NUOVA QUESTIONE
MIGRATORIA, GLOBALIZZAZIONE E INTEGRAZIONE
INTERCULTURALE
di Stefano Zamagni
Edizioni Lilliput-on-line
http://digilander.libero.it/paolocoluccia
Novembre 2006
La questione migratoria, oggi
Viviamo
in un epoca in cui i movimenti delle persone da un
Paese all’altro, da una regione all’altra, mai avevano conosciuto l’intensità e
la problematicità di questi anni. E’ bensì vero che il fenomeno migratorio è
vecchio almeno quanto l’umanità stessa. Ma non si
potrà certo negare che il fenomeno in questione sia andato assumendo, nel corso
degli ultimi decenni e soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino,
caratteristiche e tendenze affatto nuove. Di un aspetto conviene qui dire, in
breve. Esso concerne la definizione del concetto di appartenenza: chi
può essere considerato membro di una data comunità politica e chi ne è escluso.
Come ci ricorda Eco (1), a differenza della civiltà greca fondata sulla polis che rinvia ad una
etnia dai confini mobili, la mentalità latina è ossessionata dal
confine. (Romolo traccia un confine e uccide il fratello perché non lo rispetta).
Il diritto romano nasce nel territorio, cioè in uno
spazio delimitato da un confine. Solo
chi vi appartiene, è parte della civitas. “Il problema – scrive Eco – è che nel prossimo
millennio l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, colorato.
Questo confronto (o scontro) di culture potrà avere esiti sanguinari e sono
convinto che in una certa misura li avrà, saranno ineliminabili e dureranno a
lungo… E’ esistito un patrizio romano che non riusciva a sopportare che
diventassero cives romani anche i galli, o i sarmati, o gli ebrei come San Paolo, e che potesse salire
al soglio imperiale un africano, come è infine
accaduto. Di questo patrizio ci siamo dimenticati, è
stato sconfitto dalla Storia”. Sono persuaso che quello dell’appartenenza costituisca
oggi un problema più urgente da risolvere di quello, certamente più antico,
della giustizia distributiva. Infatti, solo dopo aver identificato chi è il
titolare di specifici diritti si può passare a
discutere dell’applicazione dei principi di giustizia. In questo senso, la
soluzione della questione migratoria costituisce un prius
rispetto alla vasta problematica della giustizia sociale .
Ma in cosa si concretizza la questione
dell’appartenenza riferita alla figura dell’homo
migrans? Non tanto nel negare al
migrante certi aiuti o l’accesso a determinati servizi, quanto piuttosto
nel negargli la dignità e la stima di sé. Il che avviene tutte le volte in cui
si sottopone il migrante a politiche sistematiche di umiliazione. Secondo M. Walzer si va oggi ricreando, nelle
nostre società avanzate la differenziazione dell’antica Atene tra cittadini a
pieno titolo e meteci, lavoratori
stranieri tollerati in quanto utili, ma sprovvisti di
diritti. E’ proprio questa la negazione del principio di appartenenza.
Il modello dell’integrazione
interculturale.
Quanto
precede, mi introduce al tema centrale di queste note,
un tema che posso enucleare servendomi dei tre interrogativi seguenti. Preso
atto che le nostre società tendono a diventare società di immigrazione
e di emigrazione, come configurare il rapporto tra multiculturalità e identità?
Vale a dire, fino a che punto può e deve spingersi una politica dell’identità (politics of identity) se si vuole – come
presumo chiunque voglia – che la pluralità delle culture presenti in un paese risulti compatibile con un ordine sociale garante della pace
sociale e delle ragioni della libertà? Secondo, riconosciuto che lo scarto
crescente tra cittadinanza economica e cittadinanza socio-politica (2) dell’immigrato ha ormai raggiunto un livello
non più in grado di assicurare la
dignità della persona umana, cosa fare per conciliare l’inclusione economica
dell’immigrato – l’inclusione cioè nel mercato del
lavoro e nel sistema produttivo del paese ospitante – con la sua esclusione dai
diritti sociali e politici? Terzo, se specifiche ragioni
di principio, oltre che pratiche, sconsigliano riedizioni, più o meno
aggiornate, sia del modello assimilazionista di marca
francese, che tende a fare del diverso uno di noi, sia del modello della marginalizzazione degli immigrati (cioè della loro apartheid),
sia ancora del modello dell’autogoverno delle minoranze (il modello cioè della balcanizzazione della società), non resta che la via
dell’integrazione dei nuovi arrivati nella società di accoglienza. Ma quale
modello di integrazione si intende realizzare?
