La ricchezza in “questione”: un problema scottante
di Paolo Coluccia
http://digilander.libero.it/paolocoluccia
Viviamo in un mondo di un’opulenza senza precedenti,
che uno o due secoli fa sarebbe stato difficile persino
immaginare[1].
(Amartya
K. Sen)
1. Lo sviluppo umano è cosa ben diversa dalla
crescita economica. Come ha osservato il Premio Nobel per l’economia Amartya K. Sen, alla base del primo ci sono ragioni
pratiche (valori ed etica), mentre la crescita economica è importante, ma viene
al secondo posto, dopo il riconoscimento delle libertà
individuali di scambio: «di parole, merci, doni»[2].
La crescita economica intesa comunemente dal capitalismo è una specie di distopia ipertelica[3]. L’ipertelia è lo sviluppo esagerato e sterile di alcuni organi negli esseri viventi. Come ha fatto notare ad un intervistatore Roger Caillois, essa è un’inflazione mortale, l’esaurimento del senso a causa della crescita del segno, in breve è qualcosa che va oltre la propria finalità. Inoltre, il paradigma della crescita infinita (soprattutto economicistica) si scontra pericolosamente con la Vita e con la Terra. «In natura non esiste la crescita esponenziale infinita»[4].
Qualche anno fa, venne posta ad un Primo Ministro africano, durante un forum di Davos, la seguente domanda: «Se i poveri vogliono diventare come i ricchi, occorrerebbero almeno cinque pianeti in più. Siccome non ne abbiamo che uno, il problema si pone tra i ricchi. Esiste una visione che possa tener conto di questa problematica?». Il primo ministro rispose in modo negativo. Questa domanda, comunque molto ingenua, pone il nodo della questione dei rapporti tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri. La risposta non può che essere una: «Ritrovare il senso della misura», non trascurando una visione panoramica (pan-ottica) del mondo intero e dell’umanità. Riportare il senso della misura è dunque vegliare affinché nessuno venga escluso, né l’uomo, né la natura, né il sacro[5].
Bateson in un libro del 1979, poco tempo prima di morire, ha spiegato il concetto di soglia con la metafora del cavallo polipoide, «una bestia infelice! [che] mostra ciò che inevitabilmente accade quando interagiscono due o più variabili le cui curve siano discrepanti»[6]. Superare una soglia ci espone a grandi rischi. Purtroppo, siamo ormai costantemente esposti ad una serie infinita di rischi[7]. Rischiamo in ogni momento di superare la soglia di tolleranza a causa di tutto ciò che manipoliamo. Ad esempio, «la crescita graduale di una popolazione (di automobilisti o di persone) non ha effetti manifesti su un sistema di trasporto finché improvvisamente la soglia di tolleranza viene superata e il traffico s’ingorga. Il cambiamento di una delle variabili rivela un valore critico dell’altra»[8].
Lo sviluppo economico, tecnologico, militare e demografico sta spingendo l’umanità in un «collo di bottiglia». È l’espressione usata dal bio-entomologo E. O. Wilson[9]. Stiamo rischiando di mandare in rovina il pianeta per il superamento della soglia di tolleranza della produzione tecnologica e dei suoi derivati. Stiamo perdendo inesorabilmente la biodiversità, che è l’essenza della vita stessa sul pianeta, soprattutto della nostra vita umana.
2. Senza inabissarci nei tortuosi meandri speculativi dei filosofi, è sufficiente aprire un qualsiasi dizionario per capire che l’etica è l’indagine riflessiva intorno al momento pratico della vita sociale, ovvero il superamento delle antitesi e delle unilateralità del momento economico e giuridico. Pertanto l’etica della vita e l’etica dell’ambiente denunciano specifiche unilateralità economiche e giuridiche. Infatti, se ci poniamo dei problemi etici, le loro origini devono essere ricercate nelle disuguaglianze giuridiche e, soprattutto, in quelle economiche delle persone. Su questo occorre essere seri ed onesti: inutile nascondersi dietro un dito!
