IL VANGELO SECONDO GESU’

di José Saramago


Prefazione

Il primo paragrafo


Prefazione di Luciana Stegagno Picchio

La tesi di Nietzsche per cui non esistono fatti, ma solo interpretazioni, è anch’essa, come ci insegnano i filosofi dell’attuale ermeneutica, solo un’interpretazione, che la filosofia deve assumere se vuole mantenere la sua "coerenza". Coerente comunque con questa tesi, José Saramago, il più polemico e discusso, il più letto e senza dubbio il più famoso fra gli scrittori del Portogallo contemporaneo, si arroga il diritto di leggere e interpretare a suo modo, e cioè entro i suoi parametri di laico, cresciuto nondimeno all’ombra del Cristianesimo e della stessa Chiesa Cattolica, il più "scandaloso e moderno" fra i libri basilari della nostra formazione, ideologica e culturale: i Vangeli (l’espressione compare nel titolo di un articolo che un filosofo qual è Massimo Cacciari ha scritto in occasione della pubblicazione dei Vangeli da parte di un giornale di sinistra come l’Unità). Nessuna meraviglia quindi che questa sua interpretazione, sofferta come poche nel tentativo di dimostrare l’umanità del Cristo, il suo dolore nel sentirsi abbandonato dal Padre, vittima del Padre, sia stata motivo di scandalo da parte dei suoi lettori e giudici e di sofferenza da parte sua.

Il Vangelo secondo Gesà Cristo: il titolo è quello che José Saramago si dichiara sicuro di aver visto, in una specie di folgorazione, fra le scritte di un’edicola di Siviglia alla fine degli anni Ottanta. Era stato forse un miraggio, ma subito il progetto di scriverlo davvero lui, questo libro, lo aveva preso con tanta forza e con tanta urgenza da non lasciarlo più: sino a quando, nel dicembre del 1991, il miraggio si era materializzato in un’opera, subito esposta sotto il suo nome nelle vetrine del Portogallo e di tutti i paesi di espressione portoghese, a cominciare dal Brasile, dove del resto essa venne presentata ancor prima che in patria (O Evangelho segundo Jesus Cristo, perché è questo il titolo originale del libro, che gli italiani, per il loro pubblico, hanno preferito peraltro semplificare e addolcire in Vangelo secondo Gesù). Vero o ben trovato che sia, l’apologo starebbe a dimostrare lo stato di esaltazione, la veemenza, la passione secondo cui il libro è stato concepito e portato a termine. E a confermare, se ce ne fosse ancora bisogno, che la molla prima della sua composizione era una ragione letteraria, poetica e non prevalentemente ideologica, come sembrerebbe dalle polemiche cui avrebbe poi dato origine. Bisognava leggere questo libro come si erano lette le precedenti opere narrative dell’autore, dal Memoriale del Convento a L’anno della morte di Ricardo Reis, da La zattera di pietra alla Storia dell’assedio di Lisbona, in cui sempre il reale si alternava al soprannaturale, la materia "storica" a quella di invenzione, l’interpretazione attualizzava il documento. Ma la storia di Gesù era materia incandescente. Al principio furono dibattiti, con interlocutori-oppositori che andavano dai teologi-gesuiti ai pensatori cattolici ortodossi; e dibattiti cui l’autore, in un’ansia di autodefinizione che andava ben oltre il desiderio di promozione editoriale, non si sarebbe mai sottratto. Solo quando una immotivata censura di stato venne inflitta al libro da un membro del governo del suo paese, un paese in cui, dopo la caduta del salazarismo, sembrava che fosse anche scomparsa ogni forma di inquisizione, la reazione dell’autore fu dura e passionale. E l’episodio è senza dubbio fra le cause che hanno determinato, nel 1993, la scelta dello scrittore di trasferire la sua casa "definitiva" da Lisbona a Lançarote, nelle Isole Canarie.

