NUOVA QUESTIONE MIGRATORIA, GLOBALIZZAZIONE E INTEGRAZIONE INTERCULTURALE

 

di Stefano Zamagni

 

 

Edizioni Lilliput-on-line

http://digilander.libero.it/paolocoluccia

Novembre 2006

 

 

La questione migratoria, oggi

 

            Viviamo in un epoca in cui i movimenti delle persone da un Paese all’altro, da una regione all’altra, mai avevano conosciuto l’intensità e la problematicità di questi anni. E’ bensì vero che il fenomeno migratorio è vecchio almeno quanto l’umanità stessa. Ma non si potrà certo negare che il fenomeno in questione sia andato assumendo, nel corso degli ultimi decenni e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, caratteristiche e tendenze affatto nuove. Di un aspetto conviene qui dire, in breve. Esso concerne la definizione del concetto  di appartenenza: chi può essere considerato membro di una data comunità politica e chi ne è escluso. Come ci ricorda Eco (1), a differenza della civiltà greca fondata sulla polis che rinvia ad una etnia dai confini mobili, la mentalità latina è ossessionata dal confine. (Romolo traccia un confine e uccide il fratello perché non lo rispetta). Il diritto romano nasce nel territorio, cioè in uno spazio delimitato da un  confine. Solo chi vi appartiene, è parte della civitas. “Il problema – scrive Eco – è che nel prossimo millennio l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, colorato. Questo confronto (o scontro) di culture potrà avere esiti sanguinari e sono convinto che in una certa misura li avrà, saranno ineliminabili e dureranno a lungo… E’ esistito un patrizio romano che non riusciva a sopportare che diventassero cives romani anche i galli, o i sarmati, o gli ebrei come San Paolo, e che potesse salire al soglio imperiale un africano, come è infine accaduto. Di questo patrizio ci siamo dimenticati, è stato sconfitto dalla Storia”. Sono persuaso che quello dell’appartenenza costituisca oggi un problema più urgente da risolvere di quello, certamente più antico, della giustizia distributiva. Infatti, solo dopo aver identificato chi è il titolare di specifici diritti si può passare a discutere dell’applicazione dei principi di giustizia. In questo senso, la soluzione della questione migratoria costituisce un prius rispetto alla vasta problematica della giustizia sociale . Ma in cosa si concretizza la questione dell’appartenenza riferita alla figura dell’homo migrans? Non tanto nel negare al migrante certi aiuti o l’accesso a determinati servizi, quanto piuttosto nel negargli la dignità e la stima di sé. Il che avviene tutte le volte in cui si sottopone il migrante a politiche sistematiche di umiliazione.  Secondo M. Walzer si va oggi ricreando, nelle nostre società avanzate la differenziazione dell’antica Atene tra cittadini a pieno titolo e meteci, lavoratori stranieri tollerati in quanto utili, ma sprovvisti di diritti. E’ proprio questa la negazione del principio di appartenenza.

 

 

 

Il modello dell’integrazione interculturale.

 

 

            Quanto precede, mi introduce al tema centrale di queste note, un tema che posso enucleare servendomi dei tre interrogativi seguenti. Preso atto che le nostre società tendono a diventare società di immigrazione e di emigrazione, come configurare il rapporto tra multiculturalità e identità? Vale a dire, fino a che punto può e deve spingersi una politica dell’identità (politics of identity) se si vuole – come presumo chiunque voglia – che la pluralità delle culture presenti in un paese risulti compatibile con un ordine sociale garante della pace sociale e delle ragioni della libertà? Secondo, riconosciuto che lo scarto crescente tra cittadinanza economica e cittadinanza socio-politica (2)  dell’immigrato ha ormai raggiunto un livello non più in grado di assicurare   la dignità della persona umana, cosa fare per conciliare l’inclusione economica dell’immigrato – l’inclusione cioè nel mercato del lavoro e nel sistema produttivo del paese ospitante – con la sua esclusione dai diritti sociali e politici? Terzo, se specifiche ragioni di principio, oltre che pratiche, sconsigliano riedizioni, più o meno aggiornate, sia del modello assimilazionista di marca francese, che tende a fare del diverso uno di noi, sia del modello della marginalizzazione degli immigrati (cioè della loro apartheid), sia ancora del modello dell’autogoverno delle minoranze (il modello cioè della balcanizzazione della società), non resta che la via dell’integrazione dei nuovi arrivati nella società di accoglienza. Ma quale modello di integrazione si intende realizzare? 