In altri termini, quali principi
basilari deve soddisfare un modello di integrazione
che faccia propria la prospettiva interculturale, una prospettiva che rifiuta
sia di prendere in considerazione solamente le differenze che separano gli
immigrati dagli autoctoni per giungere a forme più o meno accentuate di balcanizzazione della società, sia l’esistenza di
differenze significative tra gli uni e gli altri per giungere all’assimilazione
più o meno esplicita e forzata? Quali principi devono cioè
essere posti a fondamento di una politica che voglia assicurare a tutti il
soddisfacimento dei diritti fondamentali dell’uomo e al tempo stesso garantire
uno spazio pubblico in cui i soggetti portatori di una identità culturale
diversa da quella del paese ospitante possano mettere a confronto le loro
rispettive posizioni in modo pacifico e soprattutto possano giungere al
consenso intorno ai limiti entro cui mantenerle? Ne
indico cinque, avvertendo, sin da subito, che il contesto cui penso tali
principi debbano applicarsi è quello degli stati uninazionali
(del tipo Gran Bretagna, Francia, Italia) e non quello degli stati
multinazionali (del tipo Canada, Svizzera, Belgio, Spagna).
Il primo
principio è quello del primato della persona sia sullo Stato sia sulla
comunità. Sulla primazia della persona rispetto allo
Stato e alla comunità non c’è bisogno di spendere parole; si tratta di acquisizione ormai assodata, almeno nelle nostre società
occidentali – anche se non sempre applicata nella pratica. Conviene dire invece
qualcosa dell’altra relazione, quella tra persona e comunità. Scrive Sandel, esponente di punta del comunitarismo
radicale, a proposito dell’identità comunitaria concepita come qualcosa che
attiene alla autorealizzazione
del soggetto e non già alla sua libera scelta: “La comunità dice non solo ciò
che essi hanno come cittadini, ma anche ciò che essi sono; non
una relazione che essi scelgono (come accade nelle associazioni volontarie) ma
un attaccamento che essi scoprono; non semplicemente un attributo ma un
elemento costitutivo delle loro identità” (3). Quanto a dire che la comunità, e
dunque l’identità, viene “prima” della persona che sceglie, e dunque viene “prima” della ragione che guida la
scelta.
Non ci
vuol molto a capire perché chi si riconosce nelle posizioni della filosofia
personalista – magistralmente enunciate ne L’uomo e lo Stato di Jacques
Maritain e, in tempi più recenti, da Emmanuel Levinas
e da Paul Ricoeur - non
possa accettare una simile inversione del nesso tra persona e comunità. Scrive
Sen: “La persona che scopre di essere ebrea deve pur
sempre decidere quanta importanza attribuire a quella determinata identità in
confronto ad altre identità concorrenti – di nazionalità, di classe, di
credenza politica, ecc… Le scelte devono essere fatte anche quando si è in
presenza di scoperte” (p.31). In buona sostanza, è la
soggettività della persona il fondamento del rapporto (4) comunitario, il quale
va edificato o reinventato a partire da soggetti che
sono capaci e liberi di scegliere e dunque capaci di assumersi la
responsabilità del proprio destino. E’
bensì vero che l’individuo isolato è pura astrazione e che, come si dirà
tra breve, l’identità individuale non può prescindere dalla trama di rapporti
che legano il singolo alla sua comunità. Ma il comune denominatore collettivo
non riesce mai a definire pienamente la singola persona, la quale
è pur sempre un insieme di attributi unici.
Al tempo
stesso, però, la libertà – ed è questo il secondo principio – non è pienamente
tale se non va oltre la mera autodeterminazione, il “fare quel che si vuole”.
Tale concezione è troppo gracile perché essa possa essere compatibile con lo
statuto personalista. Infatti, la persona, a
differenza dell’individuo, è definita anche
dalla cultura in cui essa è cresciuta e nella quale essa sceglie di riconoscersi. Invero, ciò che è tipico della persona umana è la relazionalità, la quale
postula che l’altro diventi un tu. La piena realizzazione dell’identità
personale non può dunque limitarsi al semplice rispetto dell’altrui libertà,
come afferma la posizione neo-liberale per la quale il vivere in comune è un’opzione. Sappiamo, infatti, che per ciascuno di noi non è
affatto così. La scelta non è mai tra vivere in solitudine o vivere in società,
ma tra vivere in una società sorretta da certe regole oppure da altre. E’
dunque troppo poco, per la nozione forte di libertà, pensare ad una individualità che prescinde dalla relazione con l’altro.
