Parashat Devarim - Shabbat Chazon

"E fu quando cessarono di morire gli uomini atti alla guerra dal mezzo al popolo...E parlò il Signore a me dicendo:" (Deuteronomio II 16-17)

"E parlò: invece da quando sono stati mandati gli esploratori fino a qui non è detto (in questa parashà) "e parlò" ma solo "e disse", per insegnarti che per tutti i 38 anni nei quali Israele era rimproverato (punito), non si è unita la Parola con lui, con un termine affettivo, faccia a faccia ed indirizzo preciso. Per insegnarti che la Presenza Divina non si posa sui profeti altro che per Israele". (Rashì in loco citando Torat Coanim e TB Taanit 30b)

Con l’aiuto dell’Eterno apriamo questa settimana il quinto libro della Torà. Libro senz’altro distinto rispetto agli altri quattro. Libro chiamato anche "Mishnè Torà" o "Ripetizione della Torà". Il riferimento non è solo al fatto che in questo Libro Moshè analizza alcuni degli eventi passati della storia di Israele. Il Libro di Devarim è una ripetizione della Torà perché in esso il rapporto tra Israele e D-o, ma anche tra ognuno di noi e D-o, cambia in mondo considerevole. Il Talmud (TB Meghillà 31b) asserisce che la differenza tra questo Libro e gli altri è che i primi sono stati detti dal Signore mentre questo è stato detto da Moshè. Dobbiamo capire cosa intenda esattamente il Talmud: l’insegnamento non vuole assolutamente affermare che questo libro non è opera del Santo Benedetto Egli Sia, D-o ci guardi! Il Gaon di Vilna e così pure il Marhal di Praga spiegano che la differenza (ed a ciò si riferisce il Talmud) è nella cronologia degli eventi. Nei primi quattro libri Moshè trasmetteva direttamente ciò che ascoltava da D-o in contemporanea, "on line" diremmo noi. Nel libro di Devarim esiste un lasso di tempo tra il momento in cui Moshè ascolta ed il momento in cui egli parla, sono due operazioni distanziate temporalmente. Viene spontaneo chiedersi come mai questo cambiamento di metodo. Ma c’è un altro problema che irrompe violentemente nella nostra Parsashà ed è il senso della parola. Diciamo spesso che la parola è l’elemento fondante dell’ebraismo; eppure una simile affermazione se non approfondita dice molto poco. Esistono due termini in ebraico che indicano due azioni solo apparentemente identiche: "leDabber" (che traduciamo: parlare) e "lEmor" (dire). In cosa differiscono queste due espressioni? In generale Rashì commenta dicendo che la radice "lemor" implica una dimensione più legata alla sfera della misericordia, una forma di dialogo soffice, affettuoso. È per intenderci il modo in cui D-o, chiede a Moshè di spiegare la Torà alle donne. (cfr. Esodo XIX,3 e Rashì in loco). La radice di "leDabber" è invece generalmente associata ad un idea di legge, giustizia. È un modo di parlare forse più brusco, senz’altro più duro. Dire che D-o "parla" a Moshè o "dice" a Moshè non è la stessa cosa. Diamo per assodato che l’Autore del testo biblico non interscambi i due termini per evitare ripetizioni. Altresì non è lo stesso dire che D-o dice in assoluto o parla in assoluto. I due eventi fondamentali di questo pianeta sono, nella tradizione ebraica, accompagnati rispettivamente da dieci parlate/detti. La Creazione del Mondo, che nel pensiero dei mistici è il risultato di una contrazione volontaria della Divinità e di una contemporanea introduzione dell’idea di misericordia, avviene secondo i Saggi attraverso "dieci detti", "asarà maamarot". Il momento invece nel quale il mondo acquista uno scopo, riceve una Legge, accoglie la Volontà del suo Creatore, ossia il Matan Torà, il Dono della Torà, è il momento delle "aseret addibberot", le "dieci parlate". I dieci cardini giuridici che contengono in forma celata tutti i 613 precetti. Risulta strano allora trovare allora nel commento di Rashì alla parashà di questa settimana un commento apparentemente in assoluto contrasto con quanto detto e avallato da Rashì in altre occasioni. Nel commento di Rashì con cui abbiamo aperto questa discussione appare chiaramente come egli indichi nell’utilizzo della radice "leDabber" dopo un periodo di astensione come il sigillo della pacificazione tra D-o ed Israele. Egli indica nell’utilizzo di questa forma verbale il segno di un riconquistato rapporto di affetto ed intimità tra D-o e Moshè che noi credevamo prerogativa di un rapporto basato sul verbo "lEmor" e non sul "leDabber". Rav David Feinstein nel suo "Kol Dodì on The Torah" (p.259) affronta brillantemente questo problema. È indubbio che generalmente, dice Rav Feinstein, la radice di "lEmor" implichi dei rapporti più "soffici", ma dobbiamo chiederci perché. La radice in questione infatti implica una dimensione della misericordia che è la rinuncia a qualsiasi prerogativa di un rapporto paritetico. Ossia D-o usa il "dice" quando si deve sottolineare la distanza che intercorre tra Lui e l’uomo, ma "parla" quando ci eleva a partner "keilu" (come se si potesse dire) paritetici. D-o che crea il Mondo è sì il D-o della Misericordia che contempla di dover venire a compromessi con i Suoi criteri di Giustizia, ma è anche il D-o che ci si pone come Creatore e Padrone. Di contro la Legge è spesso dura ma l’introduzione della Torà nel mondo ci consente di elevarci