L’IPOTECA SOCIALE

sulla proprietà privata

 

Principio

 

          E’ noto che il Magistero della Chiesa, a cominciare dalla Rerum Novarum, proclama che la proprietà privata sia secondo natura gravata da una ipoteca sociale. Citando San Tommaso, dice l’enciclica di Leone XIII che “non si hanno da considerare i possedimenti come proprii, ma come comuni a tutti, così da dividerli senza difficoltà con chi ne ha bisogno” e prosegue, “è un dovere dare all’indigente il sovrappiù di cui si gode” (n.24).

          Centesimus Annus dettaglia: “La proprietà dei mezzi di produzione, agricoli o industriali, è giusta e legittima se in funzione di un lavoro utile. Però diventa illegittima quando o non viene utilizzata, o serve a impedire il lavoro altrui nello sforzo di ottenere un profitto non derivato dall’espansione complessiva del lavoro e dalla ricchezza della società, ma dal dominio di ambedue, come anche dallo sfruttamento illecito, dalla speculazione o dal guastarsi delle relazioni tra chi lavora” (n. 43).

          Non è stato mai compito del Magistero dettare procedure con cui mettere in pratica i principî enunciati dal medesimo.

 

 

Precedenti storici

 

          E’ meno noto che il principio dell’ipoteca sociale vigeva, nella Cristianità, tanto per la Chiesa quanto per il potere civile durante i sette secoli del feudalesimo. Il signore, terratenente per conto del re, si accollava i costi di amministrazione e di difesa. La Chiesa, terratenente per lo stesso conto (tanto per la dubbia donazione di Costantino quanto per quella certa di Pepino di Heristal del 756) si accollava i servizi sociali: sanità, educazione, albergheria ecc.

          Il popolo minuto, per lo più dedito all’agricoltura, pagava l’annona (tassa in natura) al signore di cui era vassallo, equivalente a circa quattro settimane di lavoro. Per vivere bastavano all’agricoltore e famiglia altre 14 settimane. Per i lussi (quali potevano essere) gli ce ne volevano altre dieci, e i 150 e rotti giorni dell’anno rimanenti erano giorni di ozio creativo, durante i quali si dedicava, o aiutava, a costruire cattedrali e ad eseguire squisite opere d’arte allora considerate come oggetti d’uso comune (e ambedue destanti l’ammirazione di chi li contempla tutt’oggi).

          La prima incrinatura al sistema venne inferta dai baroni inglesi con la Magna Charta del 1215, che i libri di storia esaltano come conquista libertaria, tacendo peraltro le rettifiche richieste da papa Innocenzo III prima di togliere la condanna con cui l’aveva colpita. I baroni volevano, sí, libertà, ma non per il popolo; volevano essere loro liberi dagli obblighi di difesa e di amministrazione, cioè dall’ipoteca sociale gravante sulla proprietà fondiaria. Dall’Inghilterra, l’irresponsabilità baronale si estese a macchia d’olio per tutta la Cristianità.

          Implacabilmente, le responsabilità per i costi di amministrazione e di difesa si trasferirono sempre di più dalla nobiltà al sovrano, costretto adesso a tassare il popolo per mantenere burocrazia ed esercito. La previdenza sociale rimase nelle mani della burocrazia ecclesiastica, ma non per lungo. La confisca dei beni ecclesiastici, da Enrico VIII d’Inghilterra a Vittorio Emanuele II di Savoia, lungi dall’impinguare gli erari regi, andava ai già ricchi terratenenti, che liberi da ogni obbligo tartassavano i loro usufruttuari con richieste di canoni di affitto sempre più esosi.       A questi si aggiunsero le imposte indirette, inventate dagli stessi terratenenti per liberarsi di quel che di responsabilità fiscale rimaneva loro per accollarla al popolo.

          La schiavitù, messa alla porta durante il primo millennio, rientrava dalla finestra durante il secondo. Esistono infatti due maniere di appropriarsi ingiustamente del lavoro altrui: o considerando l’essere umano come proprietà privata, o impedendogli l’uso della terra in proprio, constringendolo a lavorare per chi ne ha monopolizzato la proprietà. Filosoficamente è possibile distinguere tra le due schiavitù di specie diversa, ma a chi sente il coltello dalla parte della lama non importa tanto di che specie di coltello si tratti.