Ecco perché le culture meritano tutela e riconoscimento anche a livello della sfera pubblica.
Se è vero che l’identità personale nasce dialogicamente
come risposta alle nostre relazioni con gli altri, allora una società
autenticamente rispettosa delle ragioni della libertà non può negare che la
preservazione di un contesto culturale sicuro, cioè
non minacciato né, tanto più, negato, costituisca un bene primario su cui verte
l’interesse fondamentale dei singoli. E se così ha da
essere, allora occorre spingersi fino al riconoscimento pubblico delle
particolarità culturali.
Il terzo
principio è quello della neutralità, - beninteso,
non della indifferenza, - dello Stato nei confronti
delle culture che sono “portate” da coloro che in esso risiedono. La visione relativistica della
libertà, tipica della concezione liberal-individualistica,
riducendo la libertà a mero permissivismo privato ha favorito la confusione fra
Stato laico, cioè Stato neutrale nei confronti delle
varie culture in esso presenti, e Stato indifferente, uno Stato cioè che si dichiara incapace di
scegliere ovvero di stabilire differenze tra culture diverse. Se la neutralità
dice dell’imparzialità con cui lo Stato deve trattare le varie identità, l’indifferentismo dice della impossibilità
di fissare un ordine tra diverse istanze culturali per via della non esistenza
di un criterio oggettivo di scelta. Quanto a dire che lo Stato laico non può
fare a meno di presupposti di valore che non tocca ad esso
produrre – se così avvenisse si trasformerebbe in Stato etico – ma che spetta
allo Stato recepire dai soggetti della società civile portatori di cultura.
Il
quarto principio afferma che lo Stato laico, cioè
neutrale, nel perseguire l’obiettivo di integrare le minoranze etnoculturali entro una comune cultura nazionale, adotta
quale presupposto per l’integrabilità che le culture
presenti nel paese concordino tutte su, cioè facciano proprio, un nucleo duro
di valori, di valori cioè irrinunciabili che, in quanto tali, valgono per tutti
gli uomini, quale che sia la loro appartenenza a una specifica cultura. Si
tratta di quei valori che sono a fondamento dei
diritti universali dell’uomo. Sorge spontanea la domanda: poiché non è mai
lecito giudicare una cultura servendosi di un’altra come unità di misura, e
poiché i diritti universali dell’uomo sono un’acquisizione (recente) della
cultura occidentale, non c’è forse il rischio che il quarto principio conduca
all’imperialismo culturale? Non lo penso, perchè, il fatto che valori come
quello della dignità umana e teorie come quella dei diritti umani usino il
linguaggio della cultura occidentale non è segno di pregiudizio etnocentrico; piuttosto è indicazione del fatto che
l’Occidente è giunto prima di altri contesti a
prendere coscienza di tali valori, dando ad essi una fondazione su basi
razionali. E pertanto, proprio perché giustificati per
via di ragione, questi valori sono estensibili, in linea di principio, a tutti
gli uomini. In altri termini, la nozione di diritti umani non
è legata all’Occidente, anche se questo è il luogo di nascita delle carte dei
diritti. Il contenuto di tali
diritti non è specifico di una determinata cultura, anche se è vero che c’è
oggi un modello culturale dei diritti umani che è dominante, quello
occidentale appunto.
E’ dunque l’accettazione da parte di
chi è portatore di una particolare cultura di tale nucleo di valori che
marca la soglia al di sotto della quale non è possibile accogliere alcuna
legittima richiesta di riconoscimento a livello istituzionale, cioè pubblico,
per quella cultura. D’altro canto, al di sopra di
quella soglia, il compito da assolvere è quello di discernere ciò che, di una
data cultura, è tollerabile, da ciò
che è rispettabile, da ciò che è condivisibile. Chiaramente, la
tolleranza copre la gamma più vasta di richieste. Essa costituisce il primo
livello di accettabilità per una determinata posizione
o atteggiamento. La tolleranza –virtù pubblica che si rifà alla prudenza – si
configura come metodo per risolvere quei conflitti che discendono dalla
convivenza di diversi entro la cittadinanza democratica. Il rispetto, invece, è
una rete a maglie più strette rispetto a quelle della tolleranza. Infatti, il rispetto non e’ solo questione di diritti; esso
rinvia all’onore. Si rispetta qualcuno che si riconosce essere degno di valore.
