Il Vangelo secondo Matteo
(regia di Pier Paolo Pasolini)
Scheda informativa curata dal Centro Studi Sampaolofilm, allegato alla videocassetta "Il Vangelo secondo Matteo", Cineteca Mastervideo)
Dati tecnici — Credit e cast
Origine: Italia, 1964 — Genere: Religioso — Produzione: Arco Film, Roma; Lux Cie Cinématographique de France, Parigi —Regìa: Pier Paolo Pasolini — Interpreti: Enrique Irazoqui (Cristo), Margherita Caruso (Maria fanciulla), Susanna Pasolini (Maria adulta), Marcello Morante (Giuseppe), Mario Socrate (Giovanni Battista), Settimio di Porto (Pietro), Otello Sestili (Giuda), Ferruccio Nuzzo (Matteo), Giacomo Morante (Giovanni), Alfonso Gatto (Andrea), Enzo Siciliano (Simone), Giorgio Agamben (Filippo), Guido Cerretani (Bartolomeo), Luigi Barbini (Giacomo d’Alfeo), Marcello Galdini (Giacomo di Zebedeo), Elio Spaziani (Taddeo), Rosario Migale (Tommaso), Rodolfo Wilcock (Caifa), Alessandro Tasca (Filato), Amerigo Bevilacqua (Erode I), Francesco Leonetti (Frode Il), Franca Cupane (Erodiade), Paola Tedesco (Salomè), Rossana di Rocco (l’angelo), Eliseo Boschi (Giuseppe d’Arimatea), Natalia Ginzburg (Maria di Betania), Renato Terra (un fariseo) — Soggetto: dal Vangelo secondo Matteo — Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini — Fotografia (panoramico-bianco e nero): Tonino Delli Colli — Montaggio: Nino Baragli — Musica: Bach, Mozart, Prokofiev, Spirituals, Missa Luba, Canti popolari vari — Durata: 165’.
Premi:
Premio speciale della Giuria alla XXV Mostra Internazionale d’arte
Cinematografica di Venezia, 1964.
Premio OCIC, 1964, alla XXV Mostra Internazionale d’arte Cinematografica di Venezia.
Grifone d’oro città di Imola, 1964.
Premio Cineforum, 1964.
Premio San Giorgio, 1964.
Premio dell’Unione Internazionale della Critica Cinematografica, 1964.
X Gran Premio QCIC, Assisi, 1964.
Caravella d’argento al Festival di Lisbona, 1965.
Premio Nastro d’argento, 1965 a:
Pier Paolo Pasolini, quale miglior regista;
Tonino Delli Colli, per la miglior fotografia;
Danilo Donati, quale miglior costumista.
Premio per il miglior film cattolico dell’anno, Germania, 1965.
Lauro d’argento della fondazione D. O. Selznick, San Francisco, 1966.
Il film Il Vangelo secondo Matteo
L’opera narra gli episodi della vita di Gesù, riportati dal Vangelo di Matteo, inserendo nella narrazione parte degli insegnamenti del Cristo. Mette in luce infatti gli episodi riguardanti l’infanzia di Gesù, la sua preparazione alla vita pubblica, la chiamata degli apostoli e la sua predicazione. Predicazione rivolta soprattutto ai poveri, costellata di miracoli e insidiata dai farisei. Visualizza ancora la scelta di Pietro a fondamento della sua Chiesa, le profezie della passione e tutti gli episodi riguardanti l’ultima cena, il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro che culminano con il processo a Gesù e la sua passione e morte sul Calvario. Il film si chiude con il Cristo risorto che rassicura i discepoli sulla sua presenza nel mondo e li invita a non avere paura.
Che cosa dice il film
Le scelte operate dal regista relative al testo evangelico di Matteo, al ceto di persone che gravitano attorno al Cristo e che ne accolgono il messaggio e i luoghi in cui è ambientato il film, costituiscono gli elementi essenziali che concorrono alla
significazione tematica del film stesso.
Per quanto riguarda il testo evangelico, a parte gli episodi dell’infanzia di Gesù e della sua passione e morte, funzionali ai fini dell’ambientazione storico-esistenziale del Cristo, Pasolini insiste soprattutto sui discorsi di
Gesù, scegliendo quelli
prettamente sociali e in contrapposizione fra di loro per stabilire, da una parte, la beatitudine dei poveri, e dall’altra, l’ipocrisia dei potenti.