E fu così che gli espulsi dalle terre che i loro padri avevano coltivato per generazioni, si rifugiarono nei commons, i pascoli demaniali, fino a quando anche questi, verso la fine del 18o secolo, vennero recintati e i loro occupanti espulsi. Chi salvò costoro da morte per inanizione fu la rivoluzione industriale, che lungi dal causare la povertà, ne alleviò le più dure conseguenze, seppure inconsapevolmente.

          All’ingiuria si aggiunse l’insulto, da parte del “Reverendo” Malthus, che interpretò il moltiplicarsi dei poveri nei tuguri attorno alle città come sovrapopolazione, di cui ne fece colpevoli (!) i senzaterra. Questa menzogna infame sopravvive ancor oggi in non pochi libri di ciò che passa per storia nelle scuole.

          Non è che nessuno si fosse accorto di ciò che accadeva. Se ne era accorto Quesnay (1694-1774), “il Confucio europeo” come lo chiamavano, che raccomandava l’impôt unique sulla proprietà fondiaria come mezzo moderno per ristabilire in altra forma la vecchia ipoteca sociale. Se ne era accorto Turgot (1727-81) che tentò di abbattere l’immunità fiscale delle classi privilegiate senza più doveri, le quali però se ne vendicarono tramandone la rovina. Se ne era accorto perfino Adam Smith (1723-90), ma la pensione largitagli dal duca scozzese di Buccleuch non gli permise di mordere le mani del “benefattore”. E se ne accorse il Professor Thorold Rogers di Oxford (1823-90), che pagò con l’espulsione dalla cattedra nel 1867 l’aver osato esporre la vera causa della povertà devastatrice del popolo britannico (e del resto di Europa).

          Sintomi solo apparentemente sconnessi si accumulavano da secoli. Al tempo in cui i senzaterra in rivolta venivano massacrati dai nobili germanici aizzati da Lutero, quelli spagnoli e portoghesi attraversavano l’Atlantico da Conquistadores. Non tardarono a trasformarsi da senzaterra europei a latifondisti americani, e quando i Gesuiti impedirono loro di schiavizzare gli indigeni Guaraní proteggendoli nelle loro Reducciones, i terratenenti dichiararono guerra, vincendola in circa due secoli.

Al tempo in cui i nobili di Francia, chiamati a Parigi da Luigi XIV per evitare una nuova Fronda, lasciavano le loro terre ai burocrati statali per viverne di pura rendita, sorgeva la Mafia in Sicilia, sotto la spinta dello stesso fenomeno di accaparramento fondiario monopolistico, eredità del non più funzionante feudalesimo.

E il latifondismo, che come ben disse Plinio era stato la rovina di Roma[1] (gli schiavi necessari a farlo funzionare non avevano alcun incentivo a rischiare la pelle per conto altrui), si trasformava in rovina della Cristianità. In Europa contribuiva a mantenere la servitù della gleba, e in America ad istituire quella tradizionale, importando dall’Africa a basso prezzo membri di tribù razziate dall’interno del continente. La tratta degli africani non poteva esser diretta verso il vecchio Mondo che non ne aveva bisogno; anzi il governo britannico si sbarazzava del “sovrappiù” di popolazione deportando sistematicamente i piccoli delinquenti verso l’Australia recentemente scoperta e piena di terre facilmente espropriabili dagli Aborigini.

          Al tempo in cui Don Bosco cominciava a raccogliere i piccoli vagabondi dal lastrico torinese dove li aveva buttati la stessa politica, in Irlanda la peronospora devastava la patata, unico raccolto dei suoi senzaterra. Otto milioni di costoro, espulsi dalle loro terre a beneficio di un paio di centinaia di latifondisti, si erano ridotti a mescolare zolle estratte da pantani con alghe marine, che buttate tra le pietraie lasciategli (bontà loro!) dai terratenenti formavano il suolo su cui prosperava la patata. I grandi proprietari esportavano derrate agricole, imperterriti davanti alla fame e alla miseria. Chi non moriva di fame emigrava (sovrapopolazione, continuano a mentire i libri di testo). Gli irlandesi, e poco più tardi gli italiani, popoli militarmente deboli, andarono ad arricchire l’America a spese delle loro patrie. Gli inglesi, militarmente forti, e cacciati dall’America tre generazioni prima, trovarono la loro opportunità in Africa, dove recintarono quanta più terra poterono per costringere gli indigeni a lavorare per loro, come deve fare qualunque senzaterra per sopravvivere.

