V Convegno di Sociologia dell’ambiente

Lucca, 30 set.- 1° ott. 2005

 

 

 Poiesi tecnocapitalista ed asimmetria ambientale:

dalla “Carta della Terra” ai “Nuovi fattori di ricchezza”

 

di Paolo Coluccia[1]

http://digilander.libero.it/paolocoluccia

paconet@libero.it

 

 

 

 

Parole chiave: progresso, distopia capitalistica, innovazioni utopiche, nuovi fattori di ricchezza, emergenza sociale, rsponsabilità.

 

 

 

Venne posta ad un primo ministro africano, durante un forum di Davos, la seguente domanda: Se i poveri vogliono diventare come i ricchi, occorrerebbero almeno cinque pianeti in più. Siccome non ne abbiamo che uno, il problema si pone tra i ricchi. Esiste una visione che possa tener conto di questa problematica?”. Il primo ministro rispose in modo negativo. Questa domanda, comunque molto ingenua, pone il nodo della questione dei rapporti tra Nord e Sud, tra ricchi e poveri. La risposta non può che essere una: “Ritrovare il senso della misura”, non trascurando una visione panoramica (pan-ottica) del mondo intero e dell’umanità. Riportare il senso della misura è dunque vegliare affinché nessuno venga escluso, né l’uomo, né la natura, né il sacro.

(Dominique Pierrot, Intervento al Colloquio sul dopo-sviluppo

“Disfare lo sviluppo, rifare il mondo”, UNESCO, Paris 2002)

 

 

 

Voglio precisare, in premessa, che con la Provincia di Lecce (a cui è stato abbinato il mio nome nell’elenco degli interventi programmati di questo Convegno) sono legato da un semplice rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato e che con il medesimo Ente non svolgo attività di ricerca ambientale né d’altro tipo. Pertanto, la responsabilità delle affermazioni e delle considerazioni contenute nella seguente relazione ricadono per intero su di me.

 

1. Anno 2004: si è sentito parlare, anche se in maniera sommessa, di un documento top secret del Pentagono. Il documento è stato voluto dall’Amministrazione americana del Presidente Bush per tentare di giustificare il suo rifiuto di aderire al Protocollo di Kyoto[2]. Ma il contenuto del rapporto gli si è rivoltato contro: “Sarà catastrofe climatica entro il 2020”. Purtroppo, gli esperti incaricati non hanno potuto che costatare lo stato di degrado, per molti versi irrimediabile, del Pianeta. In un quotidiano inglese[3], che aveva avuto modo di leggere alcune parti del Rapporto, si leggeva infatti che la catastrofe climatica in atto a livello mondiale avrebbe portato il mondo alla rovina in un periodo molto breve, intorno al 2020.

Tra le mie reminiscenze filosofiche, mi ritorna alla mente la confusione sul detto di Protagora (L’uomo è misura di tutte le cose, di tutte le cose che sono in quanto sono, di tutte le cose che non sono in quanto non sono) perpetuata dal mondo moderno e l’interpretazione più ermeneutica ed autentica dello stesso detto da parte di M. Heidegger, che dice: “Di tutte le cose (cioè di quelle di cui l’uomo fa uso e fruisce e perciò ha costantemente intorno a sé) l’uomo (via via) è misura”[4]. È facile capire la differenza. In verità, nella modernità sembra aver vinto l’individualismo egocentrico dell’Occidente, avviluppato tra edonismo e bisogno infinito, ovvero l’idea di progresso come dominio, occupazione e sfruttamento del mondo e della vita.

Che dire dell’evoluzione drammatica e caricaturale del diritto ambientale internazionale? Si va dalla prosopopea demagogica dello “sviluppo sostenibile” di Rio de Janeiro (1992) all’abbondanza di “ostriche” delle cene di lavoro di Joannhesburg (2002) e al “nulla di fatto” di Buenos Aires (2004). Comunque, meglio di niente? Ci sono stati anni (il famoso trentennio dello sviluppo economico del dopoguerra) molto più angoscianti, durante i quali economicismo, capitalismo, tecnocrazia e pianificazione hanno fatto veri disastri.