In analogo rapporto stanno i due gruppi sociali: ricchi e poveri. Da una parte i poveri, gli oppressi: contadini «armati» di rastrelli e forche, sempre intenti alla fatica dei campi, pescatori che trasforma in discepoli, malati che guarisce, bambini
innocenti che lo osannano. Dall’altra i potenti, sempre pronti a tramare la morte del Cristo perché apre gli occhi ai poveri sui quali
temono di perdere l’autorità e i ricchi, incapaci di seguire il Cristo che propone di dividere i loro beni con i poveri.
Operando queste scelte Pasolini sposta l’ottica di interpretazione del Vangelo dì Matteo. L’evangelista scrive per
dimostrare la divinità di Gesù e per perpetuare nei secoli il suo messaggio universale di amore, di pace e di giustizia, mettendo i poveri fra i privilegiati recettori del messaggio, ma non gli
unici; Pasolini, invece, vuole visualizzare la forza di un messaggio di giustizia e di riscatto dei deboli, degli oppressi soprattutto materialmente, mettendoli in netta contrapposizione con gli
oppressori politici e religiosi.
A Pasolini premeva mostrare l’attualità sociale del Cristo che contesta un sistema e ne propone un altro, che paga con la vita l’ideale che propugna e che, risorto, lo consegna ad altri perché venga perpetuato nei secoli.
E qui la scelta dei luoghi si inserisce per attualizzare il concetto di persistenza storica dell’idea. Il meridione d’Italia, con la sua aridità di luoghi, la povertà della gente, serve a Pasolini per dire che
il Cristo di duemila anni fa trova ancora il suo posto oggi. La sua idea-messaggio è attuale e deve essere ancora «urlata» agli uomini del nostro tempo e di fatto lo è perché il Cristo è
sì morto, ma è risorto per garantire la continuità della sua opera.
In ultima analisi Pasolini propone un Cristo-mito, non un Cristo-Dio, un leader che ha operato in un suo contesto storico, ma che può essere preso a esempio da chi vuole condurre oggi una analoga battaglia a favore degli oppressi.
Tema
Il Cristo, nel suo operare storico è visto come "mito" per aver reso vivo tra i poveri e gli oppressi l’idea-messaggio della giustizia e del riscatto. Idee destinate a perpetuarsi nel tempo perché garantite dalla sua "presenza" di "risorto".
Valori estetici
Pasolini, volendo narrare con immagini quel che Matteo narra con parole, si avvicinato al testo evangelico come se
fosse una sceneggiatura già pronta per la realizzazione. Questo determina la struttura del film che consta grosso modo di tre parti principali: dall’attesa della
nascita di Gesù alla chiamata degli apostoli; la vita adulta e la predicazione di
Gesù; la morte, risurrezione e congedo.
Nella prima e nella terza parte il film si sviluppa attraverso una serie di scene che costituiscono momenti distinti ma
progressivi di fatti umanamente toccanti e immersi in una atmosfera di misterioso raccoglimento e di straziante concitazione drammatica; il dialogo vi ha una presenza minima. Nella
seconda parte invece c’è l’irrompere della "parola" che raggiunge l’acme nel lungo discorso di Gesù che è il vero centro del film:
Gesù - il suo volto si staglia sull’ambiente e sul paesaggio - "urla" al mondo e al tempo il suo messaggio di giustizia.
C’è una progressione anche visiva della compresenza di Gesù al mondo: prima Gesù solo, poi Gesù con gli apostoli, poi sempre di più Gesù con la folla. Particolare risalto viene dato alla figura di Giovanni Battista: periodicamente spunta il suo viso interrogativo
"sei tu o dobbiamo aspettare un altro?".
E’ il regista stesso che si interroga e che suggerisce l’interrogativo allo spettatore, secondo la teoria pasoliniana del
"discorso libero indiretto", in forza del quale l’autore opera una immersione nell’animo del suo personaggio e quindi adotta non solo la psicologia del personaggio ma anche la sua lingua. Nella proiezione l’autore si duplica nello spettatore.
Il film è antispettacolare: pochi paesaggi, la folla più avvertita che presente, la scenografia scarna. Riguardo ai paesaggi,
Pasolini, intendendo ambientare il film nei luoghi originari, s’era recato in Israele; ma si rese conto che il tempo aveva
modificato luoghi e persone. Preferì quindi ambientarlo nell’Italia
meridionale: a Matera (Gerusalemme), a Barile, nel Crotonese
(Betlemme), a Tivoli (Getsemani). E la scelta risulta oculata e coerente con le altre scelte stilistiche del regista.
Un altro elemento di antispettacolarità è dato nel film dalla "discrezione" dell’immagine. Dal momento in cui Gesù inizia a parlare, l’immagine diventa il supporto della parola. Le
"angolazioni", soprattutto dal basso, servono a sottolineare la superiorità di Gesù; attraverso la
"figurazione" (la disposizione delle parti nel quadro) si colloca Gesù nel paesaggio fotografico e nel paesaggio umano. Molti i
primi piani, che servono a porre l’accento sull’ importanza dei personaggi rispetto all’ambiente:
in particolare Gesù, gli apostoli, i farisei.
