RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ

IX

VAJÈSHEV

(Genesi XXXVII - XL)

LA STORIA DI GIUSEPPE

 

 

Dopo la storia di Giacobbe, quella dei suoi figli. "Queste sono le generazioni di Giacobbe: Giuseppe". Così comincia la nostra Parashà, quasi a sottolineare fin da principio che è proprio così, che cioè la storia della discendenza di Giacobbe si compendia in un nome: Giuseppe. E chi potrebbe negarlo? Chiunque legga i popolari racconti contenuti in queste Parashoth della Genesi, deve riconoscere che la figura di Giuseppe è l'anima di essi; attorno a questa figura si aggirano e si svolgono le complesse e quasi romanzesche vicende di tutta la sua famiglia. Effettivamente Giuseppe è una figura affascinante e il lettore di queste pagine resta come incantato e soggiogato dalla sequela degli avvenimenti così straordinari connessi con la vita di questo fortunato personaggio biblico. Un giovane che, bellissimo nell'aspetto fisico, dimostra di possedere preclari virtù, un giovane che si distingue subito per le sue doti di fantasia, che ne fanno un sognatore, che è invidiato dai fratelli, ma adorato dal padre, che è venduto come schiavo e da schiavo vive in Egitto per lunghi anni, tutto sopportando, la prigionia, l'isolamento, la perfidia, la calunnia, l'ingratitudine, finché per una strana coincidenza di eventi, si acquista la benevolenza del sovrano e sale al più alto rango del potere: quale storia più affascinante? Sembra un romanzo! E infatti più di un romanzo è stato scritto intorno al biblico Giuseppe. Sembra un romanzo, eppure è una realtà, è una storia vera, non una storiella da leggenda: è realtà di vita. E qui, forse, sta tutto il significato di questo come di tanti altri racconti biblici: saper mostrare vicino alla vita, vicino alla realtà nostra, quello che sembra lontano, saper presentare come realtà di tutti i giorni quello che sembra romanzo, quello che sembra un sogno: in una parola avvicinare l'umano alla sfera superiore e il Divino far scendere nel mondo degli uomini. Altrove mi sono soffermato su questa "umanità" dei racconti biblici, su questo riflettersi in essi delle passioni e dei sentimenti degli uomini, sottolineando, però, come questi racconti siano sempre percorsi come da un filo conduttore che è il filo della provvidenza di Dio e della Sua immanenza nel mondo. Questa verità è dimostrata, forse, in modo insuperabile dalla storia di Giuseppe. Si comincia con l'umano, con la vita ordinaria, si finisce con qualcosa di straordinario.

Ho detto "umanità": ecco infatti l'ormai vecchio patriarca Giacobbe circondato da una corona di figli, molti figli, ma fra questi uno al di sopra degli altri: per lui una spiccata predilezione, per lui che è il figlio della moglie diletta prematuramente scomparsa, per lui che mostra tante e così profonde affinità col carattere del padre. E qui la prima debolezza, la prima causa di squilibrio negli affetti familiari. Ma come se ciò non bastasse a turbare l'atmosfera, ecco questo figlio giovanissimo, forse un po' conscio della sua beltà fisica e delle sue qualità di animo e di intelletto; ecco questo ragazzo, che si sente il primo nella casa, accarezzare sogni di una creduta superiorità sugli altri fratelli (e non era egli il primogenito della moglie prediletta?) eccolo abbandonarsi a queste fantasie e compiacersi di esse e soprattutto comunicarle con la più grande ingenuità ai propri fratelli, già invidiosi per le preferenze del padre verso di lui.