 

2. Occorre dire la verità in maniera decisa. Siamo coscienti e consapevoli della demenziale corsa all’accaparramento delle risorse del mondo occidentale, come pure delle manifestazioni distopiche del capitalismo e delle sue metamorfosi strutturali. L’utopia perversa (distopia) del capitalismo consiste nel credere che la mano invisibile del mercato possa trasformare i vizi privati in virtù pubbliche. “La realtà ci fornisce continuamente la prova contraria: la corruzione privata degenera in corruzione pubblica, il lucro – elevato al rango del fine dell’economia – finisce per contaminare le altre forme di legame sociale”[5]. Le teorie false e mistificanti di Lester Turrow sulla “piramide della ricchezza”[6] e sulla crescita economica infinita vanno sicuramente denunciate e contraddette. Infatti, più che ad una crescita omogenea e decente, si assiste alla nascita di una mistificante società duale, che persiste nelle medesime nazioni materialmente sviluppate. Il conflitto perenne tra popoli, sublimato dalla competitività, genera mostruose guerre economiche, camuffate da guerre ideologiche, che mietono più vittime di quanto si pensi. Non si può permettere che simili falsità continuino a prendere in giro la povera gente e gli stessi governi.

 

3. Dobbiamo superare il dogma dell’economicismo utilitaristico. Abbiamo bisogno di nuovi paradigmi socio-economici, per costruire una società più giusta e fraterna. In questa sede posso solo accennare ad alcune azioni fortemente innovative, solo a titolo d’esempio, che possono organizzarsi nella propria città, visto che il tema della nostra discussione è proprio la città, con tutta la sua ricchezza e tutte le sue contraddizioni sviluppistiche dettate dal capitalismo e dalla tecnocrazia. Le innovazioni, innanzitutto culturali, che richiamo rispetto al dogma dell’economicismo utilitaristico sono:

“Noi abbiamo bisogno d’utopia. Attualmente, gli utopisti sono i realisti, per pensare un altro mondo, un’altra globalizzazione più solidale e fraterna, è una necessità inappellabile”. Questo ha detto Ali Kazancigil, segretario del Programma MOST dell’UNESCO, durante il Colloque di Parigi sul dopo-sviluppo “Défaire le developpement, refaire le monde” (2002).

 

4. Si presenta la necessità di una nuova prospettiva strutturale: ripensare la ricchezza. Il Rapporto, già citato, sui nuovi fattori di ricchezza preparato da Patrick Viveret per il Ministro per l’economia solidale francese porta proprio questo titolo. La nostra rappresentazione attuale della ricchezza aggrava i problemi generali con i quali le nostre società si confrontano invece di aiutarci a risolverli. Le catastrofi ambientali, frutto della corsa allo sviluppo e della crescita economica, sono una benedizione per il nostro Prodotto Interno Lordo. Sembra un paradosso, ma è vero: questo afferma Viveret nel suo Rapporto al Ministro francese per l’economia solidale nel 2001/2002. Bisogna riflettere su questo ed occorre iniziare a pensare a nuovi indicatori di ricchezza. “Ogni distruzione, allorché genera dei flussi monetari (riparazioni, cure, assicurazioni, sostituzioni ecc.) è contabilizzata positivamente. Ogni attività non monetaria invece così vitale ed essenziale per il legame sociale (compiti domestici, educazione dei ragazzi, cure benevole di persone anziane, salvaguardia dell’ambiente ecc.) è invisibile nei nostri conti pubblici”. Abbiamo bisogno di un nuovo termometro per misurare la nostra ricchezza, senza affidarci al responso delle centraline metropolitane che misurano il grado di tossicità dell’aria e alle misure pleonastiche di qualche “domenica a piedi”. Emerge la necessità di uno stato ecologicamente e socialmente responsabile. L’equivalenza: «Più distruzioni = Più PIL» non regge più.

