RECENSIONE del libro: Patrick Viveret, Ripensare la ricchezza. Dalla tirannia del Pil alle nuove forme di economia sociale, TerrediMezzo, Milano 2005. Titolo originale: Reconsidérer la richesse, L’Aube, Paris 2004. Traduzione italiana, introduzione e post-fazione di Paolo Coluccia. Pagine 194, euro 10,00.

(a cura di Paolo Coluccia)

 

Nell’agosto del 2000 Guy Hascoët, Sottosegretario di stato per l’economia solidale del Governo francese, conferì a P. Viveret, filosofo e Consigliere referente della Corte dei Conti, l’incarico di svolgere una missione «impossibile», cioè scrivere un «Rapporto sui nuovi fattori di ricchezza», per ripensare ciò che nella vita umana rappresenta un valore e proporre, sulla base di nuovi criteri, un nuovo sistema di contabilità nazionale, non esclusivamente appiattito su valori numerici, come il PIL (Prodotto Interno Lordo), ma soprattutto basato su valori qualitativi ed esistenziali. Le intenzioni di fondo erano quelle di sottrarsi progressivamente alla dittatura del PIL, considerato ormai da molti un termometro che rende malati. Il Rapporto di Viveret nasce in due fasi. La prima è di tappa, esplorativa, tende ad aprire il dibattito e si compone di due grossi capitoli (Termometri che rendono malati e Un progetto, degli attori, degli obiettivi, un metodo) e di una Conclusione programmatica. Sono focalizzati i problemi e le incongruenze della contabilità nazionale lorda basata prevalentemente sul PIL. La seconda fase del Rapporto è una sintesi delle discussioni di un anno intorno al tema affrontato e consta di tre capitoli (Da New York a Tolosa: è tempo di cambiare il nostro sguardo sulla ricchezza, Al cuore del dibattito, Per uno stato ecologicamente e socialmente responsabile) e di una breve conclusione (Uscire positivamente dalla società di mercato?) che stimola a continuare nella riflessione. Il volume, oltre ad essere brevemente introdotto, si chiude con una postfazione di chi scrive, che ne è anche il traduttore, dal titolo: Il diritto di non contare “tutto” e di “contare” altrimenti. Questa è la risposta alla domanda cruciale che corre lungo tutto il Rapporto: che cosa conta nella vita?. Abbiamo bisogno di un nuovo termometro per misurare la nostra ricchezza.  La nostra rappresentazione attuale della ricchezza aggrava i problemi con i quali le nostre società si confrontano invece di aiutarci a risolverli. Le catastrofi ambientali, frutto della corsa allo sviluppo e alla crescita economica, sono una benedizione per il nostro PIL. Sembra un paradosso, ma è così! «Ogni distruzione, allorché genera dei flussi monetari (riparazioni, cure, assicurazioni, sostituzioni ecc.) è contabilizzata positivamente. Ogni attività non monetaria invece così vitale ed essenziale per il legame sociale (compiti domestici, educazione dei ragazzi, cure volontarie di persone anziane, ecc.) è invisibile nei nostri conti pubblici». Il PIL è dunque una cifra magica, ma l’equivalenza: «Più distruzioni = Più PIL» non regge più. È tempo di cambiare il nostro termometro di misurazione e la nostra rappresentazione della ricchezza. Il PIL non è la ricchezza!  La vera ricchezza non può essere soltanto quella materiale. Cambiare gli indicatori di benessere significa comprendere che crescita e produttività non sono gli unici indicatori dello sviluppo umano. Come ha osservato Amarthya K. Sen, ci sono molti altri indicatori e il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUS) ha provato ad elaborarli. In questi trovano un posto determinante l’indicatore ecologico (costo ambientale), il valore della terra, gli indicatori di distruzione (catastrofi ambientali ed inquinamento). Si è cercato di costruire «conti satellite» accanto alla contabilità nazionale, ma non è sufficiente. È il principio di fondo che deve essere compreso. Questo è direttamente legato ad una nuova concezione della moneta, che da pacificatrice e mediatrice degli scambi, è diventata strumento di violenza e di dominazione economica, politica e sociale. Ecco perché pronosticare «una riabilitazione della nozione del bene comune o dell’interesse generale» non può essere considerata un’illusione, ma una necessità, un percorso utopico che confluisca in giuste prospettive di sviluppo umano, di una nuova politica, di un nuovo modo di intendere i rapporti umani, affinché diventino simmetrici in senso generale, tra uomo ed uomo e tra uomo e ambiente. L’obiettivo da raggiungere è una nuova responsabilità ecologica e sociale, mediante un nuovo approccio alla ricchezza e uno Stato ecologicamente e socialmente responsabile. Infatti, ogni indicatore di ricchezza è una scelta sociale e politica. Accanto ad un nuovo paradigma, occorre anche una strategia «ambiziosa», che tenga conto del fatto che ci sono valori umani che non si possono contabilizzare, ma che sono evidenti ed importanti per la società. Da qui la necessità di «contare altrimenti» e il diritto di «non contare tutto», per non cadere in quell’ossessione della misura, che già traspare come una pericolosa malattia nella società di mercato. Cambiare paradigma significa anche non continuare a ruotare intorno al concetto che «solo» l’impresa sia unica produttrice di ricchezza. Altrimenti, le teorie sul capitale sociale, naturale ed umano non avrebbero ragione di esistere. Occorre evitare poi il rischio di «mercantilizzare» ancor più la visione sociale e la stessa vita umana. Ne scaturiscono «Sette assi di trasformazione»: 1) Creare le condizioni di un altro sguardo sulla ricchezza, riaprire il nostro immaginario e dare la parola alle vittime della nostra contabilizzazione; 2) Iniziare un dibattito democratico sulla natura della ricchezza, il suo calcolo e la sua circolazione; 3) Elaborare un rapporto sullo sviluppo umano durevole, integrando gli indicatori di distruzione; 4) Promuovere a livello europeo un rapporto dello stesso tipo e lavorare per questo anche a livello mondiale; 5) Stimolare e mobilitare coscienze e comportamenti affinché contribuiscano alla prevenzione o alla limitazione delle distruzioni ecologiche, sociali e sanitarie; 6) Favorire gli scambi con politiche dei tempi e con la sperimentazione di una moneta sociale sollecitatrice di comportamenti civili, solidali ed ecologicamente responsabili; 7) Immaginare uno stato (e il potere pubblico) socialmente ed ecologicamente responsabile. Ma la questione più radicale da porre è questa: siamo veramente preparati ad uscire dalla società di mercato «che reifica i rapporti sociali, mercantilizza il vivente e l’intelligenza?». Una società di mercato non ha senso, perché distrugge il legame sociale, la cultura, la politica e l’ambiente. Dobbiamo fare in modo che i principi di cooperazione e di solidarietà siano determinanti nella sfera economica, sociale, pubblica e culturale e che dalla logica dei «vincenti/perdenti» si passi alla logica «cooperanti/guadagnanti». Infatti: «Ciò che ci insegnano la mutazione informatica e le nuove frontiere della conoscenza e del vivente, è che la vera ricchezza, domani più ancora di ieri, sarà quella dell’intelligenza del cuore».                                              Paolo Coluccia