La recitazione è eloquente in Gesù, ieratica negli altri; è naturale, cioè non artificiosa, ma non naturalistica, cioè
piattamente riproduttiva del rozzo parlare quotidiano. A volte la musica supplisce alla indicibilità delle parole, ma, nonostante
tutto, resta l’impressione che il film sia un insieme di scene distinte e separate, e quasi intercambiabili, senza una vera intima unità strutturale. E ciò perché Pasolini più che commentatore del testo ne è stato illustratore; non lo ha vissuto in proprio, ma è rimasto a esso estraneo, più stupito che commosso.
Da qui quella "preminenza della visualità" sulla tematicità che alcuni hanno rilevato, per cui gli interpreti non
raggiungono una coincidenza psicologica coi personaggi rappresentati, e del contenuto evangelico viene fatta una lettura che resta in superficie senza arrivare alla profondità della sostanza e alla giustificazione dei fatti.
Ed è anche per questo che, nonostante le contrarie intenzioni di Pasolini, che voleva fare un poema
epico-lirico, nel film il lirismo ha il sopravvento sull’epica, dando una serie di
stupende rappresentazioni legate più dal sentimento che i fatti e le parole suscitano nell’autore, e di riflesso nello spettatore, che dalla
"ragione" che dovrebbe interpretare questi fatti e queste parole.
In tale contesto l’uso della musica risulta leggermente arbitrario e sfasato. Pasolini ricorre alla musica
"nobile" -
Bach, Mozart, Webern, Prokoviev - e alla musica "popolare" in particolare la
"Missa Luba", con l’intento di raggiungere degli effetti di "straniamento" (far partecipare alle vicende con distacco
razionale) e di «contrappunto» (per somiglianza o opposizione alla natura della materia rappresentata): qui la musica «nobile»
dovrebbe servire per un adeguamento alla nobiltà del soggetto, la
«Missa Luba» e gli spirituals per sottolineare l’ispirazione popolare. Ma mentre la
«Missa Luba» suggerisce queste intenzioni, la musica "nobile" resta una esercitazione colta e raffinata.
Da questo emerge una costante dell’attività cinematografica di Pasolini, esplosa poi in maniera evidente dal Decameron in poi: l’estetismo, cioè il sopravvento delle emozioni personali dell’autore sui temi da lui trattati, la sopravvalutazione dei
valori formali rispetto ai contenuti ideologici, il piacere di raccontare, posto al di sopra della validità di quel che si racconta. L’artista creatore diventa artista illustratore, supplendo alla
genuinità dell’ispirazione con l’abilità dell’artigiano, il quale non sentendo più la sua materia dal di dentro la completa estasiato dal di fuori.
Momenti in cui Pasolini si compiace nel film ce ne sono molti, come si è già in gran parte visto: il ricorso ai maestri
della musica, della pittura (da Giotto ai manieristi del 600), del cinema (significative le parentele con certi registi
epico-lirici, da Rossellini a Eisenstein e Mizoguchi), la scelta dei personaggi noti per dare il volto ai personaggi evangelici, lo scorrere
carezzevole della macchina da presa sui visi e sui paesaggi. Ma, almeno in questo film, Pasolini si compiace con tanta sobrietà da esercitare un fascino stregato sugli spettatori non prevenuti.
Valori etici e sociali
Anticipando in sintesi l’analisi che segue, si può dire che il Cristo de Il Vangelo secondo Matteo è un Cristo alla Giovanni Battista (quasi da Vecchio Testamento) immerso in un’atmosfera socio-culturale
"pasoliniana", cioè verosimile ma ripensata e filtrata attraverso l’incandescente intelligenza di Pier Paolo
Pasolini.
Così il regista stesso spiega le proprie angolazioni di lettura del Vangelo di Matteo: «Ho ricostruito quel mondo di
duemila anni fa sotto il segno dell’analogia: al popolo di quel tempo ho sostituito un popolo analogo (il sottoproletariato
meridionale); al paesaggio ho sostituito un paesaggio analogo (l’Italia meridionale); alle sedi dei potenti delle sedi analoghe (i castelli feudali dei normanni), ecc. ecc. (...) Soltanto attraverso lo
storicismo io potevo concepire e poi attuare una simile ricostruzione analogica” (...). Protagonisti del mio film mi sembrano sia il sottoproletariato (fondamentalmente
astorico, e storico solo attraverso sussulti improvvisi) che Cristo (astorico in quanto la sua prospettiva andava al di là della storia). Ma l’affacciarsi alla storia di quel sottoproletariato avviene proprio attraverso la predicazione di Cristo.
