In ricordo di Ivan Illich, una voce nel deserto…

di Paolo Coluccia

http://digilander.libero.it/paolocoluccia

 

L’ultima frase del titolo di queste brevi riflessioni potrebbe essere il titolo di un bel romanzo. Forse, però, è il modo più sintetico per definire la figura di Ivan Illich, ormai a due anni esatti dalla scomparsa, o, meglio, il suo pensiero più genuino.

Analista “scomodo” della società moderna e contemporanea, critico estremo di ogni espressione istituzionalizzata, formale e fondamentalistica, acerrimo nemico dell’opulenza e delle disparità sociali, eccentrico pensatore sempre alla ricerca di infinite e argute provocazioni, filosofo e studioso profondo della società ancora degno di simili appellativi, scompare improvvisamente nel dicembre del 2002.

Godeva ancora di buona salute, anche se attardato nell’età e irrimediabilmente “sovraccarico” sulla guancia destra di un’orribile ed invadente multiprotuberanza cistico-tumorale che ne deturpava l’esile e fine aspetto. Osservato dal profilo sinistro mostrava una distinta ed evanescente figura, dinoccolata verso l’alto, leggermente ricurvo in avanti, quasi una pertica di legno d’ulivo.

L’ho conosciuto a Parigi nel marzo del 2002, all’UNESCO, in occasione del Colloque sur l’aprés-développementDéfarie le développement, refaire le monde”. Non era raro incontrarlo nelle sale e nei corridoi, spesso seduto per terra, a gambe incrociate e poggiato ad un pilastro, attorniato da un nugolo di persone, giovani e meno giovani, intenti ad ascoltarlo, presente nelle plenarie attento a prendere appunti nei laboratori, sempre molto vispo, gioviale, entusiasta…

Qualche sporadica notizia della sua morte sui media e su giornali, almeno in Italia, per quanto mi è dato sapere. Qualche ricordo affidato alla rete internet, soprattutto da parte di chi gli era stato particolarmente vicino. Alcuni dei suoi acerrimi nemici e denigratori pensavano che fosse già morto da tempo, insieme con i suoi scritti, dimenticati e ormai fuori catalogo, anche se tradotti in varie lingue negli anni ’70.

Si dice che stesse lavorando ad una loro riedizione, quando una mattina di dicembre del 2002 lo hanno trovato serenamente spento sulla sua poltrona di una casa di Bremen. O forse preparava o rielaborava gli appunti per una conferenza da tenere in qualche università o in un disparato luogo del mondo. O qualche seminario… di quelli che possono ancora essere definiti tali, con una serie di spunti, riflessioni, postulati, provocazioni, riferimenti… privi in ogni caso della caustica ritualità accademica e della vuota dottrina di petulanti intellettuali di carriera, ma stimolanti, ricchi di “semi” della discordia e dell’armonia, che provocano lo studio e ogni ulteriore ricerca ed approfondimento. Maieutici, per dirlo con una parola, segni su orizzonti, destini futuri della conoscenza, della necessità di sapere, per sé e per il mondo…

Oggi sappiamo che in Italia la casa editrice Bruno Mondadori sta cominciando la pubblicazione delle opere di Illich. E’ uscito il volume Nemesi medica, con un paio di saggi inediti. Seguiranno degli altri. Anche un'altra casa editrice, la Boroli Editore di Milano, ha cominciato a ripubblicare i suoi scritti, usciti nel 2005, come Disoccupazione creativa, Nemesi medica, Nello specchio del passato, La Convivialità.

E’ proprio di quest’ultimo libro che voglio proporre la lettura di una brevissima sintesi, scritta dallo stesso Illich, che ho tradotto per le edizioni Lilliput-on-line.

 

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La convivialità

di Ivan Illich

(sintesi – trad. di Paolo Coluccia)

La Ricostruzione conviviale

Dal sito http://ecorev.free.fr/rev01/illich.htm

 

I sintomi di una crisi planetaria che va accelerando è manifesta. Da ogni parte si cerca il perché. Avanzo, da parte mia, la spiegazione seguente la crisi si radica nel fallimento dell’impresa moderna, cioè la sostituzione della macchina all’uomo. Il grande progetto si è trasformato in un processo implacabile di controllo del produttore e d’intossicazione del consumatore. La relazione dell’uomo con l’attrezzo è diventata una relazione dell’attrezzo con l’uomo. Qui occorre saper riconoscere il fallimento. È da un centinaio di anni che proviamo a far lavorare la macchina per l’uomo e di istruire l’uomo a servire la macchina. Ci si accorge ora che la macchina non “marcia”, che l’uomo non può conformarsi alle sue esigenze, farsi a vita il suo servo. Per un secolo, l’umanità si è consegnata ad un’esperienza fondata sull’ipotesi seguente: l’attrezzo può sostituire lo schiavo. Anche se tali intenzioni sono state manifeste, è l’attrezzo che fa dell’uomo il suo schiavo. La dittatura del proletariato e la civiltà del divertimento sono due alternative politiche della stessa sovranità con uno strumento industriale in espansione costante. Il fallimento di questa grande avventura fa trarre delle conclusioni sulla falsità dell’ipotesi. La soluzione della crisi esige una svolta radicale: è soltanto invertendo la struttura profonda che regola la relazione dell'uomo con l’attrezzo che potremo darci degli attrezzi giusti. L’attrezzo giusto risponde a tre esigenze: è generatore d’efficienza senza deteriorare l’autonomia personale, non generà schiavi né dirigenti, allarga il raggio d’azione personale. L’uomo ha bisogno di un attrezzo con il quale lavorare, non di uno strumento che lavora al suo posto. Ha bisogno di una tecnologia che tragga il migliore vantaggio dall’energia e dall’immaginazione personali, non di una tecnologia che lo controlli e lo programmi.

