Un uomo in città
di Gabriele Via
(…un
vangelo secondo Pasolini…)
Io non so come si chiamasse quell’uomo,
se uomo era. Comunque son quasi certo fosse uomo; un
uomo giovane direi. E dico quasi perché… insomma: non ci ho mai parlato, io,
con lui. Ché parlare è un po’ un’occupazione definitiva, specie se si tratta di
estranei. Puoi osservare per giorni e mesi una persona, poi, un bel giorno sia
che ti decidi tu o che il caso vi ficchi coi gomiti nella milza sulla porta di
un mezzo pubblico… Insomma; capita che cominciate a parlare: e lì si verifica
un salto di qualità nel valore che diamo all’affidabilità delle nostre opinioni
su quella data persona… Ci facciamo delle idee, in questo modo, con l’uso
reciproco delle parole. Avviene che ci formiamo dei veri e propri convincimenti:
parliamo con gli altri per convincere noi stessi. E quindi va a finire che poi
ci crediamo di più alle nostre idee. Un po’ come se, oltre ad averle pensate,
ci stupissimo in memoria di averle vissute in esperienza, come cose… Invece ne
abbiamo solo parlato e caso mai con uno sconosciuto. Tutto ciò mi meraviglia
profondamente… Soprattutto da quando ho visto che si tratta di una costante e
straordinaria illusione. Così, di quell’uomo, posso dire che io credo si
trattasse di un uomo; e non ci avevo parlato mai. Che per essere ragazzo, non
fossero bastati quei connotati distintivi tipici dei romanzi del secolo scorso,
quali le rughe sulla fronte, a volte alta, le mani, la pelle, gli occhi e altre
estensioni fisiognomiche dell’identità… ragazzo,
quello, non lo poteva proprio essere. Non lo era anche solo per come camminava,
se ciò ci basta. Ché i ragazzi camminano, col capriccio di qualche divinità
negli stinchi, per i suoli dell’innumerevole; pestano la terra su cui, invece,
il buon camminatore bussa docilmente i suoi passi contati… Vedere come uno
cammina… Eh già! Potere osservare un viandante sulla misura di venti o
cinquanta metri, già costituisce un’occasione importante per avvicinarsi
all’anima. Infatti è l’anima che cammina… No, anche se qualcosa negli occhi
avrebbe spinto a crederlo un ragazzo… Io non lo credo. Vederlo camminare,
invece, era cosa sufficiente per capire di trovarsi di fronte ad un uomo.
Se ne usciva presto di casa, quest’uomo,
dirigendosi verso un luogo preciso, con quell’atteggiamento che non ha
dell’abitudine, non ha la diligente incoscienza del dovere, non ha la fretta
creativa dell’innamorato, e neppure la cautela ansiosa della mia condizione…
Per molti secoli gli uomini dei romanzi sono stati descritti nei loro movimenti
territoriali grazie a generosi destrieri più o meno bianchi, concilianti con la
struttura del testo, generalmente assoldati per traghettare il nostro eroe
dalle concrete difficoltà di un sanguinoso assedio urbano all’improvviso spazio
incantato di selve meravigliose in cui la natura creativa e fantastica
architettava simpatici imprevisti all’itinerario del nostro e della storia
tutta… Fino a ché, presso un’adeguata radura, non si sarebbe giunti, noi, il
destriero, la storia e il nostro eroe, ai piedi di una torre. Ma qui occorre cambire registro e mettere una focale più attuale; ché la
questione dell’inaccessibile porta brucia tutt’ora.
La porta è chiusa e inviolabile, la torre
sarà alta almeno trenta metri e in cima c’è una sola finestra, molto ampia, con
due tendine raccolte ai lati con graziosi fiocchi per permetterere
la vista. Infatti al davanzale possiamo scorgere una bella che presto si
affaccia e parla con l’eroe. Noi non possiamo sapere se l’eroe fosse già stato
pericolosamente ferito a seguito dell’assedio prima o della terribile
traversata della selva poi, sta che egli vede la donna, che certamente è una
principessa, giovane bene educata e assai bella, e così se ne innamora. Ora,
perché, secondo voi, egli si innamora di lei? Per quattordici anni io mi sono fatto questa
domanda: ma ora l’ho scoperto. È chiaro che la torre rappresenta l’ultimo,
estremo e maggiore degli ostacoli, che separano l’uomo e la felicità. La
felicità è rappresentata da una possibile unione ideale e vitale, perfetta,
tanto perfetta da non avere storia. Avulsa, astratta, anzi estratta dalle
contingenze. Egli si è chiamato fuori uscendo dalla storia (l’assedio) e dalla
natura (la selva oltrepassata), ella è invece circoscritta, posta sopra la
terra, al di sopra, elevata, senza radici, alle spalle di entrambi né storia,
né famiglia, e neppure territorio. Quel che c’è è piedistallo del loro
potenziale incontro… se non ché c’è il problema della porta, della torre…
L’obiettivo è visibile, essi si vedono, si desiderano, si parlano, possono
costruire un nuovo ordine narrativo, istituire un dialogo e lo fanno… Tuttavia
occorre un’azione capace di unirli. È
come se Aristotele avesse vissuto tutta la sua vita per raggiungere un punto
che lo precipitasse in un amen ai piedi del suo maestro: Platone. Tutto è
vinto, tutto è spiegato, tutto è visto… ma resta la tenebra monodose, quella
che per ciascuno posta davanti agli occhi rende oscuro l’intero universo. Resta
la tenebra della prossima definitiva porta… Ed è lì, nell’anima, ben oltre
Leibniz e Bacone, che Platone ha teso la sua trappola
al prediletto suo Aristotelico Giobbe… Previo, si sa, un certo dissaporte fra i nobili prussiani, circa calunnie
antropologiche del tutto infondate, circolate su un giornaletto Viennese per le
quali il diavolo in persona si è incaricato di muovere legioni di querele
enciclopediche… Per cui non vale la pena di divagare oltre queste righe.