Le masse che lo ascoltano e lo seguono hanno un peso politico, e determinano una svolta storica nella loro società e nell’intera società. Ecco qual è lo storicismo non scolastico non
strumentale del film» (P. P. Pasolini in "Vie nuove", 19-11-64, p. 32).
In tal modo Pasolini rinuncia alla ricostruzione storica, fondata sulla fedeltà
"archeologica", per mettere in risalto i significati ideologici del messaggio evangelico e del personaggio Cristo.
Però, nonostante le lodevoli intenzioni di Pasolini, la figura di Cristo ne esce ridotta alle proporzioni di un eroe mitico del quale si illustrano discorsi e azioni, senza tuttavia che questa illustrazione riesca a farne intendere le motivazioni profonde.
Uguale "stravolgimento" si ha nei confronti di personaggi importanti e di avvenimenti significativi del testo evangelico. Gli attori - o meglio i non-attori - spesso si muovono e parlano come se recitassero una lezione ben imparata: gli effetti che se ne
ottengono sono non di rado esteticamente apprezzabili, ma sterili risultando atti e parole svuotati del loro significato originario ed essendo solo esterno il legame tra immagini e parole. Lo stesso mirabile discorso di
Gesù, oltre alla concitazione emotiva ed estetica del volto, sempre più in primo piano e della voce sempre più aggressiva, non concede altro alla fede o all’interrogativo di chi vuol sapere chi è veramente Gesù al di là della sua dimensione umana così icasticamente messa in risalto da
Pasolini.
Certi elementi soprannaturali che Pasolini recepisce dal racconto evangelico, come le apparizioni dell’angelo, sono resi con fedeltà letterale, ma non sembrano più che favolistici
elementi narrativi: il significato di intervento di Dio attraverso la loro mediazione non è evidenziato e neanche suggerito. Si
spiegano così anche le "omissioni". Come è stato giustamente
osservato: «Tutte le parole incise sulla colonna sonora sono, è vero, di Matteo, ma tutti i silenzi, tutte le omissioni sono (né potrebbe essere altrimenti) di
Pasolini» (Dario Zanelli in «Il resto del carlino», 5-9-64).
Alcune omissioni non inficiano sostanzialmente la figura di Cristo, per esempio quelle che riguardano certi miracoli (la
risurrezione della figlia di
Giairo, la guarigione del servo del centurione, gli indemoniati di Gadara, i due ciechi, i ciechi di
Gerico, il fanciullo epilettico, la cananea); invece le omissioni riguardanti i discorsi alterano, per lo meno,
il significato di certe scelte operate da
Gesù. Per fare qualche esempio: non si fa cenno del discorso escatologico, non sono sufficientemente marcati la missione degli apostoli e il primato di Pietro che
invece sono tra i temi più propri del Vangelo di Matteo.
Il messaggio di Gesù ne viene fuori impoverito, ridotto com’è alle proporzioni di un messaggio di giustizia e di riscatto
rivolto soprattutto ai poveri. Interpretazione legittima ma incompleta, perché trascura il contenuto più largamente spirituale, l’essenza divina del Vangelo.
Il centrare poi tutta l’attenzione su Gesù, facendo degli apostoli quasi esclusivamente dei testimoni delle sue «gesta», rischia di fare apparire la predicazione di Gesù una realtà
magica che, per il fatto di essere esistita una volta, dovrebbe per virtù propria risuonare nel mondo di secolo in secolo e, sempre per virtù propria, suscitare nuovi credenti. E la Chiesa di cui parla Matteo che significato avrebbe nelle intenzioni di
Gesù?
La parzialità e l’incompletezza della visione di Pasolini si spiegano col fatto che in realtà, come si è più volte sottolineato, lui non racconta la storia di
Gesù-Dio, ma la storia di un mito religioso, quale fu vissuto da un popolo in miseria, oppresso da soldati stranieri e da una prepotente classe dirigente. Trascura l’altra angolazione che un autore, rispettoso della verità, ma che voglia affermare il proprio (più conclamato che reale)
ateismo anche di fronte alla figura di Cristo, avrebbe dovuto e potuto adottare: mostrare il Cristo come lo
"vedono" l’autore del Vangelo e la tradizione cristiana.