          La differenza tra le due forme di schiavitù la espose drammaticamente la fine della Guerra di Secessione (1861-65) americana. Chi la vinse economicamente furono i militarmente sconfitti piantatori ex-schiavisti. Il lavoro salariato costava molto meno del dover fornire gli schiavi di vitto, alloggio, vestiario e servizi sanitari.

 

 

Henry George (1839-97)

 

          Il 27 gennaio 1865, un tipografo disoccupato di 26 anni accostava un signore benvestito in una via di San Francisco, chiedendogli cinque dollari.

-        Perchè li vuole?

-        Mia moglie ha appena dato alla luce un bambino e non ho da nutrirli.

          Lo sconosciuto produsse i cinque dollari. “Se non l’avesse fatto” ricordava l’ex tipografo anni dopo “la disperazione era tale che non avrei esitato ad ucciderlo”.

          Costui era Henry George, dopo la cui morte ebbero a scrivere

 

Tolstoy (1828-1910): Non si discute con gli insegnamenti di George, semplicemente li si ignora. E non è possibile fare altrimenti, perchè chiunque ne venga a conoscenza non può fare a meno di convenirvi.

 

Frank Lloyd Wright (1869-1959): Henry George ci ha dato la sola soluzione organica della questione fondiaria.

 

Albert Einstein (1879-1955): Sfortunatamente uomini come Henry George sono rari. E’ impossibile immaginare una combinazione più accertata di acume intellettuale, forma artistica e amore fervente di giustizia.

 

Helen Keller (1880-1968): Il lettore troverà nella filosofia di Henry George una rara unità di bellezza e potere di ispirazione, e una fede splendida nella dignità essenziale della natura umana.

 

Sun-Yat-Sen (1866-1925): Gli insegnamenti di Henry George saranno la base del nostro programma di riforma.

 

Aldous Huxley (1894-1963): Se dovessi riscrivere Brave New World, offrirei una terza alternativa...di buon senso...una economia decentralizzata e georgista.

 

          Chi vuole documentarsi non ha che da consultare Internet. Vi troverà più di venti siti dedicati a Henry George e ai suoi insegnamenti.

 

La dottrina: Progress and Poverty

 

          Henry George nacque a Philadelphia, Pennsylvania, da una devota famiglia Episcopaliana, la cui semplice pietà doveva marchiarlo per tutta la vita.

          Dopo le elementari si imbarcò come mozzo di trinchetto su un veliero, attraversando il Pacifico fino in Australia e in India. Già allora si manifestava il suo talento di scrittore (sua madre, maestra elementare, gli aveva insegnato a leggere e a scrivere) in un diario tuttora conservato.

          Al ritorno a Philadelphia apprese il mestiere di tipografo compositore, ma la disoccupazione ivi regnante lo spinse a San Francisco, in piena febbre dell’oro dal 1849. Due vane spedizioni come cercatore di metallo giallo non gli portarono che fame e avversità fino al vagabondaggio.

Ripiegò sul mestiere di tipografo, ma occupazione e disoccupazione si alternavano incontrollabilmente senza che il giovane Henry potesse far nulla per ottenere un lavoro stabile e ben rimunerato.

          Nel 1861 conobbe Annie Corsina Fox, orfana diciassettenne, cattolica. Durante un’ennesima crisi economica, senza risparmi e senza lavoro, le propose il matrimonio. Tirò fuori una moneta da mezzo dollaro:

-        Annie, è tutto il denaro che ho. Mi sposeresti?

-        Se sei disposto ad accollarti i doveri matrimoniali, sì.

          A un periodo di mediana prosperità seguì il brusco fallimento della piccola tipografia verso la fine del 1864. Fu la miseria, che lo costrinse a chiedere i cinque dollari con cui sfamare Annie, puerpera del secondo figlio.

          Da tempo un’idea lo arrovellava: ‘Perchè in territori novellamente insediati i salari sono sempre più alti che in territori di vecchio insediamento? Perchè prosperità e povertà non solo appaiono insieme, ma divergono sempre più l’una dall’altra? Perchè la carità, sia pubblica che privata, è impotente ad eliminare mali sociali come il vagabondaggio, la mendicanza, la prostituzione?’

