penzoloni mi guardava impotente mentre continuavo l'opera.

- Tu sei carne che non si cuoce. Cosa devo raccontare ai cristiani? Non gabbo, né meraviglia! Che figlio che mi capitò! Chi legno storto!

Sempre in silenzio e senza degnarlo di considerazione andavo avanti. Per una diecina di minuti li colpi continuarono a rimbombare nella vallata, fin quando la pirara non diede segni di cedimento. A quel punto con la coda dell'occhio vidi il vecchio che si rialzava da terra dove si era seduto in preda allo sconforto e di corsa afferrava la scala perché non cadesse a rovina sotto la pianta.

Con un prolungato stridio di schianto la pirara si piegò obliquo e cadde sollevando polvere e facendo schizzare in aria i rami infranti.

Le mani mi facevano male, anche i polsi e le spalle.

- Ora che facciamo? - disse il vecchio sconsolato.

- Facciamo come gli antichi che si prendevano il culo a manate! - risposi a muso duro guardandolo dritto negli occhi. - Raccogliti le tue maledette pere. Ora puoi farlo comodamente da terra.