In altri termini, quali principi basilari deve soddisfare un modello di integrazione che faccia propria la prospettiva interculturale, una prospettiva che rifiuta sia di prendere in considerazione solamente le differenze che separano gli immigrati dagli autoctoni per giungere a forme più o meno accentuate di balcanizzazione della società, sia l’esistenza di differenze significative tra gli uni e gli altri per giungere all’assimilazione più o meno esplicita e forzata? Quali principi devono cioè essere posti a fondamento di una politica che voglia assicurare a tutti il soddisfacimento dei diritti fondamentali dell’uomo e al tempo stesso garantire uno spazio pubblico in cui i soggetti portatori di una identità culturale diversa da quella del paese ospitante possano mettere a confronto le loro rispettive posizioni in modo pacifico e soprattutto possano giungere al consenso intorno ai limiti entro cui mantenerle? Ne indico cinque, avvertendo, sin da subito, che il contesto cui penso tali principi debbano applicarsi è quello degli stati uninazionali (del tipo Gran Bretagna, Francia, Italia) e non quello degli stati multinazionali (del tipo Canada, Svizzera, Belgio, Spagna).

            Il primo principio è quello del primato della persona sia sullo Stato sia sulla comunità. Sulla primazia della persona rispetto allo Stato e alla comunità non c’è bisogno di spendere parole; si tratta di acquisizione ormai assodata, almeno nelle nostre società occidentali – anche se non sempre applicata nella pratica. Conviene dire invece qualcosa dell’altra relazione, quella tra persona e comunità. Scrive Sandel, esponente di punta del comunitarismo radicale, a proposito dell’identità comunitaria concepita come qualcosa che attiene alla autorealizzazione del soggetto e non già alla sua libera scelta: “La comunità dice non solo ciò che essi hanno come cittadini, ma anche ciò che essi sono; non una relazione che essi scelgono (come accade nelle associazioni volontarie) ma un attaccamento che essi scoprono; non semplicemente un attributo ma un elemento costitutivo delle loro identità” (3). Quanto a dire che la comunità, e dunque l’identità, viene “prima” della persona che sceglie, e dunque  viene “prima” della ragione che guida la scelta.

            Non ci vuol molto a capire perché chi si riconosce nelle posizioni della filosofia personalista – magistralmente enunciate ne L’uomo e lo Stato di Jacques Maritain e, in tempi più recenti, da Emmanuel Levinas e da Paul Ricoeur - non possa accettare una simile inversione del nesso tra persona e comunità. Scrive Sen: “La persona che scopre di essere ebrea deve pur sempre decidere quanta importanza attribuire a quella determinata identità in confronto ad altre identità concorrenti – di nazionalità, di classe, di credenza politica, ecc… Le scelte devono essere fatte anche quando si è in presenza di scoperte” (p.31). In buona sostanza, è la soggettività della persona il fondamento del rapporto (4) comunitario, il quale va edificato o reinventato a partire da soggetti che sono capaci e liberi di scegliere e dunque capaci di assumersi la responsabilità del proprio destino. E’  bensì vero che l’individuo isolato è pura astrazione e che, come si dirà tra breve, l’identità individuale non può prescindere dalla trama di rapporti che legano il singolo alla sua comunità. Ma il comune denominatore collettivo non riesce mai a definire pienamente la singola persona, la quale è pur sempre un insieme di attributi unici.