Se a San Francisco aveva visto crescere progresso e povertà, a New York ne constatò la maturità nel 1869, durante un vano tentativo di sollecitare l’abbonamento ad Associated Press per il San Francisco Herald di cui era cronista. Il contrasto scioccante tra l’opulenza più sfacciata e la miseria più squallida trasformò in ossessione il trovare risposta a domande fino allora rimastene senza.

          La risposta non la trovò a New York, ma a San Francisco alcuni mesi più tardi. Durante una escursione su per le colline ad est della città, smontò da cavallo. Chiese a un carrettiere, tanto per conversare, quanto costasse la terra colà. “Non so”, rispose l’interpellato, “ma un po’ più in là c’è un tale che chiede mille dollari per un acro”.

          Cosa succedeva “un po’ più in là” perchè un acro di terra rurale valesse una fortuna nella California del 1869?

          Stava arrivando la ferrovia transcontinentale. Il valore di tutte le proprietà terriere nel circondario di Oakland balzava alle stelle con l’accapigliarsi degli speculatori, che se ne assicuravano il possesso prima dell’arrivo di coloro che ne avrebbero avuto bisogno per vivere e lavorare.

          George capì. Con l’aumento della popolazione, il valore della terra aumenta, e chi ne ha bisogno deve pagare per il privilegio di usarla. Ma la terra è fonte primaria di tutto ciò che serve agli esseri umani per vivere. Se esiste un diritto alla vita uguale per tutti, esiste anche il diritto all’uso di quei doni di natura necessari per sostenersi, anch’esso uguale per tutti. Le cattive leggi monopolizzanti la proprietà fondiaria per una classe sociale minoritaria equivalgono a conferire alla stessa classe il potere di sfruttare ed opprimere il resto. Il dibattito ideologico su repubblicanismo, democrazia, socialismo, comunismo ecc. è lettera morta.

          Il rimedio si suggerisce da sè. Giustizia vuole che la proprietà fondiaria sia caricata di un’ipoteca sociale da usarsi per sostenere la spesa pubblica. Chiunque occupi terra, paghi in proporzione alla quantità e qualità sottratte dalle risorse comuni della natura. E riceva parte del valore di quelle risorse sotto forma di servizi pubblici. Nessuno verrebbe così defraudato dei frutti del proprio lavoro, e il carico fiscale non cadrebbe più sulla produzione.

          Non c’era niente di nuovo nella visione di Henry George. Erano le stesse conclusioni del feudalesimo, di Quesnay e di Turgot, di cui peraltro George non era a conoscenza. E cominciò a documentarsi, e a scrivere.

          Nel 1879, a quarant’anni, finì il manoscritto di Progress and Poverty. Come avrebbe rivelato quattro anni dopo in una lettera a Father Thomas Dawson,

 

Quando misi fine all’ultima pagina, nel cuore della notte, completamente solo, caddi sulle ginocchia e piansi come un bambino. E il resto lo lasciai nelle mani del Maestro...

 

          George era cosciente di avere scritto un libro importante. Ne inviò una delle prime copie a suo padre Charles a Philadelphia:

 

Sono grato di averlo potuto scrivere, e che voi siate ancora vivo per leggerlo... All’inizio, e forse per un po’, non verrà riconosciuto, ma alla fine sarà considerato un gran libro. Sarà pubblicato nei due emisferi e tradotto in varie lingue. Lo so, anche se nessuno di noi due lo vedrà su questa terra.

 

          Tutte le profezie si sono avverate. Nel 1905 Progress and Poverty aveva già venduto due milioni di copie, e per il 1920 sarebbe stato tradotto in 24 lingue. Da solo, avrebbe venduto più copie di tutti i lavori di Marx messi insieme, e continua ad essere in stampa ad opera della fondazione Schalkenbach di New York. Il perchè continui ad essere bandito da tutte le facoltà di economia è problema di cui ci occuperemo più avanti.

          Il merito del libro è di aver messo il dito sulla piaga: come trasformare la proprietà fondiaria da strumento di sopraffazione in strumento di solidarietà e pace sociale.

