TORAH.IT
Parashat Vajshlach 5763
Questa derashà è dedicata alla memoria delle vittime dell’attentato di giovedì mattina 16 di Kislev 5763 a Jerushalaim. A quei santi figli di Jacov che sono stati trucidati da Ishmael con la connivenza di Esav, perché come il loro patriarca costruivano un Altare nel luogo in cui D-o ha preso la Terra per formare il primo Uomo, sia il loro ricordo di benedizione. E che il Signore vendichi il loro sangue.
"E disse D-o a Jacov: ‘Alzati e sali a Bet El e risiedi là; e fai lì un altare al D-o che ti è apparso nel tuo fuggire dinanzi ad Esav tuo fratello’. E disse Jacov a tutta la sua casa ed a tutto quanto era con lui: ‘Rimuovete le divinità straniere che sono in mezzo a voi; e purificatevi; e cambiate i vostri abiti." (Genesi XXXV,1-2)
"E risiedi là: per concentrare il tuo pensiero prima che costruirai l’altare. Come quanto hanno detto, sia il loro ricordo di benedizione, (TB Berachot 30b) "I primi pii meditavano un ora e poi pregavano, in maniera da concentrare il loro cuore verso il Luogo"" (Rabbì Ovadià Sforno in loco)
I nostri Saggi hanno insegnato che le azioni dei Padri sono un segno per i figli. Ossia che la vita dei nostri Patriarchi è preludio della storia nazionale di Israele. In modo particolare il ritorno di Jacov in Erez Israel diviene simbolico della conquista della Terra da parte del popolo e del rientro dall’esilio in generale. Da notare che come Jacov, il popolo d’Israele ha come prima tappa Shechem. Solo più avanti verrà conquistata Jerushalaim. Alcuni Maestri moderni fanno notare come questa tendenza possa essere riscontrata anche nella nostra generazione che ha avuto il privilegio di assistere all’inizio del fiorire della nostra redenzione: la conquista di Jerushalaim è l’ultima tappa della conquista territoriale. E la sua ricostruzione completa, ancora non si è compiuta.
Proveremo allora a soffermarci un poco sulla "conquista" di Jerushalaim da parte di Jacov nostro padre. Ricorderemo che Jacov si ferma sul luogo del futuro Santuario proprio nel suo fuggire dalla Terra d’Israele e che lì sogna la scala che congiunge terra e Cielo. Jacov fa voto di designare quel luogo a Santuario allorquando tornerà in pace alla propria terra. Jacov rientra in Erez Israel dopo molti anni e dopo l’episodio di Shechem riceve l’ordine Divino di andare a Bet El (Jerushalaim, il luogo del sogno) e di costruirvi un altare. Si tratta dell’unico caso in cui Iddio chiede ad un uomo di costruire un altare: i Patriarchi in genere costruiscono altari di loro iniziativa.
Il Mesech Cochmà sostiene che Jacov si preoccupava di poter essere accusato di furto circa il bottino della guerra contro Shechem. Iddio gli ordina l’altare proprio per rassicurarlo e per dirgli che tutto quanto possiede può essere presentato come offerta, e quindi non c’è niente di rubato tra i suoi beni. Forse più in generale dovremmo legare il discorso alla sostanziale divergenza tra Jacov ed i propri figli circa l’episodio di Dinà. Jacov è preoccupato. Preoccupato soprattutto di che figura sta facendo lui con il mondo. Di quello che può pensare la gente. Iddio risponde: ‘Preoccupati di quello che pensi tu! Concentrati e costruisci un altare con la giusta kavvanà, intenzione, concentrazione’.
A ben vedere c’è un altro altare la cui costruzione viene ordinata: l’Altare del Santuario. Allora il fatto che Jacov riceva l’ordine può anche essere legato al fatto che in effetti egli sta anticipando la costruzione del Santuario. Sta in qualche modo destinando il luogo del sogno, Bet El, ad essere effettivamente la Casa di D-o.
Jacov riceve dunque l’ordine di iniziare la costruzione del Santuario. Non solo Jacov come più volte abbiamo visto si preoccuperà di portare in Egitto la legna per la futura costruzione del Santuario ma ne costruisce l’altare sul luogo della definitiva dislocazione di questo: Jerushalaim. Ma Jacov non esegue subito l’ordine. Prima di muoversi da Shechem Jacov dice a tutta la sua casa ed a tutto quanto era con lui: ‘Rimuovete le divinità straniere che sono in mezzo a voi; e purificatevi; e cambiate i vostri abiti’.