Certo: quando scriveva e pubblicava il suo libro, José Saramago, uomo di sinistra e laico, non si poteva aspettare il plauso consenziente di tutti i suoi concittadini, abitanti di un paese cattolico e rispettoso dei tabù istituzionali. Ma attenzione: questo suo Vangelo laico, blasfemo, si è detto, nei confronti di una fabula canonica che non sopporta neppure il confronto con la fantasiosa e tenera fioritura dei vangeli apocrifi, non ha nulla a che fare con la tradizione renaniana delle "vite di Gesù" positiviste. Qui, a reggere la costruzione biografica di un uomo dolorosamente conscio della propria origine divina, ma insieme della propria inesorabile natura umana, c’è un afflato di impetuosa, autentica religiosità, nel senso etimologico del vocabolo, capace di travolgere ogni positivo raziocinio. C’è la dimensione del sovrannaturale e del visionario, presente come sempre nelle opere di un Saramago di cui si è anche detto che sia il più autentico rappresentante europeo del realismo fantastico latino-americano. E questo anche se il punto di partenza, il centro della narrazione, è sempre l’uomo solo, solo e dolente su questa terra, con la sua umanità e le sue domande senza risposta.

Pure il paragone con il Pasolini del Vangelo secondo San Matteo, invocato dallo stesso Saramago, vale semmai solo a dimostrare il diverso atteggiamento, in paesi di pari tradizione cattolica, dell’autorità nei riguardi delle opere di pensiero. Basti pensare a una eventuale trasposizione cinematografica di questo Vangelo portoghese, e confrontarla con la pasoliniana: aurorale, questa, da primordi di un mondo che ha il volto e i poveri panni di quella tenerissima Madonna bambina delle prime battute del Vangelo di Pasolini e invece cupamente crepuscolare, riformista quasi, la portoghese aperta da una lettura semiologica, vorremmo dire, della Crocifissione di Dürer, corrusca di ombre e di bagliori, assunta a tema e sintesi di tutta l’opera. Con al centro il Cristo morente fra lo sconcerto tremendo degli uomini e degli elementi, attanti tutti di un dramma, fermati nell’istante supremo che è prologo e insieme prefigurazione epilogale della storia che comincia.

Sono, queste del Vangelo secondo Gesù, pagine fitte di quella prosa magmatica cui ci ha abituato Saramago che riempie, con la sua colata di discorso "orale", tutti gli interstizi della pagina, senza riposo di bianchi e di punti, di virgolette e di accapo: un discorso per gli orecchi più che per gli occhi, da ascoltare anziché leggere, in perfetta consonanza con la popolarità "arcaica" del testo. La storia del Cristo, uomo figlio di Dio, soggetto alla condanna biblica senza appello delle colpe dei padri che ricadranno sui figli, è trattata qui con la fantasia, l’invenzione, la libertà con cui Saramago ha trattato finora tutti i suoi soggetti storici, dalla costruzione settecentesca del convento di Mafra all’assedio di Lisbona del 1147. "Il Gesù Cristo del mio Vangelo è una mia creatura come lo è la Blimunda del Memoriale" ha dichiarato in una delle sue prime interviste, quasi a svincolarsi da un iter biografico che egli andava costruendo, con profonda conoscenza dei materiali storici e agiografici, ma anche con la libertà di chi crea un personaggio e una storia in funzione di una tesi: quella appunto della inesorabile colpa del padre. Un padre che è in primo luogo Giuseppe, condannato, anche lui, a morire per espiare la colpa di avere, nel momento dell’angoscia, omesso di avvertire gli altri e pensato unicamente a salvare il proprio figlio sottraendolo con la fuga alla strage di Erode ("Le mani di Gesù salirono d’improvviso al volto, come se lo volessero graffiare, la voce si mutò in un grido irreparabile, Mio padre ha ucciso i bambini di Betlemme"). Per quella colpa, Giuseppe pagherà per il resto della sua vita, fino alla crocifissione ad opera dei soldati romani. E ci sono nel libro pagine di storia a rivelare quanto la pratica della crocifissione fosse comune nella prassi dei conquistatori romani: "Duemila crocifissi sono un gran numero di morti, ma ci sembrerebbero ancora di più se li immaginassimo piantati a intervalli di un chilometro lungo una strada, a circoscrivere, è solo un esempio, quel paese che un giorno si chiamerà Portogallo e la cui dimensione, alle frontiere, si aggira più o meno intorno a quei valori." Prefigurazione, a sua volta, della Crocifissione del Figlio, questa di Giuseppe, che non è l’evangelico vecchio, ma un giovane uomo dell’età di trentatré anni. Ma la colpa, che discende dai padri ai figli, inesorabile, biblica, ha una sua precisa radice. Ed è la Colpa del Padre, dio assetato di vendetta e di sangue, che farà morire sulla croce il Figlio, agnello innocente, come innocenti erano i teneri animali, le tortore, gli agnelletti, i vitelli sacrificati dai sacerdoti del Tempio per la purificazione di Maria. "Ardendo tra le fiamme ribelli, attizzate dal grasso, il corpicino sventrato e flaccido della tortora non riempie neppure il buco di un dente di Dio."

