Palazzo dell’UNESCO, Paris
28 feb.-1-2-3 mar. 2002
Testo tratto dal volume degli Atti pubblicati a cura de La Ligne d’horizon – Les amis de F. Partant, edizioni Parangon-L’Aventurine, Paris 2003
Edizioni Lilliput-on-line
http://digilander.libero.it/paolocoluccia
José Bové dice qualcosa di
veramente semplice, quasi banale, che mi ha aperto gli occhi: «Ciò che era
gratuito diventa a pagamento». Permettetemi di fare una variazione: ciò che era
buono è stato trasformato in valore. Tutto ciò che José Bové dice molto
chiaramente è una conseguenza logica, inevitabile, se non si rimette in
questione l’idea di valore.
Quando ho fatto i miei
studi, ho dovuto seguire per sette anni le lezioni e redigere in miei lavori in
latino. Ciò mi ha facilitato la lettura delle prime discussioni universitarie,
nel Rinascimento e dopo. Ebbene, non avrei in latino una parola per tradurre il
concetto di valore.
Mi ricordo che Lester
Pearson mi aveva invitato a discutere le tesi di Gunnar Myrdal, che citava il
Vangelo dove si dice che «quelli che avranno vantaggio e quelli che non ne
hanno, si prenderà loro anche ciò che hanno». Ero profondamente scandalizzato.
Da allora, ho compreso la credibilità del Vangelo e la saggezza di questo
Myrdal che, con Keynes, presenta alcune idee sulle trivialità economiche. Ma mi
ricordo a qual punto la mia opposizione all’idea stessa di sviluppo mi isolasse
in modo estremo. La ragione per la quale m’interessavo a ciò è che era l’epoca
dell’invasione dell’America latina da parte dei volontari. Volontari che
portavano con loro il modello, l’esempio dell’uomo evoluto. E da quel momento,
probabilmente dopo aver compreso che ero esposto alla violenza estrema, Myrdal
mi ha stimolato a distruggere lo sviluppo.
«Distruggere» non è il
termine da utilizzare, questa sarebbe piuttosto un’idea da evitare. Ancora oggi
la gente utilizza la violenza per testimoniare questo desiderio.
Ho tentato di dimostrare la
controproduttività dello sviluppo, non quella della supermedicalizzazione o dei
trasporti che aumentano il tempo che noi passiamo a spostarci, ma piuttosto la
controproduttività culturale, simbolica. Dozzine di libri parlano oggi dei
piedi come strumenti di locomozione sottosviluppati. È diventato difficile
spiegare che i piedi sono anche strumenti di radicamento, organi sensitivi come
gli occhi, le dita.
Majid Rahnema mi ha fatto
vedere ciò che è accaduto. Forse vi ricordate che verso il 1980 si è scoperta
l’aids. Un giorno hanno chiesto a Geremek, storico e politico polacco, se
avesse qualcosa da dire sulla storia dell’aids. Ha risposto: «Io credo che
l’aids non potrebbe esistere là dove ci fosse il permesso di morire per
un’infezione». Per questa ragione egli non aveva niente da dire sulla storia di
questo fenomeno. Qualche tempo dopo, Majid Rahema ha giocato sulla parola
«aids», assimilando lo sviluppo all’aids. Ha parlato dello sviluppo – in
America e altrove – come di una distruzione, di un’iniezione di cose e di
pensieri che distruggono l’immunità di fronte al nostro sistema di
valorizzazione delle cose.
La prima volta che ho letto
questo testo non potevo immaginarmi fino a qual punto le alternative sarebbero
state cooptate per diventare delle scelte, delle opzioni di contro-sviluppo,
all’interno dello stesso concetto, della stessa banalità. Prendo l’esempio
della medicina: mi ricordo molto bene dell’epoca in cui pratiche come
l’agopuntura, la medicina araba o altro erano considerate come ciarlatanerie.
Qualche anno più tardi sono diventate delle alternative per il malato. Qualche
anno più tardi ancora sono diventate «complementari»; ed oggi, ci sono cure
mediche integrali, nelle quali ogni sorta di tecniche e di tradizioni cantano
la stessa sinfonia della salute. Sinfonia che bisogna accettare, dimenticando
totalmente che per il signor Galeno, sulla scia di Ippocrate, era un
comportamento estremo, per un medico, curare una persona che egli considerasse
nell’anticamera della morte. Ho
discusso questa questione per sei mesi nel 1972 in Pakistan e ho compreso
perché la pratica dell’hakim nella
tradizione islamica non era del tutto compatibile con quella della medicina
moderna. È soltanto a partire dal XII secolo che la medicina non è stata più
considerata come una specie di filosofia applicata, quando è apparsa la
nozione, indipendente da una cura, di qualcosa che si chiama «salute». È
soltanto nel XII e XIII secolo che le due nozioni si sono separate. Le ragioni
di questa separazione sarebbero troppo lunghe da discutere.
