E il Verbo si fece carne

 

di Jean Robert

 

Trad. it. dalla lingua spagnola di Paolo Coluccia

 

Presentazione della Rivista IXTHUS, espíritu y cultura

Anno XIII, Numero 55, Cuernavaca (Messico) 2006

 

Ixthus è l’allitterazione latinizzata dell’acronimo greco ΙΧΘΥΣ (IXTHUS) di Іησους Хριστο Θεου Υιος Σωτηρ (Jesús Cristo, Hijo de Dios, Salvador). Poiché in greco Ixthus significa anche pesce, quest’acronimo si richiama al segno di riconoscimento dei cristiani dei primi secoli.

 

Ti guardi nello specchio. Come chiamare quello che vedi di te? Il tuo corpo, il tuo viso, o l’immagine di essi? Immaginiamo che diversi specchi siano stati disposti in maniera tale che, dal mio punto di vista, sia impossibile distinguere tra la realtà e l’immagine o, in questo caso, letteralmente, lo specchiarsi. Tale confusione non è naturale. Richiede una messinscena tecnologica. Il contatto visuale carnale s’interrompe. Se in questo mondo parli, la distanza tra tu e io è tale che il mio udito è incapace di determinare se la fonte – il dove e il “donde” – della voce è il tu reale o il suo specchiarsi. In un mondo di schermi e microfoni, questa dis-ubicazione verbale è diventata quasi la condizione quotidiana. Se questi artifici risultano trasformarti in specchiarsi-per-me, quello che vedo di te differisce radicalmente da quello che percepisco di me. In assenza di un tu carnale e prossimo dotato di parola, io mi percepisco come un pacchetto di viscere ermeticamente rinchiuse nel sacco della mia pelle e i miei flussi interni non hanno di fatto una comune misura con la tua immagine speculare. In cambio, quello che vedo di te nello specchio o nello spazio è un corpo, cioè, una forma esteriormente circoscritta che può aggiungersi ad altre per costituire una totalità. Le moltitudini inferocite e gli eserciti illustrano questo principio di totalizzazione dei corpi. L’io è qualcosa di diverso. Non mi vedo da fuori, strettamente parlando, non ho forma visuale per me: mi assomiglio tanto poco a un’immagine in uno specchio come il molare che mi fa soffrire si paragona ad un dente morto, dirà Michel Henry. In me e per me, non sono totalizzabile. Diventare soldato, alunno o paziente in un ospedale richiede, in un certo modo, convincermi che coincido con quello che dicono di me gli specchi – o, è quasi la stessa cosa, con le definizioni, le qualificazioni o le diagnosi che di me hanno potere istituzionale. Ogni processo di totalizzazione istituzionale richiede l’internalizzazione di una definizione eteronoma, aliena alla mia conoscenza su di me. Narciso rimase affascinato dalla sua immagine, altri lo sono per definizioni altrui di quello che “sono” e, come Narciso nel suo riflesso, affogano in esse.

Rompiamo ogni specchio tra tu e io, spegniamo le televisioni e i microfoni. La vicinanza mi suggerisce che per te, tu sarai, considerata ogni proporzione, quello che sei per me: carne palpitante della quale non ho immagine. La tua parola vicina, il tuo verbo è ora quello che lega la tua carnalità con la mia. Rompere gli specchi significa rompere le immagini e uscire dallo spazio-specchio delle totalizzazioni. Il tuo sguardo senza immagine è il dono che tu mi fai di me stesso, che, attento alla tua voce, esisto allora sotto il tuo sguardo. Spero essere dono reciproco. I silenzi tra le tue parole non ti fanno specchiare muto il corpo totalizzabile nello spazio, ma quelle sono l’eloquenza della tua carne.

Che stiamo costruendo in questo numero di Ixtus? Come dice Barbara Duden, stiamo ubicando il referente somatico della prima persona singolare, cercando di cogliere la sostanza della parola che dice io e il dove o “donde” dal quale emana. In ogni epoca, questo dove sostanziale del verbo vivo e l’autopercezione somatica che lo esprime corrispondono a costellazioni epistemiche uniche.

La parola corpo, che designa sempre un corpo-nello-spazio (o nello specchio, ciò che è quello stesso) non è appropriata. Barbara Duden propone d’introdurre la parola greca soma e ci spiega perché. Più del corpo che si vede, il soma è il corpo che vive, autopercepito nei suoi flussi umorali. La tua parola fa vibrare i miei umori in consonanza con i tuoi. La relazione tu-io è impensabile senza siffatta parola soma e siffatti flussi umorali, in una parola: senza verbo incarnato – con la minuscola. Verbo, quando si riferisce alla tua parola, è la traduzione latina di verbum, a sua volta tentativo imperfetto di traduzione della parola greca logos, che vuol dire relazione, proporzione o parola. Il tuo verbo stabilisce una relazione più oltre di ogni immagine tra il tuo soma  e il tuo soma, intendendo che il soma non ha forma senza flusso vitale.