Jacov prende poi tutte le divinità straniere e gli abiti e li seppellisce. Il Ramban fa notare come la sepoltura non sia il sistema che la halachà prevede per la distruzione degli oggetti di idolatria che vanno piuttosto bruciati e/o sbriciolati e le ceneri vanno disperse all’aria o gettate nel Mar Morto. Spiega il Ramban che tutti gli oggetti di idolatria che Jacov e compagnia avevano depredato a Shechem erano stati ‘sconsacrati’. La Halachà prevede che il gentile possa ‘sconsacrare’ un oggetto di idolatria e che quindi diventi possibile goderne. Tale ‘sconsacrazione’ è valida anche se fatta dai prigionieri di guerra (o in questo caso le prigioniere) sotto costrizione (TB Avodà Zarà 52b). Dunque si trattava di oggetti sostanzialmente permessi. Jacov vuole però andare oltre e non si contenta di un annullamento teorico (sotto costrizione) dei prigionieri: seppellisce gli oggetti. Il Radak propone che si trattasse di denaro ed altri oggetti di valore sui quali erano raffigurate delle divinità. Jacov sta andando a costruire il Santuario e quindi cerca di allontanarsi più possibile dalla idolatria seppellendo il denaro.
Lo Sforno dice in proposito:… nonostante li avessero annullati i loro devoti.. e fosse permesso goderne, in ogni modo rimuoveteli di mezzo a voi adesso nel nostro andare a Bet El sicché si allontani dal vostro cuore ogni pensiero di idolatria.
Jacov vuole annullare il pensiero dell’idolatria.
Il Meshech Chochma propone che gli abiti di cui Jacov ordina la rimozione siano abiti di Shaatnez: ossia tessuti con lana e lino, cosa che la Torà proibisce. I Padri secondo il Ramban osservavano la Torà solo in Erez Israel e dunque Jacov vuole che entrando in Erez Israel vengano rimossi gli abiti che la Torà proibisce. L’intenzione del Mesech Cochmà è però molto più profonda.
Il Rav Dessler (Mictav MeEliau IV,175) riporta l’opinione del Ridbaz (Taamè Hamizvot 234) secondo il quale lo Shaatnez è negativo solo quando lana e lino "…non sono in aggiustamento e completezza ed allora sono contraddizione, ma quando sono in completezza, allora sono abito di mizvà, e per questo tale mescolanza è permessa per lo zizzit. Il lino ricorda la misura della giustizia che era la misura di Kain, e per questo offrì del lino, e la lana simboleggia la bontà che è la forza di Evel."
Lana e lino non possono essere mescolati perché sono bontà e giustizia. Spiega il Rav Dessler che il rischio è che chi è rigoroso con se stesso sconfini ad essere violento con gli altri, e viceversa che chi è troppo tollerante con gli altri finisca per essere troppo tollerante anche nei confronti del proprio istinto del male. C’è un solo modo per unire bontà e giustizia, Avraham ed Izchak, ed è attraverso la Torà di Jacov. Solo attraverso la mizvà lana e lino possono andare assieme in un solo Tallit.
Ricorda il Rav Dessler che anche gli abiti del Sommo Sacerdote sono fatti di Shaatnez. Il Meshech Chochmà spiega in proposito (Levitico VIII,7) il motivo per cui la cintura del Sommo Sacerdote è di Shaatnez a differenza di quella del Coen normale. Nel trattato di Zevachim (88b) viene detto che ognuno degli abiti sacerdotali espia per una colpa specifica: la tunica espia per l’omicidio, i pantaloni per le trasgressioni sessuali mentre la cintura espia per il pensiero di compiere una trasgressione. Le Tosfot spiegano che il pensiero in questione si riferisce all’abito sul quale la cintura viene posta (pantaloni e tunica) e dunque si riferisce al pensiero di omicidio e immoralità sessuale. Il Sommo Sacerdote ha però tra i suoi otto abiti (il Coen normale ne ha solo quattro) anche l’Efod. L’Efod è una specie di semi-gonnellino che copre le reni e parte dei fianchi. Espia secondo i Saggi il peccato dell’idolatria ed è fatto di lana e lino: Shaatnez. Il Meshech Chochmà sostiene che il motivo per il quale la cintura del Sommo Sacerdote è fatta di lana e lino è che viene posta sull’Efod e dunque espia per il pensiero dell’idolatria. Il materiale indica quindi l’oggetto del pensiero. Fa notare Rabbì Meir Simcha HaCoen che il pensiero di compiere una trasgressione non viene mai punito tranne che per l’idolatria (TB Berachot 4b). Il motivo è che tutte le trasgressioni vengono fatte attraverso la materia, mentre la radice dell’idolatria è nel cuore (TB Sanedrhin 66 a). Proprio perché basta il pensiero per commettere idolatria, anche il solo pensiero viene considerato come azione. Spiega il Meshech Chochma che si tratta delle tre categorie di trasgressioni: tutte le trasgressioni frutto del desiderio per la materia sono racchiuse nell’immoralità sessuale, tutte le trasgressioni frutto della gelosia e del danno verso il prossimo sono racchiuse nell’omicidio. In questi due casi c’è effettivo desiderio dell’uomo per la trasgressione. L’idolatria rappresenta invece le trasgressioni nel rapporto verticale, quello verso D-o. Non c’è desiderio di trasgredire qui, solo errore di pensiero, errore concettuale.