Per l’ISTAT l’11/1% delle famiglie italiane (2.585.000), pari a
7.577.000 persone, è sotto la soglia di povertà. Il calcolo della soglia
convenzionale (linea di povertà) è il seguente: la spesa media mensile per
persona rappresenta la soglia di povertà per una famiglia di due persone, che
nel 2005 è pari a 936,58 euro, spesa calcolata al netto delle spese di
manutenzione straordinaria delle abitazioni, dei premi
pagati per assicurazioni vita e rendite vitalizie, rate mutui e restituzione
prestiti. Esiste comunque una scala di equivalenza per
famiglie con 3 persone (1245,65), 4 persone (1526,63), 5 persone (1779,50), 6
persone (2023,01), per 7 o più (2247,79). Persiste un grande
divario tra Nord e Sud. Nel Mezzogiorno e al Centro la situazione è peggiore
per famiglie numerose, al Nord per famiglie con lavoratore unico giovane e
dipendente. Al Nord le famiglie povere sulla popolazione totale sono il 4,5%,
al Centro il 6%, al Sud il 24%. Il Sud conta il 70% del totale delle famiglie
povere. Caratteristiche e fattori di povertà: elevato
numero di componenti; presenza di figli minori ed anziani; basso livello
d’istruzione; difficoltà o marginalità nel marcato del lavoro. Con i capi
famiglia con lavoro autonomo le famiglie povere sono
l’8%; dipendente il 9%, ritirato dal lavoro per vari motivi il 12%.
L’esclusione dal mercato del lavoro determina una notevole situazione di
svantaggio. L’83% delle famiglie con un solo componente
che cerca lavoro vive nel Sud. Il legame tra lavoro e povertà è molto forte.
Dal grafico,
pur dalle proporzioni inesatte per motivi di spazio in verticale, scaturisce
che le famiglie ricche, sicuramente non
povere, sono in grande maggioranza. C’è dunque un
problema dei poveri; ma, altrettanto chiaramente si pone il problema dei
ricchi. Infatti, nell’indagine manca l’evidenziazione
di quelle ricchezze sfrenate che una percentuale delle famiglie italiane, che
si aggira intorno all’1%, possiede. È un fenomeno statistico che è stato
definito con la metafora della Pera Williams, dove il picciolo in alto
rappresenta gli individui ricchi e la parte ampia e rigonfia in basso rappresenta
il grosso della popolazione, passando ovviamente da quel tratto intermedio tra
il picciolo e il rigonfiamento alla base che indica appunto i redditi della
classe media (benestanti ma non ricchi in forma esagerata). Un’altra metafora è
quella dello schema-parata, dove in un’ora di tempo si passa dalla moltitudine di individui alti quanto una sigaretta e via via si arriva alla fine (negli ultimi secondi) dove sfilano
alcuni individui alti come grattacieli. Naturalmente, con questi esempi
metaforici non vogliamo fare proseliti a quello slogan, apparso su un manifesto
qualche tempo fa in concomitanza con la prima esposizione della Legge
Finanziaria del Governo Prodi, che recitava: Anche i ricchi piangano!,
ma soltanto evidenziare opportunamente il problema che certe forme di ricchezza
possono rappresentare nella nostra società.