            Al tempo stesso, però, la libertà – ed è questo il secondo principio – non è pienamente tale se non va oltre la mera autodeterminazione, il “fare quel che si vuole”. Tale concezione è troppo gracile perché essa possa essere compatibile con lo statuto personalista. Infatti, la persona, a differenza dell’individuo, è definita anche dalla cultura in cui essa è cresciuta e nella quale essa sceglie di riconoscersi. Invero, ciò che è tipico della persona umana è la relazionalità, la quale postula che l’altro diventi un tu. La piena realizzazione dell’identità personale non può dunque limitarsi al semplice rispetto dell’altrui libertà, come afferma la posizione neo-liberale per la quale il vivere in comune è un’opzione. Sappiamo, infatti, che per ciascuno di noi non è affatto così. La scelta non è mai tra vivere in solitudine o vivere in società, ma tra vivere in una società sorretta da certe regole oppure da altre. E’ dunque troppo poco, per la nozione forte di libertà, pensare ad una individualità che prescinde dalla relazione con l’altro. Ecco perché le culture meritano tutela e riconoscimento anche a livello della sfera pubblica. Se è vero che l’identità personale nasce dialogicamente come risposta alle nostre relazioni con gli altri, allora una società autenticamente rispettosa delle ragioni della libertà non può negare che la preservazione di un contesto culturale sicuro, cioè non minacciato né, tanto più, negato, costituisca un bene primario su cui verte l’interesse fondamentale dei singoli. E se così ha da essere, allora occorre spingersi fino al riconoscimento pubblico delle particolarità culturali.

            Il terzo principio è quello della neutralità, - beninteso, non della indifferenza, - dello Stato nei confronti delle culture che sono “portate” da coloro che in esso  risiedono. La visione relativistica della libertà, tipica della concezione liberal-individualistica, riducendo la libertà a mero permissivismo privato ha favorito la confusione fra Stato laico, cioè Stato neutrale nei confronti delle varie culture in esso presenti, e Stato indifferente,  uno Stato cioè che si dichiara incapace di scegliere ovvero di stabilire differenze tra culture diverse. Se la neutralità dice dell’imparzialità con cui lo Stato deve trattare le varie identità, l’indifferentismo dice della impossibilità di fissare un ordine tra diverse istanze culturali per via della non esistenza di un criterio oggettivo di scelta. Quanto a dire che lo Stato laico non può fare a meno di presupposti di valore che non tocca ad esso produrre – se così avvenisse si trasformerebbe in Stato etico – ma che spetta allo Stato recepire dai soggetti della società civile portatori di cultura.

            Il quarto principio afferma che lo Stato laico, cioè neutrale, nel perseguire l’obiettivo di integrare le minoranze etnoculturali entro una comune cultura nazionale, adotta quale presupposto per l’integrabilità che le culture presenti nel paese concordino tutte su, cioè facciano proprio, un nucleo duro di valori, di valori cioè irrinunciabili che, in quanto tali, valgono per tutti gli uomini, quale che sia la loro appartenenza a una specifica cultura. Si tratta di quei valori che sono a fondamento dei diritti universali dell’uomo. Sorge spontanea la domanda: poiché non è mai lecito giudicare una cultura servendosi di un’altra come unità di misura, e poiché i diritti universali dell’uomo sono un’acquisizione (recente) della cultura occidentale, non c’è forse il rischio che il quarto principio conduca all’imperialismo culturale? Non lo penso, perchè, il fatto che valori come quello della dignità umana e teorie come quella dei diritti umani usino il linguaggio della cultura occidentale non è segno di pregiudizio etnocentrico; piuttosto è indicazione del fatto che l’Occidente è giunto prima di altri contesti a prendere coscienza di tali valori, dando ad essi una fondazione su basi razionali. E pertanto, proprio perché giustificati per via di ragione, questi valori sono estensibili, in linea di principio, a tutti gli uomini. In altri termini, la nozione di diritti umani non è legata all’Occidente, anche se questo è il luogo di nascita delle carte dei diritti. Il  contenuto di tali diritti non è specifico di una determinata cultura, anche se è vero che c’è oggi un modello culturale dei diritti umani che è dominante, quello occidentale appunto.

E’ dunque  l’accettazione da parte di chi è portatore di una particolare cultura di tale nucleo di valori che marca la soglia al di sotto della quale non è possibile accogliere alcuna legittima richiesta di riconoscimento a livello istituzionale, cioè pubblico, per quella cultura. D’altro canto, al di sopra di quella soglia, il compito da assolvere è quello di discernere ciò che, di una data cultura, è tollerabile, da ciò che è rispettabile, da ciò che è condivisibile. Chiaramente, la tolleranza copre la gamma più vasta di richieste. Essa costituisce il primo livello di accettabilità per una determinata posizione o atteggiamento. La tolleranza –virtù pubblica che si rifà alla prudenza – si configura come metodo per risolvere quei conflitti che discendono dalla convivenza di diversi entro la cittadinanza democratica. Il rispetto, invece, è una rete a maglie più strette rispetto a quelle della tolleranza. Infatti, il rispetto non e’ solo questione di diritti; esso rinvia all’onore. Si rispetta qualcuno che si riconosce essere degno di valore. Nel rispetto c'è’dunque il riconoscimento che l'altro è portatore di una prospettiva meritevole di considerazione, anche se quella prospettiva non coincide con la mia. Ancora più strette sono le maglie della rete della condivisione.