Sono frasi come queste quelle che turbano, ed è ben comprensibile, l’animo dei censori di Saramago. E ce ne sono tante, in tutto il libro, di affermazioni, di messe in abisso, di riflessioni "eretiche". Ma esse corrispondono al desiderio di un uomo e di uno scrittore di scavare fino alle radici della propria civiltà, nel mistero della sua tradizione, per estrarne le domande essenziali. Chi è questo nostro Dio, prima ebraico e ora cristiano, che vuole il sangue, la morte, perché sia ristabilito l’equilibrio di un mondo che solo a lui soggiace, solo della sua legge si nutre? Come può la nostra nuova legge essere legge dell’Amore, se ancora pesa sull’uomo l’ipoteca della dannazione eterna? E come può pensarsi creatura divina, degna di immortalità, l’uomo, se, per tutta un’esistenza, egli deve soggiacere a una legge di terrore che gli preesiste e che gli resta esterna, anziché attingere da sé, responsabilmente, dalla propria coscienza, la norma con cui governarsi? Perché dobbiamo temere il castigo eterno, quando il castigo per il giusto dovrebbe essere in questa nostra vita, nel rimorso e nella coscienza della nostra indegnità?

Il libro è tutto così, tragicamente problematico ed è assurdo condannarlo in base a leggi, esterne anche queste, che non siano le sue, letterarie, poetiche e filosofiche. Qui non si nega il divino, la religiosità insita nel cuore di ogni uomo. Non si irride al trascendente. Lo si interroga, lo si questiona, lo si accusa. Appassionatamente, direi, religiosamente. Anche se, sembrerebbe a volte, nella scia di Milton, dalla parte del pendente: che, non lo si dimentichi, è pur sempre un angelo caduto.

Ma, al di là delle tesi e anche della crudezza di certe soluzioni che non possono non lacerare chi è cresciuto, sia pur ai margini, entro una tradizione di evangelismo ortodosso, ci sono, in questa opera sofferta in prima persona come poche, oasi di grande poesia. C’è soprattutto una atmosfera biblica, non evangelica, fatta di paesaggi, di colori e di atmosfere orientali, di pensieri e di discorsi, che sembra appartenere a una primitiva tradizione di rivalsa di Dio sull’uomo, più che a quella, pre-evangelica, dell’attesa di una pacificazione non ancora peraltro avvenuta. E ci sono scene di autentica tradizione biblica, ben rispettata ad esempio dalla scuola iconografica ortodossa (vedi gli affreschi dei monasteri della Bucovina e dell’Oltenia) e ora ignorata dalla cattolica, come quella della cosiddetta cena o annunciazione di Abramo, coi suoi tre angeli in vesti di pellegrini i quali predicono a un’incredula Sara la sua futura maternità: una scena che Saramago ripropone in un’ambientazione familiare piena di fascino remoto. Che poi l’Annunciatore sia qui un ambiguo Tentatore, poi perenne antagonista del Cristo nel suo iter biografico, questo resta nella linea di un satanismo contadino iberico il quale eredita peraltro da Milton la tragicità e la dignità del non serviam che si deve opporre ai potenti. E che dire delle pagine dedicate al dolore più che umano di Gesù per non aver potuto/voluto risuscitare Lazzaro, perché nessuno è tanto peccatore da dover morire due volte, o al suo rapporto con una Maddalena che gli dice: guarderò la tua ombra se non vuoi che io ti guardi, e cui egli risponde: Voglio stare dove sarà la mia ombra, se là saranno i tuoi occhi?