Nel rispetto c'è’dunque il riconoscimento che l'altro è portatore di una
prospettiva meritevole di considerazione, anche se quella prospettiva non
coincide con la mia. Ancora più strette sono le maglie della rete della
condivisione.
Mi preme sottolineare che
l’identificazione dei tre livelli di giudizio – tollerabilità, rispettabilità, condivisibilità – produce una conseguenza pratica di grande
momento, quella di offrire un criterio sulla cui base procedere all’attribuzione di risorse
pubbliche ai vari gruppi di minoranze etno-culturali
presenti nel paese. Si potrebbe, infatti, stabilire che le richieste giudicate
tollerabili non ricevono risorse, monetarie e di altra
natura, dallo Stato o dagli altri enti pubblici; le
richieste giudicate rispettabili ricevono un riconoscimento a livello
amministrativo, entrano cioè nell’ordinamento amministrativo dello Stato; le
richieste giudicate condivisibili vengono accolte nell’ordinamento giuridico
del paese ospitante, con tutto ciò che questo comporta in termini di destinazione
di risorse pubbliche.
Da ultimo, che ne
è di quelle culture che chiedono di partecipare al progetto
interculturale, ma che non accettano di trasformarsi per accogliere lo statuto
dei diritti fondamentali? A ciò dà risposta il quinto principio: lo Stato, in
nome dei diritti del cittadino - i quali, a differenza
dei diritti dell’uomo, non hanno fondazione giusnaturalistica
- destinerà risorse ai gruppi portatori di quelle culture per aiutarli ad
evolvere verso posizioni capaci di accogliere i diritti fondamentali dell’uomo.
E’ questo il significato del principio che chiamo
della tolleranza condizionata: ti
aiuto perché tu possa fare posto, dentro la tua matrice culturale e secondo i
modi propri della tua cultura, all’accoglimento dei diritti fondamentali. E’ noto che le culture
hanno la tendenza ad adattarsi all’evolversi delle
situazioni; non sono qualcosa di statico. E dunque
l’educazione interculturale deve consentire a ciascun individuo sia di
affermare la propria identità culturale sia di andare oltre qualora essa non si
dimostri capace di afferrare l’universalità dei diritti fondamentali.
Quale il senso di un principio
del genere? Si tratta di qualcosa capace di condurre a risultati pratici oppure
si tratta di pura utopia? Per scendere nello specifico, c’è speranza che anche
l’islamico di stretta osservanza possa modificare in senso evolutivo la propria
posizione fino a recepire quel nucleo duro di valori
di cui sopra si è detto? La rilevanza di queste domande sta in ciò che, in caso
di risposta negativa, il quinto principio risulterebbe
vuoto, anzi vacuo. Ci è di aiuto, nella ricerca di una
risposta, la recente riflessione di Viola (5), secondo cui i diritti dell’uomo
non sono più definiti a prescindere dalle differenze (di genere, di religione,
di razza, di cultura) ma come veri e propri diritti delle differenze. Come a
dire che la storia dei diritti si muove verso una loro progressiva contestualizzazione; non più cioè
l’universalismo astratto di un sé umano sradicato dal riferimento di un qualche
contesto esistenziale. Se le cose stanno in questi
termini, si deve allora convenire che è, in linea di principio, fattibile il
progetto di favorire, per tutte le culture, una marcia, più o meno lunga, al
termine della quale si registra la convergenza su una base comune di valori
condivisi.
I punti di forza
del modello dell’integrazione interculturale
Presi
nel loro insieme, i cinque principi sopra illustrati ci consentono di cogliere
i punti di forza del modello che chiamo
dell'integrazione interculturale.