Il Meshech Cochmà va oltre e ricorda che nel giorno di Kippur, per entrare nel Santissimo, il Sommo Sacerdote non indossa gli otto abiti chiamati ‘abiti d’oro’ ma semplici vesti bianche, e che dunque entra nel Santissimo con una cintura non di Shaatnez, che espia per immoralità sessuale ed omicidio ma non per l’idolatria. Il motivo è che nel giorno di Kippur l’anima ebraica torna a D-o e si ricongiunge ad esso. Permane il pericolo di trasgredire precetti legati alla materia e per questo ci separiamo dalla materia attraverso i cinque precetti specifici del Kippur ed anche la Ghemarà ricorda il pericolo di trasgressioni sessuali nel giorno di Kippur (Yomà 19b). Non c’è pericolo di idolatria invece, giacchè l’anima è connessa in quel giorno a D-o stesso e non è possibile idolatria. È così anche va intesa secondo il Maestro l’espressione di Rabbì Akivà per il quale nel giorno di Kippur Iddio è ‘mikvè Israel’. Il bagno purificatore di Israele. Così come per il bagno rituale basta una connessione a dell’acqua purificatrice per rendere purificatrice dell’acqua comune, così anche è per le anime di Israele, che nel giorno di Kippur si uniscono a D-o e ne ricevono purità spirituale.
Una delle caratteristiche del giorno di Kippur è, secondo il Meshech Cochmà, che espia per il dubbio. Se si è in dubbio di aver trasgredito un precetto della Torà la cui trasgressione comporta la necessità di presentare un offerta, si deve presentare un ‘hasham talui’, ossia un offerta che espia nel caso in cui si sia trasgredito. Se però è passato il giorno di Kippur non ce n’è più bisogno. Si chiede il Meshech Cochmà perché si parli di espiazione nel caso di un offerta che viene portata quando non si è neanche certi che la trasgressione sia effettivamente avvenuta! E spiega che l’offerta espia per l’essere entrati in una situazione di dubbio. Per l’aver avuto il dubbio e non essersi allontanati da esso. Per non aver agito in modo da evitare situazioni dubbie. Si tratta di una trasgressione concettuale, di pensiero: è di questo che il giorno di Kippur si occupa. Le colpe nei confronti del prossimo del resto, il giorno di Kippur non le espia.
Jacov nostro padre, colui che mette assieme Kain ed Evel, Avraham e Izchak, bontà e giustizia, lana e lino, capisce che arriva un momento nel quale si deve saper entrare nel Santissimo. Jacov è colui che ha fatto della sua vita un esempio vivente di come si possa indossare lana e lino assieme per mizvà. Di come si possa essere allo stesso tempo un po’ Esav ed un po’ Jacov. Arriva un momento nel quale egli capisce che deve sapersi spogliare dello Shaatnez ed allontanarsi persino dal pensiero dell’idolatria, e divenire Israel. È nel giorno nel quale i due capri gemelli, gemelli come Jacov ed Esav, vengono separati: uno viene offerto al Signore ed uno viene cacciato via.
Capiamo allora di che parlava lo Sforno: nonostante li avessero annullati i loro devoti…e fosse permesso goderne, in ogni modo rimuoveteli di mezzo a voi adesso nel nostro andare a Bet El sicchè si allontani dal vostro cuore ogni pensiero di idolatria.
Jacov capisce che è ora di costruire il Santuario e nel Santuario non c’è posto per il dubbio ed è per questo che non c’è in esso alcuna immagine angelica: per non cadere nell’errore del vitello d’oro o in quello di Elishà ben Abuyà. Non importa allora se non si trattava proprio di oggetti di idolatria o se in fondo erano solo monete con delle effigi straniere: Jacov non vuole neppure il ricordo, il pensiero dell’idolatria. Sta andando a costruire il Santuario!