3. Abbiamo
bisogno di un nuovo termometro per misurare la nostra ricchezza e, com’è stato
giustamente osservato, «dovremmo rimettere in discussione il dogma della
crescita illimitata e le convenzioni vigenti per misurare il benessere
economico»[10]. Dice Amartya
K. Sen: «Alcuni dei più laceranti problemi dell’etica sociale sono, infatti, di natura profondamente economica»[11]. Infatti,
se si volge lo sguardo a livello planetario i problemi
risaltano in maniera impressionante e spaventosa. Il problema è spesso
rappresentato dalla povertà assoluta in cui versa la metà della popolazione
mondiale. Non compare però quasi mai un’analisi di quel livello di ricchezza esagerato ed abnorme delle società o di alcuni
individui del Nord del mondo. Secondo il Rapporto del Programma delle Nazioni
Unite per lo Sviluppo (UNDP) del 1998 le tre persone più ricche al mondo hanno
un patrimonio superiore al Prodotto Interno Lordo totale dei 48 Paesi più
poveri. Basterebbe il 10% delle spese di pubblicità che vengono
fatte nel mondo occidentale per affrontare i costi della realizzazione e del
mantenimento di un accesso universale all’educazione, alle cure sanitarie, a un
nutrimento adeguato, all’acqua potabile e alle infrastrutture sanitarie. Tale
percentuale, continua il Rapporto, equivale per esempio alla spesa annuale di gelati, che nel 1998 era di 11 miliardi
di dollari. Pensiamo poi alla spesa per armamenti, che sempre nel 1998 era di
780 miliardi di dollari, ma che nel 2003 ha superato i 2000 miliardi di
dollari! Quindi, non è un problema lo sviluppo, tanto
meno la povertà, ma la ricchezza poliploide e concentrata nelle mani di un piccolo gruppo di
persone sul pianeta, che rincorre mete di ricchezza sempre più ampie,
naturalmente privandone la maggioranza delle persone.
Inoltre, la
nostra rappresentazione attuale della ricchezza aggrava i problemi con i quali
le nostre società si confrontano invece di aiutarci a risolverli. Le catastrofi
ambientali, frutto della corsa allo sviluppo e alla crescita economica, sono una benedizione per il nostro Prodotto Interno Lordo.
Sembra un paradosso, ma è così! È quanto afferma Patrick
Viveret in un suo Rapporto al Ministero francese per
l’economia solidale nel 2002: «Ogni distruzione, allorché genera dei flussi
monetari (riparazioni, cure, assicurazioni, sostituzioni ecc.) è contabilizzata
positivamente. Ogni attività non monetaria invece così vitale ed essenziale per
il legame sociale (compiti domestici, educazione dei
ragazzi, cure volontarie di persone anziane, ecc.) è invisibile nei nostri
conti pubblici»[12]. Il PIL è dunque una
cifra magica, che trova in un’unica parola la grande ambizione
delle nostre società «materialmente» sviluppate ed «eticamente»
carenti: la crescita. L’equivalenza: «Più distruzioni = Più PIL»
non regge più.
Liberismo e
marxismo, le due grandi ideologie del secolo scorso, malgrado
la violenza dei loro conflitti politici e sociali, hanno concordato «sull’idea
che l’essenziale, la struttura, risiede nell’economia, fondatrice, mediante il
lavoro produttivo, di ogni ricchezza possibile». Si è trattato di un
«accecamento» comune, che ha causato la noncuranza ecologica: la
natura, trattata come semplice fattore di produzione, i cui beni abbondanti e
gratuiti che sono l’aria, l’acqua e la terra non hanno in se stessi alcun
valore; la noncuranza etica: quella del liberismo, per il quale non
importa quale desiderio abbia un valore economico quando viene
esaudito; quella del marxismo per il quale la morale trascende la stessa storia;
la noncuranza politica: lo stato, ridotto ad essere garante del mercato
nella versione liberale, è lo strumento della dominazione di classe nella
versione marxista; la politica, ridotta ad una dimensione minimale nel
liberismo, è denunciata come formale nel marxismo; la noncuranza
antropologica: l’uomo economico è considerato un calcolatore razionale del
mercato o della storia; non c’è considerazione seria, in queste due grandi
rappresentazioni, dell’ampiezza del fatto passionale e del continente
sotterraneo nell’essere umano[13].