Liberismo e marxismo, le due grandi ideologie del secolo scorso, malgrado la violenza dei loro conflitti politici e sociali, hanno concordato «sull’idea che l’essenziale, la struttura, risiede nell’economia, fondatrice, mediante il lavoro produttivo, di ogni ricchezza possibile». Si è trattato di un «accecamento» comune, che ha causato:

 

-       La noncuranza ecologica: la natura, trattata come semplice fattore di produzione, i cui beni abbondanti e gratuiti che sono l’aria, l’acqua e la terra non hanno in se stessi alcun valore;

-       La noncuranza etica: quella del liberismo, per il quale non importa quale desiderio ha un valore economico quando viene esaudito, quella del marxismo per il quale la morale trascende la storia;

-       La noncuranza politica. Lo stato, ridotto ad essere garante del mercato nella versione liberale, è lo strumento della dominazione di classe nella versione marxista; (la politica) ridotta ad una dimensione minimale nel liberismo, è denunciata come formale nel marxismo;

-       La noncuranza antropologica. L’uomo economico è considerato un calcolatore razionale del mercato o della storia; non c’è considerazione seria, in queste due grandi rappresentazioni, dell’ampiezza del fatto passionale e del continente sotterraneo [nell’essere umano].

 

È tempo di cambiare il nostro «termometro» di misurazione e la nostra rappresentazione della ricchezza. Per questo occorre stimolare un ampio dibattito pubblico, per deliberare sui valori, per ricucire ciò che l’economicismo ha strappato nei legami sempre esistiti tra etica ed economia, dove quest’ultima, più che diventare una scienza morale, deve almeno riconoscersi al servizio di finalità morali, politiche e sociali. Il PIL non è la ricchezza! E, soprattutto: «La vera globalizzazione non può realizzarsi contro la maggior parte dell’umanità e distruggendo l’aspetto ecologico ed umano». La vera ricchezza non può essere soltanto quella materiale.

 

5. È dunque un problema di scelta. Altrimenti dovremo cominciare a pensare a come poter vivere sotto una cupola di plastica ossigenata artificialmente. Ma è anche “un problema di desiderio”, ci suggerisce Humberto Maturana[12]. “La conservazione non è per la terra, è per noi stessi; la biodiversità è importante per il nostro benessere fisiologico, psichico, relazionale, estetico… è un problema di desiderio”. L’utopia ambientale è speranza di felicità e di giustizia. Per questo occorre rinnovare l’impegno civico-comunicativo: “Più s’incrementa la coscienza ecologica, più potente essa diventa… Se no, o ci estinguiamo o ci trasformiamo per forza in esseri che vivranno in un mondo artificiale, che sarà pertanto il nostro nuovo mondo ‘naturale’. E’ questo che chiediamo? Non c’è razionalità nel mondo, non c’è finalità in esso. C’è solo un intreccio di relazioni. Il mondo va alla deriva. Alla Terra non importa nulla che si estingua la vita, non sarebbe il primo pianeta che muore”. E Maturana conclude: “Insisto: la conservazione non è per la terra, non è per la biosfera, è per NOI STESSI!”.

 Grazie.

 



[1] Paolo Coluccia, dottore in Pedagogia e ricercatore sociale indipendente, collabora con il Centro Interdipartimentale di Ricerca sull’Utopia dell’Università di Lecce. Sensibile ai temi socio-economici, ambientali e culturali, ha pubblicato vari libri e saggi, come La Banca del tempo. Un’azione di solidarietà e di reciprocità, (Introduzione di S. Latouche), Bollati Boringhieri, Torino 2001; La cultura della reciprocità. I sistemi di scambio locale non monetari, Arianna Editrice, Casalecchio-BO 2002; Monete locali per il bene comune. Lo spirito del SEL, in AA.VV., Processo alla globalizzazione, a cura di E. Goldsmith, Arianna Editrice, Casalecchio-BO 2002; L’illusion et la chance. Une philosophie pour  les systèmes d’échange locaux, in AA.VV., Défaire le développement, refaire le monde, (atti del Colloque International sur l’après-développement-UNESCO-Paris 2002 www.apres-developpement.org), a cura di La Ligne d’Horizon. Les amis de François Partant (associazione organizzatrice del Colloque), Ed. L’Aventurin, Paris 2003; Il tempo… non è denaro! Riflessioni sui sistemi di scambio locale non monetario e sulle Banche del tempo, BFS, Pisa 2003. Ulteriori notizie sull’Autore sono sul suo sito Internet http://digilander.libero.it/paolocoluccia.