dal rango di creati a quello di creatori, di diventare soci dell’Eterno nella creazione continua del Mondo. In quest’ottica dobbiamo allora leggere l’insegnamento di Rashì: una volta espiato il peccato degli esploratori possiamo recuperare il modo di inseguire uno status superiore. Moshè quindi ha a che fare con un rapporto con D-o forse più duro e problematico ma per questo anche maggiormente pieno di affetto. Ed è questo il punto in questione. Ci troviamo infatti alla fine della ovattata esistenza del deserto nella quale Israele, per poter ricevere la Torà si è staccato dalle necessità materiali al punto che persino il cibo viene dal Cielo! Rav Shimshon Refael Hirsch spiega che il senso di Devarim va ricercato nella sua prossimità all’ingresso in Israele. La vita d’Israele sta per cambiare: stiamo per passare ad un mondo nel quale la presenza dell’Eterno non è fisicamente tangibile come nel deserto. Non ci sarà più manna e saremo noi a dover dimostrare il fatto che tutto il cibo viene da D-o lavorando la Terra ed offrendo la Terumà al Santuario. Non è pertanto più possibile un rapporto incentrato sulla Presenza Manifesta di D-o, dobbiamo imparare ad accettare il volere di D-o anche se non sentiamo perennemente la Sua voce o vediamo la Sua mano, dobbiamo imparare ad avere fiducia. Ed è proprio la fiducia che ci viene richiesta ora, la fiducia nei Maestri ed in chi, riuscendo a mantenere vivo e tangibile il rapporto con la Divinità anche in situazioni poco spirituali, può indirizzarci verso la corretta via. Passiamo quindi non solo ad una vita nella quale al centro c’è la nostra opera e non quella di D-o, ma anche ad una vita nella quale al centro non c’è la Torà di D-o ma la nostra Torà. La Torà Scritta, fissa ed immutabile rappresenta la perfezione Divina, la Torà Orale dinamica ed in continua raffinazione stimola il contributo umano all’opera Divina. Anche qui i concetti sopra scritti risultano validi. Il rapporto tra Israele e D-o nel deserto è certo un rapporto più affascinante ma è il rapporto di un Padre che conduce per mano il figlio. Ora il Padre vuole vedere se il figlio sa camminare da solo. In un apparente durezza che attribuiamo al Padre che "abbandona" il figlio si cela la volontà di elevare il figlio ad un entità autonoma: è lo stesso schema di "leDabber" e "lEmor". Il libro di Devarim è quindi il libro della supremazia del "dibbur" sulla "amirà", della legge sulla misericordia, almeno per quanto concerne gli obbiettivi di Israele. Fermo restando che senza Misericordia Divina questo mondo non si regge, noi dobbiamo tentare di meritarci un rapporto basato sulla giustizia che è un rapporto più impegnativo, più duro, ma anche più gratificante. Queste sono le sfide che si trova dinanzi Israele allorquando si appresta a divenire un entità statale nella sua Terra: una vita apparentemente separata da quella di D-o ma in realtà vissuta nel costante tentativo di portarLo nelle cose più materiali, nelle questioni quotidiane. Una dimensione nella quale non si deve più ascoltare la voce di D-o per tremare, ma basta studiare la sua volontà in quel processo dinamico e coinvolgente che è lo studio della Torà Orale. È infine la dimensione che prevede la necessità di tempo per elaborare l’appreso. Si passa dalla dimensione "on line" alla dimensione dell’ "off line". La differenza è quella tra chi nella paura di perdersi non lascia mai la mano del partner e chi è pronto a procedere da solo nella certezza che tornerà presto a stringere la mano dell’amato. Ed in tema di "tempo" è sconvolgente il tempismo della Torà in tal senso. Shabbat Devarim è il Sabato che precede il 9 di Av, giorno della distruzione del Tempio, simbolo del nostro insuccesso a sopravvivere in un mondo basato sulla Legge. Il 9 di Av è anche, guarda caso, la data nella quale il popolo piange per il rapporto degli esploratori, la colpa che ha interrotto il verbo "leDabber". Il 9 di Av e la distruzione del Tempio sono la riprova che non siamo stati all’altezza. Abbiamo accettato di giocare ad un gioco molto duro, accettandone le regole, ma le abbiamo trasgredite. Il Padrone del mondo allora ci ha retrocessi. Siamo caduti in un rapporto nel quale non solo non siamo al livello del "leDabber", ma neppure a quello del "lEmor". Non c’è più profeta in Israele. I Saggi dicono che dal giorno in cui il Santuario è stato distrutto la profezia è stata data ai bambini ed ai folli. Noi siamo nella condizione nella quale non andiamo per mano con l’amato e neanche gli camminiamo affianco sicuri: il nostro partner si è ritirato da noi in quella modalità definita "astarat panim", rimozione del Volto. Ecco il grande messaggio per noi in questi giorni: imparare a camminare da soli. Noi dobbiamo dimostrare almeno di mettercela tutta nel cercare di rispettare le regole. Quello che non siamo in grado di fare non ci è richiesto. Dopo questi tristi giorni sarà la volta dei Giorni terribili di Rosh Hashanà e Kippur nei quali dichiareremo la nostra nullità dinanzi all’Eterno. Cercheremo il perdono proprio nel paternalismo della Divinità: "Nostro Padre, Nostro Re", diremo. Ricordiamoci allora, ci dice Moshè questo Shabbat, di cosa, volendo, siamo capaci di fare.