La sua fedeltà-infedeltà al testo di Matteo - fedeltà (non integrale tuttavia) alla linea narrativa, infedeltà alla linea
tematica - ha depotenziato un’opera esteticamente significativa, facendo di quella che doveva essere un’interpretazione oggettiva del testo di Matteo una visione personalistica, anche se
ortodossa nell’intelaiatura generale e nel rispetto materiale della lettera. Per questo motivo non si può riconoscere ne Il Vangelo secondo Matteo un’opera cattolica o almeno cristiana.
C’è presente, però, un soffio di autentica spiritualità che il credente potrà integrare attraverso la propria fede e il proprio
affiato religioso. Ed è certamente un’opera meno mistificante, più riverente e più valida di tante grossolane
commercializzazioni della Bibbia in generale e del Vangelo in particolare. Come tale è degna del massimo rispetto e della massima
attenzione.
I critici hanno scritto
"Il Vangelo secondo Matteo che Pasolini ha ideato e diretto si inserisce in una linea che ha, quale unico significativo antecedente, Francesco, giullare di Dio di Rossellini. Mentre, però, il “Francesco” è un film “religioso”, in senso generico, perché legato nell’ispirazione, nel tema, nell’ambiente a dei limiti più ristretti e limitati nel tempo e nell’assunto, “Il Vangelo” è un’opera che si rifà all’essenza stessa del cristianesimo, ne rappresenta i cardini, al punto che la sua tematica diviene generale e si ramifica nelle coscienze partendo appunto dal nocciolo fondamentale. Ecco il valore "religioso" più ampio e più universale del film di oggi, il quale ha, sul piano estetico, un limite obiettivo nelle strutture che Pasolini ha scelto - la fedeltà assoluta all’impianto narrativo e drammatico di Matteo, alle parole stesse di Matteo - ma all’interno di tale struttura si muove con la massima libertà di ispirazione e di stile. E un suo pregio grande, infatti, è il legare con precisi rapporti di cultura letteraria e figurativa il mondo religioso e storico del Vangelo e della Palestina di duemila anni or sono alla perenne validità del messaggio di Cristo e della riaffermazione di una situazione storica ancor oggi durevole, nelle linee fondamentali (...). Il film è ora descrittivo, ora introspettivo, ora tragico. Pasolini ha sentito soprattutto un Cristo carico della più profonda e sofferente natura umana - quella che così in evidenza traspare da Matteo - per parlare agli uomini e essere da loro inteso, e per risvegliare la loro sensibilità religiosa".
(Giacomo Gambetti in "Cineforum", 1964, n. 38-39, pp. 827-828)
"Pasolini realizza il suo film secondo un modulo accessibile a tutti, spoglio di richiami culturali, critici ed esegetici, vivacemente inserito,
invece, nelle più succose tradizioni dello spettacolo popolare e delle sacre
rappresentazioni cui la partecipazione del popolo conferisce un’ingenuità ed una stilizzazione al di là di ogni limite strettamente tecnico, e
garantisce un’intima autenticità, che sembra persino prescindere dalla veridicità dei connotati espressivi.
Pasolini ha intuito, aderendo al testo di Matteo, la sconvolgente rivendicazione di tutto il destino dell’uomo operato da Gesù ed è
abbagliato da questo radicale capovolgimento di valori, che ha tutte le
caratteristiche di una rivoluzione (...). Ma (...) Pasolini ha affermato la
terribile serietà del Vangelo. Egli fissa l’austera vitalità del Messia, che è
venuto sulla terra per farsi uomo tra gli uomini, povero tra i poveri,
perseguitato tra i perseguitati. In questo racconto c’è poco spazio per i
sorrisi. Questo Gesù si muove con un atteggiamento profetico consono ai suoi tempi ed alla sua gente e, nonostante talune doverose riserve, apre un discorso squisitamente interiore, che forse una più tenera
enunciazione avrebbe diluito o frenato. Ma il film ha un altro grosso merito:
manda in frantumi una secolare tradizione figurativa ed introduce un’impostazione estremamente impegnativa, che, se potrà essere
discussa, non potrà certo essere onestamente ridicolizzata Questo modo di fare il cinema implicava il rischio di affievolire la ricchezza del
racconto di Matteo. In verità, nel film non mancano i fatti e le parole che
provano la divinità di
Gesù. Può invece essere messa in discussione la presenza di un senso del soprannaturale, che conferisca un peso specifico a certi fatti ed a certe
parole".