 

 

Il terzo paradigma

 

          Dovrebbe esser già chiaro, per un lettore attento, che il georgismo trascende i triti e ritriti capitalismo e marxismo. Riassumendo con parole dello stesso Henry George:

 

L’errore socialista consiste nel considerare il capitale e il lavoro come i soli fattori di produzione e di distribuzione. In effetti, nel nostro sistema industriale altamente sviluppato esistono tre fattori di produzione, e poi un quarto, e generalmente parlando un quinto, di distribuzione. Oltre al capitalista A e al lavoratore B, vi è il terratenente C, l’esattore di imposte D e generalmente parlando il rappresentante di monopoli ingiusti (oltre a quello della terra) E. Ciò che A e B si dividono fra loro non è il prodotto del loro sforzo congiunto, ma il prodotto che lasciano loro C, D ed E.

 

          Il marxismo propone un rimedio necessariamente difettoso, come la sua diagnosi. Se esistono solo capitale e lavoro, la terra deve fare parte del primo, e deve essere nazionalizzata, come tutti i mezzi di produzione. Risultato: tutti diventano senzaterra, e tutti sono costretti a lavorare per lo Stato, il solo terratenente. Nei termini di cui sopra, C, D ed E  si fondono nell’unico Moloch statale del quale settant’anni di esperimenti in quella direzione hanno dichiarato la bancarotta.

          Il georgismo propone di distogliere l’attenzione dell’esattore D dai frutti del lavoro del capitalista A e del lavoratore B, per rivolgerla verso i frutti del non-lavoro del terratenente C e del monopolista indebito E. Il fondamento logico dell’argomento è che i frutti del non-lavoro sono il risultato degli sforzi di A e B, non di C ed E.

          Risultato: a nessuno converrebbe essere terratenente C o monopolista E senza essere allo stesso tempo o capitalista A, o lavoratore B, o ambedue le cose. In altre parole, tutti godrebbero del 100% dei frutti del proprio lavoro, più i frutti dell’ipoteca sociale sotto forma di servizi pubblici. La previdenza sociale non avrebbe ragione di correre più a spese dello Stato, giacchè tutti godrebbero di entrate sufficienti per far fronte a qualunque costo di educazione, sanità, ecc. La burocrazia verrebbe ridotta a un’infima porzione di quello a cui tanto capitalismo quanto marxismo l’hanno fatta arrivare... Non mi dilungo. Che il lettore sviluppi per conto proprio quante più conseguenze pratiche può di una restaurata ipoteca sociale.

 

 

Un malinteso di origine semantica

 

          Invitato dalla National Land League irlandese, che si batteva per l’eliminazione dello sfruttamento iniquo degli affittuari da parte di terratenenti viventi di rendita a Londra, Parigi e altre capitali europee, George risiedette in Irlanda come corrispondente del giornale newyorkino The Irish World durante un anno. Colà ebbe la sorpresa di constatare come i vescovi di Clonfert e di Meath fossero arrivati alla stessa diagnosi di Progress and Poverty, ma contro l’opinione maggioritaria del resto dell’episcopato, inamovibile dal suo sostegno dell’opinione conservatrice di una proprietà terriera monopolista (e senza ipoteca sociale).

          A distanza di 120 anni ci si accorge come si trattasse di puro problema semantico. George si esprimeva in termini di “confisca della rendita”, il che somigliava molto a “confisca della proprietà privata” patrocinata dai marxisti che già facevano rumore. Il malinteso provocò una crisi ancora oggi alla base del mancato successo pratico della dottrina sociale del Magistero.

 

 

Il Reverendo McGlynn

 

          Tornando in America nell’autunno del 1882, preceduto dalla fama di centinaia di discorsi e conferenze, Henry George ebbe la grata sorpresa di trovare un attivista, sostenitore a spada tratta delle sue dottrine, nella persona del Dr Edward McGlynn, rettore della parrocchia di St Stephen in New York. Di soli due anni più anziano di George, era stato ordinato sacerdote in San Giovanni in Laterano l’8 marzo del 1860.

          Progress and Poverty lo aveva tanto colpito da convertirlo e da fargli convertire migliaia di persone con una attività instancabile.

          Era (terzo) arcivescovo di NewYork il Dr Michael Augustine Corrigan, coadiuvato dal Vicario Generale Mons. Thomas Preston. L’America era ancora paese di missione, sottostante quindi alla Congregazione di Propaganda Fide. Corrigan and McGlynn, già compagni di studi a Roma, si trovarono ben presto in rotta di collisione.