Capiamo allora l’ordine di D-o così come viene inteso da Sforno: prima di costruire l’Altare, Jacov deve risiedere a Jerushalaim. Jacov deve meditare. Concentrarsi. L’unica vera risposta al pensiero dell’idolatria è concentrarsi nell’esecuzione delle mzivot ed in particolare nella preghiera. Jacov viene chiamato a concentrarsi nella preghiera e lo sforno cita la prima mishnà del quarto capitolo del trattato di Berachot (TB Berachot 30b)
"Non ci si accinge a pregare altro che con serietà. I primi pii solevano meditare un ora e poi pregavano in modo da concentrare il loro cuore verso il loro Padre che è in Cielo."
Jacov non solo istituisce la preghiera di Arvit ma anche la concentrazione e la meditazione che precede e prepara la preghiera. Rav Nachman bar Izchak spiega nella Ghemarà che questo si evince dal verso dei Salmi (II,11) ‘Servite il Signore con timore e gioite con tremore’ e si chiede la Ghemarà che cosa significhi ‘gioite con tremore’.
Rav Hada bar Matenà a nome di Ravà risponde: ‘che nel luogo della gioia, lì ci sia il tremore’.
Per adempiere a questo precetto i Maestri adottarono uno strano rito:
"Mar, il figlio di Ravinà, fece un banchetto per il matrimonio di suo figlio. Vedendo che i Saggi erano troppo allegri, portò un bicchiere di vetro del valore di 400 zuz e lo ruppe sicché divennero tristi. Rav Hashì fece un banchetto per il matrimonio di suo figlio e vedendo che i Saggi erano troppo allegri portò un bicchiere di vetro bianco e lo ruppe sicché divennero tristi."
Stessa storia in casa di Rav Hasi e Ravinà, i due compilatori del Talmud.
Le Tosfot sostengono che da qui viene l’uso di rompere il bicchiere durante il matrimonio. A sottolineare che mai ci deve lasciare il precetto di saper gioire con tremore. Di unire amore e timore, Avraham ed Izchak. Di saper essere Jacov. O meglio ancora Israel.
Si tratta dunque di una tremore esistenziale che non ci deve lasciare mai. Dobbiamo servire il Signore con gioia, sempre. Ma si deve anche saper aver timore di D-o nel massimo della gioia. Prosegue la Ghemarà:
"I Saggi dissero a Rav Hamnunà Zuti durante il matrimonio del figlio di Ravinà (quello di prima dove ruppero il bicchiere?) : ‘Canti per noi il Rav!’ Disse loro: ‘Ohi a noi che andiamo a morire! Ohi a noi che andiamo a morire! Dissero lui: E noi che ritornello dovremmo rispondere? Disse loro [rispondete così]: Dov’è la Torà e dove sono le mizvot che ci difenderanno?"
Va bene rompere un bicchiere e poi andare a ballare. Ma non c’è altro da cantare ad un matrimonio che "noi andiamo a morire?!" Ed i Saggi si stupiscono non poco sì da chiedere sarcasticamente che tipo di ritornello si aspetta il Maestro dal coro! Il Maraz Chaiot spiega che nonostante non si dovrebbe trattare di argomenti tristi durante il matrimonio, è necessario riflettere sul senso di questo. Il motivo per cui ci si sposa è per procreare, ma se non ci fosse la morte, non si dovrebbe procreare affatto. Dunque ricordare la morte durante il matrimonio è un modo per riportare l’attenzione del pubblico sul senso profondo della cerimonia in corso: il ciclo della vita.
Il Meshech Chochmà spiega (I,160) che Jacov compie un grave errore nel piantare solo la sua tenda presso l’altare a Shechem, e non quella delle mogli. Jacov pensa evidentemente di avvicinarsi al sacro attraverso una certa separazione dalla vita coniugale. Ma non è così. Da questo errore nasce la punizione della violenza subita da Dinà. Da una mancata educazione sulla sacralità della Casa. Dal non aver saputo spiegare a Dinà che non c’è contraddizione tra l’altare e la tenda nella quale si uniscono marito e moglie. Per questo spiega il Meshech Chochmà i Coanim a priori debbono essere sposati per esercitare ed è anche per questo che le case di Jerushalaim non possono essere affittate in quanto non sono di proprietà (ma sono concettualmente di tutto il popolo). In modo che i pellegrini che giungono al Santuario nelle feste possano intrattenere rapporti coniugali altrimenti proibiti quando si è ospiti: a Jerushalaim ogni ebreo è a casa propria. Per questo secondo il Meshech Cochma Jacov viene comandato di ‘risiedere là’ prima di costruire l’altare. Ossia di mettere su casa, avere rapporti, prima di costruire l’altare.