(Renato Buzzonetti in «Studi Cattolici», 1965, n. 46, pp. 55-56)
«Col Vangelo secondo Matteo Pier Paolo Pasolini si è presentato a Venezia con la sua più matura opera cinematografica. Intuizioni in termini di puro linguaggio cinematografico, Pasolini le aveva già palesate in
Accattone, Mamma Roma e La ricotta. Ma col Vangelo lo scrittore-cineasta ha mostrato di saper risolvere problemi che finora il film in costume aveva fatto ritenere quasi sempre insolubili. Ad esempio riuscire a dare spirito dì autenticità alle storie narrate ed ai personaggi
storici o pseudostorici presentati. Nel Vangelo la intuizione più geniale, ed al tempo stesso più semplice, è stata quella di dare carattere di sacra rappresentazione
popolaresca (come quella di
Isnello, ad esempio) alla tragedia di Cristo.
(...) Come è data dai costumi e dalle scene idealizzate (dove si vede anche una trifora senza tempo) l’unità stilistica del film è data anche dai paesaggi in campo lungo, crepati, visti accanto ai letti dei torrenti e alle rocce: e si ricordi il campo lungo che precede la sequenza del Battesimo. Le case di Matera hanno una impronta di reale decomposizione quale
è propria del paesaggio biblico. Si sente il vento e la sabbia che tutto rode. L’omogeneità è creata anche dai tipi impiegati, attori e comparse,
attraverso facce vissute, ora drammatiche, ora ilari, di una sofferenza e letizia autenticamente cristiane. E gli interpreti, qualunque fosse il loro molo, hanno trovato, a partire dal catalano Enrique Irazoqui che impersona
Cristo, e sulla indicazione della regia, il giusto tono ai loro atteggiamenti e alle loro azioni».
(Mario Verdone in «Bianco e Nero, 1964, n. 8-9, pp. 17-19)
«Il Vangelo di Pasolini segue in molte cose la traduzione narrativa del quadro vivente: è concepito come un seguito di scene senza
articolazione interna, giustapposte l’una all’altra secondo il filo indicato dal
Vangelo, al di fuori di qualsiasi necessitazione storica (...). E’ ovvio che la “sacra rappresentazione” di Pasolini sia prettamente cinematografica: Cristo vive e agisce in una terra primitiva e misera, popolata da gente che ha i volti di sempre, le mani ed i lineamenti dei poveri, i segni della fatica e
degli stenti sul volto.
(...) Il Vangelo di Pasolini è soprattutto un Vangelo di uomini, di volti. L’uso insistito degli obiettivi a fuoco lungo
contribuisce a sottolineare costantemente la prevalenza del volto sul paesaggio
e dell’individuo sulla folla»
(Leandro Castellani in «Rivista del Cinematografo», 1964, n. 9-10, pp. 430-431)
«Pasolini è un idealista, un irrazionale, un decadente; la sua sincerità arriva allo scandalo e alla contraddizione. E’ anche un narcisista; non si libera da sé stesso, dal proprio destino, si vede “crocifisso” dalla classe che odia e la figura del “povero Cristo” diventa per lui il modello della sua propria prova esistenziale (...). Il Vangelo, a veder nostro, è opera di alta illustrazione. Diciamo illustrazione, non interpretazione, anche se siamo davanti a un film intenso e nuovo. Illustrazione non soltanto per la bellezza figurativa, ma per questa impossibilità di cercare una risposta alle contraddizioni di Pasolini (...). Dicevamo: le contraddizioni di Pasolini. Non parliamo da borghesi, da piccoli borghesi. Cioè non diciamo parla bene e razzola male, ci vuol altro. Pensiamo alle contraddizioni del vero cristiano, alla sua quotidiana battaglia, alla durissima battaglia contro sé stesso, per perfezionarsi, per santificarsi. Pasolini, col suo Cristo, battaglia solo contro gli altri e gli altri sono per lui una determinata classe, molto vasta, molto labile, ma per lui facilmente e schematicamente circoscritta nel ceto borghese. Se Pasolini, secondo la mistica di Pascal, di Bernanos, si liberasse da sé stesso, trovasse la vera Grazia e non un semplice, ambiguo accomodamento, sarebbe probabilmente un grandissimo artista. Ha ancora molti paraventi da abbattere. Ha comodi paraocchi da gettare nella polvere. Deve "disimpegnarsi" rivoluzionariamente d’idealismi troppo schematici. Deve vedere sè stesso meno crocifisso e più crocifissi, per contro, gli altri, magari i suoi nemici o forse i suoi amici».