Da allora ho seguito una
strada che consisteva nell’allontanarmi nel tempo, poiché non riuscivo
alla mia età ad imparare il cinese, che
mi avrebbe dato una base di indipendenza dallo sviluppo delle idee occidentali.
Sono dunque andato nel XII secolo e là sono stato toccato da ciò di cui parla
Serge Latouche: l’idea dell’orizzonte. Ho subito pensato a Pietro di Spagna, un
Padre della Chiesa di quel secolo, che ha una bella definizione dell’orizzonte.
Spiega che si tratta di una linea che passa tra le due natiche. Dal lato sinistro siamo in un tempo che non esiste più per
noi. È una speranza eterna, ma che comincia un giorno (ciò non è l’eternità di
Dio). Con il lato destro siamo seduti nel tempo. E bisogna fare tutto il
possibile per tenere le due natiche ben insieme. Vi cito un Padre della Chiesa
del XII secolo…
Avvicinandomi ora ai moderni
ho osservato come la piccola parola «io», nel corso del XX secolo, abbia
cambiato senso. In francese «je» è un pronome. Se io dico «Ivan vuole», si
capisce che ancora non so dire «io», che sono troppo giovane. In inglese si
dice «pronoun», ma questo non è un vero sostantivo – questa non è una lezione! In tedesco è ancora differente: «ich» ist eine Fürwort, e posso comprenderlo
come qualcosa che rimpiazza una parola, für
eine Wort, che non esiste, perché è qualcosa di supremamente concreto.
Questo comincia con Freud, con la ricerca dell’Io, della personalità,
dell’integrazione del Me. È questo senso che si perde attualmente. È un’altra
ragione per la quale è talmente difficile, nel mondo contemporaneo, avere una
linea d’orizzonte come ideale. Ciò vuol dire: ogni piede sulla natica destra.
Io non so come dirlo altrimenti (filosoficamente, è un po’ più complicato).
Nella lingua malese non si
può dire una frase senza ben distinguere tra il kita e il kami. Per
esempio: «ci incontriamo questa sera», voi siete con la signora. In francese
non sapete se questo si indirizza a voi o alla signora. È una cosa impossibile
nelle lingue che hanno un plurale dell’«io» chiaramente fissato dalle parole.
Quando ho chiesto al mio
amico Matthias Rieger: «come arrivare a spiegare in quali modi le banalità si
sono trasformate?», egli mi ha inviato una lettera di cui vi leggo un passo:
«La prima volta che ho letto il programma del Colloquio “Défaire le
développement, refaire le monde”, il mio cuore è sobbalzato. Il tema di questo
Colloquio mi ha dato l’impressione di essere stato invitato ad una riunione
internazionale di dei. Mi sono detto che queste due idee – ri-fare il mondo e
dis-fare lo sviluppo – non potevano concepirsi che nell’Olimpo. Questo può
essere un Olimpo alternativo, ma è l’Olimpo. È globale».
Mi domando perché lo
sviluppo abbia avuto un tale effetto trasformatore sui milioni e milioni di
uomini che lavorano la terra con le mani, la maggioranza. Mi domando fino a che
punto sono già modernizzati, sviluppati oggi.
L’altro amico che amerei
farvi ascoltare, Samuel Sajay (indiano e professore negli Stati Uniti) mi
scrive: «Ivan, avete parlato dell’effetto simbolico dello sviluppo della scuola
che inevitabilmente classifica le persone e dà loro la responsabilità di
appartenere alla loro classe d’origine; della medicina che crea nel mondo
contemporaneo le patologie che essa stessa diagnostica…». Mi dice: «Nella
misura in cui lo sviluppo associa ai suoi insuccessi tecnici effetti simbolici
riusciti dal suo punto di vista, si può dire che lo sviluppo, il cui fine
consisteva nello sviluppare gli umani, è un evidente successo».
Mi domanderete, che cosa
vuol dire ciò? Trovo questa parola «umani» dis-gustosa! Di recente ho consultato
l’Enciclopedia Britannica su cd-rom.
