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L’OLIO DI PASCALAZZO

Il fatto avvenne al tempo in cui i lavori della strada carrozzabile arrancavano sulle falde e sui costoni che rinserravano le fiumare. Era allora arduo raggiungere il paese, sdraiato come un serpente alla confluenza di tre fiumi di pietra. Chi non se la sentiva di affrontare quattro ore di cammino scavalcando i Campi dell’Aspromonte, aveva la possibilità di raggiungere a mezzo di corriera il paese più a valle e da lì risalire la fiumara: d’inverno a piedi per provvisori guadi; d’estate con il Dodge a tre assi, residuato bellico arrangiato con quattro panche a trasporto passeggeri, che secondo i personali orari del guidatore si avventurava sfiatato per il greto di ghiaie.

I mezzi di trasporto più usati - e affidabili - erano muli e asini, che di giorno, di notte e con tutti i tempi facevano la spola con la città per antichi sentieri delle montagne. Trasportavano còfane di pere e otri d’olio, pressoché unica risorsa del paese, destinati ai mercati della città, la mitica Reggio. Tornavano carichi di pochi altri generi necessari al basso tenore di vita degli abitanti, che di quel poco erano a conoscenza e di quel poco si accontentavano.

Viveva a quel tempo in una catapecchia, con i proventi di scarse elemosine, un tal Pascalazzo, un vecchio infestato di pidocchi da far concorrenza alle galline dei pollai. In paese si tollerava per la bonarietà del carattere, ma soprattutto perché, occupando egli il più basso gradino, permetteva anche ai più pezzenti di sentirsi ottimamente piazzati sulla carta geografica sociale.

Ogni mattina, di buon'ora, si bardava di cappotto militare e gamella, sprangava la porta della stamberga e iniziava la via crucis quotidiana. Si presentava davanti alle porte delle case senza preamboli e aspettava, con labbro pendulo e occhio smorto, che qualcosa cadesse nelle capaci tasche del cappotto e nella gamella. La gente gli allungava di tanto in tanto qualche mezzo biscotto non tanto perché animata da caritatevole spirito cristiano, ma per levarsi di torno l'incresciosa presenza che ricordava da vicino lo stato in cui, per strani ma frequenti casi della vita, ognuno con frequenza correva il rischio di cadere.

Pascalazzo intascava, e:

"San Giuseppe vi dia pace, salute e provvidenza".

Anche se le statistiche dell’epoca dicono poco circa la principale fonte di reddito, le cronache registrano, come abbiamo anticipato, che l’olio d’oliva procurava lo scarso benessere al paese e quindi anche il poco sostentamento a Pascalazzo.

Come la mosca si posa dove più dolce è il miele, così il vecchio ogni giorno si presentava nei frantoi puntuale come l’usciere. Il principale fingeva distrazione, i lavoranti riempivano la gamella e Pascalazzo svicolava furtivamente, contento come un cane che scodinzola al padrone.

Durante le annate abbondanti, tutti gli arrangiavano volentieri qualcosa, anche per dare rinfresco alle anime del Purgatorio. Ma c'erano degli anni in cui quattro palmi misuravano mezza canna e di buoni raccolti si sentiva solo parlare nei discorsi dei vecchi al sole. Pascalazzo allora attingeva a tutte le risorse del mestiere, spremeva tutte le ghiandole salivari, si scorticava ai muri, ma se anche si fosse messo a piangere in lingua - evento praticamente impensabile anche per chi nel paese si piccava di solida istruzione - di bagnare la gamella manco a parlarne.

Fu durante una di queste annate d'erba che si sparse la voce, propagata da alcuni sfaccendati per far danno, che Pascalazzo avesse venduto a un commerciante non meglio identificato una quantità d'olio sufficiente a far vivere con agio una famiglia numerosa; con l'aggravante, per giunta, di aver ampiamente approfittato della legge di mercato - che fa salire tanto più il prezzo di un bene quanto più è scarso - pretendendo addirittura la somma più alta che l'acquirente potesse sborsare. Nel processo sommario intentato là per là, l'imputazione senza prove portò, saltando ogni fase dibattimentale, alla condanna e la sentenza senza appello passò subito in giudicato.