Il verbo o logos tra tu e io perita di essere chiamato relazione somatica. Barbara Duden propone d’inaugurare un nuovo ramo della storia che chiama stomatologia storica. Tutta la filosofia, e la scienza moderna e quasi tutta la storia, sembrano essersi costruite sulla negazione sistematica della relazione somatica. Pertanto, meritano la qualificazione di asomatiche. Al contrario, per Barbara Duden, la storia è incarnazione.

La “fenomenologia della carne” di Michel Henry è un tentativo quasi eroico di liberarsi della camicia di forza asomatica del pensiero contemporaneo. Postula una proporzionalità tra, da un lato, la molto terrena relazione somatica tra tu e io e, dall’altro, tra la misteriosa relazione del Verbo e della Carne nel Verbo Incarnato. La proporzionalità è una relazione tra relazioni: A sta a B come C sta a D, ovvero A:B=C:D. Per i greci era il principio generale dell’armonia tra il macrocosmo e il microcosmo, dell’esperienza del proprio soma e dell’altro così come delle relazioni tra i sessi. Émile Zapotek ci ricorda che chiamiamo questa relazione di relazioni analogia, parola che definisce anche la concordanza musicale o accordo di varie corde. Dato che l’analogia cambiò così mostruosamente di senso in quanto arrivò a significare “equivalenza”, riteniamo che rinunciare ad essa e restare con il (quasi) neologismo di proporzionalità, che già Boezio ha proposto senza essere ascoltato. Per i credenti del primo millennio, l’unità del Verbo e della Carne in Cristo – il Mistero dell’Incarnazione – fu il Logos, la relazione fondamentale dalle quali le altre relazioni potevano riprendersi per proporzionalità. Per essi, ogni discorso era doxologia, celebrazione dell’Incarnazione del Verbo.

Sebbene l’Incarnazione del Verbo è e resta misteriosa, la sua espressione storica non lo è: è il linguaggio classico della musica – tanto nella teoria delle relazioni tra numeri come tra i suoni – il cui concetto fondamentale è quello del logos. Il Logos, che dal principio era, s’incarnò nella storia: “Lo abbiamo udito, visto, toccato”, dice San Giovanni nella sua prima epistola. La Storia è storia dell’Incarnazione, un mistero di fronte al quale le parole sono impotenti. Quello che, al contrario, così possono le parole e mostrare come, già a partire dal XII secolo, il mistero dell’incarnazione è stato progressivamente tradito. Non è necessario essere teologi e neppure credenti per spiegarlo. Daniel Cérézuelle, agnostico dichiarato, racconta i passi di questo tradimento che coincide con la disincarnazione culturale dell’Occidente. Intorno al 1150, l’invenzione dell’ordine tipografico gotico o scolastico, che slega le parole, permise la generalizzazione di qualcosa della quale Sant’Agostino non era capace: la lettura silenziosa, primo caso – tecnogenico nella misura in cui la scrittura è una tecnologia –, verso la disincarnazione del verbo. Il tradimento della nostra epoca culmina nella nostra epoca, quando la relazione somatica si è volatilizzata in rispecchi sempre più spettrali o virtuali. In un tentativo di periodizzazione senza precedenti, Cérézuelle nomina le tappe di questa marcia verso la disincarnazione da quella cultura che, unica tra tutte, nacque dalla celebrazione dell’Incarnazione.

Per Ivan Illich, dopo Guernica, Auschwitz, Belsen e Los Alamos, dal genocidio al progetto Genoma, dall’AIDS, dal trapianto cardiaco e dalla medicalizzazione pagata dalla Sicurezza Sociale, il corpo moderno vive in esilio dalla trama della storia. Riconosce che egli appartiene alla generazione dei pionieri di questo non senso, la generazione per colpa della quale lo Sviluppo, la Comunicazione e i Servizi si sono eretti a necessità universali. Illich scrisse al suo amico Becker, nella lettera che qui presentiamo più avanti col titolo di La perdita del mondo e della carne: «La disincarnazione alienante, la perdita dei sensi che è la perdita del mondo e l’impotenza programmata che abbiamo propagato sono cose abominevoli che rimbalzano in profondità e in altezza ‘le masse di rifiuti che le nuove generazioni lanciano tanto sulla Terra come in Cielo’».