[2] Il Protocollo di Kyoto, approvato nel dicembre del 1997, pone obiettivi di riduzione, soprattutto per le nazioni sviluppate, di emissioni di anidride carbonica (CO2) e di altri gas che si ritiene responsabili dell’effetto serra, nella misura del 5,2% rispetto ai livelli del 1990 per quanto riguarda CO2, CH4, N2O, e rispetto ai livelli del 1995 per HFCs, PFCs, SF6, nel periodo che va dal 2008 al 2012. Nessuna limitazione di emissioni è prevista per i Paesi in via di sviluppo. I Paesi sviluppati sono chiamati ad elaborare politiche ed azioni operative specifiche. Per entrare in vigore, però, il Protocollo deve essere ratificato dal 55% dei Paesi che lo hanno firmato. I Paesi dell’Unione Europea sono stati i primi a ratificare il documento. È risaputa invece la reticenza espressa dagli USA nel 2000, all’insediamento dell’Amministrazione Bush, tendente a bloccare gli accordi raggiunti. Di recente, la Russia di Putin si è dimostrata d’accordo per la ratifica (e quindi si dovrebbe raggiungere la fatidica percentuale del 55%), anche se le manovre di fondo della politica internazionale risultano essere molto ambigue e dispendiose. Importante punto di partenza per il perseguimento consensuale di una visione comune e condivisa, finalizzata al riequilibrio di un ecosistema in pericolo, il documento di Kyoto è il primo esempio di trattato mondiale che può determinare un vincolo legale ed un obbligo alla salvaguardia fondato sul principio precauzionale, ma pone soprattutto a livello globale la centralità dei problemi sociali, economici ed ecologici dell’umanità.

[3] Fonte: www.guardian.co.uk/climatechange/story/...

[4] M. Heidegger, Holzwege, tr. it. di Pietro Chiodi (Sentieri interrotti), La Nuova Italia Ed., Firenze 1997, pp. 90  e ss.

[5] P. Viveret, Riconsiderare la ricchezza. Rapporto sui nuovi fattori di ricchezza, trad. it. ed introduzione di Paolo Coluccia, Edizioni Lilliput-on-line, 2004, http://digilander.libero.it/paolocoluccia, pubblicazione cartacea presso Edizioni di TerrediMezzo/Altreconomia, Milano 2005, con il titolo: Ripensare la ricchezza. Dalla tirannia del Pil alle nuove forme di economia sociale, sempre a cura di Paolo Coluccia.

[6] L. C. Turrow, La costruzione della ricchezza, Edizioni Ilsole24ore, Milano 2000: «Soltanto una torta economica che cresce velocemente può creare le società ricche in cui ciascuno può partecipare alla creazione della ricchezza» (p. 37).