(Giuseppe Torroni in «Primi Piani», 1964, n. 11-12, pp. 26-27)
Utilizzazione
Si tenga presente che più che di Gesù-Dio o di Gesù-uomo si tratta di Gesù-Mito. E’ una ricerca che esplora dall’esterno e solo storicisticarnente il personaggio (manca la divinità), è un’esegesi che si sofferma sul naturale, sia pure sublime (bisogna aggiungervi il soprannaturale), è un’interpretazione poetica della figura di Cristo più che una meditazione simpatetica sulla vita di Cristo Uomo-Dio. Comunque resta l’opera sincera di un uomo di cultura ideologicamente impegnato; ed è su queste caratteristiche di sincerità, cultura, ideologia che bisognerebbe fermarsi o dalle quali partire per un’analisi oggettiva, spassionata e feconda del film. Un’opera che, dialetticamente, spinge il credente a interrogarsi con estrema sincerità sulla propria «interpretazione» della figura di Cristo, spesso legata solo a dolciastre impressioni della prima infanzia. Non si dimentichi che Pasolini s’è rifatto esclusivamente al testo di Matteo; quindi non è da imputargli l’incompletezza per l’assenza di episodi e parole che si trovano negli altri evangelisti.
Profilo biografico dell'autore
Pier Paolo Pasolini, poeta, critico, scrittore, sceneggiatore, attore e regista cinematografico, nacque a Bologna il 5 marzo 1922. Durante la giovinezza seguì la famiglia in diverse città dell’Emilia e del Veneto a causa dei continui trasferimenti del padre ufficiale dell’esercito. Conseguì poi la laurea in lettere all’Università di Bologna e nel 1949 si trasferì definitivamente a Roma dove si dedicò, per alcuni anni, all’insegnamento. Nel frattempo si andava affermando come scrittore e poeta, patetico e drammatico a un tempo, inquieto e a volte nostalgico, proteso verso una vagheggiata redenzione dal dolore e, attraverso il dolore, dalle ingiustizie sociali: disperazione e speranza espresse con l’irruenza dialettale raccolta sulla bocca e nella vita delle classi più derelitte della società attuale. Questi temi Pasolini li trasferirà, poi, nel cinema al quale si dedicherà totalmente a partire dal 1961. Ma più che trasferirli bisogna dire che Pasolini i suoi temi letterari li «ricrea» nel cinema, attraverso la concretizzazione aggressiva dell’immagine, con quella sua forza drammatica di presentare la realtà. Primo film di Pasolini fu Accattone, scritto, diretto e sceneggiato da lui nel 1961. Il film, se da una parte rappresenta il suo esordio come regista, dall’altra fa seguito a una notevole esperienza in campo filmico come sceneggiatore e soggettista di numerosi film, nonché come attore del film Il gobbo (1960) e Requiescant (1966) di Carlo Lizzani. Con Accattone Pasolini aprì il discorso, portato avanti con le opere successive, della ricerca di liberazione, di riscatto, dal vuoto spirituale (non in senso religioso) in cui vive l’umanità; della solitudine trasferita in amore aggressivo. Un film di denuncia, quindi, ambientato nello squallore di alcune borgate romane ed emblematico di un certo tipo di umanità forgiata da un preciso contesto sociale. Dopo Accattone Pasolini propose Mamma Roma (1962) interpretato da Anna Magnani. In questo film rivelò una certa inconscia ambiguità e soprattutto quel propendere ora per un certo filologismo letterale, ora verso i moduli socio-culturali del marxismo. Dopo l’episodio originalissimo de La ricotta (1963), Pasolini venne alla ribalta con Il Vangelo secondo Matteo (1964), un film che richiamò l’attenzione di tutta la critica, la quale espresse pareri diversi e contrastanti tra loro. Tutti concordarono, pero, nel riconoscere all’opera una straordinaria perfezione stilistica, resa dalla composizione iconica dell’immagine e dalla suggestività dei toni del bianco-nero. Il Vangelo secondo Matteo, sia pure realizzato nel clima poetico, non vibra però della religiosità del messaggio cristiano. Il Cristo di Pasolini penetra come uomo nella solitudine degli uomini, nelle loro miserie, nelle speranze, nelle ingiustizie sociali, proponendo una redenzione rivoluzionaria e inquietante, così come fu inquieto il cristianesimo pasoliniano. Il successivo Comizi d’amore (1964), lo si può definire film-inchiesta sull’amore e sul sesso, in cui l’attore approda a una sorta di constatazione deludente sui tabù del sesso di cui è vittima l’attuale società. Fu poi la volta di Uccellacci e uccellini (1966), che se da una parte manifesta la crisi del Pasolini marxista, dall’altra segna un momento di interiorizzazione del messaggio cristiano da parte dell’autore. Deluso, ma non disperato, di fronte alla crisi stagnante del marxismo, Pasolini propone