Ma nonostante il fascino delle eco mediterranee e nordiche che permeano
l’istante, resta la contingenza galileiana del caso.
Ripetiamo: l’obiettivo è visibile, essi
si vedono, maschio e femmina, si desiderano, si parlano, possono costruire un
nuovo ordine narrativo, istituire un dialogo e lo fanno, per come possono…
Tuttavia occorre un’azione risolutiva capace di unirli. Quale? Come? Attenzione:
di questo passo corriamo il rischio di non cogliere l’essenziale, che è sempre
leggero e cruciale come una brezza inaspettata. I due si innamoreranno. Ecco è
tutto. Tutto è lì dentro. Da ciò, per ciò, con ciò e in ciò, e non altrimenti,
deriva la paolina creazione del movimento. Ella
scioglie le sue lunghissime trecce ed egli sale aggrappato ai capelli setosi di lei. Non ce ne siamo mai preoccupati, presi dalla
geometrica retorica rinascimentale, così attenta alla distribuzione delle
proporzioni democratiche di quanto diviene figura e rappresentazione… Ma è
giusto che ora sappiamo per certo che se fosse passato lì sotto un ufficiale
giudiziario con tanto di cartella esattoriale, un testimone di geova, un venditore di aspirapolveri,
o un affittacamere, la nostra bella non avrebbe neppure supposto di avere
questa disponibilità di magiche setose trecce. Così
come mai ci siamo interessati al fatto che il nostro eroe soffrisse da tempo di
vertigini, avesse problemi articolari alla spalla sinistra per via di uno
smodato uso dello scudo che aveva assiduamente praticato nei tempi morti fra
un’avventura ed un ritiro pentecostale; o all’altra meno nota circostanza
secondo la quale risultava che avesse una debolezza “costituzionale” al polso
destro dovuta alle modalità meccaniche del suo arguto parto… e che, in
definitiva fu solo grazie al fido cavallo che in origine della nostra storia
poté prendere parte a tutta quest’altra storia, interessante perché possibile,
possibile perché incerta, incerta perché infinita…
Fu
grazie al cavallo, si diceva, che poté prendere parte alla storia, perché zoppo
– ultimo dato indefettibile, altrimenti avrebbe certamente lasciato perdere…
Insomma il nocciolo della questione è il seguente. Giunti al culmine, al top,
fattosi il clima, la storia supera se stessa solo con l’illusione… E questa
illusione la porta solo l’amore. Anche se a questo punto, tutto quel che
chiamiamo amore, diventerà qualcosa in più, anche più reale, più crudo e
faticoso, talora, a volte decisamente insopportabile… Capace di sfidare la
sagacia catalogatrice del massimo sapiente medievale… Come la vita, e
l’ignoranza di principi e principesse ci insegnano ancora. Insomma giunti lì
fin dove il progetto ti aveva fatto ipotizzare di poter giungere… occorre un
tuffo, ma non sarà più un capriccio di vanità se riconosciamo che ne va
dell’anima. Ciò che nel verso piatto delle lettere corrisponde a dare una
dignità reale e sostanziale all’impalpabile parola eccetera. Cioè un salto, lo
stacco netto dei piedi dalla terra. E nella commedia, volere volare, è l’amore
che si è incaricato di questa bella iniziativa.