Certo, questa del Vangelo rappresenta e rappresenterà sempre un nodo inestricabile nell’esperienza narrativa di Saramago. "Col Vangelo, diceva Pasolini, ho evidentemente dato fondo a qualcosa: e perciò sento il vuoto dolorante di tutto quello di cui il Vangelo ha costituito una liberazione." Ma subito aggiungeva: "Perché liberarci delle cose? Se l’opera d’arte è in qualche profondo e misterioso modo un’autoterapia, di cosa guarisce, se non della vita stessa?" E forse, come a Pasolini, non sarà bastata a Saramago questa sofferta operazione artistica a guarirlo da quegli "inafferrabili elementi di un inconscio religioso" che sono certamente in lui e ne costituiscono la forza e l’incanto di scrittore popolare.


Il primo paragrafo

Si vede il sole in uno degli angoli superiori del rettangolo, quello alla sinistra di chi guarda, e l’astro re è raffigurato con la testa di un uomo da cui sprizzano raggi di luce pungente e sinuose lingue di fuoco, come una rosa dei venti indecisa in quali direzioni puntare, e quel viso ha un’espressione piangente, contratta da un dolore inconfortabile, e dalla bocca aperta emette un urlo che non potremo udire, giacché nessuna di queste cose è reale, quanto abbiamo davanti è solo carta e colore, nient’altro. Sotto il sole vediamo un uomo nudo, legato a un tronco d’albero, i fianchi cinti da un drappo, a coprirgli le parti che chiamiamo intime o vergognose, e i piedi li ha posati su quanto resta di un ramo tagliato, ma per maggior saldezza, perché non scivolino da quel sostegno naturale, sono fissati da due chiodi, profondamente conficcati. Dall’espressione del viso, d’ispirata sofferenza, e dalla direzione dello sguardo, levato in alto, deve essere il Buon Ladrone. I capelli, a riccioli, sono un altro indizio che non tradisce, infatti è noto che angeli e arcangeli li usano così, e il criminale pentito, a quanto pare, è già sulla buona strada per ascendere al mondo delle celesti creature. Non sarà possibile appurare se questo tronco sia ancora un albero, solo adattato, per selettiva mutilazione, a strumento di supplizio, ma che continua a nutrirsi dalla terra con le radici, visto che la parte inferiore è completamente coperta da un uomo con la barba lunga, vestito con ricchi abiti, sontuosi e ampi, il quale, benché abbia il viso sollevato, non guarda certo il cielo. Questa solenne postura e questo sembiante triste possono appartenere solo a Giuseppe d’Arimatea, ché Simone di Cirene, senza dubbio un’altra ipotesi plausibile, dopo il lavoro cui lo avevano costretto, aiutare il condannato nel trasporto del patibolo, secondo i protocolli di tali esecuzioni, se n’era tornato alla sua vita, alquanto più preoccupato per le conseguenze del ritardo su un affare che aveva rinviato che non per le mortali pene di quello sventurato che stavano per crocifiggere. Orbene, questo Giuseppe d’Arimatea è quel caritatevole e benestante uomo che offrì il servizio del proprio tumulo perché vi fosse deposto il corpo principale, ma non gli servirà granché la sua generosità al momento delle santificazioni, e neppure delle beatificazioni, giacché ad avvolgergli la testa non possiede altro che il turbante con cui esce di casa tutti i giorni, al contrario di questa donna che vediamo in primo piano, con i capelli sciolti sulle spalle, curva e china, ma toccata dalla suprema gloria di un’aureola nel suo caso frastagliata come un ricamo domestico. La donna inginocchiata si chiamerà di certo Maria, perché sappiamo già che tutte quelle radunate qui portano questo nome, ma solo una, essendo in più Maddalena, si distingue onomasticamente dalle altre, ebbene, qualunque osservatore, purché abbastanza addentro ai fatti elementari della vita, giurerebbe