È tempo inoltre
di cambiare il nostro «termometro» di misurazione e la nostra rappresentazione
della ricchezza. La partita si gioca su uno scacchiere dove ci sono elementi
“mobili”, come lo Stato, le collettività, il welfare,
le associazioni non lucrative, gli attori dell’economia sociale e solidale ecc., ed elementi fissi rappresentati da “chi vuole e non può”
(che sono i perdenti, i precari, i poveri...) e “chi può e non vuole” (che sono
i vincenti, i potenti, la finanza, la gente di Davos...).
Spesso si rimanda alle solite “buone intenzioni”, ma di queste, come dice il
famoso detto, è pavimentato l’inferno. Ripensare la ricchezza e, soprattutto nelle
sue esagerazioni più estreme, metterla in discussione
in linea di principio, significa anche pensare concretamente ad un “limite
numerico”, ad una “soglia” patrimoniale (come d’altronde si cerca di fare su
vari tavoli con la povertà) e di possesso di ricchezze. La strategia delle
fondazioni con fini di utilità sociale potrebbe essere
una buona strada da percorrere, al fine di risolvere molti problemi sociali
legati alle povertà estreme e per auto-ridimensionare certe ricchezze materiali
scandalose e improduttive. Per questo occorre stimolare un ampio dibattito
pubblico, per deliberare sui valori, per ricucire ciò che l’economicismo ha
strappato nei legami sempre esistiti tra etica ed economia, dove quest’ultima, più che diventare una scienza morale, deve riconoscersi
come strumento al servizio di finalità morali, politiche e sociali. Inoltre, occorre
«sostituire la logica cooperativa dei gioghi guadagnanti/guadagnanti alla
logica guerriera dei giochi guadagnanti/perdenti». Pertanto, il PIL non è la ricchezza!
E, soprattutto: «La vera globalizzazione non può
realizzarsi contro la maggior parte dell’umanità e distruggendo l’aspetto
ecologico ed umano». La vera ricchezza non può essere soltanto quella
materiale. Si tratta di considerare non solo il capitale fisico, cioè la produzione, ma anche il capitale naturale e il
capitale umano. In questo modo si arriva a capire che «il capitale fisico non
rappresenta più del 16% dell’insieme, il capitale naturale il
20% e il capitale umano il 64%. Il cambiamento di rappresentazione, come si
vede, è spettacolare. Esso si basa su dei lavori intorno al ‘capitale
sociale’ che ridanno al fattore umano e alle
relazioni sociali un posto decisivo».
4. Cambiare
gli indicatori di benessere significa comprendere che crescita e produttività
non sono gli unici indicatori dello sviluppo umano. Come ha osservato Amarthya K. Sen, ci sono molti altri indicatori e il
Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNPD) ha provato ad elaborarli.
In questi trovano un posto determinante l’indicatore
ecologico (costo ambientale), il valore della terra, gli indicatori di
distruzione (catastrofi ambientali ed inquinamento). Si è cercato di costruire
«conti satellite» accanto alla contabilità nazionale,
ma non è sufficiente. È il principio di fondo che deve
essere compreso. Questo è direttamente legato ad una nuova
concezione della moneta, che da pacificatrice e mediatrice degli scambi, è
diventata strumento di violenza e di dominazione economica, politica e sociale.
Ecco perché pronosticare «una riabilitazione della nozione
del bene comune o dell’interesse generale» non può essere considerata
un’illusione, ma una necessità, un percorso utopico che confluisca in giuste
prospettive di sviluppo umano, di una nuova politica, di un nuovo modo di intendere
i rapporti umani, affinché diventino simmetrici in senso generale, tra uomo ed
uomo e tra uomo e ambiente. Perché la gente non
dovrebbe capire questo? Perché non possiamo dire:
«Scommettiamo?».
L’obiettivo da
raggiungere è una nuova responsabilità ecologica e sociale, mediante un nuovo
approccio alla ricchezza e uno Stato ecologicamente e socialmente responsabile.