Nonostante gli sforzi ai quali ci siamo sottoposti e in seguito alle rigorose indagini che abbiamo condotto recandoci dispendiosamente sul posto, non siamo riusciti ad appurare se e quanto la diceria rispondesse al vero, ma, sulla scorta di quanto accadde successivamente, pare destituita di ogni fondamento. Vero è comunque che per vivere il protagonista della nostra storia vendeva sulla pubblica piazza il poco olio raccogliticcio a commercianti di corto respiro e i proventi della transazione venivano immediatamente convertiti in generi di prima necessità. Ma tant'è, una volta emesso il verdetto, il paese non si poteva esimere dall'applicare la sanzione.

Inutilmente Pascalazzo si presentava a riscuotere quanto, dopo anni di onorata carriera, reputava gli fosse dovuto in virtù di un diritto acquisito. Anzi, si vedeva scacciato in malo modo, cosa che urtava la sua suscettibilità e feriva il suo orgoglio di stimato professionista. La situazione in cui si venne a trovare, stante anche la sfavorevole congiuntura che attanagliava l'economia del paese, presentava risvolti drammatici a causa della carenza cronica di derrate alimentari in cui versava la sua dispensa e per l’assoluta e improrogabile necessità di urgenti approvvigionamenti.

Ma, come in tutte le difficoltà della vita è necessario trovare la soluzione idonea a superare la fase critica, anche Pascalazzo finì per pescare il bandolo della sua ingarbugliata matassa. Una mattina si presentò alla porta del frantoio senza gamella e, con la dignità di chi è lontano dal bisogno, si diresse con sicurezza verso la stufa nell'angolo più riparato. I lavoranti in tralice controllarono ogni sua mossa e quando si convinsero che i motivi della visita erano diversi dai soliti, con la finezza che da sempre ha contraddistinto l’ambiente paesano, si lasciarono andare a feroci battute al suo indirizzo, convinti di avergli finalmente fatto capire la lezione e che " caro amico, non fare la ringia (smorfia), questa è la casa di chi lavora mangia".

Pascalazzo, degnandoli solo delle sue terga, gesticolava come per dire che aveva mangiato la foglia e non era proprio il caso che si scomodassero a negargli quello che non avrebbe affatto chiesto. Casomai ci fosse stato tra i signori presenti qualche forestiero di passaggio - ritenne doveroso avvertirli -, per loro norma e regola, la visita era dovuta soltanto alla necessità dell'abitudine e, già che c'era, coglieva l'occasione per scaldarsi alla stufa. Detto questo, le mani dietro la schiena come un esperto visitatore interessato, iniziò un dignitoso giro nel frantoio e curiosando esprimeva poco graditi suggerimenti sulla lavorazione. Tuttavia, agli inviti insistiti a dare una mano agli operai, fece osservare ai poco rispettosi interlocutori la difficoltà dei rapporti che era solito intrattenere con ogni forma di attività che implicasse fatica.

Controllò le mole che girando stritolavano le olive, verificò la lubrificazione degli ingranaggi del torchio e rimase in estasiata osservazione del nuovo separatore a forza centrifuga, ultima acquisizione tecnica e vanto del frantoio in tutto il circondario. Da uno dei cannelli del macchinario sgorgava un getto di nera morchia schiumeggiante che finiva in una canala. Dall'altro cannello più piccolo colava quieto il flusso fragrante dell'olio che terminava la sua corsa con lieve gorgoglio nel recipiente sottostante. Come un intenditore Pascalazzo infilò il dito sotto il getto dell'olio per saggiare la qualità. Quando il braccio fu coperto all’altrui visuale dal corpo voluminoso, non solo il dito intinse nel tino, ma tutto il braccio fino all'ascella. Ora, data la quantità e lo spessore degli indumenti di Pascalazzo, è molto probabile che la quantità d'olio che impregnò il tessuto superasse abbondantemente la capienza dell’ormai desueta gamella.

Difatti, quando si chiuse accuratamente alle spalle la porta della baracca e strizzò con cura la manica, i risultati furono pienamente rispondenti alle aspettative di Pascalazzo. L'olio sottratto con tanta destrezza venne riposto in un’ingrommata giaretta di coccio sulla quale come mascheramento sparpagliò dei rami di ginestra secca. Non soddisfatto ancora, vi accatastò davanti tutta la legna ammucchiata vicino al focolare. Compiuta l'opera di mimetizzazione, si stropicciò le mani ancora unte assaporando con gusto e orgoglio l'aroma dell’olio.