L’Altare si fonda sulla casa. Se Jacov vuole costruire il Santuario deve capire che così come ci si prepara alla preghiera così ci si prepara ad un rapporto sacrale con la Divinità attraverso la sacralità della propria casa e della propria famiglia.
Rabbì Moshè Isserlis, il Ramà, sostiene invece (Orch Chajm 560,2) che l’uso di rompere il bicchiere è in memoria della distruzione del Tempio. Mi pare che le due motivazioni, quella delle Tosfot e quella del Ramà si sposino perfettamente. Da una parte c’è un timore esistenziale che non ci deve lasciare neanche nei momenti più gioiosi, dall’altra dobbiamo capire che questo equilibrio ci viene chiesto proprio perché viviamo in un epoca nella quale è possibile la distruzione del Santuario, è possibile la morte.
Jacov inizia la costruzione del Santuario in primo luogo portando il suo matrimonio e la sua intimità coniugale nei pressi dell’altare. Jacov seppellisce quella materia del dubbio, con cui, forse, è stata fatta idolatria ed in qualche modo compie la prima rottura del bicchiere. Jacov rompe il bicchiere prima di iniziare a costruire il Tempio perché il Tempio verrà distrutto, o almeno è possibile che ciò avvenga. Quanto è precisa allora la Torà che interrompe la rivelazione di D-o a Jacov e la costruzione dell’altare con la notizia, apparentemente marginale, della morte di Devorà, la balia di Rivka. Secondo i Saggi si tratta di un modo per parlare della morte di Rivkà la cui morte è celata dalla Torà. È il canto di Rav Hamnunà Zuti che nel culmine della gioia ricorda a tutti che si muore. E quando i Saggi non capiscono che altro ci sia da dire lui spiega loro che c’è da dire che peggio di morire c’è il morire senza Torà e mizvot.
Jacov capisce tutto questo e si impone la rottura del bicchiere attraverso la distruzione degli oggetti di idolatria.
Dicono i Saggi che i nostri Patriarchi hanno pregato sul luogo del Santuario: Avraham lo ha chiamato Monte, Izchak Campo e Jacov Casa. Così anche in relazione alle tre preghiere sono il Primo, il Secondo ed il Terzo Santuario, possa essere costruito presto ed ai nostri giorni. Il primo Santuario viene distrutto dai babilonesi, compatrioti di Avraham. Il Secondo viene distrutto da Roma, Esav discendente di Izchak. Solo Jacov meriterà dodici figli interamente giusti e per questo il suo terzo Santuario non sarà mai distrutto.
"Ha detto Rabbì Jochannan a nome di Rabbì Shimon Bar Jochai: ‘È proibito all’uomo che riempia la propria bocca [di riso] in questo mondo come è detto (Salmi CXXVI,2) ‘Allora si riempirà di riso la nostra bocca e la nostra lingua di gaudio’. Quando? Nell’epoca in cui ‘diranno tra le genti ha fatto grandi cose il Signore con questi’."
Jacov che mette assieme bontà e giustizia, gioia e timore è chiamato a ricordare al mondo che in questo mondo non c’è gioia assoluta. In un mondo nel quale è possibile che il Santuario non ci sia non si può gioire completamente. In un mondo nel quale Jacov è preso nella costruzione del Santuario e muore Rivkà e non può essere seppellita che di notte per vergogna delle azioni di Esav, non c’è gioia completa.
Si deve saper gioire nel servire Iddio, ma si deve saper anche tremare.
Ma Jacov sa anche che arriverà il giorno in cui il Santuario che lui ha chiamato Casa, il Terzo Santuario, sarà costruito dalle dodici tribù d’Israele e che non ci sarà nessuno in grado di sfaldare l’unità di una famiglia che non si è lasciata lacerare da nessuna avversità.
In quel giorno come dice il profeta Isaia (XXV,8) "Distruggerà la morte per sempre ed il Signore D-o cancellerà la lacrima da ogni volto ed eliminerà la vergogna del Suo popolo da tutta la terra, perché così il Signore ha parlato."
Shabbat Shalom,
Jonathan Pacifici
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