di primo acchito che la suddetta Maddalena è proprio questa, giacché soltanto una come lei, con un passato dissoluto, avrebbe osato presentarsi, nel tragico momento, con una scollatura così profonda e con un bustino tanto ridotto da farle risaltare e sporgere le rotondità dei seni, ragion per cui, inevitabilmente, attira e fissa su di sé lo sguardo avido degli uomini che passano, pregiudicando seriamente le anime, trascinate così alla perdizione dal turpe corpo. E' tuttavia di compunta tristezza l’espressione del suo viso, e l’abbandono del corpo non esprime altro che il dolore di un anima, sì, magari nascosta da carni tentatrici, ma che dobbiamo pur tenere in conto, stiamo parlando dell’anima, è chiaro, questa donna potrebbe essere addirittura completamente nuda, se avessero scelto di raffigurarla in tale stato, eppure dovremmo dimostrarle comunque rispetto e considerazione. Maria Maddalena, se è lei, sostiene e, con un gesto di compassione intraducibile a parole, sembra sul punto di baciare la mano dell’altra donna, questa sì, accasciata a terra, quasi priva di forze o ferita a morte. Anche lei si chiama Maria, seconda in ordine di apparizione, ma, senza dubbio, di primissima importanza, ammesso che significhi qualcosa il posto centrale che occupa nella parte inferiore della composizione. A parte il viso piangente e le mani inerti, non si riesce a vedere nulla del corpo, coperto dalle innumerevoli pieghe del mantello e della tunica, stretta in vita da un cordone di cui s’indovina la ruvidezza. E' più vecchia dell’altra Maria, e questa probabilmente è una buona ragione, ma non l’unica, perché la sua aureola abbia un disegno più complesso, o perlomeno questo sarebbe autorizzato a pensare chi, non disponendo di informazioni precise su priorità, graduatorie e gerarchie in vigore su questo mondo, fosse costretto a esprimere un’opinione. Ma, tenendo conto del grado di divulgazione, fatta con arti maggiori o minori, di queste iconografie, solo un abitante di un altro pianeta, supponendo che non vi avessero mai replicato, o magari solo messo in scena, questo dramma, solo quell’essere davvero inimmaginabile ignorerebbe che l’addolorata è la vedova di un falegname di nome Giuseppe e la madre di tanti figli e figlie, sebbene solo uno, per i dettami del destino o di chi lo regola, abbia finito col prosperare, non tanto in vita quanto, soprattutto, dopo morto. Reclinata sulla sinistra, Maria, la madre di Gesù, proprio quello di cui abbiamo appena detto, appoggia l’avambraccio sulla coscia di un’altra donna, anch’essa inginocchiata, anch’essa di nome Maria, e in fondo, benché non possiamo vedere né immaginare la sua scollatura, forse la vera Maddalena. Identica alla prima di questa trinità al femminile, ha i lunghi capelli sciolti sulle spalle, ma questi hanno tutta l’aria di essere biondi, a meno che non sia dovuta a pura casualità la differenza del tratto, più lieve in questo caso e con alcuni spazi vuoti fra una ciocca e l’altra, il che ovviamente sarà servito all’incisore per schiarire la tonalità della chioma raffigurata. Con simili ragioni non intendiamo affermare che Maria Maddalena sia stata di fatto bionda, ci stiamo solo adeguando alla corrente d’opinione prevalente, che insiste nel vedere nelle bionde, sia in quelle naturali sia in quelle tinte, i più efficaci strumenti di perdizione. Essendo stata, com’è noto, Maria Maddalena una donna così peccaminosa, perduta come tante altre, doveva pur essere bionda, per non smentire le credenze, bene o male acquisite, di una buona metà del genere umano. Comunque, non è che, perché apparentemente più chiara di carnagione e colore di capelli rispetto all’altra, suggeriamo e proponiamo, contro le prove