Infatti, ogni indicatore di ricchezza è una scelta
sociale e politica. Accanto ad un nuovo paradigma, occorre anche una strategia
«ambiziosa», che tenga conto che ci sono dei valori
umani che non si possono contabilizzare, ma che sono evidenti ed importanti per
la società. Da qui la necessità di «contare altrimenti» e il
diritto di «non contare tutto», per non cadere in quell’ossessione
della misura, che già traspare come una pericolosa malattia nella società di
mercato. Cambiare paradigma significa anche non continuare a ruotare
intorno al concetto che «solo» l’impresa sia unica
produttrice di ricchezza. Altrimenti, le teorie sul capitale sociale, naturale
ed umano non avrebbero ragione di esistere. Occorre evitare poi il rischio di «mercantilizzare» ancor più la visione sociale e la stessa
vita umana.
Da questo, afferma Viveret, derivano «sette assi di trasformazione»:
1) Creare le condizioni di un altro sguardo sulla ricchezza, riaprire il nostro immaginario e dare la parola alle vittime della nostra contabilizzazione;
2) Iniziare un dibattito democratico sulla natura della ricchezza, il suo calcolo e la sua circolazione;
3) Elaborare un rapporto sullo sviluppo umano durevole, integrando gli indicatori di distruzione;
4) Promuovere a livello europeo un rapporto dello stesso tipo e lavorare per questo anche a livello mondiale;
5) Stimolare e mobilitare coscienze e comportamenti affinché contribuiscano alla prevenzione o alla limitazione delle distruzioni ecologiche, sociali e sanitarie;
6) Favorire gli scambi con politiche dei tempi e con la sperimentazione di una moneta sociale sollecitatrice di comportamenti civili, solidali ed ecologicamente responsabili;
7) Immaginare
uno stato (e il potere pubblico) socialmente ed
ecologicamente responsabile.
Ma la
questione più radicale da porre è questa: siamo veramente preparati ad
uscire dalla società di mercato «che reifica i
rapporti sociali, mercantilizza il vivente e
l’intelligenza, e che cerca di estendere il ‘life-time-value (tempo-vita-valore)’
all’insieme del tempo di vita?». Una società di mercato non ha per niente
senso, perché distrugge il legame sociale, la cultura, la politica e l’ambiente.
Dobbiamo fare in modo che i principi di cooperazione e di solidarietà risultino determinanti nella sfera economica, sociale,
pubblica e culturale e che dalla logica dei «vincenti/perdenti» si passi alla
logica «cooperanti/guadagnanti». Dice Viveret: «Ciò
che ci insegnano la mutazione informatica e le nuove
frontiere della conoscenza e del vivente, è che la vera ricchezza, domani più
ancora di ieri, sarà quella dell’intelligenza del cuore».
5. È dunque un
problema di scelta e questa rimanda inesorabilmente
alla volontà, alla progettualità. Altrimenti
dovremo cominciare a pensare a come poter vivere sotto una cupola di plastica
ossigenata artificialmente o in quartieri fortificati muniti di vigilantes,
telecamere e spazi protetti (cosa che già avviene in parecchie città
occidentali). Dice Humberto Maturana: «La conservazione non è per la terra, è
per noi stessi; la biodiversità è importante per il
nostro benessere fisiologico, psichico, relazionale, estetico. [...] È un
problema di desiderio»[14]. In
questo caso, però, il desiderio è soprattutto volontà di cambiamento radicale
di un modo d’intendere le cose che ci sta portando verso una situazione distopica e negativa. È solo nelle nostre facoltà
impegnarci per una più equa, più giusta e più fraterna visione del mondo e
dell’umanità. Ma dobbiamo soltanto volerlo veramente,
con i fatti e non con semplici parole! Nascondersi dietro la categoria della
“sostenibilità” (spesso basata su squilibri estremi) o coniando ossimori
artificiosi può essere semplice ipocrisia e dubbia intenzionalità.