Mi preme sottolineare che l’identificazione dei tre livelli di giudizio – tollerabilità, rispettabilità, condivisibilità – produce una conseguenza pratica di grande momento, quella di offrire un criterio sulla cui base  procedere all’attribuzione di risorse pubbliche ai vari gruppi di minoranze etno-culturali presenti nel paese. Si potrebbe, infatti, stabilire che le richieste giudicate tollerabili non ricevono risorse, monetarie e di altra natura, dallo Stato o dagli altri enti pubblici; le richieste giudicate rispettabili ricevono un riconoscimento a livello amministrativo, entrano cioè nell’ordinamento amministrativo dello Stato; le richieste giudicate condivisibili vengono accolte nell’ordinamento giuridico del paese ospitante, con tutto ciò che questo comporta in termini di destinazione di risorse pubbliche.

Da ultimo, che ne è di quelle culture che chiedono di partecipare al progetto interculturale, ma che non accettano di trasformarsi per accogliere lo statuto dei diritti fondamentali? A ciò dà risposta il quinto principio: lo Stato, in nome dei diritti del cittadino - i quali, a differenza dei diritti dell’uomo, non hanno fondazione giusnaturalistica - destinerà risorse ai gruppi portatori di quelle culture per aiutarli ad evolvere verso posizioni capaci di accogliere i diritti fondamentali dell’uomo. E’ questo il significato del principio che chiamo della tolleranza condizionata: ti aiuto perché tu possa fare posto, dentro la tua matrice culturale e secondo i modi propri della tua cultura, all’accoglimento dei  diritti fondamentali. E’ noto che le culture hanno la tendenza ad adattarsi all’evolversi delle situazioni; non sono qualcosa di statico. E dunque l’educazione interculturale deve consentire a ciascun individuo sia di affermare la propria identità culturale sia di andare oltre qualora essa non si dimostri capace di afferrare l’universalità dei diritti fondamentali.

Quale il senso di un principio del genere? Si tratta di qualcosa capace di condurre a risultati pratici oppure si tratta di pura utopia? Per scendere nello specifico, c’è speranza che anche l’islamico di stretta osservanza possa modificare in senso evolutivo la propria posizione fino a recepire quel nucleo duro di valori di cui sopra si è detto? La rilevanza di queste domande sta in ciò che, in caso di risposta negativa, il quinto principio risulterebbe vuoto, anzi vacuo. Ci è di aiuto, nella ricerca di una risposta, la recente riflessione di Viola (5), secondo cui i diritti dell’uomo non sono più definiti a prescindere dalle differenze (di genere, di religione, di razza, di cultura) ma come veri e propri diritti delle differenze. Come a dire che la storia dei diritti si muove verso una loro progressiva contestualizzazione; non più cioè l’universalismo astratto di un sé umano sradicato dal riferimento di un qualche contesto esistenziale. Se le cose stanno in questi termini, si deve allora convenire che è, in linea di principio, fattibile il progetto di favorire, per tutte le culture, una marcia, più o meno lunga, al termine della quale si registra la convergenza su una base comune di valori condivisi.

 

 

I punti di forza del modello dell’integrazione interculturale

 

            Presi nel loro insieme, i cinque principi sopra illustrati ci consentono di cogliere i punti di forza del modello che chiamo dell'integrazione interculturale.