schiaccianti di una profonda scollatura e di un seno in mostra, che sia questa terza Maria la Maddalena. Un’altra prova, e molto consistente, rafforza e convalida l’identificazione, e cioè che questa donna, per quanto sostenendo appena, con fare un po’ distratto, l’estenuata madre di Gesù, ha lo sguardo rivolto verso l’alto, ed è uno sguardo di autentico e appassionato amore, che ascende con forza tale da sollevare apparentemente tutto il corpo, tutto il suo essere carnale, come un’aureola raggiante capace di far impallidire l’alone che già le circonda la testa e disperde pensieri ed emozioni. Solo una donna che abbia amato nel modo e nella misura che attribuiamo a Maria Maddalena può guardare così, ed ecco quindi, in ultima analisi, la prova che dev’essere questa, solo questa e nessun’altra, escludendo pertanto anche la donna che le si trova accanto, la quarta Maria, in piedi, con le mani leggermente sollevate in atteggiamento pietoso, ma con lo sguardo vacuo, a far coppia in questa parte del quadro con un uomo giovane, poco più che adolescente, il quale flette la gamba sinistra in modo aggraziato, così, al ginocchio, mentre la mano destra, aperta, indica con posa affettata e teatrale il gruppo di donne cui tocca raffigurare, per terra, l’evento drammatico. Questo personaggio, così giovane, con i capelli a boccoli e il labbro tremante, è Giovanni. Come Giuseppe d’Arimatea, anch’egli occulta con il corpo la base di quest’albero che, lassù, in cima, innalza al cielo un secondo uomo nudo, legato e inchiodato come il primo, ma questi ha i capelli lisci, e con la testa reclinata guarda, se ancora ce la fa, il suolo, e la sua faccia, magra e scarna, suscita tanta pena, al contrario del ladrone dall’altro lato, che persino nell’ultimo frangente di sofferenza agonica possiede ancora la forza di mostrarci un viso che facilmente possiamo immaginare rubicondo, doveva passarsela bene quando rubava, sebbene qui ci manchino i colori. Magro, capelli lisci, la testa piegata verso la terra che dovrà inghiottirlo, due volte condannato, a morte e all’inferno, questo misero relitto può essere solo il Cattivo Ladrone, in fin dei conti un uomo rettissimo, cui è rimasto quel po’ di coscienza che gli impedisce di fingere di credere, al riparo di leggi umane e divine, che un minuto di pentimento basti per riscattare una vita intera di malvagità o una sola ora di debolezza. Sopra di lui, anch’essa piangente e implorante come il sole che le sta di fronte, vediamo la luna, raffigurata da una donna con un incongruente cerchietto all’orecchio, una licenza che nessun artista o poeta si sarà mai permesso prima, e c’è da dubitare che se la sia concessa anche dopo, malgrado l’esempio. Il sole e la luna illuminano entrambi la terra, ma la luce diffusa è circolare, senza ombre, ecco perché si può vedere così nitidamente ciò che si trova sopra l’orizzonte, sullo sfondo, torri e mura, un ponte levatoio sopra un fossato in cui brilla l’acqua, alcune guglie gotiche e, laggiù, sul crinale dell’ultima collina, le pale immobili di un mulino. Un po’ più vicino, per l’illusione della prospettiva, quattro cavalieri con elmo, lancia e armatura fanno volteggiare le cavalcature in destrezze d’alta scuola, ma i loro gesti suggeriscono che sono ormai al termine dell’esibizione, stanno salutando, per così dire, un pubblico invisibile. La stessa impressione di epilogo della festa ce la dà quel fante che sta facendo il primo passo per ritirarsi, portando via tenendo con la mano destra qualcosa che, a questa distanza, sembra un pezzo di stoffa, ma che potrebbe essere un mantello o una tunica, mentre altri due militari mostrano segni di irritazione e dispetto, ammesso che da così lontano si