George, a cui non interessava la politica, aveva chiesto un avallo di 30 mila firme prima di candidarsi alle elezioni civiche di New York per la carica di sindaco nel 1886. Le firme vennero raccolte senza difficoltà. McGlynn presentò George a Corrigan. Pur ricevendolo cortesemente, l’arcivescovo rifiutò assolutamente di ascoltarlo. Per di più proibì a McGlynn di sostenere George sotto pena di sospensione a divinis. Fu inutile tanto che George gli facesse omaggio di tutti i suoi libri, quanto che gli fornisse evidenza che i vescovi irlandesi di Clonfert e di Meath sostenevano la stessa tesi. McGlynn fu sospeso. Il candidato civico di Tammany Hall, Abraham Hewitt, era talmente atterrito da un possibile successo elettorale dei parvenu George-McGlynn, da chiedere l’appoggio di Corrigan. Costui condannò la dottrina di George come “erronea, pericolosa e contraria agli insegnamenti della Chiesa”, allo stesso tempo brigando perchè Roma scomunicasse McGlynn e mettesse all’Indice Progress and Poverty.

          Corruzione, intimidazione e conteggi fraudolenti fecero sì che Hewitt battesse George per 90 mila voti contro 60 mila. Il 14 gennaio 1887 il cardinale prefetto di Propaganda Simeoni intimava a McGlynn di ritrattare pubblicamente le teorie di George e di recarsi a Roma. McGlynn rifiutò, adducendo motivi di salute. Era vero, ma la ragione base del rifiuto era l’assenza di uno specifico capo d’accusa, nonchè di un processo canonico giustificante il decreto episcopale di sospensione. Il cardinale Gibbons di Baltimore, simpatizzante di McGlynn, e a Roma in quei frangenti, convinse il Vaticano di non mettere all’Indice Progress and Poverty.

          Le cose precipitarono. Il 4 luglio 1887, scaduti i 40 giorni di proroga, McGlynn fu colpito da scomunica, nella quale sarebbe rimasto per ben cinque anni.

          La condizione di scomunicato, per quanto dolorosa, gli permise di denunciare quegli abusi di potere ecclesiastico che da sacerdote comunicante non avrebbe potuto. Il più clamoroso fu la negazione di sepoltura cristiana al lavoratore John McGuire, morto di infarto durante la riunione della Anti-Poverty Society del 17 febbraio 1887. Per ben due anni il fratello del defunto, senza tribunale ecclesiastico a cui accudire, si era rivolto ai tribunali civili, che però si erano dichiarati incompetenti in materia. Quando al principe Rodolfo di Absburgo, morto suicida a Mayerling nel febbraio del 1889, venne accordato un funerale religioso in piena regola, McGlynn fece sua l’opzione preferenziale per i poveri:

 

Si nega sepoltura cristiana a John McGuire! Perchè? Perchè John McGuire morì non di sua mano, ma per mano di Dio in una delle riunioni della Anti Poverty Society!... Il principe Rodolfo era figlio di un Imperatore, John McGuire era un povero lavoratore. E così al Vicario Generale è sembrato bene negare a quest’ultimo sepoltura cristiana senza troppo pericolo di offendere la fazione dei poderosi, anzi, con il loro applauso...

 

          I cessati obblighi di ufficio gli permisero anche di assolvere la funzione, dolorosa ma necessaria, di far da padre a quattro nipoti rimasti orfani in giovanissima età al seguito della morte di ambedue i genitori nel giro di poche settimane.

 

 

“Santità”: Lettera aperta di Henry George a Leone XIII

 

          Nel maggio 1891 Henry George stava redigendo il suo magnum opus The Science of Political Economy, quando uscì la Rerum Novarum. Vedendo nell’enciclica una condanna delle sue dottrine, George tolse immediatamente mano all’opera (rimasta incompiuta) per scrivere una lettera aperta di più di 100 pagine a Leone XIII. Comincia:

 

Santità: Ho letto con estrema attenzione la Vostra enciclica... Dato che la condanna più sorprendente è diretta contro una teoria i cui sostenitori sappiamo dovrebbe ricevere il Vostro appoggio, chiedo licenza per esporre davanti alla Santità Vostra le basi delle nostre convinzioni, e di presentare in modo chiaro e ordinato alcune considerazioni sfortunatamente da Voi trascurate.