[7] M. Albert, Il libro dell’economia partecipativa, Il Saggiatore, Milano 2003. Si può scaricare liberamente in italiano dal sito di Znet www.zmag.org/italy/... il testo Looking Forward. Participatory Economics for the Twenty First Century, di M. Albert, R. Hahnel, che descrive in dettaglio come si potrebbe organizzare il lavoro in modo efficiente e produttivo, ma senza gerarchie; quale consumo potrebbe essere equo e soddisfacente; e come la pianificazione partecipativa potrebbe promuovere la solidarietà. Per una sintesi del pensiero di Albert si può leggere la conferenza che egli ha tenuto a Porto Alegre nel 2003, scaricabile dallo stesso sito Internet. Tra i vari giudizi espressi, riportiamo solo alcuni: «In tutto il mondo cresce l’insoddisfazione rispetto alle condizioni socioeconomiche e alle scelte imposte dalle istituzioni dominanti. Il libro di M. Albert sull’economia partecipativa delinea a un buon livello di dettaglio un programma di radicale ricostruzione del sistema socioeconomico, offrendo una visione del mondo che si ispira alla tradizione di pensiero e di prassi della sinistra libertaria e dei movimenti popolari, aggiungendo a questa una nuova analisi critica e idee molto precise su come mettere in atto un’alternativa costruttiva» (Noam Chomsky). «La concezione elaborata da Michale Albert  (con Robin Hahnel) dell’economia partecipativa delinea una visione dettagliata di come sia possibile organizzare la produzione, il consumo, la remunerazione e la distribuzione in modo che prevalgano i valori cui facciamo riferimento, come giustizia e solidarietà. Il libro dell’Economia partecipativa è un libro importante, non solo per la sua innovativa ma credibilissima visione dell’economia, ma anche perché rappresenta un modello per tutto il lavoro di formalizzazione teorica che deve essere fatto. Che concetto avremo di genere, razza, etnia, comunità, sessualità, famiglia, giustizia, partecipazione politica e religione in un mondo migliore? Il libro dell’Economia partecipativa è, ad oggi, il più serio tentativo di dare una risposta alla domanda ‘Come potrebbe essere un mondo migliore’. L’alternativa è possibile, ma solo se saremo capaci di immaginare come funzionerà» (Arundhati Roy).

[8] Il testo della Carta della Terra è tradotto in 32 lingue ed è sul sito Internet www.chartedelaterre.org/... La Risoluzione UNESCO è la n. 32 C/COM.III/DR.1*(COM.III) del 1° ottobre 2003. Oltre al Preambolo, La Carta della Terra espone 16 Principi etici fondamentali:

1.        Rispetta la Terra e la vita, in tutta la sua diversità.

2.        Prenditi cura della comunità vivente con comprensione, compassione e amore.

3.        Costruisci società democratiche che siano giuste, partecipative, sostenibili e pacifiche.

4.        Tutela i doni e la bellezza della Terra per le generazioni presenti e future.

5.        Proteggi e restaura l’integrità dei sistemi ecologici terrestri, con speciale riguardo alla diversità biologica e ai processi naturali che sostengono la vita.

6.        Previeni il danno come migliore misura di protezione ambientale e, quando le conoscenze sono limitate, sii cauto.

7.        Adotta sistemi di produzione, consumo e riproduzione che conservino la capacità rigenerativa della Terra, i diritti umani e il benessere delle comunità.

8.        Sviluppa lo studio della sostenibilità ecologica e promuovi lo scambio libero e l’applicazione diffusa delle conoscenze così acquisite.

9.        Elimina la povertà: un imperativo etico, sociale e ambientale.

10.     Assicurati che le attività economiche e le istituzioni promuovano a tutti i livelli lo sviluppo umano in modo equo e sostenibile.

11.     Afferma l’uguaglianza fra i sessi e la giustizia come essenziali per lo sviluppo sostenibile, garantisci l’accesso universale all’istruzione, all’assistenza sanitaria, alle opportunità economiche.

12.     Sostieni senza alcuna discriminazione i diritti di tutti a un ambiente naturale e sociale capace di sostenere la dignità umana, la salute fisica e il benessere spirituale, con speciale riguardo per i diritti delle popolazioni indigene e delle minoranze.

13.     Rafforza le istituzioni democratiche a tutti i livelli e garantisci trasparenza e responsabilità a livello amministrativo, compresa la partecipazione nei processi decisionali e l’accesso alla giustizia.

14.     Integra nell’istruzione formale e nella formazione permanente le conoscenze, i valori, le capacità necessarie per un modo di vita sostenibile.