L'indomani mattina l’operazione fu portata a termine con identico risultato in un altro frantoio e, data la brillante riuscita, Pascalazzo pensò di apportare delle migliorie tecniche curando alcuni dettagli inerenti allo spessore e alla capacità di assorbimento delle maniche: le imbottì con tela di sacco e rattoppò i gomiti con pezze di lana. Un lavoro perfetto!

Con quegli accorgimenti i risultati furono talmente lusinghieri che si propose di perpetuare per tutta l'annata gli assaggi. A conti fatti, dopo qualche tempo cominciò a considerarsi un solido professionista del ramo e un benestante di non disprezzabile calibro. Mutò di conseguenza atteggiamento nei rapporti con il prossimo e si munì, a danno dello zingaro che raccoglieva capelli, di un nero cappello di feltro come si conveniva a un uomo del rango sociale cui personalmente si ascriveva.

Frattanto, la fama del ritiro irrevocabile dall'attività questuatoria di Pascalazzo si era sparsa in tutto il paese con l'effetto di far tirare un sospiro di sollievo ai frantoiani, ma anche con il risultato di insinuare l'ombra del sospetto nei più scettici. Non che ci fossero stati seri indizi per dubitare della voce, ma interrogativi sorsero sulla fonte di sostentamento del soggetto in causa, essendo proverbiale la sua nullatenenza da cane malato.

La decisione di avviare indagini senza dare all'interessato alcun avviso fu presa una sera all'osteria dove, nonostante fosse un ambiente poco confacente al suo ministero, il parroco trascorreva le serate in piena beatitudine sotto l'ammirato sguardo della perpetua. Il reverendo padre alla fine dei lavori tolse la seduta con queste profetiche parole:

"Sospettare non è cosa divina, ma chi sospetta indovina."

Fu così che, in adempimento del mandato ricevuto dall’alto e plenario consesso, in capo a un paio di settimane provetti inquirenti condussero a esito l'inchiesta. Alcuni tallonarono Pascalazzo in tutti gli spostamenti, come si conviene a segugi di razza, altri vagliarono il comportamento dell'indiziato tentando di decifrare da ogni mossa o parola i segni della colpevolezza. Furono però più fortunati due celebrati nullafacenti che stavano appostati in permanenza dietro la sua baracca e dalle sconnessure della porta ebbero modo di osservare i momenti più salienti dell'operazione di recupero dell'olio, prima dentro la gamella e da questa nella giara di coccio.

Quasi non credevano ai loro occhi. Era una trovata talmente geniale che ciascuno dentro di sé considerò se fosse o meno il caso di divulgare a più vasto pubblico la scoperta. Cosa che purtroppo fecero spinti da obblighi deontologici e da irrefrenabile voglia di assurgere agli onori della cronaca per essere stati loro i disvelatori l'arcano. Ma a indurli a vincere dubbi e remore fu il prepotente spirito paesano di gazzetta e l’inarrestabile bisogno di ricamare esageratamente sull'ingordigia attribuita a Pascalazzo che, stando alla loro relazione dettagliata, aveva già riempito due giare e al momento della scoperta era intento a strizzare la più recente refurtiva in un secchio molto capace.

Il giorno seguente l'ignaro Pascalazzo fece il suo ingresso nel frantoio salutando con signorile scappellata gli operai. Prese posto tranquillamente sulla panca accanto alla stufa come padrone e non s'avvide che l'occhio arcigno del padrone vero, uomo notoriamente burbero e manesco, già informato la sera prima, lo teneva da lontano sotto tiro costante. Più sicuro che mai, si levò le scarpe e accostò i piedi al metallo arroventato della stufa.

Il padrone frattanto gli si era avvicinato con bottiglia e bicchieri.

"Buona venuta, Pasquale."

"Buon giorno a voi, don Peppe." rispose Pascalazzo.

"Fa freddo oggi." continuò l'altro.

"Pare che si metta male, don Peppe."

"Già, già! Avete ragione. Si sta mettendo proprio male." con malcelata ironia convenne il padrone. "Bevetevi una volta di vino, Pasquale."