 

Chi paragona le due dottrine non può fare a meno di notare che quella papale controbatte il socialismo nei termini e secondo la strategia scelte da quello, cioè considerando capitale e lavoro come i soli fattori di produzione e di distribuzione. Ne segue che i rimedi ivi proposti non possono andare al di là di una carità cristiana tra il capitalista A e il lavoratore B, più un certo intervento statale per regolare possibili abusi, ma lasciando intatti gli ingiusti privilegi del terratenente C e del monopolista E, per cui l’esattore D non può che continuare a tartassare A e B. George non esita a profetizzare le conseguenze di codesta lacuna:

 

La regola d’oro (del cristianesimo) è non fare agli altri ciò che non vorresti ti fosse fatto. Però il sistema che tassa i prodotti e processi del lavoro, e che quindi fa aumentare i prezzi di articoli di compravendita, ha fatto sorgere il protezionismo... Questa teoria sanziona gli odii nazionali; provoca una guerra universale di tariffe; insegna a un popolo che la sua prosperità giace nell’imporre restrizioni sulla produzione altrui che esso non vuole imposte sulla propria; e che invece della dottrina cristiana della fratellanza umana fa virtù civica del ledere i diritti dello straniero.

 

          Era la politica che sarebbe esplosa nella Grande Guerra.

 

Quando una certa vocazione richiede un tirocinio speciale, o se ne restringe artificialmente l’accesso, la competitività, tenuta a scacco, fa alzare i livelli salariali in un qualche modo. Ma quando il progresso tecnico fa a meno di certe abilità manuali, o quando le barriere artificiali vengono abbattute, i salari si abbassano di nuovo al livello più infimo.

 

          Lo sta facendo davanti ai nostri occhi la politica di globalizzazione, specialmente con l’esportazione di impianti industriali verso paesi come la Cina.

 

Il progresso intellettuale e materiale hanno bisogno di un corrispodente progresso morale. La conoscenza e il potere non sono né buoni né cattivi. Non sono fini ma mezzi, capaci di sviluppare forze che fuori dal controllo di relazioni ordinate necessariamente prendono forme di disordine e di distruzione... più rapide e terribili di quante non abbiano già infranto tutte le civiltà precedenti.

 

          Senza commento.

 

La Vostra enciclica dà il Vangelo ai lavoratori e la terra ai latifondisti. Ci si deve far meraviglia di coloro che sogghignano “i preti sono abbastanza pronti a dare ai poveri quantità uguali di ciò che non si vede, ma si guardano bene dal far perdere ai ricchi la presa su tutto ciò che si vede”? Ecco la ragione per cui le masse dei lavoratori si allontanano dalle religioni organizzate.

 

Nell’antichità chi si sentiva minacciato o perplesso da qualche disastro andava dall’oracolo a chiedere, “in che abbiamo offeso gli dei”? Oggi gli uomini, minacciati da mali crescenti che incombono sulla società e consci che vi è qualcosa che non va, fanno la stessa domanda ai ministri di religione. E che ottengono per risposta? Ahimé, con poche eccezioni le risposte sono tanto vaghe e inadeguate quanto quelle degli oracoli pagani.

 

          Il tono della lettera non è evidentemente quello di un cattolico, ma George unì a una indubitabile severità un rispetto poco comune. Chiude:

 

Servo dei Servi di Dio! Mi dirigo a Voi con il più forte e dolce dei Vostri titoli... Augurandovi i giorni e la forza che possano... rendere il Vostro pontificato tra i più gloriosi di tutte le epoche; e con il più profondo rispetto dovuto al Vostro carattere personale e nobilissima carica, sinceramente mi dico Vostro Henry George. New York 11 Settembre 1891.

 

          Anche questo commiato ha carattere profetico. Leone XIII sarebbe sopravissuto a George di sei anni e a McGlynn di tre.

          Il Papa ne ricevette una copia, tradotta in italiano e riccamente rilegata, dalle mani del Prefetto della Biblioteca Vaticana. Non rispose, ma mise rimedio al possibile.

          Era evidente che il controllo a distanza vaticano sugli affari ecclesiastici degli Stati Uniti fosse il primo anacronismo da aggiornare e anomalia da correggere. Nel 1892 arrivava negli Stati Uniti l’arcivescovo (più tardi cardinale) Francesco Satolli, con istruzioni di rimanervi come primo Delegato Apostolico e di ricomporre tutte le possibili vertenze tra vescovi e clero, a cominciare da McGlynn.

