Parashat Vajgash

"E disse Josef ai suoi fratelli: ‘Io sono Josef; forse mio padre è ancora vivo?’ E non poterono rispondergli i suoi fratelli poiché rimasero sconcertati davanti a lui." (Genesi XL, 3)

Dinanzi allo sconcerto dei fratelli di Josef si apre la nostra Parashà. Come noto Josef si rivela ai fratelli in quella che è una delle più commoventi pagine della Torà. Ma cos’è che stupisce i fratelli tanto da lasciarli senza parole? Apparentemente la risposta è chiara: il semplice fatto di riscontrare che il fratello venduto tanti anni prima è ora il viceré del più potente impero dell’epoca. I nostri Maestri, come sempre, hanno cercato di andare più a fondo.

Quasi tutti i nostri Saggi si sono posti lo stesso problema su questo verso: che senso ha la domanda di Josef?

La rivelazione di Josef segue il celebre discorso di Jeudà: il leader dei fratelli impernia la sua richiesta sul fatto che egli si è reso garante di Beniamino e che il padre morirebbe dal dolore se questi non tornasse a casa. Jeudà chiede pertanto di potersi sostituire a Beniamino come schiavo/ostaggio. Dal discorso di Jeudà, ma anche dalle precedenti vicende, è quindi evidente che Jacov è ancora in vita. Perché allora Josef formula questa domanda apparentemente senza senso?

Il senso della domanda lo capiscono bene i fratelli che per questo rimangono senza parole. La domanda di Josef viene intesa dai Maestri in più modi:

"…e anche ciò che ha detto loro: ‘forse mio padre è ancora vivo?’, spiega il Midrash che non era affatto una domanda dato che, come abbiamo spiegato prima, non c’era assolutamente spazio per questa domanda ora. Invece il Midrash ti spiega che questa era un affermazione di stupore e meraviglia, la lettera "hei" [che aggiunge il senso di "forse" alla parola "ancora"] indica stupore, ed egli gli ha detto con un linguaggio di stupore: ‘Io sono Josef; forse mio padre è ancora vivo?’ con senso di stupore. Dicendo: ‘Io non capisco come mio padre possa essere ancora vivo a causa del troppo dolore del non sapere niente di me fino ad ora’. Ed in queste parole è contenuta, in forma nascosta, una grande domanda a loro ed anche una contraddizione con tutti i ragionamenti di Jeudà nella sua disputa, poiché tutti i ragionamenti di Jeudà [ruotavano sul] grande dolore che avrebbe provato Jacov se gli fosse stato preso Beniamino, ma se è così ecco che gli ha obbiettato [Josef], come mai non si fossero preoccupati [in passato] del dolore del loro padre ed avessero venduto Josef. Ed anche che se era potuto stare senza Josef, così sarebbe potuto stare senza Beniamino, ed ecco che dopo che avevano dimostrato davanti a lui grande misericordia verso loro padre circa il fatto che gli venisse preso Beniamino suo figlio prediletto, [Josef] dispiega davanti a loro il loro stesso operato [nella vendita] ed essi rimasero sconcertati dal rimprovero…" (dal commento del Bet-Hallevì sulla parashà di Vajgash)

Questa chiara analisi non ha bisogno di ulteriori commenti. Le parole di Josef però, e soprattutto la sua domanda retorica così come la percepisce il Bet-Hallevì, ci impongono qualche riflessione sul senso della vita. Che cos’è la vita di un uomo? Qual è il suo scopo? Forse questo è uno dei messaggi principali della nostra Parashà.

Forse poche culture danno valore alla vita come la Torà. La Torà è una Torà di vita e delle mizvot è detto "e tu vivrai in attraverso di esse". Da qui si deriva che in presenza di pericolo di vita si deve trasgredire la Torà stessa. Ma ci sono dei limiti. Posti di fronte alla scelta tra fare idolatria o morire, avere rapporti sessuali proibiti o morire, uccidere un innocente o morire, si deve scegliere di morire. La vita è un valore eccelso, ma non è tutto. Essa può trasformarsi e ridursi ad un esperienza vuota che non vale la pena di essere vissuta . Hillel, che era noto per la sua bonarietà, dice nel Pirkè Avot che chi non ha mai studiato Torà è degno di morte. La vita di un ebreo è finalizzata allo studio della Torà. I malvagi, sono chiamati morti anche da vivi mentre i giusti sono chiamati vivi anche dopo la morte fisica.