"Dio ve ne renda merito. Grazie assai."

"Bevete pure quanto vuole il vostro cuore, che intanto vado a vedere cosa combinano questi sfaticati." e indicò i lavoranti con il pollice rivolto alle spalle.

Con la bottiglia a disposizione non occorse molto a Pascalazzo per ridursi come a tre ore di notte. Quel vino generoso lasciava tra lingua e palato un senso di piacevole insoddisfazione. Era uno di quei vinelli che scendono come acqua, ma alla fine segano le gambe. E, tra l'altro, ci sembra superfluo fornire ulteriori ragguagli sulla celebrata capacità d’ingurgito di Pascalazzo. Bevuto un bicchiere, lo posava sul tavolino di legno, si scaldava le mani, lo riempiva di nuovo e di getto lo tracannava.

Quando si ritenne sazio, e ce ne volle, considerò giunto il momento di passare all'azione. Rideva con le sue labbra sporgenti tra i torchi e le còfane Pascalazzo e, reso più sicuro dal vino, si avvicinò con scioltezza al recipiente dell'olio. Immerse, stando pecoroni, braccio e manica, ma al momento di ritrarsi si sentì afferrato per il collo da una mano di ferro che lo spinse con la testa nell’olio.

"Venite, venite qua!" urlava don Peppe. "Correte che ho preso il sorcio che si fotteva tutto l'olio nostro."

Gli operai accorsero increduli. Don Peppe tratteneva Pascalazzo in quella posizione poco dignitosa e gli sferrava di tanto in tanto poderosi calci sul didietro che facevano sobbalzare il ladruncolo come preso dalla febbre terzana.

"Posalo tutto l'olio mio. Cagalo tutto!" urlava con gli occhi strabuzzati.

Quando riuscirono a levarglielo dalle mani, Pascalazzo era provato nel corpo per le botte subite e l'olio ingurgitato, ma soffriva di più nello spirito per il timore che, se avessero deciso di ispezionare la baracca, sarebbe saltata fuori la refurtiva accumulata con tanta fatica e naturalmente sarebbe caduta sotto sequestro.

Don Peppe ormai inveiva senza convinzione, trattenuto per finta dai lavoranti. Urlava insulti in palese, ma, stemperata la rabbia, rideva a parte scuotendo la testa divertito.

Sarebbe interessante poter riferire qualcuno degli improperi rivolti a Pascalazzo, ma è da supporre che siano appartenuti a un lessico andato smarrito quando la strada carrozzabile finalmente raggiunse al paese e insieme alla polvere sollevata dagli automezzi saltarono via i colori e gli spigoli più aspri dell'idioma locale. Purtroppo non siamo neppure in grado di riferire i sinonimi più eufemistici di quelle saporite contumelie.

Comunque, quando furono stanchi di strapazzare il poveretto, padrone e operai agguantarono Pascalazzo e lo spogliarono integralmente corampopulo. All'operazione presenziarono molti attirati dallo schiamazzo e altri capitati per caso, ai quali non parve vero di assistere all'insolita farsa in qualità di pubblico non pagante.

Pascalazzo, nudo come un verme, se ne stava vicino alla stufa. Con le mani occupate a nascondere le vergogne, scalciava in tutte le direzioni nel tentativo di tenere alla larga la moccioseria. Intanto avevano spremuto sotto il torchio gli indumenti del disgraziato. E, quale la meraviglia, quando videro sgorgare un flusso lento e costante d'olio, recuperato in un apposito recipiente! Nell'incredulità generale, don Peppe indicava con mano la quantità e invitava la gente ad avvicinarsi per verificare di persona.

La storia finisce a questo punto senza fornire ulteriori ragguagli sul seguito. Sembra opinabile, tuttavia, che Pascalazzo e la sua gamella siano tornati come di consueto davanti ai frantoi.

Con il passare del tempo la storia fu pressoché dimenticata da tutti. Fa naturale eccezione qualche vecchio che fino a qualche anno fa ricordava ancora e che è stato preziosa fonte dei fatti narrati. Ma a noi piace pensare che Pascalazzo abbia continuato indomito a escogitare sempre nuove trovate senza essere pizzicato. Purtroppo non possediamo elementi tali da affermare che ciò sia realmente accaduto.