Credo che occorra invertire radicalmente le istituzioni industriali, ricostruire la società da cima a fondo. Per essere efficiente e per venire incontro alle necessità umane, determinando anche un nuovo sistema di produzione che deve trovare la dimensione personale e comunitaria. La persona, come la cellula di base, combina in modo ottimale l’efficacia e l’autonomia: è soltanto sulla loro lunghezza d’onda che si determinerà la necessità umana, la cui produzione sociale è realizzabile.

Che piaccia o no, l’uomo ha bisogno di attrezzi. Ne ha bisogno per comunicare con l’altro come per prendersene cura. L’uomo che progredisce e che si prende cura non è l’uomo che fa i cento all’ora sull’autostrada e che prende gli antibiotici. Ma ciascuno non può fare tutto da sé e dipende di ciò che gli fornisce il suo ambiente naturale e culturale. L’attrezzo, e dunque la fornitura di oggetti e di servizi, variano da una civiltà ad un’altra.

L’uomo non si nutre soltanto di beni e di servizi, ma della libertà di creare gli oggetti che lo circondano, di dare loro forma con il suo gusto, servirsene con e per gli altri. Nei paesi ricchi, i detenuti dispongono spesso di più beni e servizi che la loro famiglia, ma non hanno voce in capitolo sul modo in cui le cose sono fatte, né diritto di opinione su ciò che se ne fa. Deteriorati al rango di consumatore-utenti allo stato puro, sono privati della convivivialità. Intendo per convivialità l’inverso della produttività industriale. Ciascuno di noi si definisce per la relazione con altro ed con il luogo e con la struttura profonda degli attrezzi che utilizza. Questi attrezzi possono sistemarsi in una serie continua con, ai due estremi, l’attrezzo dominante e l’attrezzo conviviale. Il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della mancanza alla spontaneità del dono. La relazione industriale è un riflesso condizionato, risposta stereotipata dell’individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che non conoscerà mai, o da un luogo artificiale, che non comprenderà mai. La relazione conviviale, sempre nuova, è il fatto di persone che partecipano alla creazione della vita sociale. Passare dalla produttività alla convivialità, significa sostituire ad un valore tecnico un valore etico, un valore materiale ad un valore reale.

La convivialità è la libertà individuale realizzata nella relazione di produzione in seno ad una società dotata di attrezzi efficaci. Quando una società, non importa quale, respinge la convivialità, a partire da uno certo livello, diventa preda della mancanza; poiché alcuna ipertrofia della produttività riuscirà mai a soddisfare la gara delle necessità create e moltiplicate alla gara.

 

L’EQUILIBRIO

Pertanto, l’equilibrio umano è suscettibile di modificarsi in funzione di parametri flessibili ma finiti: se gli uomini possono cambiare, lo fanno all’interno di alcuni limiti. Al contrario, la dinamica del sistema industriale attuale si fonda sulla sua instabilità: è organizzato in vista di una crescita indefinita e della creazione illimitata di nuovi bisogni - che diventano rapidamente costrittivi nel quadro industriale. Una volta stabilito come dominante in una società, il modo industriale di produzione fornirà l’uno o l’altro bene di consumo, ma non porrà limite all’industrializzazione dei valori. Tale processo di crescita produce nell’uomo una domanda fuori posto: trovare soddisfazione nella sottomissione alla logica dell'attrezzo. Così la struttura della forza produttiva produce le relazioni sociali.

La domanda che l’attrezzo fa all’uomo diventa sempre più costosa; è il costo dell’adeguamento dell’uomo al servizio del suo attrezzo, riflesso dalla crescita del terziario nel prodotto globale. Diventa sempre più necessario manipolare l’uomo per superare la resistenza del suo equilibrio vitale alla dinamica industriale; e ciò prende la forma nelle molteplici terapie pedagogica, medica, amministrativa. L’educazione produce consumatori competitivi; la medicina li mantiene in vita nell’ambiente attrezzato che è loro ormai indispensabile; e la burocrazia riflette la necessità che il corpo sociale eserciti il suo controllo sugli individui utilizzati in un lavoro insensato. Che attraverso l’assicurazione, la polizia e l’esercito cresca il costo della difesa dei nuovi privilegi, ciò caratterizza la situazione inerente ad una società di consumi; è inevitabile che comporti due tipi di schiavi, coloro che sono intossicati e coloro che hanno voglia di esserlo, gli iniziati e i neofiti.