Primo,
tale modello evidenzia una marcata finalità integrazionista, dal momento che i
gruppi di immigrati presenti nel paese ospitante non
vengono incoraggiati a sentirsi come “nazioni separate” che si autogovernano come accade , tanto per intenderci, con gli Amish e con la comunità Lubavic
(a Brooklyn) negli USA. Diversamente da quanto
deriverebbe dall’accoglimento della posizione comunitarista,
la politica interculturale, come qui esplicitata,
comporta bensì una revisione dei termini dell’integrazione, ma non un rifiuto
dell’integrazione in sé nella società ospitante, e ciò perché tale politica non
accetta di trattare le varie culture come “isole cognitive” tra loro
incomunicabili. Al tempo stesso, la politica interculturale è in grado di scongiurare il rischio paventato dai sostenitori della
posizione neoliberale – il rischio cioè che il riconoscimento della identità etno-culturale degli immigrati possa condurre al
separatismo e quindi all’annacquamento dell’identità nazionale. Non è così perché,
come sopra si è sottolineato, il riconoscimento di cui
si parla avviene entro le esistenti istituzioni comuni. E dunque ciò che muta
non sono i principi regolativi delle istituzioni
medesime, che restano invariati, ma i modi tradizionali di applicazione di quei
principi, i modi cioè dettati da una particolare tradizione culturale. Solo chi
coltivasse una concezione statica, e perciò obsoleta, di identità
nazionale sarebbe portato a difendere la purezza delle proprie tradizioni dal
contagio di altre tradizioni.
Il
secondo punto di forza è quello di rendere palese e trasparente a tutti, ed in
modo ex-ante, tanto alle autorità politico-amministrative e di polizia quanto a
coloro che intendono stabilirsi nel paese di
immigrazione, le regole e i criteri in base ai quali le richieste avanzate
verranno prese in considerazione e
giudicate. In tal modo si eliminano pericolosi spazi di discrezionalità. Si
veda, al riguardo, il documento del Consiglio d’Europa recante per titolo “Le relazioni
intercomunitarie e interetniche in Europa” del 1991 (Cfr.
Dassori), (6). Alla p.175
si legge: “Lo Stato… deve essere particolarmente vigilante nei riguardi delle
pratiche culturali che limitano il
diritto dell’individuo a compiere scelte fondamentali”. E
più avanti, alla p.179: “Il diritto islamico della
famiglia comporta alcuni elementi totalmente incompatibili con il principio
europeo dei diritti inalienabili dell’individuo e con l’eguaglianza dei sessi.
Sembra difficilissimo poter arrivare ad un compromesso su questo punto”. Con
affermazioni general-generiche del genere non si può
certo sperare che le raccomandazioni di una istituzione
importante come è il Consiglio d’Europa (creata nel 1949!) possano essere prese
in seria considerazione; men che meno tradotte in
pratica. (7)
Il terzo
punto di forza, cui sopra facevo riferimento, è quello
di rendere concretamente possibile il dialogo interculturale con quei segmenti
del mondo islamico – e ve ne sono indubitabilmente – che hanno fatto
dell’apertura nei confronti del mondo occidentale la loro ragion d’esistere. Invero, il grave rischio che si nasconde nelle pieghe della
vulgata “islamicamente corretta” è quello di
relativizzare il concetto di diritti della persona per rendere accomodante e
più agevole il dialogo. Il che non è affatto, perché confonde
il dialogo con la conversazione. Esplicitando,
invece, al proprio interlocutore, fin dall’inizio del rapporto dialogico, il
sistema di principi nei quali ci si riconosce, si facilita, oltre che la mutua
comprensione – il che è ovvio – la presa d’atto da parte del nuovo arrivato che
diritti umani e istituzioni imperniate sul principio di libertà hanno valore
vincolante anche per quelle culture che dichiarano di non volerli accogliere. Istruttive, a tale
proposito, le vicende che hanno accompagnato la “Dichiarazione dei diritti e
dei doveri dell’uomo dell’Islam” del 1990, adottata dalla Conferenza Islamica
che riunisce ben 51 Stati membri. In essa viene
ribadita, fra le altre cose, la superiorità della legge coranica
su qualsiasi altra legge, naturale o positiva che sia. Nel 1994 la Lega Araba –
organismo di coordinamento essenzialmente politico e non religioso – approva il
testo di una “Carta araba dei diritti dell’uomo”, nella quale viene omesso qualunque riferimento alla legge coranica, appellandosi solamente ai principi eterni sanciti
dal diritto musulmano equiparati a quelli delle altre religioni monoteiste. A tutt’oggi,
questa Carta non è ancora entrata in vigore e ciò per la mancanza del numero
necessario di ratifiche! (8).