Non era forse Moshè il balbuziente? Eccolo "parlare tutte queste parole"! Noi siamo tutti balbuzienti e dobbiamo imparare a parlare. Moshè era balbuziente perché il "dibbur", la facoltà della parola va in esilio con Israele. Se noi siamo in esilio, la parola è in esilio. Moshè, forse è l’unico che se ne rende conto. Proprio lui che non potrà coronare la redenzione entrando in Erez Israel corona la redenzione della parola divenendo da balbuziente il più grande degli oratori. Alcuni pii usano, nel giorno del 9 di Av associare una volontaria astensione dalla parola a quella prescritta dal cibo. Un modo per sottolineare la necessità che noi abbiamo di rieducazione alla parola. Forse il miglior proposito per trasformare il 9 di Av di QUEST’anno (!!!) nel giorno della Redenzione finale è quello di imparare a parlare misurando le parole con il nostro prossimo, capendo il senso che ogni parola ha nel mondo ed il suo enorme peso.

Capire che con una parola (la parola "ribelli") Moshè ha perso il diritto di ingresso in Israele. Che con una parola (la parola "kallem", "distruggili") Bilam voleva distruggere Israele . Con dieci soli detti Iddio ha creato il mondo, con dieci parlate gli ha dato una Legge.

A noi ne bastano sette per affermare "Ascolta Israele il Signore nostro D-o, il Signore è Unico"

"PARLATE al cuore di Gerusalemme ed annunciatele che il suo tempo (dell’esilio) si è concluso e che il suo peccato è stato conciliato, poiché ha ricevuto dalla Mano del Signore due volte per tutte le sue colpe" (Isaia XL,2)

Shabbat Shalom e Zom Kal,

Jonathan Pacifici