una convivenza pacifica tramite la fusione dei comuni valori del cristianesimo e del marxismo. Il tema sociale dell’ingiustizia, della differenza tra le classi, venne poi ripreso da Pasolini in Edipo re (1967), un’opera notevole, vibrante della religiosità laica dell’autore, dove il tema del dolore redentivo assurge ad opera umanamente divina, in un clima di storicizzazione di un passato che porta i connotati del presente. Con Teorema (1968), Pasolini dà inizio alla sua prima trilogia: Teorema - Porcile - Medea. Si evidenzia in questi film lo sviluppo organico del mondo pasoliniano, in un simbolismo carico di contenuti spirituali: la sete del divino e la comunione del divino. Ovviamente tutto questo è visto in un contesto storico-socio-naturale, dove, come si afferma in Teorema, "la grazia potesse risolvere i complessi nodi della realtà". Con Teorema si può dire che Pasolini abbia raggiunto la punta massima della maturità, sia sul piano letterario cinematografico sia sul piano umano. Seguì Porcile (1969), dove il discorso di Teorema venne portato avanti per la china discendente della parabola, e come dimostrazione pratica di quanto l’umanità sia lontana dall’assimilazione di quei valori che dovrebbero trarla fuori dal "porcile" in cui di fatto vive. Il film non presenta quindi un messaggio preciso, ma un insieme di visualizzazione caotica (a livello tematico) di una umanità viziosa e divoratnce. La trilogia si concluse con Medea (1969), tragedia di netta ispirazione euripidea, il cui contesto attualizzato riflette la realtà storico-esistenziale del sottosviluppo, della violenza in cui versa una umanità vuota di valori spirituali autentici. Il film, come tutti i precedenti, si rese inintelligibile al grande pubblico e, nonostante l’attenzione di Pasolini verso i deboli e i diseredati, il suo risultò un film d’élite, come l’autore non avrebbe voluto. Sarà stato forse questo il motivo per cui Pasolini diede l’avvio a una seconda trilogia che iniziò con Il Decameron (1971) a cui seguirono I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle mille e una notte (1974) e che fu definita "la trilogia sulla vita". Questa seconda trilogia segnò una progressiva decadenza nel pensiero e nell’arte pasoliniana, tanto che la critica parla di un "Pasolini minore". Egli pare che si areni, quasi con insistita compiacenza, sulle degenerazioni del sesso, riempiendo lo schermo di ammassi umani, di accoppiamenti innaturali, di sgradevoli mostruosità, con il pretesto di attualizzare gli stanchi capolavori letterari. La trilogia vorrebbe essere la propostariscoperta di una umanità vista nella sua primordiale naturalezza in un contesto sociale primitivo: quello preindustriale del Boccaccio e di Chaucer, e quello della favola e del sogno del mondo orientale. Salà o le 120 giornate di Sodoma (1975) si ricollega alla precedente esperienza della "trilogia sulla vita". Sulla linea di un atteggiamento polemico verso la società, Pasolini finisce con l’incattivirsi, con il logorarsi in una sorta di tensione spirituale. Il discorso di Salà o le 120 giornate di Sodoma punta perciò sulla dialettica sesso-morte. Protagonista del film è il male, nella sua forza disgregatrice e al tempo stesso nella sua "sacralità", nella sua duplice dimensione, cioè, di maledizione o benedizione. Pasolini pretendeva cosi di dare un ritratto dello squallore della società attuale, ma forse il suo fu più un dettato del proprio mondo interiore, pietoso quanto la sua morte avvenuta in circostanze drammatiche, il 2 novembre 1975. Con Medea si è chiuso, comunque, il ciclo di quell’arte pasoliniana che costituisce un capitolo a sé nella produzione cinematografica italiana degli anni sessanta. Tale arte, infatti, è l’espressione della forte tempra dell’artista e del poeta che non ha ancora conosciuto la volgarità, e canta pertanto il suo vero mondo spirituale-intellettuale, contraddittorio per certi versi, ma sincero e autentico.
I film di Pasolini
Accattone, 1961
Mamma Roma, 1962
La ricotta (episodio di Rogopag, poi laviamoci il cervello), 1963
La rabbia (co-regia con O. Guareschi), 1963
Sopralluoghi in Palestina, 1964
Comizi d’amore, 1964
Il Vangelo secondo Matteo, 1964
Uccellacci e uccellini, 1966
La terra vista dalla luna (episodio de Le streghe), 1966
Che cosa sono le nuvole (episodio di Capricci all’italiana), 1967
Edipo re, 1967
Teorema, 1968
La sequenza del fiore di carta (episodio di Amore e rabbia), 1969
Porcile, 1969
Medea, 1969
Il Decameron, 1971
I racconti di Canterbury, 1972
Il fiore delle mille e una notte, 1974
Salà o le 120 giornate di Sodoma, 1975