            Primo, tale modello evidenzia una marcata finalità integrazionista, dal momento che i gruppi di immigrati presenti nel paese ospitante non vengono incoraggiati a sentirsi come “nazioni separate” che si autogovernano come accade , tanto per intenderci, con gli Amish e con la comunità Lubavic (a Brooklyn) negli USA. Diversamente da quanto deriverebbe dall’accoglimento della posizione comunitarista, la politica interculturale, come qui esplicitata, comporta bensì una revisione dei termini dell’integrazione, ma non un rifiuto dell’integrazione in sé nella società ospitante, e ciò perché tale politica non accetta di trattare le varie culture come “isole cognitive” tra loro incomunicabili. Al tempo stesso, la politica interculturale è in grado di scongiurare il rischio paventato dai sostenitori della posizione neoliberale – il rischio cioè che il riconoscimento della identità etno-culturale degli immigrati possa condurre al separatismo e quindi all’annacquamento dell’identità nazionale. Non è così perché, come sopra si è sottolineato, il riconoscimento di cui si parla avviene entro le esistenti istituzioni comuni. E dunque ciò che muta non sono i principi regolativi delle istituzioni medesime, che restano invariati, ma i modi tradizionali di applicazione di quei principi, i modi cioè dettati da una particolare tradizione culturale. Solo chi coltivasse una concezione statica, e perciò obsoleta, di identità nazionale sarebbe portato a difendere la purezza delle proprie tradizioni dal contagio di altre tradizioni.

            Il secondo punto di forza è quello di rendere palese e trasparente a tutti, ed in modo ex-ante, tanto alle autorità politico-amministrative e di polizia quanto a coloro che intendono stabilirsi nel paese di immigrazione, le regole e i criteri in base ai quali le richieste avanzate verranno  prese in considerazione e giudicate. In tal modo si eliminano pericolosi spazi di discrezionalità. Si veda, al riguardo, il documento del Consiglio d’Europa  recante per titolo “Le relazioni intercomunitarie e interetniche in Europa” del 1991 (Cfr. Dassori), (6). Alla p.175 si legge: “Lo Stato… deve essere particolarmente vigilante nei riguardi delle pratiche  culturali che limitano il diritto dell’individuo a compiere scelte fondamentali”. E più avanti, alla p.179: “Il diritto islamico della famiglia comporta alcuni elementi totalmente incompatibili con il principio europeo dei diritti inalienabili dell’individuo e con l’eguaglianza dei sessi. Sembra difficilissimo poter arrivare ad un compromesso su questo punto”. Con affermazioni general-generiche del genere non si può certo sperare che le raccomandazioni di una istituzione importante come è il Consiglio d’Europa (creata nel 1949!) possano essere prese in seria considerazione; men che meno tradotte in pratica. (7)

            Il terzo punto di forza, cui sopra facevo riferimento, è quello di rendere concretamente possibile il dialogo interculturale con quei segmenti del mondo islamico – e ve ne sono indubitabilmente – che hanno fatto dell’apertura nei confronti del mondo occidentale la loro ragion d’esistere. Invero, il grave rischio che si nasconde nelle pieghe della vulgata “islamicamente corretta” è quello di relativizzare il concetto di diritti della persona per rendere accomodante e più agevole il dialogo. Il che non è affatto, perché confonde il dialogo con la conversazione. Esplicitando, invece, al proprio interlocutore, fin dall’inizio del rapporto dialogico, il sistema di principi nei quali ci si riconosce, si facilita, oltre che la mutua comprensione – il che è ovvio – la presa d’atto da parte del nuovo arrivato che diritti umani e istituzioni imperniate sul principio di libertà hanno valore vincolante anche per quelle culture che dichiarano di non volerli accogliere. Istruttive, a tale proposito, le vicende che hanno accompagnato la “Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo dell’Islam” del 1990, adottata dalla Conferenza Islamica che riunisce ben 51 Stati membri. In essa viene ribadita, fra le altre cose, la superiorità della legge coranica su qualsiasi altra legge, naturale o positiva che sia. Nel 1994 la Lega Araba – organismo di coordinamento essenzialmente politico e non religioso – approva il testo di una “Carta araba dei diritti dell’uomo”, nella quale viene omesso qualunque riferimento alla legge coranica, appellandosi solamente ai principi eterni sanciti dal diritto musulmano equiparati a quelli delle altre religioni monoteiste. A tutt’oggi, questa Carta non è ancora entrata in vigore e ciò per la mancanza del numero necessario di ratifiche! (8).