Dunque, c’è bisogno di un progetto profondamente utopico fondato
sull’impegno individuale e collettivo, come progetto dell’umanità, per un’etica
conviviale fondata sulla condivisione, sulla visione coordinata della vita e
dell’ambiente, per un incremento della coscienza ecologica, per un umanesimo
ecologico[15] e solidale. Sta
agli esseri umani controllare le derive storiche, costruire la storia,
progettarla e riprogettarla in un disegno comune, per
una vita comune. E spesso i sogni,
l’immaginazione, l’intraprendenza aiutano. Sta a noi discernere tra le
illusioni e le utopie. «Abbiamo interrogato i sogni belli e brutti, perché il
sonno della ragione genera mostri, ma i sogni belli generano utopie e le utopie
guidano l’essere umano verso la giustizia. Da svegli è meglio esercitare il
pensiero affinché non ci tolgano la parola»[16].
Ha detto Ali Kazancigil, segretario del Programma Most dell’UNESCO, in un recente Convegno sullo sviluppo: «Noi abbiamo bisogno d’utopia. Attualmente, gli utopisti sono i realisti, per pensare un altro mondo, un’altra globalizzazione più solidale e fraterna; questa è una necessità inappellabile»[17]. Dobbiamo oltrepassare il dogma dell’economicismo utilitaristico. Gli strumenti potranno sembrare deboli a prima vista oppure potranno essere considerati utopistici. Ma spesso l’utopia ha costituito la forza che ha fatto camminare la storia. Dobbiamo trovare, dunque, un nuovo paradigma sociale ed economico, per costruire un progetto utopico fondato sull’impegno civile e sociale.
La razionalità perversa del capitalismo consiste nel credere che la crescita economica infinita sia la soluzione di ogni problema e che la mano invisibile del mercato possa trasformare i vizi privati in virtù pubbliche. Questa è un’altra visione distopica. «La realtà – osserva Viveret – ci fornisce continuamente la prova contraria: la corruzione privata degenera in corruzione pubblica, il ‘lucro’, elevato al rango di fine dell’economia, finisce per contaminare le altre forme di legame sociale». Le teorie, false e mistificanti, di Lesther Turrow sulla «costruzione della piramide della ricchezza» e della «crescita infinita»[18] vanno chiaramente denunciate e contraddette, perché determinano una società «duale»[19] (anche nelle stesse nazioni sviluppate i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri diventano sempre più poveri), il conflitto perenne tra i popoli sublimato con la competitività che di fatto genera le guerre economiche e che si esprime con forme d’aggressione ingiustificate e illegittime. Simili falsità continuano a prendere in giro la gente e i governi, spesso con la complicità di mass media privi d’ogni scrupolo.
È perciò importante riconsiderare il valore non utilitaristico delle risorse naturali, sociali e umane, anche di quelle più banali e a buon mercato (come l’aria, l’acqua, il tempo, l’intelligenza, le abilità, l’esistenza in tutte le sue manifestazioni). Senza ritornare a movimenti fisiocratici, si tratterà di rimpiazzare la parola «terra» con la parola «vita» e sostituire il termine «lavoro» con quello di «intelligenza». In questo modo, dice Patrick Viveret, «siamo al cuore dei due fattori maggiori della nostra ricchezza contemporanea, quella che prende in considerazione globalmente la sfida ecologica, la mutazione informatica e la rivoluzione del vivente». Questo cozza evidentemente con il costrutto economicistico: «La scienza economica tende da diverso tempo a spostare il centro dell’attenzione dal valore delle libertà a quello dell’utilità, dei redditi e delle ricchezze»[20]. In realtà, al primo posto è da intendersi il principio di libertà, intesa concretamente come libertà individuale della persona che agisce (capacitazione), che partecipa con operazioni di tipo economico, sociale e politico alla costruzione della società, in quanto membro attivo e responsabile di un processo infinito, che fa della qualità della vita il perno fondamentale del vivere sociale e dello sviluppo umano. Ha detto Frei Betto: «La Grecia antica orbitava attorno alle idee, il Medioevo attorno alla fede, il periodo moderno attorno alle possibilità della ragione. Oggi il paradigma è il mercato. “Consumo, quindi esisto”. Si vive per aumentare il guadagno. [...] Il denaro è il nuovo idolo venerato in onore del quale vengono sacrificati valori come l’etica, il rispetto delle leggi e perfino le vite umane»[21]. Tutto questo genera scoraggiamento. Ma dobbiamo trovare la forza di reagire, immaginando nuovi mondi possibili, tracciare nuove trame di possibilità, indicare nuove forme di ricchezza fondate su un’etica della convivialità e della condivisione.