          Satolli convocò McGlynn alla sede della Università Cattolica di Washington. Una commissione di esperti, esclusi amici o simpatizzanti dello scomunicato, chiese a McGlynn di presentare un riassunto scritto quanto più conciso possibile della dottrina georgista. Gli esperti lo trovarono esente da errori, e per Natale McGlynn ebbe la gioia di ricelebrare Messa. Sarebbe morto nella parrocchia di Newburgh il 7 gennaio 1900. George lo aveva preceduto nella tomba, stroncato da infarto quattro giorni prima delle elezioni del 1897.

 

 

Marx defrauda George del 20o secolo

 

          Cosa sarebbe stato un ventesimo secolo georgista invece di uno dalle dottrine funeste del principe delle teste confuse (come George soprannominava Marx)?

          Non ci è dato saperlo. Ciò che non si può negare è il fallimento clamoroso di tutte le dottrine economiche in vano cercanti soluzioni ai problemi sociali mettendo il dito non sulla piaga ma sulle varie fattezze del piagato.

          Della corruzione delle scienze economiche dal 1900 ad oggi si può leggere nell’opera dei professori Mason Gaffney e Fred Harrison.[2]

Chi si occupa seriamente di attualità sa che le masse dei lavoratori americani non sono socialiste, ma conservatrici. Sono i miliardari ad essere socialisti e collettivisti, e quanto più miliardari, tanto più socialisti tendono ad essere. Marx è l’oracolo imperante nelle università più importanti del paese. In Gran Bretagna la London School of Economics, fondata dai coniugi Webbs negli anni 1930, ha lo scopo preciso di spargere il vangelo del fabianismo, o socialismo temporeggiante. Tutti o quasi i leaders terzomondisti educati nelle università anglosassoni sono marxisti, o di nome, o di fatto, o ambedue le cose.

          Cosa offre il marxismo a costoro? Potere. Chi vuole potere, e ha denaro per comprarlo, non ha che da catturare i centri di formazione intellettuale, il che è proprio quello che i mecenati delle università fecero dagli inizi del 20o secolo. Ecco perchè alla domanda “Conosci Henry George?” qualsiasi studente universitario risponde negativamente.

          Il paradigma regnante nell’insegnamento dell’economia, quando non è il marxismo è il neoclassicismo. Cosa insegna? Che terratenente C, capitalista A e monopolista E sono una sola realtà. Solo all’esattore D viene permesso di tartassare indipendentemente lavoratori B e capitalisti (non terratenenti) A. La differenza con il marxismo non è poi tanta.

 

 

Secolo Ventunesimo Ineunte

 

          L’economia moderna giustamente inchiude, nella definizione della terra, tutte le risorse naturali scoperte dal progresso dei secoli 19o e 20o. Si può cominciare con lo spettro elettromagnetico, per continuare con la capacità del medio ambiente di assorbire sostanze inquinanti, l’estrazione di energia nelle sue varie forme, lo spazio aereo e cosmico oltre a quello terrestre e acqueo, ecc. Se chi sottrae valore a queste risorse ne pagasse l’ipoteca sociale per le spese pubbliche, il valore aggiunto dal sudore della sua fronte gli rimarrebbe tutto - o quasi- in tasca. E la dovuta riforma sarebbe tale e permanente, mettendo fine a un’anomalia secolare causa di tanti mali.

 

 

L’altra piaga

 

          Se il monopolio fondiario è stato (e continua ad essere) strumento di oppressione e di sfruttamento, il monopolio monetario, o usura, non è da meno. La morte colse George prima di poter sviluppare l’argomento nel suo lavoro di economia politica. Chi avrebbe messo il dito su quest’altra piaga, e in maniera altrettanto radicale (cioè non prestando attenzione a chi debba controllare lo strumento, ma allo strumento in quanto tale) sarebbe stato Silvio Gesell (1862-1930), di cui ci occuperemo in un altro articolo.

 

Silvano Borruso

Strathmore School - Nairobi

silbor@strathmore.ac.ke

4 febbraio 2001

riveduto 27 aprile 2003

 

         



[1] Latifundia perdidere Italiam nel latino originale.

[2] The Corruption of Economics, Shepheard-Walwyn (Publishers) Ltd. Londra 1994