E così è già iniziata la trama degli avvenimenti: c'è qui la premessa di tutto quello che poi avverrà. Un'acre gelosia, unita alla più grande invidia, è nell'animo dei fratelli: che lui, proprio lui che ostentava una tale altezzosa superiorità, fosse il prediletto dei figli, è una cosa che i fratelli non possono concepire ed ecco, lentamente, farsi strada nel loro animo l'idea di disfarsi in qualche modo dell'incomodo e antipatico fratello. Così si arriva alla vendita di Giuseppe che è, in certo modo, la conclusione di questa prima parte del racconto, ma che è, a sua volta, origine e fonte di dispiaceri e dolori per tutta la famiglia. Dispiaceri e dolori che si susseguono gli uni agli altri come in una concatenazione logica e che sono in diretto e stretto rapporto con tutti gli antecedenti della narrazione. Di chi la colpa? Un po' di tutti. Del padre, per primo, che favorisce il figlio a lui più caro, di Giuseppe poi, che - forse ancora ignaro della vita - si abbandona ingenuamente a confidenze che egli credeva oneste, ma che invece accendono le più violente passioni nei fratelli: di questi infine che accecati dall'odio e dalla gelosia, non esitano a mercanteggiare il fratello, abbandonandolo così al suo destino, sicuri di non rivederlo mai più. Ed ecco che proprio in relazione alle colpe di ciascuno, si verifica l'espiazione: ecco la provvidente giustizia di Dio intervenire nelle azioni degli uomini: punito il padre che piange morto il figlio amatissimo, puniti i fratelli, oltre che dal rimorso atroce di aver amareggiato l'esistenza del padre, dalle accuse che si sentono ingiustamente imputate e dalle umiliazioni cui debbono sottostare, punito, infine, Giuseppe, che attraverso le prove più dolorose sente abbassata la sua ambizione e si vede gettato nel fondo di una oscura prigionia per la malvagità e l'incomprensione degli uomini finché di nuovo la giustizia di Dio sempre presente, tornerà a premiare la sua fedeltà e la sua rettitudine, riabilitando, dopo la necessaria espiazione, la di lui personalità al cospetto degli uomini. Ecco dunque intervenire sempre moderatrice e regolatrice sovrana la Provvidenza divina. Ma al di sopra dei casi singoli di ciascun personaggio e delle considerazioni sulla condotta e sulle sanzioni di ciascun protagonista, v'è da rilevare un fatto, forse il più saliente, anche se meno chiaro appare dal racconto.

L'unità morale e affettiva di questa famiglia è incrinata sul nascere; proprio mentre dovevano cementarsi gli affetti e le volontà fondersi al servizio di un ideale superiore, mentre questo ideale doveva balenare chiaro come la mèta più luminosa dinanzi agli occhi di tutti, ecco invece la caduta: ecco che all'ideale si sostituisce il reale delle proprie passioni, dei propri rancori, delle proprie debolezze, ecco gli uomini che dovevano essere i primi esempi di vita più alta, lasciarsi vincere dalle passioni e così aprire la via alle più funeste conseguenze nella vita; ecco la mancanza di fiducia reciproca, il sospetto annidarsi nel cuore di ognuno, la contesa, il dissidio, l'ira e la gelosia, fare la prima comparsa nell'intensa storia della famiglia israelitica, con tutte le gravi ripercussioni che ne discendono. E la colpa della disunione che rampolla dai propri egoismi, è la colpa della pluralità del proprio essere, del mancato conseguimento dell'unità degli spiriti al servizio di un ideale superiore.

Da allora, da quei tempi lontani, la colpa della disunione, del sospetto, della gelosia, ha causato ad Israele mali infiniti e sciagure ancora più gravi di quelle provenienti ad opera dei nemici di fuori; da allora il peccato della disunione è stato fonte di calamità per la famiglia di Israele. Ma, come allora nella famiglia di Giuseppe, le divine sanzioni punitrici sono scese come richiamo a quel superiore principio di vita a quella legge di unità, nella quale tutti ci dobbiamo riconoscere fratelli nello spirito, superiori alle nostre passioni, uniti e saldi sotto l'egida di quella Torà, che è legge di vita e che vuole realizzare l'unità dei nostri spiriti al servizio di Dio.

 

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