Non
crediate, quindi, ai principi che testimoniano di essersi arrampicati su per
torri e capelli setosi di principesse, per gramo
lavoro o puro svago; e neppure a quelle principesse che srotolano trecce da
torri onomastiche per naturale vocazione, o precipua convenzione con l’ente
autonomo di soggiorno… Certamente essi sosterranno tutto ciò con argomento ed
enfasi, dissimulando i loro trucchi esistenziali, e distribuendo facili fotoricordo, ma dovete sapere vedere bene, e cogliere
certamente che dietro ancora c’è la
grande illusione dell’amore, che agisce, unica e senza volto, ma di ciascuna
espressione del volto signora e padrona … Agisce con parabole balistiche che sorvechiano le piccole vicende delle singole vite, in saghe
di occhiate memorabili che si risveglieranno nei secoli, per via di un grazioso
gesto, un cenno della mano… anche solo come eco profondissima e tenue, nei
tendini operosi dei viventi e il più delle volte candidamente inconsapevoli,
questa magia abissale… muove, in una parte più e meno altrove.
Così vedere camminare un uomo, ci dice
molto di più di lui che non stare a conversare con l’impiccio biografico
dell’amore, e il suo abito di dolore e speranze destinate a diventare nel tempo
trasparenti.
Ecco dunque quest’uomo, questo giovane
uomo in laterizio, grafite e sangue vivo, uscirsene di casa, uscire dalla
storia, solo per un attimo, e dirigersi in un posto preciso. Cercarsi il posto più adatto, un posto in cui possa
incontrare il maggior numero di persone, viso a viso… E trovata una posizione
adatta, iniziare a salutare tutti. A salutare sul serio. Se così si può dire.
Salutare con un discreto saluto, un viso fermo e chiaro, aperto nella luce del
giorno al viso che incontra. Salutare con una esatta estensione operativa,
sociale, di quell’energia che muove nelle profondità dei viventi, tutti. E la
gente, cioè le persone ad una ad una, a volte si fermava come turbata da una
profonda verità che l’avesse colta improvvisa e impreparata… come il giallo dei
limoni. Avete presente: il giallo dei limoni? Ché se c’è una treccia che si
srotola per ogni volto che si incontra… Così, sistematico come una telecamera
che impietosa riprende tutti, egli restituisce e ribalta il bolso concetto
patologico di privacy rovesciando perle di saluti generosi, con sola grazia.
Saluta tutti, uno per uno, con esercitata precisione e minuta cura di orafo,
saluta uomini e donne, giovani e anziani. Non perde mai l’equilibrio del suo impulso,
nella facile maretta che ogni grosso movimento determina nel mare nostrum. Ha
piedi come radici di faggio nel bosco, e nel fiume di persone che passano,
sorde, frettolose, incattivite dall’idiozia dell’esistenza contemporanea,
l’aratro del suo saluto irrompe salutando la vita, saluta di un unico colpo lo
stupore di esistere, e quindi in ciò egli resiste, solo, salutando, senza
ipoteche intenzionali: certo come il sole… E le saluta una ad una, quelle facce
che più non avrebbero atteso luce umana dalla vita, nel vicolo cieco del loro
lauro reciso nel tempo. Sì, non era altri che un uomo, ed aveva custodito nel
cuore il senso di una storia ascoltata tanti anni prima. Tale e quale, egli
era. Non aveva un progetto editoriale o una missione ontologica, non so neppure
come si chiamasse; era un uomo.
Non vendeva rimedi per la cellulite, non
prometteva un facile metodo per guadagnare nel tempo libero, non raccoglieva
firme, non patrocinava la causa di nessun dio, egli salutava e sorrideva, senza
nessunissima altra intenzione… Franco, fermo, aperto, salutava e basta,
lasciando le porte aperte… E la città per un attimo, dismesse
le torri, nude le principesse e calve negli occhi celibi dei principi, tremava
tutta. Egli era un uomo e da quel giorno ognuno avrebbe potuto contare sul
fatto che lì si era fermato un uomo, c’era. In pochi giorni tutti sapevano che
lì c’era un uomo, e su questo si sarebbe potuto contare: per ciò l’uccisero. E
allora nacque il teatro.
Nota sull’autore:
Gabriele Via è nato a Bologna. Dopo un lungo
percorso di ricerca e di sperimentazione, viaggiando per l’Italia e all’estero,
artista di strada, cuoco, muratore, ortolano, attore, pittore, cameriere ed
altro, dopo assidue letture di saggi storici, poesia, filosofia e mistica, scopre
la pedagogia, l’ecologia, la non-violenza e la dimensione sociale dell’impegno
civile. Dal 1998 inizia una professione nel campo dell’Educazione alla
cittadinanza ed attualmente lavora come educatore e facilitatore
come libero professionista. Collabora con la coop. AnimaMundi e con l’Editrice Missionaria Italiana. Ha
pubblicato insieme con Simona Nasolini per l’Editrice
Anima Mundi il libretto intitolato Agenda 21 in tasca. Il suo indirizzo di
posta elettronica è ecosistema@eco-logica.net
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