possa decifrare sui visi minuscoli un sentimento, come di chi ha giocato e perduto. Al di sopra di simili banalità, come eserciti e città recintate da mura, aleggiano quattro angeli, di cui due a tutto campo, che piangono e si lamentano, mentre uno, con espressione seria, è assorto nel suo compito di raccogliere in un recipiente fino all’ultima goccia lo zampillo di sangue che sprizza dal lato destro del Crocifisso. Su questo luogo chiamato Golgota molti hanno avuto lo stesso fatale destino, e tanti altri lo avranno, ma quest’uomo nudo, inchiodato piedi e mani a una croce, figlio di Giuseppe e Maria, di nome Gesù, è l’unico cui il futuro concederà l’onore dell’iniziale maiuscola, gli altri non saranno che crocifissi minori. È lui, in fondo, l’uomo verso cui volgono lo sguardo Giuseppe d’Arimatea e Maria Maddalena, lui che fa piangere il sole e la luna, lui che poco fa ha lodato il Buon Ladrone e disprezzato il Cattivo perché non ha capito che non c’è alcuna differenza tra l’uno e l’altro o, se si ha una differenza, non è quella, ché il Bene e il Male non esistono in se stessi, ciascuno di essi è solo l’assenza dell’altro. Sopra la testa, risplendente di raggi di luce, più del sole e della luna insieme, ha un cartiglio scritto con lettere romane che lo proclama Re dei Giudei, e a cingerla una dolorosa corona di spine, come ce l’hanno, senza saperlo, anche quando non sanguinano all’esterno del corpo, quegli uomini cui non è permesso di essere re di se stessi. Gesù non gode di alcun sostegno per i piedi, come ce l’hanno i ladroni, tutto il peso del corpo graverebbe sulle mani inchiodate al legno se non gli restasse ancora un barlume di vita, quanto basta per mantenerlo eretto sulle ginocchia rigide, ma ben presto la vita gli si esaurirà, se il sangue continuerà a sprizzargli dalle ferite al costato, come si è detto. Fra i due cunei che tengono ben salda la croce, anch’essi come la croce conficcati in una scura fessura del suolo, una ferita della terra non più incurabile di una qualunque sepoltura d’uomo, c’è un cranio, e accanto una tibia e un’omoplata, ma a noi interessa il cranio, perché cranio significa Golgota, non sembrano la stessa parola, eppure qualche differenza la noteremmo se invece di scrivere cranio e Golgota avessimo scritto golgota e Cranio. Non si sa chi abbia messo qui questi resti e per quale fine, a meno che non sia solo un ironico e macabro avvertimento agli infelici suppliziati sul loro futuro stato, prima di diventare terra, polvere e niente. Ma c’è anche chi sostiene che sia il cranio di Adamo, emerso dalle tenebre profonde degli strati geologici arcaici, e adesso, non potendovi tornare, condannato eternamente ad avere davanti agli occhi la terra, suo unico paradiso possibile e per sempre perduto. Laggiù, sullo stesso campo in cui i cavalieri eseguono un ultimo volteggio, un uomo si allontana, il viso ancora rivolto da questa parte. Con la mano sinistra porta un secchio e, con la destra, una canna. Sull’estremità della canna dev’esserci una spugna, è difficile distinguerlo da qui, e il secchio, potremmo scommetterci, contiene acqua e aceto. Quest’uomo, un giorno, e poi per sempre, sarà vittima di una calunnia, quella di aver offerto, per malvagità o scherno, dell’aceto a Gesù che gli chiedeva acqua, mentre gli avrà certo dato la mistura che ha con sé, acqua e aceto, una fra le migliori bevande per ammazzare la sete, com’era noto e praticato allora. Se ne va, non rimane fino alla fine, ha fatto il possibile per alleviare l’arsura dei tre condannati, e senza alcuna differenza tra Gesù e i ladroni, per la semplice ragione che queste sono cose terrene, che rimarranno sulla terra, e con le quali si fa l’unica storia possibile.