È tempo di concentrare il dibattito politico sui modi la cui struttura della forza produttiva minaccia l’uomo. Tale dibattito sarà deviato da quelli che si preoccupano di prescrivere palliativi, che mascherano così la causa profonda del blocco dei sistemi sanitari, di trasporto, d’istruzione, d’alloggio - ed è fino alle istanze giuridica e politica che sono bloccate. La crisi ecologica, ad esempio, è trattata superficialmente quando non si sottolinea questo: la messa in atto di dispositivi antinquinanti avrà effetti soltanto se si accompagna ad una diminuzione della produzione globale.

Differentemente, queste misure trasferiscono i rifiuti ai nostri vicini, li riservano ai nostri bambini, o li riversano sul terzo mondo. Sopprimere l’inquinamento creato localmente da una grande industria esige investimenti, in materiali ed energia, che ricreano, altrove, lo stesso danno su più ampia scala. Se si rendono obbligatori i dispositivi antinquinanti, non si fa che aumentare il costo unitario di produzione. Certamente, si conserva un po’ di aria respirabile per la collettività, dal momento che meno gente può prendersi il lusso di guidare un’automobile, di dormire in una casa climatizzata, o prendere l’aereo per andare pescare nel fine settimana; al posto di deteriorare l’ambiente fisico, si accentuano le divergenze sociali. La struttura delle forze di produzione minaccia le relazioni sociali più direttamente del funzionamento biologico. Passare dal carbone all’atomo, è passare dallo smog di oggi a livelli cresciuti di radiazione domani. Quando trasportano le loro raffinerie oltremare, dove il controllo dell’inquinamento è meno rigoroso, gli Americani stessi si preservano (ma non i Venezuelani) da odori sgradevoli, riservando la puzza al Venezuela e senza diminuire l’avvelenamento del pianeta.

La crescita eccessiva dell’attrezzo minaccia le persone in modo radicalmente nuovo e, allo stesso tempo, simile alle forme classiche di nocività e di danno. La minaccia è nuova in ciò che carnefici e vittime sono confusi nella dualità operatori/clienti di attrezzi inesorabilmente distruttivi. In questo gioco alcuni partono vincenti, ma tutti arrivano perdenti.

Distinguerò cinque minacce portate alla popolazione del pianeta dallo sviluppo industriale avanzato

1. La crescita eccessiva minaccia il diritto dell’uomo di radicarsi nell’ambiente con il quale è evoluto.

2. L’industrializzazione minaccia il diritto dell’uomo all’autonomia nell’azione.

3. La programmazione eccessiva dell’uomo in vista del suo nuovo ambiente minaccia

la sua creatività.

4. Il complessificazione  dei processi di produzione minaccia il suo diritto alla parola, ciò alla politica.

5. Il rafforzamento dei meccanismi d’usura minaccia il diritto dell’uomo alla sua tradizione, il suo ricorso al precedente attraverso la lingua, il mito ed il rituale.

Descriverò queste cinque minacce, allo stesso tempo distinte ed interconnesse, disciplinate da un’inversione mortale dei mezzi in fini. La frustrazione profonda generata mediante dalla soddisfazione obbligatoria e attrezzata costituisce una sesta minaccia, che non è la meno sottile, ma che non si può situare in alcun danno determinato di un diritto già definito. La classificazione che opero ha lo scopo di rendere il danno (la nuova minaccia) riconoscibile in termini tradizionali. Un attrezzo anonimo, portato in aiuto della parte ferita, infetta la ferita, ecco un fatto nuovo; pertanto, il male che minaccia ciascuno non è nuovo. Questa prima classificazione dei torti subiti può servire da base per azioni in giudizio dove la gente danneggiata dal funzionamento degli attrezzi potrebbe far valere il suo diritto.

La spiegazione di queste categorie di danni può essere il mezzo per riconquistare principi di procedura politico-giuridica grazie ai quali la gente possa cogliere, mettere sotto accusa e correggere lo squilibrio attuale del complesso istituzionale dell’industria.

Ritengo che i principi sottostanti a qualsiasi procedura sono tre e si applicano nell’ordine morale, politico e giuridico:

a) un conflitto sollevato da una persona è legittimo,

b) la dialettica della storia ha la precedenza sui processi decisionali del presente,

c) il ricorso alla popolazione, per pari scelte tra uguali, sigilla le decisioni  comunitarie.

Invertire alla radice il funzionamento delle nostre importanti istituzioni, ecco una rivoluzione diversamente profonda da quella di dare scalare o di avere il potere, di consegnare alla gente i titoli di proprietà, come ci viene proposto. Tale rivoluzione non è da prevedere – e da impiegare - se non ci si riesce a riconquistare (ad accordarsi su) una struttura formale di procedura.

Prima di  approfondire la procedura politica, la sola capace di salvaguardare l’equilibrio umano, occorre centrare l’analisi su ogni dimensione in cui si presenta la minaccia (il deterioramento dell’ambiente, il monopolio radicale, la programmazione eccessiva, la polarizzazione, l’usura, l’insoddisfazione).