Volevo conoscere la definizione della parola comunicazione. E che trovo? «Per
gli umani, la comunicazione è… ecc.». Prima la parola «umano» è scritta in blu,
poi c’è un’indicazione «guardate all’indice che cosa vuol dire». Lo sviluppo ha
fatto di noi degli «umani».
Ritorno al mio amico: «Lo
sviluppo degli umani come funzione latente della tecnica è un evidente
successo. Dappertutto nel mondo le persone ora credono sinceramente di essere
umani. L’umano è diventato un essere riconosciuto legalmente, piuttosto che una
creatura naturale». Inevitabilmente, ripenso al vecchio professore Tenembaum,
che parlava in un bellissimo libro (ha quarant’anni) della differenza di
trattamento degli schiavi tra il Nord e il Sud. Nel Sud, in Spagna, ci sono
stati dei Concili nel XVI secolo, per verificare se gli schiavi erano veramente
umani, degli Uomini. In America latina, se erano degli uomini, si doveva avere
una ragione per metterli in schiavitù. Nel Nord, si aveva l’idea che si diventa
umani diventando cittadini.
Samuel Sajay continua: «Il
senso delle proporzioni, di ciò che è adeguato, appropriato e buono non può
esistere in un mondo tecnologico, un mondo dunque non naturale. Se il mondo è
“fabbricato” (“Rifare il mondo”), non sarà naturale, cioè non sarà un dato con
cui devo vivere». È una base fondamentale del pensiero di tutte le tradizioni
che conosco, della proporzionalità, dell’armonia, di ciò che si chiama «il
bene». Evidentemente ridiamo se riprendo l’espressione di Aristotele, che dice
che la pietra cade perché ha il desiderio per il posto «buono» al quale
appartiene. Questo non può essere nello spazio, è pensare con i piedi per
terra. Sajay conclude: «l’umano sarà cooptato per contribuire al self management, al management globale».
Ora, se i miei occhi si sono
aperti su ciò che si subisce in questa disumanizzazione, in questa
decorporalizzazione, lo devo a Silja Samerky, genetista diplomata e dottore i
filosofia. Ella ha lavorato su una cinquantina di interventi di donne incinte
realizzati in Germania. Mi ha mostrato in modo evidente come, in un’ora e
mezza, in un rituale assurdo, una donna che attende normalmente il suo bambino
è trasformata… in decision maker. La
madre ha di fronte a sé il profilo di probabilità e di rischi, come un
«decisore», e sulla cui base deve prendere la sua decisione. Una decisone che
non viene presa con ciò che si è chiamato «volontà». Ritorno di nuovo ai miei
cari dizionari: nel nuovo, enorme, dizionario di filosofia dell’editore
Routledge, alla parola will (volontà)
viene detto: «Una facoltà un tempo attribuita all’essere umano». C’è una
premessa di un quarto di pagina, vi consiglio di andare a guardare, se siete
interessati. Silja mi ha fatto capire ciò che si passa in quell’istante
speciale, e che non mi sarà mai possibile veramente sentire nelle mie viscere,
questo istante in cui la mamma pensa a ciò che nasce in lei, come un essere di
valore al quale occorre applicare una riflessione sulle chances e sui rischi, un profilo dei rischi. Mi ha fatto capire
fino a che punto è una transizione.
Penso che se volete riflettere sulla situazione in cui ci troviamo – chiamiamola il «grave dubbio» sullo sviluppo – bisogna interessarsi a questo concetto di «armonia». Mathias Rieger mi ha fatto capire che la musica era un arrangiamento di armonie e che è Heinhotz, l’Einstein del XIX secolo, che ha detto che «questo pensiero d’armonia non si applica ad un mondo dove ciò che era armonia è trasformato in valore».
Questo valore, che si
esprime in Hertz, può diventare una lotta nel 1870 tra Berlino e Parigi, se la
base di questo valore è per esempio 440 Hz piuttosto che 445 Hz. Per questa
ragione, l’arte può diventare qualcosa di calcolabile. Amo questa musica, sono
conquistato da questa musica moderna che è un’opera d’arte, indipendente da
colui che ascolta, che esiste in sé, fatta con dei toni, calcolata, in
opposizione a ciò che era l’ascolto dei vecchi: un’armonia, una relazione tra
il flauto e l’orecchio.
(Parigi, UNESCO, 28 febbraio 2002)