15.     Tratta ogni essere vivente con rispetto e considerazione.

16.     Promuovi una cultura della tolleranza, della non violenza e della pace.

[9] M. Wackernagel, W. E. Rees, L’impronta ecologica. Come ridurre l’impatto dell’uomo sulla terra, a cura di G. Bologna e P. Lombardi, Edizioni Ambiente, Milano 2004. L’IE non si calcola con l’unità di misura dell’ettaro-semplice-procapite, bensì con l’ettaro della produttività media del Pianeta. In questo modo L’IE dell’Italia è di 5,51 unità di superficie per persona, mentre possiede una capacità bioproduttiva di 1,92 unità di superficie a persona. C’è dunque uno squilibrio, un deficit ecologico di 3,59 unità di superficie a persona. Significa che non ci basta la superficie italiana per le nostre necessità (ne occorrerebbe altre due Italie). Però, sicuramente, occupiamo con la nostra impronta il territorio che altre persone nel mondo non hanno la possibilità di calpestare! S. Camerini, in un suo studio sopra citato, fa un esempio più specifico: «Un’automobile con un consumo medio di 13 km/l produce una quantità di anidride carbonica (CO2 stimabile, sulla base di un fattore di emissione di 2,36 Kg/l, in circa 182 g CO2/km (I/13 x 1000). Nella metodologia dell’Impronta ecologica questa anidride carbonica, per evitare l’accumulo sul pianeta, dovrebbe essere assorbita da una superficie forestata: considerando un tasso di sequestro di CO2 di 0.52 Kg/mq/anno (ogni kg di CO2 è assorbito in un anno da 1.92 mq di foresta), si ricava un’impronta ecologica di 0.41 mq/km, che rappresenta l’impronta legata al rifornimento. Per valutare l’impronta complessiva legata all’uso dell’automobile sarà da aggiungere l’impronta dovuta alla costruzione e manutenzione del veicolo, delle strade ecc. e si arriva a circa 0.6 mq/km. Questo significa che percorrendo 20.000 km l’anno si ha un’impronta complessiva di circa 12.000 mq, ossia 1,2 ettari. Ebbene, questa superficie equivale allo spazio che avremo mediamente a disposizione nel 2050, quando sul pianeta saremo circa 10 miliardi. Ma è solo un esempio; applicando la metodologia dell’Impronta ecologica ai diversi mezzi di trasporto, sulla base dei dati medi italiani ed europei, si ricava che l’impronta di uno spostamento di 1 km in automobile è il doppio di quella dello stesso spostamento con mezzi pubblici, quattro volte quella del treno, trenta volte quella dello spostarsi a piedi e 50 volte dello spostarsi in bicicletta. Ma è un terzo di uno spostamento in aereo».

[9] «Per capitale naturale si intende qualsiasi stock di materiale naturale dal quale sia possibile ricavare un flusso di beni e servizi per il futuro. Per esempio, una foresta, uno stock ittico o una falda acquifera possono produrre un raccolto o un flusso che è potenzialmente sostenibile di anno in anno» (L’impronta ecologica,  cit.).

[10] Bill Mollison ha sviluppato questo modello di agricoltura sostenibile verso il 1978 in Australia, a contatto con gli aborigeni e ispirandosi ai sistemi naturali pluridimensionali, come la foresta e i cicli autoproduttivi della natura. Il conceto è stato poi rielaborato negli anni seguenti in Germania e in America Latina, oltre che dallo stesso Mollison anche da altri sostenitori e progettisti, come Claudio Madonne, geografo e progettista di cantieri di permacultura e specialista di conservazione e trattamento della terra nella regione Norte America del Sur, che fa parte del Consiglio esecutivo ENA (rete di Ecovillaggi delle Americhe). Per un approfondimento si possono visitare i siti Internet: www.internet.com.uy/luc/permacultura, http://gaia.org; http://ena.ecovillage.org; www.permacultura.it. Inoltre cfr. Cantiere introduttivo di Permacultura Rurale ed Urbana a Santiago del Cile, trad. it. di Paolo Coluccia, in Edizioni Lilliput-on-line (http://digilander.libero.it/paolocoluccia/...

[11] Piattaforma per un mondo responsabile, plurale e solidale, trad. it. di Paolo Coluccia, in Edizioni  Lilliput-on-line (http://digilander.libero.it/paolocoluccia/...).

[12] O. Sarras Jaduc, Un problema di desiderio. Intervista allo scienziato cileno Humberto Maturana, trad. it. di Paolo Coluccia, in Edizioni Lilliput-on-line, http://digilander.libero.it/paolocoluccia/...