La vita è nella Torà.

Lo scorso anno abbiamo parlato del fatto che prima di mandare Josef dai fratelli Jacov stava studiando con lui la mizvà della "Eglà Arufà" ed abbiamo inoltre discusso di come nei carri che Josef manda ora al padre sia contenuto un accenno a quella mizvà. Ecco come descrive la Torà Jacov quando vede arrivare i carri di Josef:

"…e vide i carri che aveva mandato Josef per portarlo e riprese vita lo spirito di Jacov loro padre." (Genesi XLV,)27

Inizialmente Jacov non crede che Josef sia ancora in vita, anche se ben undici suoi figli hanno riconosciuto in lui il loro fratello. I Maestri spiegano che la perplessità di Jacov non concerneva tanto il fatto che Jacov fosse fisicamente vivo, ma piuttosto che fosse sopravvissuto moralmente nella capitale della immoralità che era l’Egitto. Solo quando vede i carri, simbolo dell’ultima mizvà studiata insieme al figlio, il vecchio patriarca capisce che Josef è veramente vivo, anche nello spirito. Nelle parole dei figli "egli domina su tutta la Terra d’Egitto" capisce che non è solo un fatto fisico, ma il suo spirito domina gli egizi e non si fa influenzare dalla loro immoralità.

Jacov riprende vita quando ricomincia ad occuparsi delle mizvot, ed è attraverso le mizvot che capisce che anche il figlio prediletto è ancora vivo.

I Maestri si stupiscono del fatto che è solo Josef ad abbracciare e baciare il padre; secondo il Midrash, nel momento del tanto atteso incontro, Jacov non abbraccia il figlio perché è occupato a recitare lo "Shemà". Un giusto come Jacov capisce che la gioia di vivere che suscita un figlio che rimane attaccato alla Torà in una terra straniera va convogliata nuovamente verso il servizio Divino e per questo recita lo "Shemà" per servire il Signore con gioia.

Scendendo in Egitto Jacov manda avanti Jeudà "per disporre". Il Midrash impara da ciò che prima ancora di mettere piede in Egitto Jacov manda Jeudà a preparare un Bet-Midrash, un luogo dove studiare Torà. La vita del popolo ebraico e la sua sopravvivenza, soprattutto nei momenti di esilio, è nello studio e nell’osservanza della Torà.

Tutto ruota attorno ad una lettera "hei". La lettera che anteposta alla parola "od", ancora, aggiunge il senso di "forse" nella frase che abbiamo esaminato. "Forse ancora". In questa espressione è racchiusa la perplessità, lo stupore di fronte ad una vita vissuta senza un compagno di studio. Josef sa che da quando è stato venduto il dolore ha causato al padre la perdita della profezia. Ma un Jacov senza profezia può dirsi vivo? Un ebreo che non studia Torà è vivo?

Nel secolo che ha visto la più atroce delle schiavitù c’è chi ha detto che solo chi è libero è vivo veramente. I Maestri dicono da migliaia di anni che solo chi si occupa di Torà è veramente libero e di conseguenza vivo.

La domanda di Josef contiene in fondo anche una vena di speranza, forse mio padre è ancora vivo veramente!

Nelle nostre occasioni gioiose si usa cantare "am Israel chai, od avinu hai" "Il popolo d’Israele è vivo, nostro padre è ancora vivo."

Quando c’è un matrimonio, una milà, un bar-mizvà o qualsiasi altra occasione nella quale c’è una seudat-mizvà, un pasto di precetto nel quale si studia Torà, possiamo dire ad alta voce che il popolo d’Israele è vivo.

Non solo, possiamo parafrasare Josef ed affermare che nostro padre Jacov è ancora vivo attraverso il nostro studio della Torà.

Shabbat Shalom

Jonathan Pacifici