[1] A. K.
Sen, Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza
democrazia, tr. it. Milano
2000, p. 5.
[2] Idem, p. 12.
[3] Cfr. il mio saggio Dalla distopia ipertelica all’etica
conviviale: verso nuovi fattori di ricchezza, in Cosimo Quarta (a cura di), Una nuova etica per l’ambiente, Dedalo,
Bari 2006.
[4] N. Cacace, 2010. Scenario delle professioni, dialogo con Alessandro Sciorelli, Roma 2002, p. 24.
[5] M-D. Perrot, De la démesure ordinaire à la
démondialisation nécessaire, in La Ligne d’horizon (a cura di), Défaire le développement, refaire le monde, atti del «Colloque international sur l’après-développement», UNESCO-Parigi, 28 feb., 1-2-3 mar. 2002, L’Aventurine-Parangon,
Paris 2003, p. 192.
[6] G. Bateson, Mente e Natura, tr. it. Milano 1979, pp. 80-81.
[7] Cfr. N. Luhmann, Sociologia del rischio, tr. it. Milano 1999.
[8] G. Bateson, Mente e Natura, cit. p. 81.
[9] Cfr. E. O. Wilson, Il futuro della vita, tr. it. Roma 2004.
[10] N.
Cacace, op. cit., p. 32.
[11] A. K. Sen, La libertà individuale come impegno individuale, in AA.VV, La dimensione etica nella società contemporanea, Torino 1989.
[12] P. Viveret, Ripensare la ricchezza. Dalla tirannia del Pil alle nuove forme di economia sociale, tr. it. Milano 2005, pp. 77-78. Le citazioni nel testo, eventualmente senza nota di riferimento, appartengono a questo lavoro, tradotto in italiano dall’autore del presente saggio, ed è scaricabile integralmente dal suo sito Internet all’indirizzo http://digilander.libero.it/paolocoluccia.
[13] Idem, pp. 26-27.
[14] O. Sarras Jaduc, Un problema di desiderio. Intervista allo scienziato cileno Humberto Maturana, tr. it. di Paolo Coluccia, in Edizioni Lilliput-on-line, http://digilander.libero.it/paolocoluccia/...
[15] Cfr. il pensiero di Luisella Battaglia.
[16] BONAVENTURA (Libro collettivo), Volta la carta, Milano 2004. Il testo è on-line sul sito Internet www.inventati.org/bonaventura...
[17] Ali Kazancigil, segretario del Programma MOST dell’UNESCO, in Défaire le développement, refaire le monde, cit., p. 403.
[18] Cfr. L. C. Turrow, La costruzione della ricchezza, tr. it. Milano 2000: «Soltanto una torta economica che cresce velocemente può creare le società ricche in cui ciascuno può partecipare alla creazione della ricchezza» (p. 37).
[19] Cfr. A. Touraine, Come liberarsi del liberismo, tr. it. Milano 2000: «Va combattuta l’attuale tendenza alla dualizzazione delle nostre società» (p. 40). E ancora: «Una crescita sostanziale è impossibile senza prevenire i rischi cruciali: ecologici, nucleari, sanitari, sociali, culturali» (p. 132).
[20] A. K. Sen, Lo sviluppo è libertà, cit., p. 33.
[21] Frei
Betto, L’occhio elettronico della divinità monetaria, in «Granello di
sabbia», n. 160 (17-11-2006), Bollettino elettronico quindicinale di ATTAC