Per concludere
Non v’è chi
non veda come la ricerca di un equilibrio
soddisfacente tra un codice comune di convivenza e l’istanza della molteplicità
culturale ponga problemi delicati e di grossissimo spessore. Non dobbiamo
nasconderci che le domande identitarie incutono
sempre paura in coloro ai quali esse vengono rivolte.
Talora, queste paure prendono la via dell’annientamento o negazione
dell’identità dell’altro; talaltra, esse conducono all’adozione di pratiche
meramente assistenziali che umiliano coloro che ne
sono i destinatari perché annullano la stima
che essi hanno di sé. Eppure, come ci ricorda Giovanni Paolo II nel già
citato messaggio: “il dialogo tra le culture… emerge
come un’esigenza intrinseca alla natura stessa dell’uomo e della cultura” (n. 10). Il compito che in questo scritto ho cercato di
assolvere è stato quello di gettare sul tavolo del dibattito la proposta
di una via capace di scongiurare la
Scilla dell’imperialismo culturale, che porta all’assimilazione delle culture
diverse rispetto a quella dominante, e il Cariddi del
relativismo culturale, che conduce alla balcanizzazione
della società.
Il modello
di integrazione interculturale di cui ho detto
brevemente è fondato sull’idea del riconoscimento del grado di verità presente
in ogni visione del mondo, un’idea che consente di fare stare assieme il
principio di eguaglianza interculturale (che è declinato sui diritti
universali) con il principio di differenza culturale (che si applica ai modi di
traduzione nella prassi giuridica di quei diritti) . L’approccio del
riconoscimento veritativo, qui accolto, non ha altra condizione se non la
“ragionevolezza civica” di cui parla W. Galston: tutti coloro che chiedono di partecipare al progetto
interculturale devono poter fornire ragioni
per le loro richieste politiche; nessuno è autorizzato a limitarsi ad affermare
ciò che preferisce o, peggio, a fare minacce. Non solo, ma
queste ragioni devono avere carattere pubblico,
- in ciò sta la “civicità” - nel senso che
devono essere giustificate mediante termini che le persone di differente fede o
cultura possono comprendere e accogliere come ragionevoli e dunque tollerabili,
anche se non pienamente rispettabili o condivisibili. Solo così – penso - le differenze identitarie possono essere sottratte al conflitto e
alla regressione.
NOTE
(1)
U. Eco, “Prefazione” a A. Calabrò (a cura di), Frontiere,
Milano, Il Sole-24 Ore, 2001.
(2)
Si veda M. Colasanto e M. Ambrosini (a cura di), L’integrazione invisibile,
Milano, Vita e Pensiero, 1993.
(3)
M. Sandel,
Liberalism and the limits of Justice, Cambridge, Cambridge University
Press, 1998,
p.150.
(4)
A. Sen, “La ragione
prima dell’identità”, in La ricchezza della ragione, Bologna, Il Mulino,
2000.
Si veda anche lo stimolante saggio di R. Hardin, One for all: the logic of group conflict, Princeton,
Princeton University Press, 1995.
(5)
F. Viola, “Le origini ideali dei diritti dell’uomo”, in Etica e metaetica dei diritti umani,
Torino, Giappichelli, 2000.
(6)
I. Dassori (a cura
di), Europa interetnica. Documenti del Consiglio d’Europa, Milano, 2000.
(7)
Cfr. I. Orlando, “L’educazione interculturale e la
normativa scolastica in italia”, Studi Emigrazione,
140, Dic. 2000.
(8)
Sull’argomento,
si veda l’importante discussione di F. Viola,
“Diritti umani, universalismo, globalizzazione e multiculturalismo”,
in F. Viola, 2000. Gli storici ci rammentano che la
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del
1948 nacque in circostanze storiche veramente peculiari, tra la fine della
seconda guerra mondiale e l’avvio della guerra fredda. Ebbene, anche in un contesto del genere, gli Stati islamici cercarono di votare
contro la Dichiarazione, appoggiandosi sull’impossibilità di accogliere in particolare l’art.18,
quello che garantisce il diritto di ciascuna persona di cambiare la propria
religione – ciò che per l’Islam equivarrebbe a legittimare l’apostasia (ridda).
Fu solamente per l’estenuante mediazione dei delegati del Pakistan e del Libano
se, alla fine, si arrivò all’astensione da parte degli otto Stati islamici.
Cfr.
la pregevole ricostruzione
di M.A. Glendon,
Rights from wrongs, New York, Random House, 2000.