 

 

Per concludere

 

         Non v’è chi non veda come la ricerca di un equilibrio soddisfacente tra un codice comune di convivenza e l’istanza della molteplicità culturale ponga problemi delicati e di grossissimo spessore. Non dobbiamo nasconderci che le domande identitarie incutono sempre paura in coloro ai quali esse vengono rivolte. Talora, queste paure prendono la via dell’annientamento o negazione dell’identità dell’altro; talaltra, esse conducono all’adozione di pratiche meramente assistenziali che umiliano coloro che ne sono i destinatari perché annullano la stima  che essi hanno di sé. Eppure, come ci ricorda Giovanni Paolo II nel già citato messaggio: “il dialogo tra le culture… emerge come un’esigenza intrinseca alla natura stessa dell’uomo e della cultura” (n. 10). Il compito che in questo scritto ho cercato di assolvere è stato quello di gettare sul tavolo del dibattito la proposta di  una via capace di scongiurare la Scilla dell’imperialismo culturale, che porta all’assimilazione delle culture diverse rispetto a quella dominante, e il Cariddi del relativismo culturale, che conduce alla balcanizzazione della società.

         Il modello di integrazione interculturale di cui ho detto brevemente è fondato sull’idea del riconoscimento del grado di verità presente in ogni visione del mondo, un’idea che consente di fare stare assieme il principio di eguaglianza interculturale (che è declinato sui diritti universali) con il principio di differenza culturale (che si applica ai modi di traduzione nella prassi giuridica di quei diritti) . L’approccio del riconoscimento veritativo, qui accolto, non ha altra condizione se non la “ragionevolezza civica” di cui parla W.  Galston: tutti coloro che chiedono di partecipare al progetto interculturale devono poter fornire ragioni per le loro richieste politiche; nessuno è autorizzato a limitarsi ad affermare ciò che preferisce o, peggio, a fare minacce. Non solo, ma queste ragioni devono avere carattere pubblico,  - in ciò sta la “civicità” - nel senso che devono essere giustificate mediante termini che le persone di differente fede o cultura possono comprendere e accogliere come ragionevoli e dunque tollerabili, anche se non pienamente rispettabili o condivisibili. Solo così – penso -  le differenze identitarie possono essere sottratte al conflitto e alla regressione.

 

 

 

NOTE

             

(1)          U. Eco, “Prefazione” a A. Calabrò (a cura di), Frontiere, Milano, Il Sole-24 Ore, 2001.

(2)          Si veda M. Colasanto e M. Ambrosini (a cura di), L’integrazione invisibile, Milano, Vita e    Pensiero, 1993.

(3)     M. Sandel, Liberalism and the limits of Justice, Cambridge, Cambridge University Press,      1998, p.150.

(4)    A. Sen, “La ragione prima dell’identità”, in La ricchezza della ragione, Bologna, Il Mulino, 2000. Si veda anche lo stimolante saggio di R. Hardin, One for all: the logic of group conflict, Princeton, Princeton University Press, 1995.

(5)      F. Viola, “Le origini ideali dei diritti dell’uomo”, in Etica e metaetica dei diritti umani,  

         Torino, Giappichelli, 2000.

(6)      I. Dassori (a cura di), Europa interetnica. Documenti del Consiglio d’Europa, Milano, 2000.

(7)          Cfr. I. Orlando, “L’educazione interculturale e la normativa scolastica in italia”, Studi Emigrazione, 140, Dic. 2000.

(8)      Sull’argomento, si veda l’importante discussione di F. Viola, “Diritti umani, universalismo, globalizzazione e multiculturalismo”, in F. Viola, 2000. Gli storici ci rammentano che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 nacque in circostanze storiche veramente peculiari, tra la fine della seconda guerra mondiale e l’avvio della guerra fredda. Ebbene, anche in un contesto del genere, gli Stati islamici cercarono di votare contro la Dichiarazione, appoggiandosi sull’impossibilità di accogliere  in particolare l’art.18, quello che garantisce il diritto di ciascuna persona di cambiare la propria religione – ciò che per l’Islam equivarrebbe a legittimare l’apostasia (ridda). Fu solamente per l’estenuante mediazione dei delegati del Pakistan e del Libano se, alla fine, si arrivò all’astensione da parte degli otto Stati islamici. Cfr. la pregevole  ricostruzione di M.A. Glendon, Rights from wrongs, New York, Random House, 2000.